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Il fascismo e la rappresentanza politica tra cultura politica e cultura giuridica. 1919-1928:verso lo Stato corporativo
di Annamaria Amato
Gli esordi

In un articolo del 1929, Angelo Oliviero Olivetti, uno dei maggiori sostenitori del corporativismo, già in precedenza sindacalista rivoluzionario, rivendicando il carattere e la natura rivoluzionaria del fascismo, indicava tra i requisiti della rivoluzione stessa, il cambiamento istituzionale operato dal regime in quei primi sette anni, la cui sostanza, a suo avviso, consisteva nell’aver superato «la mentalità progressista borghese, che aveva trionfato con la rivoluzione capitalistica dell’89»1, in essa ravvisando evidentemente il presupposto della nascita e dello sviluppo dello Stato liberale italiano.
Il primo passo sulla strada della rivoluzione, quello più gravido di conseguenze anche economiche e sociali, era consistito, secondo Olivetti, nell’aver gradualmente trasformato l’Italia da Stato parlamentare in Stato corporativo ossia in Stato organico2. Eppure la più radicale delle riforme, e cioè l’abolizione della Camera dei deputati e la nascita al suo posto della Camera dei Fasci e delle corporazioni, era ancora ben lungi dall’essersi pienamente realizzata (bisognerà attendere ancora un decennio). Tuttavia, il corporativismo era, per certi aspetti, non a torto, percepito come l’essenza stessa e come l’asse portante dell’“ordine nuovo” prodotto dalla rivoluzione fascista, attraverso la radicale sostituzione della rappresentanza politica con una rappresentanza degli interessi organizzati, e cioè corporativa, derivante dal mondo produttivo, del lavoro, delle professioni, dei ceti: «una sorta di sublimazione dell’antipolitica»3, come è stato detto giustamente, che partiva dall’antiparlamentarismo come mito fondante.
Certo, l’antiparlamentarismo, nella sua accezione più ampia, non era una novità nella tradizione culturale italiana, come non lo era anche in molti altri paesi europei, già a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento. Le critiche antiparlamentaristiche tendevano, in estrema sintesi, a dimostrare la degenerazione dell’esperienza del sistema parlamentare in seguito all’irrompere delle masse sulla scena politica, sebbene non fossero finalizzate sempre alla critica radicale dello Stato liberale tout court. Basti pensare alla fortuna che riscossero le opere di Marco Minghetti (I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, 1881), di Pasquale Turiello (Governo e governati in Italia, 1882) e di Ruggero Bonghi (L’ufficio del Principe in uno Stato libero, 1893), le quali, pur non proponendo l’abbattimento del sistema parlamentare, nel denunciare i rischi della deriva parlamentaristica, di fatto appannavano gravemente l’immagine stessa del Parlamento. Così come, ben più articolata e complessa, apparve l’opera di Gaetano Mosca [Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare (1884)]4. Si trattava di «tutta una corrente di pensiero che, pensando di disvelare “realisticamente” i meccanismi del potere sfrondandoli delle rappresentazioni romantiche, minava alla base la rappresentanza»5. Non sembri inoltre superfluo ricordare anche il famoso Torniamo allo Statuto di Sidney Sonnino il quale, sia pure in un’ottica di recupero della interpretazione autentica a danno di quella consuetudinaria dello Statuto, che aveva trasformato la monarchia costituzionale in monarchia parlamentare, di lì a qualche anno (1897) diveniva, una sorta di manifesto dell’antiparlamentarismo stesso6, senza menzionare il quale risulta difficile comprendere la disinvoltura con la quale una certa parte del mondo liberale che si era sintonizzata con il progetto di Sonnino (penso ad esempio a Salandra), contribuì a smantellare, già nei primi anni del regime fascista, il sistema parlamentare dell’Italia liberale, inconsapevole della strada autoritaria che inevitabilmente il fascismo tendeva a imboccare.
L’Italia giolittiana sembrò poi aver inverato tutte le storture politico-istituzionali del parlamentarismo, ripetutamente criticate sia dalla stampa di opposizione che dai giuristi, finché nel primo dopoguerra non si avviò un ampio dibattito teorico e politico sulla rappresentanza, stimolato soprattutto dalla affermazione dei partiti di massa e dalla introduzione del sistema elettorale proporzionale. Ed infatti, sino all’affermazione del fascismo, l’esigenza di “democratizzare” la forma di governo parlamentare produsse numerosi progetti, provenienti dalle diverse culture politiche presenti nel nostro paese, ed il dibattito si radicalizzò tra «l’antica contesa ideologica e politica relativa ai potenziali sviluppi dell’“individualismo” e del suo contrario, cioè dell’“organicismo”; contestualmente, vari giuristi avvertirono che pressoché tutte le ipotesi di trasformazione istituzionale agitate in quel periodo mettevano direttamente in questione le tradizionali concezioni della sovranità dello Stato e del suo esercizio»7.
Il tema della crisi dello Stato parlamentare, dunque, in una società che, proprio grazie all’esperienza della guerra, poteva definirsi oramai di massa, usciva tuttavia dalla ristretta cerchia dei costituzionalisti e degli studiosi di politica, per diventare un problema di politica militante, trovando posto nei programmi dei partiti, dei sindacati e dei movimenti politici. Tra questi, alcuni si inserivano nel solco della tradizione statutaria, sia pure interpretando lo Statuto come costituzione essenzialmente flessibile e dunque suscettibile di sostanziali adattamenti, altri miravano ad una riforma radicale dello Statuto e del regime parlamentare8.
Il Movimento dei Fasci di Combattimento rientrava sicuramente in questo secondo filone. Anche se una sistematizzazione del profilo programmatico del fascismo, soprattutto di quello della prima ora, risulta sempre molto difficile, considerando che fu proprio Mussolini ad adottare dichiaratamente, e sin da subito, il relativismo quale cornice e motore della sua azione concreta9. E, tale approccio, in un’ottica di lunga durata, insieme alla presenza ineliminabile ed ineliminata della Corona, renderà la riforma dello Stato durante tutto l’arco del ventennio fascista, un processo sempre in fieri e per certi aspetti, ma solo per certi aspetti, mai realmente concluso.
Il fascismo degli esordi, dunque, ebbe un programma politico-istituzionale, che, sebbene si venisse articolando e specificando tra il 1919 ed il 1921, risulta assai nebuloso e a volte contraddittorio; anche se la sostanza della proposta politica si sviluppava prevalentemente sul «ripudio del regime parlamentare liberale e sull’istituzione di un nuovo tipo di rappresentanza politica fondata sulle attività produttive e su di una più rigorosa selezione delle competenze»10. Il futuro Duce, infatti, in un articolo pubblicato sul suo giornale il 30 marzo 1919, pochi giorni dopo, insomma, la famosa riunione in Piazza San Sepolcro a Milano, indicava le linee del programma politico del nuovo movimento. In esse, primo bersaglio era la rappresentanza esclusivamente politica alla quale si sarebbe dovuta introdurre, facendo esplicito richiamo alla esperienza della rivoluzione bavarese di Kurt Eisner, la novità dei Consigli nazionali (articolati ratione materia: industria, agricoltura, commercio, servizi pubblici, delle comunicazioni terrestri, marittime, aeree e delle colonie) da affiancare alla Assemblea Nazionale che avrebbe dovuto discutere e legiferare esclusivamente «sulle questioni che interessano la totalità dei cittadini all’interno e all’estero»11. Era questo, ad avviso di Mussolini, il modo per «superare il dilemma o parlamento o Soviet». Nel senso che, egli precisava, «il parlamento rimane[va] e gli sorge[va] accanto il nuovo sistema di rappresentazione diretta di tutti gli interessati»12. Questo il nocciolo del programma che richiedeva ulteriori approfondimenti nel contesto di «un piano di costituzione dello Stato», nell’ambito del quale «creare questi nuovi organi della più diretta e immediata rappresentanza del popolo», determinandone le modalità di funzionamento e i limiti della loro attività, ma soprattutto, precisando «i rapporti d’azione e d’entità fra Assemblea nazionale e Consigli nazionali»13. Si trattava, insomma, di spunti, anticipazioni, accenni che solo negli anni successivi si sarebbero sviluppati in una più coerente struttura dottrinale. In quel periodo, infatti, Mussolini, «come tutti quelli che si rivolgono al sentimento più che al pensiero – scrive Gioacchino Volpe – e con quel mezzo vogliono sollecitare l’azione chiarificatrice di pensieri, si teneva piuttosto nel vago»14.
A distanza di pochi mesi, nel giugno del 1919 verrà pubblicato il definitivo Programma dei Fasci di combattimento, e la proposta politica sembra articolarsi, divenendo per certi aspetti più precisa e più chiaramente declinata in chiave sostanzialmente anti-statutaria. Il Programma, infatti, tra le altre cose, prevedeva una completa riforma dello Stato elaborata dalla Assemblea Nazionale, «il cui primo compito [doveva essere] quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato»15. Al tempo stesso, punti salienti erano: «a) il suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne; b) il minimo di età per gli elettori abbassato a diciotto anni; quello per i Deputati abbassato a venticinque; c) l’abolizione del Senato»16 ed inoltre, veniva ribadita la necessità di creare i «Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e col diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro»17.
Dunque, tali Consigli Nazionali, più che affiancare la Camera dei deputati, venivano qui proposti come istituti autonomi rispetto al Parlamento, dotati di un proprio potere legislativo, per dir così, concorrente. Quella della rappresentanza degli interessi, va sottolineato, era una istanza che riprendeva alcune suggestioni già presenti nel sindacalismo rivoluzionario che avevano trovato voce nella rivista di Alceste De Ambris, «Il Rinnovamento»18.
