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Diritti e potere
di Francesco Paolo Casavola
Se l’antichità deve tornare ad essere interrogata su quanto ne abbiamo ereditato e di cui siamo diventati immemori, occorre ricordare che agli inizi del III secolo d.C. Ulpiano insegnava la derivazione etimologica di ius da iustitia, e quanto al significato della giustizia si giovava della definizione di Celso, uno dei maggiori giuristi del secolo precedente, che essa presentasse il diritto come «arte del bene e dell’equo» ars boni et equi. In tutti gli ordinamenti moderni fine del diritto è di produrre giustizia. Il luogo dove avviene questa traduzione del diritto in giustizia lo chiamiamo, almeno dovunque si sia svolta o propagata la civilizzazione occidentale, che dalla tradizione romana discende, Palazzo di Giustizia. Per misurare il valore che la giustizia ha raggiunto nella storia della civiltà dobbiamo ricorrere ad un aneddoto, raccontato dallo storico Dione Cassio, riguardante l’imperatore Traiano. Il racconto, ampliato da Giovanni Diacono nella sua vita di San Gregorio, diventa leggendario e tralaticio in testi letterari medievali e raccolto, ed eternato, nel Purgatorio di Dante. È probabile che il poeta abbia avuto tra le sue fonti il Novellino, data la specularità tra Nov. LXIX e Purg. X, 72-90. Traiano sta muovendo alla guerra alla testa della sua cavalleria, quando una povera vedova in lacrime ferma il cavallo e lo implora di renderle giustizia per il figlio che le hanno ucciso. Traiano promette di accontentarla quando sarà tornato dalla guerra, ma quella ribatte: «E se tu non torni?». «Ti renderà giustizia il mio successore», replica l’imperatore. Ma che la giustizia sia un debito del sovrano al suddito è chiarito nel seguito del dialogo. La donna dice che se anche le renderà giustizia il successore, Traiano le sarà debitore. Allora l’imperatore smonta da cavallo, rende giustizia e poi va a sconfiggere i nemici. Dante fa parlare così Traiano: «Or ti conforta; ch’ei convene/ ch’ì solva il mio dovere anzi ch’ì mova/ giustizia vuole e pietà mi ritene» (Purg. X, 91-93).
Quattro secoli dopo, san Gregorio Magno papa, conosciuta questa vicenda, prega Dio che faccia uscire Traiano dal limbo nell’inferno, ove dopo la morte era stato collocato perché pagano, e lo accolga in Paradiso, dove Dante lo incontrerà, avendo Dio infatti esaudita la supplica di San Gregorio. Tommaso d’Aquino lesse l’episodio in un sermone di Giovanni Damasceno e lo utilizzò nella Summa Theologiae (III, Suppl. 71, art. 5), per dimostrare che i suffragi della Chiesa giovano anche alle anime nell’inferno. Indugiamo quanto occorre su questa tradizione per intendere come nel mondo pagano si confrontino guerra e giustizia, perché si stabilisce il primato della giustizia sulla guerra, e nel mondo cristiano la giustizia resa dal sovrano è addirittura pegno della salvezza della sua anima. Se poi aggiungiamo la formula, divenuta proverbiale nel medioevo, auctor iuris homo, iustitiae Deus, l’uomo fa il diritto, ma solo Dio la giustizia, possiamo renderci conto dell’altezza cui era giunta l’idea di giustizia. Il primo attributo sacro della sovranità regale è la giustizia. Bonifacio VIII, che canonizzò Luigi IX di Francia, in uno dei sermoni di Orvieto, descrive il Re Santo sedente «quasi in permanenza su un tappeto per ascoltare le cause giudiziarie, soprattutto quelle dei poveri e degli orfani, e faceva rendere loro giustizia nel mondo più completo». E all’inizio della bolla di canonizzazione loda il Re «giudice giusto e ammirevole retributore». L’antichità precristiana aveva già costruito la giustizia come l’icona quotidiana e pacifica del potere, dai faraoni d’Egitto ai re d’Israele, agli imperatori romani. Questi ultimi introdussero nel loro tribunale, il consilium principis, i maggiori giuristi del loro tempo, sicché la giustizia del sovrano ebbe il consenso non solo dei sudditi, ma anche il consiglio della scienza giuridica. Ma a mano a mano che la statualità europea si allontana dall’orizzonte dei teologi e dei giuristi, si viene costituendo la coppia dialettica forza-giustizia su cui con realismo riflette Blaise Pascal: «La justice sans la force est impuissante: la force sans la justice est tyrannique […] il faut donc mettre ensemble la justice et la force; et pour cela faire que ce qui est juste soit fort, on ce qui est fort soit iuste […]. Et ainsi, ne pouvant faire que ce qui est juste fùt fort, on a fait que ce qui est fort soit juste» (Pensèes, pp. 298-303).
Qui ha origine il problema moderno della giustizia, della sua identificazione con la forza. Montesquieu nega che il sovrano, massimo detentore della forza, possa essere giudice, perché egli «è la parte che persegue gli imputati e li fa punire od assolvere: se giudicasse lui stesso, sarebbe il giudice e la parte» (Lo spirito delle leggi, 1, p. 277). Si inaugura così il paradosso per cui, perché appaia giusta la forza, giudice non sia il sovrano, giudice non sia la parte. Il potere giudiziario si separa dal potere esecutivo e da quello legislativo. Se fosse unito al primo, dice ancora Montesquieu «il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore»; se fosse unito al legislatore «il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore» (op. cit., 1, p. 310 e sg.). Il giudice deve invece essere inanimato, bouche de la loi, che ne pronuncia le parole, senza regolarne né la forza, né la severità. Con una tale concezione meccanica del giudice, Montesquieu non si avvede di stabilire una identità tra il dettato della legge e la pronuncia del giudice, togliendo al giudice la interpretazione della legge, che è il solo modo razionale di tradurre il diritto in giustizia. In verità si era prodotta una radicale discontinuità tra la giustizia carismatica del sovrano, fondata sulla sua personale intuizione del giusto e dell’ingiusto, e la giustizia impersonale del nuovo sovrano, la legge, affidata alla scienza giuridica del giudice. E tuttavia il passato continua a sopravvivere come mito.