Il Programma del ’19 era nato e si diffondeva in un contesto in cui erano molto forti i richiami ai miti democratici e libertari del combattentismo che ebbero, parallelamente alla nascita e allo sviluppo del fascismo, una concreta realizzazione nell’esperienza fiumana e nella relativa Carta del Carnaro elaborata proprio da Alceste De Ambris (chiaramente ispirata al Manifesto dei sindacalisti di A. Oliviero Olivetti), che proponeva uno Stato sindacale a struttura bicamerale, nel quale il potere legislativo era esercitato dalla Camera dei rappresentanti eletta a suffragio universale e diretto e dal Consiglio economico espresso dalle Corporazioni19. Tuttavia, quella esperienza che pure era assai ben articolata da un punto di vista istituzionale e animata da presupposti comuni al fascismo diciannovista, fu completamente rigettata da Mussolini, almeno nella sostanza politica, allorquando, con il Congresso fascista di Roma del novembre 1921, egli avviava la svolta a destra del movimento che, non a caso, assumeva la forma di partito politico20. In quel tornante, Mussolini sosteneva che la costituzione fiumana non poteva fornire alcun programma ad un partito che voleva agire “in una determinata realtà storica” e, in qualche modo, il fallimento del fiumanesimo rappresentava la sanzione dell’esaurimento definitivo del combattentismo21.
La complessa quanto rapida metamorfosi del fascismo tra il 1920 e il 1921, che lo portò a trasformarsi da «partito degli eretici»22 in partito con ambizioni di governo, passa anche attraverso la volontà di rappresentare gli ideali e gli interessi dei ceti medi23, costruendo una terza forza capace di entrare in competizione «non solo con i partiti della sinistra e il partito popolare, ma anche con la vecchia classe dirigente liberale, candidandosi ad assumere la guida del paese con la dichiarata volontà di attuare una propria rivoluzione politica»24. E tale rivoluzione consisteva nel restaurare l’autorità dello Stato; anzi, nel costruire uno “Stato nuovo”, immettendo nella vita dei suoi organi, attraverso l’istituzione di nuovi organismi rappresentativi, quei ceti sociali che erano stati assenti fino alla guerra e che non si riconoscevano né nell’oligarchia burocratica del conservatorismo tradizionale, né nell’anarchismo socialcomunista. Insomma, lo “Stato nuovo” avrebbe dovuto rinnovare «nei suoi istituti le funzioni essenziali dello Stato moderno adeguandole alle esigenze della società di massa»25. Siamo ancora in una fase ideologica del fascismo connotata da una forte flessibilità e da una continua elaborazione, frutto del confronto con le esperienze reali, ma che tuttavia resta costante nella determinazione del proprio ripudio del regime parlamentare liberale, basato sull’individualismo, e nel convincimento della necessità di elaborare ed istituire un nuovo tipo di concetto di rappresentanza politica.
Ed effettivamente, rimanendo sul tema della rappresentanza, questo viene ripreso anche nel primo Programma del PNF, quello del 1921, che sancì appunto la trasformazione del movimento in partito politico26. In esso, gli ambiti di competenza del Parlamento iniziano a chiarirsi, sia pure nel tentativo di coniugare astrattamente le esigenze dell’individualismo liberale con quelle dell’organicismo e/o corporativismo27. Partendo dall’assunto che lo Stato è «l’incarnazione giuridica della Nazione» – a sua volta definita come «sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe» –, leggiamo, infatti, che lo Stato deve conferire «anche alle corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al corpo dei Consigli Tecnici Nazionali», che in tal modo ricevono una chiara legittimazione a decidere sui «problemi che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori». Tutto ciò implicava una conseguente limitazione dei poteri e delle funzioni del Parlamento, la cui competenza specifica, risultava relativa genericamente ai «problemi che riguardano l’individuo come cittadino dello Stato e lo Stato come organo di realizzazione e di tutela dei supremi interessi nazionali»28.
Il nuovo Partito Nazionale Fascista, come si può evincere dalla lettura dell’intero Programma, si presentava sulla scena politica italiana con un misto di corporativismo, di liberismo economico e di moderno nazionalismo e mostrava non pochi punti di contatto con il liberalismo conservatore.


La transizione

In seguito alla marcia su Roma e al successivo incarico ricevuto dal Sovrano di costituire un nuovo governo, il fascismo, e per esso Mussolini, dismise tatticamente i panni del rivoluzionario, cedendo inizialmente al compromesso della “normalizzazione”, soprattutto considerando che alla Camera i fascisti erano ben lungi dal raggiungere una maggioranza, anche relativa29. I messaggi apparentemente tranquillizzanti che il presidente del Consiglio riuscì a lanciare, gli garantirono la benevolenza di vecchi liberali come Salandra e Giolitti e ridussero all’impotenza i liberali di opposizione tra cui Nitti e Amendola30. Tuttavia, la durezza del linguaggio utilizzato da Mussolini al momento della presentazione del suo governo alla Camera, dimostra quel radicale antiparlamentarismo che era tutt’uno con l’ideologia fascista. Nelle sue famose parole, infatti, si legge, prima di tutto, il progetto volto a ribaltare la prassi istituzionale che aveva di fatto trasferito la legittimazione dell’esecutivo dal sovrano al Parlamento, conferendo a questo un ruolo centrale nell’equilibrio complessivo dei poteri. Il suo Governo era infatti nato, «al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento»31, con ciò intendendo che la fiducia era poco più che un atto dovuto. Ma soprattutto, continuava Mussolini nel discorso, la Camera doveva «sentire la sua particolare posizione che la rende[va] passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni»32; e con tali parole, con una notevole dose di azzardo politico, implicitamente il Presidente del Consiglio si arrogava la prerogativa, che in realtà apparteneva solo ed esclusivamente al Sovrano ex art. 933 dello Statuto, di sciogliere la Camera. Tuttavia, il messaggio di una revisione delle istituzioni rappresentative, e per esse fondamentalmente della Camera elettiva, doveva essere chiaro, sia pure nell’ottica rassicurante di procedere per gradi: «Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. – Sono le notissime parole di Mussolini- Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto»34. Al contrario, per stemperare i toni e rassicurare la più tradizionalista delle due Camere, Mussolini, presentandosi al Senato, garantiva che non avrebbe intaccato il ruolo della Camera Alta che veniva definita «come una forza dello Stato, come una riserva dello Stato, come un organo necessario per la giusta e oculata Amministrazione dello Stato»35, smentendo così definitivamente uno dei punti programmatici del fascismo36.
Ufficialmente, in quella fase iniziale di governo di coalizione, nonostante le continue minacce, il fascismo mussoliniano, mostrava solo di volere riorganizzare l’equilibrio dei poteri ridimensionando il legislativo, conferendo maggiore potere all’esecutivo e riformando la legge elettorale proporzionale in vigore. Infatti, a conferma di ciò, il nuovo ministero presieduto da Mussolini, il quale aveva già manifestato in sede di Consiglio dei Ministri la sua determinazione nella volontà di riformare il sistema elettorale37, iniziò con il presentare un disegno di legge delega dei pieni poteri al governo per riordinare il sistema tributario e la pubblica amministrazione, ottenendo un primo importante successo sia alla Camera che al Senato38.
È in questa fase che si può definire di transizione che Mussolini adotta un metodo gradualista tale da non porre la sua azione di fuori dallo Statuto, la cui sostanza era pienamente rispettata, proprio in quell’ottica sonniniana di cui più sopra si diceva e che, tutto sommato, rappresentava una garanzia per la classe dirigente liberale. D’altra parte, un giurista come Arrigo Solmi in un breve pamphlet dal titolo La riforma Costituzionale, scritto nel 1923 e pubblicato l’anno successivo, precisava quale fosse allora il senso della riforma proposta dal fascismo. La riforma, sosteneva infatti il Solmi, era «diretta a colpire l’organo, che, giunto al colmo della potenza e della degenerazione, pareva il nemico più insidioso di ogni energia di governo, la Camera dei deputati». E, per raggiungere tale scopo, egli continuava, «fu adombrato il proposito di togliere alla Camera dei deputati il predominio fino allora tenuto sul potere esecutivo e di creare a quest’ultimo una posizione di sicurezza e di continuità»39. In sostanza, concludeva il giurista, si voleva «sostituire alla forma di governo parlamentare […] una forma meramente costituzionale, con un qualcosa di simile al Cancellierato germanico»40. Risulta del tutto evidente, a questo punto, l’assonanza con il Torniamo allo Statuto, soprattutto considerando che il Solmi, come già aveva fatto Sonnino, si appellava alla interpretazione letterale della Carta costituzionale, sostenendo che «si cercherebbe invano nello Statuto il principio giuridico di quella assoluta dipendenza del potere esecutivo dalla Camera dei deputati, che, […] riuscì a penetrare e a prevalere anche in Italia, dopo il 1876»41.
Di lì a breve, d’altra parte, il neo costituito Gran Consiglio del fascismo, accreditandosi sin da subito come organo capace di incidere sui meccanismi istituzionali, incaricava una commissione di formulare un progetto di riforma elettorale42. Prevalse, all’interno della Commissione, la proposta Bianchi43, favorevole all’introduzione di un “premio” per la lista di maggioranza e una rappresentanza su base proporzionale per le altre liste, mentre fu scartata la proposta Farinacci orientata al ripristino del collegio uninominale44. Fu dunque la proposta Bianchi alla base del “suicidio della classe dirigente liberale”, per dirla con Sabbatucci4545, ovvero della «legge Acerbo» che attribuiva i due terzi dei seggi della Camera, alla lista che avesse ottenuto un quarto dei suffragi e distribuiva i rimanenti seggi in misura proporzionale alle altre liste, costruendo così un ulteriore percorso legale all’ascesa e al consolidamento del fascismo.
Sebbene la riforma elettorale in senso maggioritario non implicasse in sé e per sé automaticamente una revisione costituzionale, essa rappresentava giustamente per alcuni esponenti sia del fascismo che dell’opposizione, il primo passo verso una vera e propria riforma costituzionale. Nel senso che, come sosteneva ad esempio Corradini sul versante fascista, «gli ordinamenti elettorali vecchi e nuovi, il collegio uninominale, la proporzionale, il sistema maggioritario e simili, altro non sono se non transizioni di una rivoluzione. La meta di questa è la riforma costituzionale del diritto elettorale e quindi dell’istituto parlamentare»46. Il liberale democratico Amendola, dal canto suo, rilevava come l’enormità del premio di maggioranza (che, di fatto, premiava una minoranza) faceva sì che «il governo […] ne avrà più che abbastanza per poter reggere indisturbato e fuori di ogni controllo il paese, per tutto il tempo che sarà possibile, finché i risultati materiali della sua azione non saranno così distanti dalla realtà e dalla volontà del popolo italiano da rendere necessaria una correzione brusca per condurre il governo su altra strada»47. In sostanza, come emerge anche da buona parte della pubblicistica coeva, soprattutto di parte fascista, si stabiliva una certa equivalenza tra riforma elettorale in senso maggioritario e riforma costituzionale, perché la prima avrebbe sicuramente inciso sull’equilibrio dei poteri e sulla funzionalità delle istituzioni ridimensionando in toto> le prerogative parlamentari.
Il nodo istituzionale, tuttavia, era ben più complesso ed implicava un ripensamento sulla natura stessa del voto politico. Bisognava cioè, per dirla con il costituzionalista Solmi, «riprendere in esame il vecchio problema se il voto politico non sia una funzione, piuttostoché un diritto, e decidere se non si debba far ricorso a nuovi metodi di elettorato, i quali, col voto plurimo o con altre simili provvidenze, siano in grado di correggere le conseguenze talvolta pericolose del suffragio universale, attuato senza attendere la maturità necessaria della coscienza politica di tutti i cittadini»48. Era il preludio di un dibattito che si andava ampliando anche con tesi ben più radicali, come ad esempio quelle di Carlo Costamagna, il quale dava voce autorevole alle idee di rappresentanze qualificate, attraverso corporazioni unitarie nazionali e attraverso gruppi di competenza, che sostituissero il sistema della democrazia assoluta, ripristinando una serie di contrappesi costituzionali. Le corporazioni e i gruppi di competenza avrebbero costituito, a suo avviso, le «grandi assisi nazionali che […] avrebbero effettuato la rappresentanza e la disciplina di tutte le attività, e pertanto non solo di quelle a base economica già organizzate in corporazioni, ma di qualunque altra emanate da entità accertabili, in consigli, ordini, associazioni, istituti, con obbiettivo morale, amministrativo, economico o culturale, in qualunque parte del territorio». Tuttavia, la rappresentanza politica non era destinata a scomparire, anzi, secondo Costamagna, essa avrebbe tratto vantaggio dalla compresenza di una rappresentanza qualificata (evidentemente impegnata in una attività settoriale) e proprio per il fatto di essere «disimpegnata da attribuzioni non consone», potendo in questo modo realizzare pienamente il proprio «obbiettivo istituzionale, che è quello di esprimere attraverso le deliberazioni del numero, le situazioni dell’anima collettiva e di tracciare le linee essenziali dell’azione di governo»49.
In sostanza i citati interventi – che sono solo un piccolo esempio di un dibattito veramente assai ampio che ora proponeva soluzioni “minime”, ora soluzioni “massime” – muovevano dalla considerazione dell’ormai irreversibile necessità di riforma del sistema parlamentare nell’ottica di una reale rifondazione dello Stato che, a partire dall’applicazione della “legge Acerbo”, si sarebbe giovato di una netta attribuzione della «funzione di governo del partito di maggioranza» sottoposto ad una costante «funzione critica e di controllo delle minoranze»50, diceva ancora qualcuno, al di là degli interessi di parte o di partito, ma nell’interesse esclusivo della Nazione.
Il dibattito istituzionale, tuttavia, veniva ben presto superato dalle vicende fattuali della storia politica del fascismo, nel senso che, gli accadimenti reali che scorrevano parallelamente al dibattito teorico, vanificavano teorie in sé e per sé più o meno fondate e condivisibili. Lo scioglimento della Camera, le successive elezioni e la crisi Matteotti, infatti dimostravano come la vera novità della tecnica politica del fascismo, ovvero l’utilizzo sistematico della violenza e della sopraffazione, andassero ben oltre lo Stato liberale stesso e lo Statuto che di esso era stato il fondamento giuridico, trascinando ben presto il sistema politico verso l’autoritarismo come approdo inevitabile. Le elezioni politiche, quelle elezioni del maggio 1924 – che in teoria si svolsero in un quadro ancora costituzionale, ma che Mussolini, senza troppe perifrasi, aveva definito «ludi elettorali», considerati come una «dura necessità», un «episodio» che apparteneva alla «vecchia Italia», ad una sorta di ancien régime che di lì a breve sarebbe stato sostituito da una nuova concezione di Stato basato su una rappresentanza che avrebbe, a suo dire, realmente incarnato la Nazione – rappresentano il vero punto di svolta verso una via nuova rispetto al precedente sistema politico-istituzionale. Matteotti, infatti, nel suo famoso discorso alla Camera, non fece altro che denunciare ciò che era realmente accaduto nel paese e nei seggi elettorali, né più né meno, mutatis mutandis, di quanto aveva fatto Salvemini nel suo noto pamphlet contro Giolitti, il «ministro della malavita», ma è chiaro che il clima era assolutamente diverso e lo spazio per il dissenso politico tendeva a ridursi in maniera irreversibile.


Le commissioni per le riforme costituzionali (1924-1925): un tentativo di architettura costituzionale

Soprattutto nei primi anni, Mussolini cercò sempre di conservare un profilo “legale” alla sua attività di governo, suffragata da un’ampia campagna culturale e di stampa che tendeva a dare un fondamento oltre che politico, anche giuridico alle scelte del fascismo, soprattutto dopo le elezioni del 1924, riducendo progressivamente al silenzio tutte le opposizioni presenti nella Camera della XXVII legislatura, le quali, già fortemente ridimensionate dall’effetto del premio di maggioranza, scelsero poi la strada dell’abbandono della Camera stessa, dando vita al fallimentare dissenso dell’Aventino. Ad assecondare e a consentire che il regime si consolidasse, contribuirono non poco anche quei liberali conservatori e nazionalisti che credevano nella normalizzazione del fascismo e che, pertanto tendevano a minimizzare anche la rilevanza politica che l’uso della violenza comportava51.
Come è noto il clima politico negli ultimi mesi del ’24 era incandescente e profondamente diviso tra le istanze degli aventiniani, che continuavano a sperare in un intervento del sovrano che ripristinasse l’ordine costituzionale e i tentativi pacificatori di Mussolini. Il Duce, a sua volta pressato anche dall’estremismo fascista di provincia, cercava di non perdere il consenso di quei politici fiancheggiatori (prevalentemente liberali), i quali sembravano più critici dopo la difficile fase successiva al delitto Matteotti e, per dirla con Salandra, iniziavano a formare «nuclei di maggioranza che dimostravano velleità di resistenza»52. Fu in questo frangente che, il 20 dicembre, Mussolini presentava alla Camera il disegno di legge per il ritorno al sistema elettorale uninominale, una “bomba” che, «come tutte le bombe che si rispettino, scoppiò all’improvviso, ma era stata preparata nei segreti laboratori di Palazzo Chigi, sin dal maggio del 1924»53. Il nuovo disegno di legge, è stato detto giustamente, era «un dono da offrire ai liberali»54, un «pegno di normalizzazione» come fu definito dal «Corriere d’Italia»55, messo a punto da Federzoni e da Grandi. Alcuni liberali, tra cui Giolitti e Salandra, mostrarono inizialmente un certo interesse, intravedendo nel collegio uninominale un possibile ritorno all’egemonia della vecchia classe dirigente liberale, senza considerare invece, che proprio grazie al ritorno all’uninominale, Mussolini avrebbe potuto chiudere la crisi aventiniana attraverso nuove elezioni politiche da convocarsi non appena l’opinione pubblica si fosse un po’ placata. Elezioni che, ove mai si fossero tenute, avrebbero quasi sicuramente falcidiato le opposizioni socialiste, comuniste e popolari tradizionalmente impreparate ad affrontare la verifica elettorale con tale sistema elettorale, ma che, in un clima politico del tutto mutato, non è detto che avrebbero giovato ai vecchi notabili liberali.
La motivazione ufficiale della proposta di riforma elettorale consisteva nel ritenere che, mentre la “legge Acerbo” aveva assolto alla funzione «di far convergere i suffragi degli elettori, non sugli uomini, ma sopra un partito, un’idea e doveva costituire una specie di bill d’identità per quanto il Governo fascista e il fascismo in genere avevano fatto dall’ottobre del 1922 in poi», l’attuale disegno di legge, invece, considerando che la politica fascista era stata ampiamente premiata dall’enorme consenso ricevuto nelle elezioni del maggio precedente, partiva dal principio che bisognasse adesso offrire «la possibilità al popolo di votare non soltanto pro e contro la bandiera, ma anche pro e contro coloro che tale bandiera sventolano»56.
Il disegno di legge fu approvato alla Camera il 17 gennaio 1925, pochi giorni dopo il discorso del 3, che, come è noto, aveva aperto la fase autoritaria del regime, e, non è certo un caso, la nuova legge rimase inapplicata sino ad essere sostituita dopo tre anni, da un sistema elettorale di tipo plebiscitario che meglio rispondeva alle nuove esigenze politiche.
Ancora una volta, insomma, oltre ai consueti tatticismi mussoliniani, si creava una frattura sostanziale tra il fatto e la norma, dove il fatto, ovvero la prassi giuridica, precedeva sempre un impianto normativo, ovvero la forma giuridica che poi tendeva a giustificarlo57. È in quest’ottica che vanno letti anche i risultati fallimentari dei progetti emersi prima dal lavoro della Commissione dei quindici e poi della Commissione dei diciotto o dei Soloni, come venne definita, i cui risultati costituiscono, a mio avviso, un momento di riflessione notevole e di sistematizzazione storico-istituzionale, troppo spesso sottovalutati dalla storiografia, proprio perché, in realtà furono superati dalla prassi giuridica fascista.
A sostegno della presunta volontà “normalizzatrice”, e forse consapevole della necessità di fornire un impianto coerente al riformismo caotico che fino ad allora aveva caratterizzato il fascismo, Mussolini aveva raccolto con solerzia l’iniziativa del Consiglio Nazionale del PNF di istituire una commissione di studio sulle riforme istituzionali che avrebbe dovuto «rendere effettiva e duratura la conquista dello Stato da parte del fascismo», sviluppando «la rivoluzione dell’ottobre 1922, […], attraverso l’immissione delle nuove forze espresse dal popolo italiano nel vecchio e ormai esaurito organismo dello Stato demo liberale»58. È chiaro che, con tali premesse, e soprattutto considerando che la Commissione era emanazione di un partito e pertanto organismo prettamente politico, la stampa di opposizione la criticò ampiamente. La commissione, su designazione del Direttorio del partito, fu istituita il 4 settembre 1924 ed era costituita da quindici membri (cinque deputati, cinque senatori e cinque studiosi59). I nodi istituzionali sui quali la commissione dei quindici era chiamata a pronunciarsi erano relativi ad alcuni problemi particolari: rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, Stato nazionale e stampa, Stato nazionale e istituti di credito, Stato nazionale e sette segrete, Stato nazionale e partiti politici e organizzazioni sindacali. L’importanza dei temi e l’esigenza di dare una legittimazione giuridica alla Commissione, soprattutto all’indomani della svolta del discorso del 3 gennaio che inaugurava la rivoluzione legale60, resero indispensabile il suo scioglimento e la nomina di una nuova Commissione, questa volta istituita ufficialmente con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 1925.
La nuova Commissione, anche detta dei Soloni, fu integrata con tre membri61, che si aggiunsero ai quindici precedenti, sempre sotto la presidenza del filosofo Gentile, risultando così «composta di fascisti e di vecchi liberali che al fascismo guarda[va]no con simpatia»62.
I risultati del lavoro di entrambe le Commissioni, furono effettivamente tutt’altro che rivoluzionari (in special modo quelli della prima commissione) e, non a caso, Mussolini ne fu piuttosto deluso, ritenendo che, nella sostanza, l’architettura costituzionale proposta dai Soloni era già stata abbondantemente superata sia dalla prassi giuridica che da alcuni provvedimenti legislativi specifici63. D’altra parte fu lo stesso Gentile nella Lettera di accompagnamento alle relazioni e proposte a precisare che la Commissione non aveva «pensato un solo momento che fosse […] da sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risorgimento», convinta che il fascismo fosse «nato a costruire, non a distruggere» e che «lo Stato del Risorgimento e della gloriosa Monarchia nazionale» fosse «oramai per forza di tradizioni divenute sacre a ogni cuore italiano una solida costruzione da rispettare, una solida base su cui edificare lo Stato della rivoluzione fascista»64. La Commissione, dunque, aveva creduto opportuno «doversi restringere a liberare quell’antica e veneranda base costituzionale dello Stato italiano dalle soprastrutture che lentamente, nella corruzione del nostro sistema parlamentare, le si erano sovrapposte e che l’avevano a poco a poco fatta servire a fini lontani dal pensiero dei fondatori»65.
La Commissione dei Soloni, in verità, nella prima relazione, quella presentata dall’On. Barone, al fine di illustrare l’ordinamento vigente sia attraverso la lettera dello Statuto sia attraverso la consuetudine, partiva dal presupposto, ampiamente condiviso da fascisti e nazional-liberali, che «il parlamentarismo è la più grave e pericolosa degenerazione del costume politico»66. Era pertanto indispensabile, ad avviso dei diciotto, riformare il rapporto tra il potere esecutivo e quello legislativo, cercando tuttavia di non «vulnerare né i principi informatori dello Statuto né quelli dell’istituto di Governo di Gabinetto, consacrato dalla consuetudine»67, fermo rimanendo che sembrava opportuno interrogarsi se convenisse «considerare come definitivamente acquisito lo strapotere […] ottenuto dalla Camera elettiva»68. La Commissione, proponeva così di tornare allo Statuto, al fine di ricollocare al centro del sistema politico-istituzionale la Corona (per la quale veniva invocato anche un rafforzamento del suo ruolo simbolico-rappresentativo69), spostando nettamente il baricentro istituzionale dal legislativo all’esecutivo. Un esecutivo che, come previsto dallo Statuto, doveva essere nominato dal Sovrano, il quale «certo deve tener conto delle manifestazioni del Parlamento, vale a dire di ambedue le Camere” […] perché non può non preoccuparsi della necessità che [i ministri] anche delle Camere godano la fiducia»70, sempre considerando che «il Ministero deve essere organo del potere della Corona, ma non del Parlamento»71. Una riforma di questo genere, tuttavia, leggiamo nella relazione, non richiedeva una specifica norma di legge, quanto piuttosto una svolta nel “costume politico” e cioè di quella prassi in base alla quale si applicano le norme costituzionali.
Dunque, il vero centro motore dell’attività politica doveva risiedere nel Governo, attraverso il quale, «si distribuiscono gli atti in cui si esplica la sovranità dello Stato»72. Agli altri due poteri poi, dal punto di vista dei riformatori, rimaneva il compito per un verso di tracciare «i confini entro i quali l’azione dello Stato e dei singoli possono svolgersi» (potere legislativo) e per un altro di vegliare «all’osservanza di tali confini»73 (potere giudiziario), al fine di integrare e rafforzare il potere esecutivo, la cui forza incarna e rappresenta la forza stessa dello Stato. Seguivano pertanto una serie di proposte di legge74 che ampliavano le competenze dell’esecutivo e bilanciavano le due Camere che pure necessitavano di essere parificate, in diritto e in fatto, nella loro autorità: e questo sarebbe servito a ridimensionare quella premessa del parlamentarismo, secondo la quale solo alla Camera elettiva spettava “vera autorità politica”, mentre il Senato, assemblea vitalizia, non ricopriva un ruolo apprezzabile nella vita politica del paese.
Rigettata, dunque, l’ipotesi della istituzione di una terza Camera o di un Parlamento tecnico, la Commissione proponeva di conservare il Parlamento bicamerale con un Senato di nomina regia (per il quale si proponeva di integrare l’elenco delle categorie delle persone tra cui scegliere i senatori previsto dall’art. 33) ed una Camera elettiva, le cui caratteristiche rappresentative sarebbero tuttavia cambiate in seguito alla realizzazione dell’ordinamento corporativo. Infatti, nella relazione leggiamo che per ciò che riguardava la Camera dei deputati, il sistema elettorale allora vigente (ricordiamo che era stato ripristinato il sistema uninominale), si sarebbe inevitabilmente dovuto modificare proprio in seguito all’attuazione dell’ordinamento corporativo (analizzato dall’altra sottocommissione), prevedendo l’istituzione di collegi istituzionali accanto a quelli territoriali. Nel caso in cui, invece «per avventura un tale ordinamento [quello corporativo] non fosse attuato»75, si sarebbe potuto revisionare il sistema elettorale, riconoscendo un metodo di elezioni di secondo grado per mitigare le conseguenze del suffragio universale. In verità, nella relazione Barone, le indicazioni sui temi specifici della rappresentanza, erano piuttosto scarse e prive di analisi approfondite e questo perché la prima sottocommissione, aveva puntato l’attenzione sul rapporto tra legislativo ed esecutivo. E, proprio su tale questione, i Soloni concordavano sul fatto che la centralità del Gabinetto si sarebbe potuta ottenere, in primo luogo, attraverso la netta riaffermazione dei poteri della Corona cui l’esecutivo stesso doveva far capo, e poi attraverso l’incremento delle proprie funzioni, a fronte di un ridimensionamento di quelle delle due Camere.
In definitiva, la riforma proposta altro non era se non un «ritorno ai sani principi dell’ordinamento costituzionale, un omaggio reso alle logiche esigenze di esso» per il consolidamento dello Stato, il cui potere trae fondamento solo d’all’alto, «d’onde cioè solo è possibile una visione integrale [delle] superiori esigenze», dal momento che «dal popolo non possono venire che freni e limiti e controlli, perché non può venire che una visione analitica e frammentaria e soprattutto contingente»76.
La parte sicuramente più innovativa dei lavori dei Soloni è quella che emerge dalla relazione firmata da Gino Arias, ma redatta insieme ad Angelo Olivieri Olivetti, sul problema sindacale e sull’ordinamento corporativo. Laparte iniziale della relazione esponeva la discussione, condotta a livello comparativistico, sulla capacità giuridica dei sindacati e sulla necessità che questi venissero riconosciuti; la seconda, invece illustrava i precedenti politici e legislativi dell’ordinamento corporativo e ne studiava gli elementi fondamentali, determinandone le funzioni amministrative e analizzandone le modalità di collegamento dell’azione sindacale e dell’ordinamento corporativo stesso, nonché delle indispensabili riforme che questo avrebbe comportato nelle istituzioni rappresentative.
Se il sindacalismo fascista tentava di «superare l’antitesi, di fonte marxista, tra capitalismo e proletariato»77, subordinando le masse sindacali alle esigenze della Nazione e promuovendo la regola della collaborazione di classe, il corporativismo tendeva a realizzare due obiettivi fondamentali: quello di «affrancare il movimento sindacale dalla soggezione dei partiti politici e di farlo assurgere alla coscienza della solidarietà nazionale»78 e quello dello sviluppo della produzione. A tal fine, la relazione Arias proponeva un complesso meccanismo istituzionale dell’ordinamento corporativo, basato sulla riorganizzazione e sulla divisione dei cittadini in ordini, in relazione alle attività sociali da essi svolte, là dove la funzione sociale costituiva anche un discrimine per ridefinire i presupposti della rappresentanza politica. Strumenti istituzionali dell’ordinamento corporativo sarebbero dovuti essere il Collegio Corporativo Provinciale79, a livello periferico e il Consiglio Nazionale delle Corporazioni80, a livello centrale.
Il presupposto concettuale era quello di creare una gerarchia delle funzioni sociali che di fatto minava tanto il principio dell’uguaglianza quanto il «principio individualistico, che è[ra] ancora il fondamento della rappresentanza politica»81, nell’ottica di istituire una rappresentanza basata sugli interessi e sulle competenze. Pertanto, l’intero progetto di riforma istituzionale finalizzato a costruire lo Stato corporativo, consisteva nel collegare l’ordinamento economico con quello politico, nel disciplinare in maniera unitaria le forze sociali, al fine di neutralizzare il conflitto, il tutto rinnovando le fonti della rappresentanza politica sulla base delle funzioni sociali giuridicamente riconosciute e politicamente organizzate. Nell’analizzare infatti l’ordinamento Corporativo nel sistema amministrativo e politico dello Stato, il discorso si concentra proprio sul tema della rappresentanza politica e sulla necessità di una sua revisione, rispetto al principio individualistico di matrice liberale, peraltro già criticato – ricordava Arias – da un ampio filone filosofico-politico durante tutto l’Ottocento da Sismondi, Romagnosi, Manno e Persico, i quali proponevano dottrine organicistiche che dessero luogo a sistemi rappresentativi di interessi. D’altra parte, commentava il relatore, «la richiesta di una revisione del sistema delle rappresentanze per una più diretta ed esatta corrispondenza fra la costituzione sociale e quella politica del Paese, ha esercitato dopo la guerra una notevole influenza sui tentativi che fecero capo alla rappresentanza proporzionale»82, anche come naturale effetto della nascita e dell’affermazione dei partiti politici. La scelta della proporzionale, sostenevano i Soloni, arrecò enormi danni al paese soprattutto perché la riforma «trattata con preconcetti democratici, venne a deformare un concetto fondamentalmente sano, quale era quello di riconoscere ad ogni funzione sociale il diritto a un proprio intervento nello Stato indipendentemente dal gioco del congegno elettorale»83. Effettivamente, tra il 1919 e il 1921, come più sopra abbiamo accennato, non erano mancate proposte di sistemi elettorali basati sulla rappresentanza organica. In tal senso, infatti andavano le riflessioni dei nazionalisti e dei fascisti ma anche di alcuni settori del partito cattolico. Tuttavia, solo la Commissione dei diciotto avviò per prima una sistematica riflessione sulla rappresentanza corporativa, connessa con «il proposito di collegare intimamente l’ordinamento economico con quello politico dello Stato» e «di garantire la disciplina unitaria delle forze sociali», attraverso il rinnovamento delle fonti della «rappresentanza politica sulla base delle funzioni sociali giuridicamente riconosciute e politicamente organizzate»84, per ovviare all’illusione che la rappresentanza politica a suffragio universale e diretto costituisca la rappresentanza genuina dell’interesse generale. In effetti, sosteneva Arias, gli interessi particolari di categoria, di gruppi e di territorio affiorano sempre, «specie quando non si dichiarano, anzi, cercano di nascondersi»85, con il risultato che «essi vengono rappresentati in modo clandestino e frammentario, senza che assumano la responsabilità delle loro pretese»86. La rappresentanza corporativa, invece, sarebbe andata ben oltre la rappresentanza degli interessi, nel senso che, come emergeva dalla proposta, il Collegio Corporativo avrebbe riunito tutte le categorie e le funzioni sociali in una «sintesi comprensiva e chiarificatrice»; avrebbe educato «alla collaborazione nazionale», organizzando la società sotto l’autorità dello Stato; avrebbe consentito di difendere gli interessi particolari qualora questi coincidessero con quelli generali, «vigilando al tempo stesso perché la difesa privata o sindacale degli interessi di categoria non oltrepassi i limiti entro i quali è legittima e benefica»87. In sostanza, la Commissione propose che il nuovo ordinamento corporativo fosse basato sulla rappresentanza istituzionale, che avrebbe indotto una «partecipazione più spontanea, continua ed armonica di tutti i cittadini alla vita dello stato»88. Tra l’altro, l’introduzione del principio corporativo avrebbe anche esercitato una profonda influenza sul funzionamento e sulla competenza dell’istituto parlamentare, riducendo finalmente quegli aspetti perversi dovuti al parlamentarismo che avevano distorto le funzioni legislative della Camera. In definitiva, sosteneva Arias, «l’obiettivo della rivoluzione fascista doveva essere quello della restaurazione dello Stato attraverso un riformismo dichiaratamente antiparlamentare, antiliberale ed antidemocratico che sostituisse nel sistema politico il principio individualistico della democrazia parlamentare con il principio organico della rappresentanza corporativa della Nazione»89.
I lavori della Commissione, che «Critica Fascista» aveva definito «un organismo nettamente rivoluzionario» che avrebbe rappresentato «o la salvezza o la decadenza del fascismo»90, avevano alimentato già in corso d’opera un notevole dibattito culturale, non solo, ovviamente, sui singoli temi affrontati dai diciotto, quanto piuttosto ancora sulla necessità delle riforme costituzionali91. Sicuramente i risultati dei lavori della Commissione contenevano elementi innovativi, che solo in parte si possono inserire nel solco della tradizione statutaria e costituzionale italiana, soprattutto per quella parte di proposte relativa alla creazione del sistema corporativo e al conseguente corollario che implicava la revisione della rappresentanza individuale. Stupisce dunque, che Mussolini, il quale pure aveva sempre manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dai Soloni, tanto da averli fatti difendere dal suo giornale, non fu soddisfatto delle proposte, giudicandole superate e già concretizzate nei tre anni di governo trascorsi o in via di realizzazione attraverso progetti di legge in discussione o attraverso le modifiche del regolamento della Camera92. A vagliare i lavori dei Soloni, fu il Gran Consiglio del fascismo che si riunì dal 5 all’8 ottobre, per discutere sulle riforme proposte, sul problema del riconoscimento giuridico dei sindacati, sull’ordinamento e sulla rappresentanza corporativa, in presenza anche dei relatori Barone e Arias93. Fu in quella sede che, sia pure mostrando «gratitudine per l’opera da essa [Commissione] fornita con alta coscienza e profonda dottrina»94, Mussolini propose un ordine del giorno che di fatto liquidava la riorganizzazione dei rapporti tra legislativo ed esecutivo, accogliendo della relazione Barone solo alcuni suggerimenti e cioè: «1. costituzione del ministero della Presidenza del Consiglio; 2. istituzione dei segretari generali presso i singoli ministeri; 3. presentazione di un disegno di legge che modifica l’art. 10 dello Statuto»95, sostenendo, invece, che il resto era già realtà istituzionale. Ancor più drastico fu il giudizio sulla rappresentanza politica, così come proposta dalla relazione Arias, alla quale fu preferita incredibilmente quella proposta dal Gini nella sua relazione individuale96. Nello stesso o.d.g., infatti, il Gran Consiglio, riassumendo le differenti tesi esposte nella relazione, sosteneva di essersi trovata di fronte a tre punti di vista; «il primo, accettato dalla Commissione stessa proponente, di lasciare immutato il Senato di nomina regia, salvo ad aumentare le categorie dei cittadini degni del laticlavio e di dividere la Camera dei deputati in una metà eletta dalle corporazioni istituzionali e l’altra dalle circoscrizioni elettorali col mezzo del suffragio universale. Il secondo, per la rappresentanza delle corporazioni istituzionali tanto nel Senato quanto nella Camera. Il terzo rappresentato dal solo Gini favorevole alla inserzione delle rappresentanze corporative nel Senato»97. Tra le tre opzioni, il Gran Consiglio sceglieva la terza proposta e riteneva che, «salvo i dati dell’esperienza futura, che può consigliare una integrale adozione della rappresentanza corporativa […] nelle attuali contingenze storiche, la riforma così attuata dà alle idee – per le quali i cittadini si differenziano in partiti- la rappresentanza alla Camera, e agli interessi – per i quali si aggruppano negli enti e corporazioni riconosciute – la rappresentanza al Senato»98. Con l’approvazione dell’o.d.g. voluto da Mussolini, nella sostanza si chiudeva definitivamente l’idea di un progetto organico di riforma costituzionale, preferendosi la via “casuale” o piuttosto tattica del riformismo istituzionale, con il risultato che il regime fascista si sviluppò nel corso del ventennio, senza una struttura coerente, ma piuttosto per accumulo normativo, spesso in contrasto con lo spirito dello Statuto che dimostrava così la sua intrinseca debolezza. D’altra parte, la scelta dell’opzione Gini sulla rappresentanza corporativa in Senato, era, ancora una volta, una scelta “tattica”, orientata a mitigare gli orientamenti più antidemocratici del fascismo, in quanto sembrava voler garantire un pluralismo di fondo che vedeva i «cittadini differenziarsi in partiti», la cui competizione elettorale avrebbe dato spazio alla rappresentanza delle singole “idee”, per dirla sempre con la terminologia del Gran Consiglio, nella Camera dei deputati.


Verso lo Stato totalitario-corporativo

Tra la fine del 1925 e il 1926, il discorso sulla rappresentanza politica e sul corporativismo rimase sullo sfondo del dibattito, messo in ombra dalle prime leggi di rilevanza costituzionale che furono varate e che costituirono il vero passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista.
La legge 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato e la legge 31 gennaio 1926 n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, infatti, stravolgevano letteralmente l’impostazione statutaria e, più in generale, il principio della separazione dei poteri99. Si avviava così, quel «grandioso monumento di legislazione rivoluzionaria»100, per dirla con Panunzio, che (insieme alle leggi sul podestà e sulle consulte municipali, sull’allargamento dei poteri dei prefetti, sui consigli provinciali dell’economia e sul regolamento dei rapporti collettivi di lavoro e ai primi provvedimenti riguardanti l’ordinamento corporativo già varati o in via di esserlo) avrebbe condotto la storia costituzionale italiana ad incamminarsi verso un sistema politico-istituzionale tendenzialmente totalitario e caratterizzato da un profilo dichiaratamente antiparlamentare.
Il 26 maggio 1927 Mussolini, alla Camera, in apertura della discussione generale sul disegno di legge relativo allo stato di previsione della spesa del Ministero dell’Interno per l’esercizio finanziario relativo all’anno successivo, affermava che lo Stato corporativo era una realtà e pertanto si poneva il «problema istituzionale del Parlamento», di quel Parlamento, cioè, frutto del suffragio universale e della rappresentanza individuale. Principi entrambi menzogneri, sosteneva Mussolini, che avrebbero dovuto cedere il passo ad una Camera espressa attraverso le organizzazioni corporative, il cui sistema elettorale e le cui forme organizzative, aveva aggiunto, sarebbero state stabilite entro la fine di quell’anno o, al più tardi nell’anno successivo. La chiarezza di intenti emersa da tale discorso, famoso come il discorso dell’Ascensione, accelerò i tempi sulla questione della riforma della rappresentanza politica che, nel frattempo si era sostanzialmente attestata su due posizioni ben distinte. La prima proponeva «una rappresentanza integralmente corporativa, sulla quale convergevano pur con notevoli sfumature gli ex sindacalisti rivoluzionari e i corporativisti puri», la seconda, invece proponeva una rappresentanza «solo parzialmente corporativa»101, maggiormente caldeggiata da coloro che temevano l’eclissi del partito.
Le prime indicazioni chiare per un testo di riforma della rappresentanza in chiave corporativa, vennero da una seduta del Gran Consiglio, tenutasi il 10 e l’11 novembre 1927, che pure alimentò ulteriori discussioni tra i sostenitori del corporativismo a oltranza. Il presupposto della legge doveva essere il frutto della nuova situazione di fatto creatasi nel paese e cioè: «l’annullamento di tutti i partiti politici avversi al fascismo», «l’esistenza di un solo partito politico in funzione di organo del Regime», e il «riconoscimento giuridico delle grandi organizzazioni produttive ed economiche della Nazione, organizzazioni che sono alla base sindacale-corporativa dello Stato»102. Il riferimento all’avvenuta fine del pluralismo partitico, induceva a procedere alla revisione della Camera piuttosto che al Senato, che, al contrario, doveva restare «nella sua composizione attuale, salvo alcune riforme che riguardano il suo funzionamento interno»103. Dalle vicende che si svolsero in quella seduta del Gran Consiglio (ricostruite intuitivamente da De Felice104) e dall’analisi di una proposta fortemente ispirata al corporativismo che fu esaminata e probabilmente bocciata105 a favore di un o.d.g. meno incisivo, che doveva servire da linea guida per il governo, si può evincere che i corporativisti più intransigenti furono di fatto sconfitti, a favore di coloro che, invece, riconoscevano ancora alla rappresentanza una valenza politica, espressa attraverso il partito, ovviamente attraverso il partito unico. Infatti, poiché «la fascistizzazione delle organizzazioni sindacali non era ancora completa, non si poteva per il momento pensare che esse potessero sostituirsi “in funzione politica” al partito e potessero assumersi da sole il compito della rappresentanza nazionale»106. Le decisioni del Gran Consiglio, alimentarono così ulteriori polemiche, in verità piuttosto pretestuose, tra coloro che spingevano per soluzioni ultracorporativiste e coloro invece che approvavano la linea scelta dal Gran Consiglio.
Eppure, l’aspetto sicuramente più inedito dell’o.d.g. votato dal Gran Consiglio, che poco spazio aveva occupato nel dibattito sulla rappresentanza, ma che ci sembra fortemente qualificante nell’ottica corporativistica, era quello relativo alla proposta di revisione del diritto elettorale. L’elettorato attivo, infatti, come leggiamo nel testo, «non sarà dato al cittadino indifferenziato, secondo il vecchio sistema del suffragio universale democratico, ma soltanto a coloro che sulla base dei contributi sindacali dimostreranno di essere elementi attivi nella vita della Nazione»107. E fu Bottai che, in difesa delle posizioni del Gran Consiglio contro coloro che lo accusavano di anticorporativismo, mise in luce la novità della proposta, sottolineando come, proprio la negazione del suffragio elettorale e della volontà popolare, costituiva il cuore della rivoluzione fascista, che aveva trasformato «la nebulosa figura del “cittadino”» con quella del «cittadino in quanto produttore, quanto a dire […] dalle astrazioni pseudofilosofiche in concretissime realtà»108.
La verità, come sostiene anche De Felice109, è che, di là dalle discussioni politiche e giuridiche sulla rappresentanza corporativa, il fascismo, come tutti i sistemi totalitari, aveva bisogno di «un bagno di folla» elettorale. Pertanto era indispensabile che si approvasse rapidamente una legge che legittimasse ulteriormente il regime e, nell’ottica di un forte coinvolgimento dei cittadini, la scelta di elezioni che, in qualche modo fossero ancora “politiche”, piuttosto che per categorie di “interessi”, era più funzionale. Ed in tal senso andò il disegno di legge presentato alla Camera dal Guardasigilli Rocco, il 14 marzo 1928.
Gli aspetti salienti della riforma, erano: la riduzione dei deputati da 560 a 400 con la costituzione di un collegio unico nazionale; la possibilità che i candidati fossero proposti dalle confederazioni di sindacati legalmente riconosciuti (800 candidati), dagli enti morali e dalle associazioni (200 candidati). La funzione preminente e decisiva, tuttavia, era esercitata dal Gran Consiglio che sceglieva tra i mille candidati proposti o anche tra altre «persone di chiara fama nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nella politica e nelle armi» e presentava poi la lista definitiva. Il diritto elettorale era riconosciuto a tutti i cittadini maschi lavoratori o pubblici dipendenti o ministri del culto e di fatto diventava una facoltà di scelta, di approvare o non approvare cioè la lista nella sua integrità. Nel caso in cui non vi fosse stato un voto maggioritario di approvazione, si sarebbe ricorsi ad elezioni con liste concorrenti.
Ad esporre il disegno di legge fu il Ministro Rocco, il quale con un’importante relazione, spiegò il senso profondo della riforma. Egli esordiva riconoscendo alla Camera eletta nel 1924 il ruolo di vera e propria Assemblea costituente fascista che oramai aveva esaurito il suo compito, sia perché eletta su principi contrari alla essenza stessa del fascismo, sia perché il sistema elettorale era oramai «superato dalla nuova realtà sociale e politica», caratterizzata dall’ingresso dei sindacati nella vita dello Stato, riconosciuti come enti di diritto pubblico. L’obiettivo della nuova legge, sosteneva Rocco, non era né quello di restaurare l’antico regime assolutista né quello di costruire uno Stato di polizia, quanto piuttosto quello di creare «un regime di autorità», con un governo forte «ma fondato sulle masse, vicino alle masse». Ma, alle masse era indispensabile sottrarre il principio astratto, il dogma dell’esercizio della sovranità popolare, che molto difficilmente produce «una buona scelta degli spiriti dirigenti», anche quando si riconosce ai partiti «una funzione preminente, affidando ad essi la designazione dei candidati». In tali casi, infatti, continuava il Ministro, il sistema era apparso nella pratica migliore, solo perché ne avevano approfittato «i partiti più privi di scrupoli, meno solleciti dell’interesse nazionale». Insomma, in materia elettorale, la storia aveva dimostrato che la sovranità popolare finisce con il risolversi nel predominio della sovranità di piccole minoranze, «composte di intriganti e demagoghi». Alla sovranità popolare bisognava sostituire la sovranità dello Stato, «organizzazione giuridica della nazione». In questa prospettiva, la Camera dei deputati, che «ha per primo suo compito quello di collaborare con il governo alla formazione delle leggi», doveva essere la sede della rappresentanza delle forze organizzate del paese, al fine di tutelare gli interessi nazionali. Vero protagonista dell’intero iter di designazione dei candidati era comunque il Gran Consiglio (la cui costituzionalizzazione,
d’altra parte, sarebbe giunta di lì a poco), che con la designazione dei candidati, di fatto li nominava, «salva la condizione della ratifica del corpo elettorale». Dal canto suo, con il nuovo sistema, il corpo elettorale avrebbe approvato non tanto le nomine singole, quanto «l’indirizzo politico segnato dal Gran Consiglio con la formazione della lista»110. Con tale disegno di legge, il Governo intendeva definitivamente liquidare lo Stato Parlamentare nato con il Risorgimento, eppure, la discussione alla Camera, dove vi era ancora una piccola pattuglia di oppositori costituzionali, fu del tutto inesistente ed il testo fu infatti approvato con 216 voti a favore e 15 contrari. Solo Giolitti, in sede di dichiarazione di voto, espresse il suo dissenso sulla riforma che, disse, «segnava il decisivo distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto»111.
Ben più articolata fu, invece, la discussione in Senato, dove numerosi e significativi furono gli interventi contrari al disegno di legge, tra cui quelli di Ettore Ciccotti, Francesco Ruffini, Federico Ricci, Luigi Albertini e Roberto De Vito, le critiche dei quali costrinsero lo stesso Mussolini ad un intervento che invece alla Camera non c’era stato. Ciccotti parlò di una «Assemblea fantasma» che avrebbe condotto «all’arbitrio illimitato e incontrastato»112 di chi governa. Ruffini, dal canto suo, insisteva sulla implicita violazione dell’art. 39 dello Statuto, che garantiva ai cittadini il diritto di scegliere liberamente e direttamente i propri rappresentanti, là dove non si poteva certamente ritenere equivalente alla scelta una «semplice proposta, e neppure la ratifica mercè una votazione totalitaria e plebiscitaria di un’unica lista presentata dai dirigenti di una organizzazione politica permessa dal Governo». Tale organizzazione, il Gran Consiglio, peraltro, rilevava sempre Ruffini, non era ancora organo costituzionale, eppure era depositario, tra gli altri, di un potere di rilievo costituzionale come quello appunto di nomina dei deputati. Insomma, a suo avviso, la proposta del Governo, feriva profondamente lo spirito dello Statuto, mettendo in discussione il principio fondamentale della libertà di voto. Oltre all’art. 39, infatti, anche l’art. 2113, «dichiarato addirittura il più fondamentale», stabilendo che la rappresentatività che caratterizza il tipo di Governo monarchico è sempre il frutto di «una scelta libera e consapevole», ribadiva con forza la pienezza del diritto elettorale, «non solo statutariamente garantito al popolo italiano, ma ormai da lui acquisito»114. Anche Albertini si dichiarava convinto che, con l’introduzione del nuovo sistema elettorale, lo Statuto sarebbe stato intimamente violato nei suoi principi fondamentali, oltre che rispetto agli artt. 2 e 39, anche rispetto agli artt. 65 e 9. Il primo stabiliva che il sovrano nomina e revoca i suoi Ministri e, come è noto, la consuetudine aveva imposto le consultazioni parlamentari; il secondo, invece, gli riconosceva la facoltà di sciogliere la Camera. Il nuovo “congegno” elettorale, però, secondo l’ex direttore del «Corriere della Sera», avrebbe privato il Re di entrambe le prerogative, in primo luogo perché «non è pensabile che deputati di un solo partito, i quali devono la nomina ai dirigenti di questo partito, si voltino contro il Governo che ne è l’espressione», e poi, in caso di scioglimento della Camera, le nuove elezioni risulterebbero inutili «in quanto si rifarebbero allo stesso modo»115. A chiudere il dibattito, intervenne Mussolini, il quale, richiamando l’art. 27 della dichiarazione des droits de l’homme, osservava che tutte le costituzioni sono sempre rivedibili, perché «nessuna generazione ha il diritto di assoggettare alle sue leggi le generazioni future», pertanto, soprattutto nel nuovo clima politico creato dal fascismo, la difesa dello Statuto gli sembrava «commovente», quanto «inutile», semplicemente perché «lo Statuto non c’[era] più, non perché sia stato rinnegato, ma perché l’Italia di oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848»116. Insomma, il disegno di legge fu approvato anche dal Senato con 138 voti favorevoli e 49 contrari e fu trasformato nella legge 17 maggio 1928, n. 1019117.
Come già più sopra rilevato, la vera novità introdotta dalla legge, non era tanto rappresentata da un meccanismo piuttosto farraginoso che era stato proposto come il viatico per il trionfo dello Stato corporativo, quanto piuttosto dal ruolo di primo piano riconosciuto al Gran Consiglio, la cui costituzionalizzazione ex legge 9 dicembre 1928, n. 2693, avrebbe peraltro attribuito la presidenza al Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, rafforzando ancora di più il potere esecutivo e abolendo definitivamente la divisione e l’autonomia dei due poteri.
Con la fine della XXVII legislatura, iniziata con le tragiche elezioni del 1924 e la cui Camera era stata depurata dopo due anni di tutti i deputati dell’opposizione, si chiudeva effettivamente una fase importante del fascismo.Quella legislatura giustamente era stata definita la «costituente fascista», in quanto lo Statuto era stato pressoché riscritto in funzione del rafforzamento del potere esecutivo e della figura del Capo del Governo e, con le prime elezioni plebiscitarie che si sarebbero svolte nel 1929, risultò evidente quanto fosse cambiata la natura rappresentativa della Camera dei deputati, la cui funzione venne totalmente trasformata, in attesa di una nuova riforma che ne definisse meglio il ruolo. Effettivamente il dibattito sulla rappresentanza politica non smise di occupare l’attenzione di politici e giuristi, sino poi alla definitiva abolizione della Camera dei deputati e la creazione, nel 1939, della Camera dei fasci e delle corporazioni.




NOTE


1 A. O. Olivetti, Carattere rivoluzionario del fascismo, in «Educazione fascista», 1929, n. 12, p. 755.^
2 Cfr. ivi, p. 757.^
3 G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, p. 10. Il volume rappresenta una delle sintesi più aggiornate, anche da un punto di vista bibliografico, sul dibattito culturale relativo al tema del corporativismo. Alcune considerazioni interessanti anche in P. Varvaro, Sul fascismo. Il pregiudizio antiliberale nella costruzione del regime totalitario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.^
4 In generale, sull’antiparlamentarismo, cfr. E. Cuomo, Critica e crisi del parlamentarismo (1870-1900), Torino, Giappichelli, 1996 e T. E. Frosini, L’antiparlamentarismo e i suoi interpreti, in «Rassegna Parlamentare», 50 (2008), n.4, pp. 845-870.^
5 P. Pombeni, La rappresentanza politica, in R. Romanelli, Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 1995, p. 89.^
6 Sull’analisi del parlamentarismo e la risposta sonniniana del Torniamo allo Statuto, cfr. P.L. Ballini, La questione elettorale e il dibattito sul Parlamento, in P.L. Ballini (a cura di), Sidney Sonnino e il suo tempo, vol. I, Firenze, Olschki, 2000, pp. 156-172.^
7 N. Antonetti, Teorie della rappresentanza dalla proporzionale al plebiscito, in P.L. Ballini, I giuristi e la crisi dello Stato liberale (1918-1925), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2005, p. 61.^
8 Sulle tesi prevalenti in seno ai partiti politici, cfr. M. d’Addio, La crisi dello Stato liberale e l’avvento dello Stato fascista, in «Il Politico», ottobre-dicembre 1999, n. 4, in particolar modo pp. 511-521.^
9 Scrive Mussolini in una recensione al saggio di A. Tilgher, Relativisti contemporanei, pubblicata sul «Popolo d’Italia» del 22 novembre 1919 (ora in B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, vol. XVII, pp. 267-269): «La nostra ripugnanza a costringerci a un programma, pur coll’intesa che più di un programma si tratta di semplici punti di vista, di riferimento e di orientamento, la nostra posizione di agnosticismo di fronte al regime, l’aver tolto dagli altri partiti ciò che ci piace e ci giova, il deridere che facciamo di tutte le ipoteche socialistiche e comunistiche sul misterioso futuro, costituiscono altrettante documentazioni della nostra mentalità relativistica. Ci basta di avere per muoverci, un punto di riferimento: la nazione. Tutto il resto cammina da sé».^
10 A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 2003, p.4.^
11 Ibidem.^
12 Cfr. B. Mussolini, Linee del programma politico, in «Popolo d’Italia», 30 marzo 1919, in parte cit. in Aquarone, op. cit., pp. 4-5.^
13 Ibidem.^
14 G. Volpe, Storia del movimento fascista, in voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana. ^
15 Programma dei Fasci di combattimento (giugno 1919), in R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, Appendice, p. 744. L’Assemblea Nazionale avrebbe dovuto svolgere un ruolo, in qualche modo, costituente anche in merito alla forma di Stato: Monarchia o Repubblica. In verità il tema dell’Assemblea Costituente, attraverso la quale gettare le basi per un rinnovamento politico e sociale del paese, era stato un leit motiv di un po’ tutto l’interventismo di destra e di sinistra negli ultimi anni di guerra. Lo stesso Mussolini ne fu un sostenitore soprattutto in funzione antimonarchica, ma l’iniziativa, da un punto di vista concreto, ebbe scarso seguito, pur lasciando un’eco evidente nelle successive proposte mussoliniane. Cfr. Ivi, pp. 468-473.^
16 Ibidem.^
17 Ibidem.^
18 F. Perfetti, Il sindacalismo fascista, I, Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo, Roma, Bonacci, 1988.^
19 Cfr. La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di Gabriele D’Annunzio, a cura di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973.^
20 A quella data, infatti, il movimento fascista aveva già aderito ai Blocchi nazionali in occasione delle elezioni del maggio del 1921, conquistando 35 seggi alla Camera e costituendo un gruppo parlamentare autonomo. Erano segnali che imponevano una riflessione sulla organizzazione politica del fascismo e sulla necessità di trasformarsi in partito politico, a costo di rinnegare anche l’antipartitismo, altro elemento della polemica retorica introdotta dal fascismo della prima ora. Cfr., P. Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma partito del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1984, in particolare pp. 19-37^
21 Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna, Il Mulino, 1996, p. 247.^
22 L’espressione è di M. Missiroli.^
23 Ad influenzare Mussolini sull’importanza dei ceti medi era stato il Manifesto alla borghesia stilato dal professore di filosofia Emilio Bodrero e pubblicato nel 1921. Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 262-273.^
24 Ivi, p. 273.^
25 Ibidem.^
26 Sul dibattito che animò il fascismo sulla scelta tra movimento o partito, cfr., supra n. 19 e E. Gentile, Storia del Partito fascista. 1919-1922. Movimento o milizia, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 314-386.^
27 Leggiamo infatti che «i valori autonomi dell’individuo e quelli comuni a più individui, espressi in persone collettive organizzate (famiglie, comuni, corporazioni ecc.) vanno promossi, sviluppati e difesi, sempre nell’ambito della Nazione a cui sono subordinati» e, ancora più esplicitamente a tutela dell’individualismo: «le corporazioni non devono tendere ad annegare l’individuo nella collettività livellando arbitrariamente le capacità e le forze dei singoli, ma anzi a valorizzarle e a svilupparle», Programma del PNF (1921), in R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere. 1922-1925, Torino, Einaudi, 1966, pp. 756-757.^
28 Ivi, p. 756.^
29 Sono ben note le aspre polemiche che si aprirono sin da subito in seno al partito tra le due anime del fascismo, quella conservatrice e quella innovatrice. Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 323-396.^
30 Sulle varie posizioni assunte dai principali esponenti della classe dirigente liberale nei confronti del primo governo Mussolini, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 388 e sgg.^
31 Atti Parlamentari (A.P.), Camera dei Deputati (CdD), Discussioni, XXVI legislatura, Sessione 1921-1923, Tornata del 16 novembre 1922, p. 8393.^
32 Ibidem.^
33 Mussolini, per altro, temendo ancora la potenziale sfiducia della Camera, alla vigilia di presentarsi ad essa, «cercò di ottenere dal re un decreto di scioglimento in bianco della Camera stessa […]. Ma invano». R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 480.^
34 A.P., CdD, Discussioni, XXVI legislatura, cit.^
35 A. P., Senato del Regno (SdR), Discussioni, XXVI legislatura, I Sessione 1921-22, Tornata del 16 novembre 1922, p. 3999.^
36 In questa sede non affronteremo nel dettaglio il discorso sulla seconda camera che, data la sua natura di origine nominativa e non elettiva, esula dal discorso sulla rappresentanza politica in senso stretto. Sul rapporto tra il fascismo e il Senato, cfr. Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta. Inventari e documenti, a cura di E. Gentile, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2002 e A. Pezzana, Il Senato del Regno dal 1922 al 1946. La Camera Alta, il fascismo ed il postfascismo, Foggia, Bastogi Editrice Italiana, 2006.^
37 Il 15 novembre ’22, Mussolini era riuscito a strappare al Consiglio dei ministri un generico voto a favore della revisione del sistema “rigidamente proporzionale”, anche se, il giorno dopo preferì non parlarne nelle sue dichiarazioni programmatiche «temendo evidentemente le reazioni dei deputati popolari», R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 519.^
38 Da notare che il relatore di maggioranza alla Camera era Salandra. Non era certo la prima volta in Italia che il Parlamento avesse votato i pieni poteri al Governo anche su temi ben più delicati. Il Governo ottenne i pieni poteri con la l. 3 dicembre 1922, n. 1601. Per l’attività svolta grazie ai pieni poteri, cfr. A. Aquarone, op. cit., pp. 6-15.^
39 A. Solmi, La riforma costituzionale, Milano, Alpes, 1924, pp. 13-14.^
40 Ibidem.^
41 Ivi, p. 16. È chiaro che sulla data del 1876 ci sarebbe molto da discutere. Sicuramente, infatti è troppo tranchant e chiaramente polemica con la tradizione politico-istituzionale della “sinistra storica”. In verità, come è noto, la prassi della fiducia parlamentare risale già a Cavour e alla “destra storica”. Ad ulteriore conferma della fluidità ideologica del fascismo e di molti dei suoi rappresentanti di primo piano, va ricordato che sarà proprio Solmi, presidente di una Commissione nominata ad hoc nel ’36, a decretare non più la riforma del regime parlamentare, quanto piuttosto il suo funerale, formulando proposte relative alla composizione e al funzionamento della istituenda Camera dei Fasci e delle Corporazioni.^
42 Membri della Commissione erano: Michele Bianchi, Massimo Rocca, Maurizio Maraviglia, Nicola Sansanelli, Giuseppe Bastianini e Cesare Rossi.^
43 In verità, il nocciolo della proposta era già stato annunciato dallo stesso Bianchi in una intervista rilasciata a Francesco Paoloni a «Il Popolo d’Italia» del 24 dicembre 1922, cfr. F. Quaglia, Alle origini delle riforme liberali fasciste: il progetto Bianchi, in «Giornale di Storia Costituzionale », 2001, n. 2, pp. 107 sgg. Cfr. anche Id., Il Re dell’Italia fascista. Forma di governo e costituzione nel regime dittatoriale, Roma, Aracne, 2008, pp. 29-34.^
44 Cfr. Aquarone, op. cit., pp. 36-37.^
45 G. Sabbatucci, Il suicidio della classe dirigente liberale. La legge Acerbo 1923-1924, in «Italia Contemporanea», marzo 1989, pp. 57.80, ora in Idem (a cura di), Le riforme elettorali in Italia (1848-1994), Milano, Edizioni Unicopoli, 1995, pp. 103-128.^
46 E. Corradini, Il fascismo e la riforma costituzionale, in «Gerarchia», luglio 1923. Cit. in F. Perfetti, La Camera dei fasci e delle corporazioni, Roma, Bonacci, 1991, p. 23. Il corsivo è mio.^
47 A.P., C.D., Discussioni, XXVI legislatura, tornata del 12 luglio 1923, pp. 10542. Lo stesso Amendola, all’indomani della intervista rilasciata da Bianchi a «Il Popolo d’Italia», aveva commentato su «L’Italia» il progetto che, in sostanza, si poneva l’obbiettivo di «rovesciare quel “Governo di Gabinetto” che si fonda non sulla lettera della legge ma sulla consuetudine e che nel nostro sistema politico è venuto dalla grande tradizione inglese», G. Amendola, Amnistia e proporzionale, in «L’Italia», 27 dicembre 1922.^
48 A. Solmi, op. cit., p. 57.^
49 C. Costamagna, La dottrina fascista delle rappresentanze qualificate, in «Critica fascista», 1 luglio 1923.^
50 A. Ciattini, Lo Stato su nuove basi, in «Critica fascista», 1 gennaio 1924.^
51 Cfr., ad esempio il giudizio di G. Volpe in Un’occhiata alla nuova Camera, in «Gerarchia», 3 (1924).^
52 A. Salandra, Memorie politiche, Milano, Garzanti, 1951, p. 62.^
53 B. Mussolini, Elogio ai gregari, in «Gerarchia», 4 (1925), p. 258.^
54 R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 698.^
55 Cit. in ibidem.^
56 A.P., Camera, Legislatura XXVII, Sessione 1924-1929, Disegni di legge e relazioni, Vol. VII, n. 279.^
57 Pienamente condivisibile appare il giudizio di E. Fimiani, il quale sostiene che «l’insieme dei provvedimenti fascisti di rilievo costituzionale e istituzionale, pur presentando alcuni snodi fondamentali, ha avuto carattere più caotico che coerente, producendo una grande quantità di atti legislativi non sempre conseguenti tra loro», E. Fimiani, Fascismo e regime. Tra meccanismi statutari e “costituzione materiale” (1922-1943), in M. Palla (a cura di), Lo Stato fascista, Firenze, La Nuova Italia, p. 89.^
58 C.[esarini] S.[forza], Rassegna dei fatti politici, in «Critica fascista», 15 agosto 1924.^
59 La Commissione era così composta: G. Gentile (Presidente), E. Corradini, M. Mazziotti, N. Melodia, E. Greppi, G. Volpe, F. Suvich, E. Rossoni, P. S. Leicht, A. Lanzillo, F. Ercole, S. Romano, A. Rocco, S. Longhi, A. O. Olivetti.^
60 L’espressione è di E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 155.^
61 I nuovi membri erano: G. Arias (Professore), D. Barone (Consigliere di Stato), F. Coppola (Pubblicista), C. Gini (Professore). S. Longhi non fu riconfermato.^
62 G. Gentile, Lettera del Presidente della Commissione dei diciotto, Sen. Gentile a S.E. il Presidente del Consiglio, in Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazioni e proposte della Commissione presidenziale per lo studio delle riforme costituzionali, Roma, 1925, p. 8. In tale volume è compresa anche la Relazione riassuntiva della Commissione dei XV sui rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo del relatore Santi Romano, pp. 199-206. (Tale raccolta di documenti fu ripubblicata nel 1932 dall’Istituto Fascista di Cultura)^
63 Cfr. le annotazioni scritte da Mussolini a margine della relazione, cit. in A. Aquarone, op. cit., pp. 57-58.^
64 G. Gentile, Lettera del Presidente…, cit., pp. 8-9.^
65 Ibidem.^
66 Ivi, p. 33.^
67 Relazioni e proposte, cit., p. 29.^
68 Ivi, p. 32.^
69 Ai poteri della Corona, erano dedicate poche pagine, ritenendosi che il Sovrano dovesse svolgere una «funzione di direzione, di integrazione, di moderazione e di coordinamento, e occorrendo, anche di decisione», ivi, p. 36. Veniva poi esclusa la pur ventilata ipotesi di creare un Consiglio della Corona.^
70 Ivi, p. 39.^
71 Ivi, p., 46.^
72 Ivi, p. 73.^
73 Ibidem.^
74 Le proposte erano: proposta di legge diretta a regolare alcuni rapporti fra il Governo e la Camera; proposta di modificazione dell’art. 33; proposta di legge sulla sostituzione ai sottosegretari di Stato dei segretari generali e sulla costituzione di un Dicastero della Presidenza del Consiglio dei Ministri; proposta di legge sulla procedura da osservare per la emanazione delle leggi e dei regolamenti. I testi sono in ivi, pp. 81-88.^
75 Ivi, p. 75.^
76 Ivi, p. 78.^
77 Ivi, p. 103.^
78 Ivi, p. 126^
79 Il Collegio doveva essere eletto dalle tre Camere provinciali, organi della rappresentanza degli ordini di attività. Cfr. ivi, p. 117.^
80 Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni doveva essere eletto dai Collegi provinciali. Cfr. ivi, p. 121.^
81 Ivi, p. 130^
82 Ivi, p. 135.^
83 Ibidem.^
84 Ivi, p. 137.^
85 Ibidem.^
86 Ibidem.^
87 Ivi, p. 138.^
88 Ivi, p. 140.^
89 Oltre alla relazione di maggioranza sin qui analizzata, c’era anche una relazione individuale firmata da Corrado Gini il quale, sebbene abbracciasse la proposta corporativista, dissentiva su molte questioni specifiche relative alle proposte di funzionamento del sistema stesso. In modo particolare sosteneva che la rappresentanza organica era il presupposto rappresentativo di tutte le Camere alte, pertanto, a suo avviso, era il Senato, e non la Camera, a dover accogliere i rappresentanti delle categorie professionali. Cfr., Sulle riforme legislative proposte dalla Commissione dei XVIII. Proposta individuale, in ivi, pp. 191-198.^
90 Critica Fascista [Giuseppe Bottai], Per arginare una controrivoluzione, in «Critica Fascista», 15 maggio 1925.^
91 Cfr., B. Uva, op. cit., pp. 48-70 e F. Perfetti, op. cit., pp. 58-70.^
92 Sulle modifiche al regolamento della Camera, cfr., I. Scotti, Il Fascismo e la Camera dei deputati: I – La Costituente fascista (1922-1928), in «Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari», 1984, n. 1, pp. 127-133 e E. Gianfrancesco, Parlamento e regolamenti parlamentari in epoca fascista, in “Osservatoriosullefonti.it”, 2008, fasc. 2.^
93 Cfr. Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell’era fascista, Roma, 1933.^
94 Ivi, p. 202.^
95 Ivi., pp. 204-205.^
96 Cfr. supra, n. 89.^
97 Ivi, p. 208.^
98 Ivi, p. 209.^
99 Cfr., A. Aquarone, op. cit., pp. 75-82.^
100 S. Panunzio, La legislazione rivoluzionaria, in «La Gazzetta di Puglia», 11 dicembre 1925, poi in Id., Rivoluzione e Costituzione (Problemi costituzionali della rivoluzione), Milano, 1933, p. 39.^
101 F. Perfetti, La camera dei fasci e delle corporazioni, cit., pp. 97-98, cfr. anche R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., p. 316.^
102 Cit. in ivi, p. 321. Come osserva R. De Felice (ul. op. cit., p. 320n) il comunicato ufficiale relativo alla seduta del Gran Consiglio, stranamente non è pubblicato negli atti ufficiali del Gran Consiglio stesso, ma nell’opera omnia di Mussolini, oltre che essere conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato. Parte dello stesso documento anche in F. Perfetti, op. cit., pp. 99-100.^
103 Cit. in F. Perfetti, op. cit., p. 100.^
104 R. De Felice, op. cit., pp. 322-323.^
105 Cfr. Progetto di riforma corporativa della rappresentanza politica sottoposta al Gran Consiglio del novembre 1927 (VI), in ivi, doc. 6, pp. 548-553.^
106 R. De Felice, ul. op. cit., p. 321.^
107 F. Perfetti, op. cit., p. 99.^
108 Critica Fascista [G. Bottai], Il Parlamento della rivoluzione, in «Critica Fascista», 15. novembre 1927.^
109 R. De Felice, ul. op. cit,, p. 323.^
110 A. Rocco, Riforma della rappresentanza politica, in Scritti e discorsi politici, III, La formazione dello Stato fascista (1925-1934), Milano, Giuffrè, 1938, pp. 931-941.^
111 Cit. in A. Aquarone, op. cit., p. 154.^
112 A.P., Senato del Regno, Discussioni, XXVII legislatura, Sessione 1924-28, Tornata 12 maggio 1928, p. 1236.^
113 «Lo Stato è retto da un Governo monarchico rappresentativo».^
114 Ivi, pp. 10243-10244.^
115 Ivi, pp. 10246-10247.^
116 Ivi, pp. 10251-10253.^
117 Cfr., il testo della legge in A. Aquarone, op. cit., pp. 489-492.^
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