Quando Bernardo Tanucci impose ai giudici napoletani di motivare le loro sentenze, il fine non era tanto quello di rendere possibile ai privati di sollevare gravame, quanto di consentire al re di vigilare sui suoi giudici. L’articolo 68 dello Statuto di Carlo Alberto del 1848, recitando «La giustizia emana dal Re», è ancora un segno della tenace conservazione del modello arcaico e poi premoderno, del sovrano giudice giusto, ormai ridotto a simbolo di fonte costituzionale della giustizia. La distinzione, se non proprio la separazione dei poteri, che caratterizza lo Stato di diritto dei nostri tempi, non deve farci dimenticare epoche per le quali era realistico il giudizio di esecrazione di Sant’Agostino; «Tolta di mezzo la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi ladrocini?». Gli antichi usavano comparare vicende politiche e assetti degli Stati. René David ha ragione di rammentare che Aristotele scrisse il trattato sulla Politica studiando 158 costituzioni di città greche e barbare. Se il potere si estranea dalla giustizia, quale che sia la costituzione dello Stato, ma soprattutto quando questo sia un regno e non una repubblica, esso si riduce alla brutalità predatoria di una banda di ladri. La polarità potere-giustizia rivela una tensione dialettica con esiti di tale criticità, proprio perché tra l’uno e l’altra non si dispongono diritti individuali allo stesso modo e con lo stesso valore ch’essi hanno assunto nell’esperienza della modernità.
La scienza giuridica pandettistica, soprattutto ad opera di Federico Carlo di Savigny, ha costruito con i materiali del corpus iuris giustinianeo un sistema di diritti, che vorrebbe rendere l’esperienza dei romani ancora utile alla vita giuridica europea del secolo diciannovesimo. Ma nel secolo successivo la storiografia romanistica, e con maggiore lucidità tra tutti Fritz Schulz, ha sottolineato la inesistenza nel mondo romano di una figura assimilabile a quella moderna del diritto soggettivo. I Romani hanno conosciuto poteri privati e azioni giudiziarie, non diritti. Esemplare a questo proposito la difficoltà incontrata da Vincenzo Arangio-Ruiz, la più chiara intelligenza della romanistica novecentesca, nel descrivere il passaggio concettuale dal diritto oggettivo a quello soggettivo quale risulterebbe dalla definizione di Silvio Perozzi «facoltà accordata dal diritto obiettivo ad uno di esigere una certa condotta di altri»; «la definizione va intesa nel senso che in certe ipotesi spetta ai singoli interessati il controllo sull’adempimento delle norme costituite in loro favore: in tali ipotesi, si può ben dire che l’attività normativa propria della comunità si trasferisce all’individuo, sicché la norma stessa, il diritto, da generale si fa individuale, da oggettivo si fa soggettivo» (A.-R., Istituzioni di diritto romano, 14ma ed., p. 18). Ma più avanti, trattando della diversità di diritto pubblico e privato, richiama la concezione moderna dei rapporti tra Stato e individuo «concezione inaccessibile al pensiero romano» (op. cit., p. 30).
In realtà i Romani avevano una idea del diritto individuale come di un potere politico su cose e persone proprie, conquistate, acquistate, ereditate, asservite, generate. Il contrasto tra questi piccoli sovrani poteva dar luogo a guerre tra gruppi familiari, gentilizi, tribali. Lo Stato dovette nascere per disarmare i privati, tradurre le loro liti in una recita (non per caso actio fu termine comune all’azione teatrale e a quella giudiziaria), e attribuire a sé, cioè al magistrato titolare del potere sovrano di imperium, la iurisdictio, che è la identificazione e pronunzia di quel ius, che significa nel suo valore primigenio la coesione della comunità, la pace interna, il buon ordine tra i capi delle famiglie, nella gestione dei loro poteri originari.
Ecco perché il diritto dei Romani è essenzialmente diritto privato, lo Stato intervenendo solo con la giurisdizione a far realizzare in forma pacifica le controversie tra poteri privati. La legiferazione popolare, senatoria, imperiale ebbe limitate occasioni di intervenire nella sfera dei privati, che fu il grande orizzonte della scienza dei giuristi, anch’essi cittadini privati, anche se nobili, o più tardi appartenenti all’ordine equestre e taluni assurti a vertici burocratici. Quando negli apparati concettuali dei giuristi entrò il termine persona, che indicava la maschera teatrale, con il significato traslato della figura umana colta nelle sue relazioni sociali, si poté costruire la dottrina degli status personarum, libertatis, civitatis, familiae, a seconda che si fosse liberi o schiavi, cittadini o stranieri, capi delle famiglie o loro sottoposti. Si era ben lontani dalla tipizzazione astratta del Rechtsubject, del soggetto di diritto, quale sarebbe stata teorizzata dalla scienza tedesca ed europea. La nascita dei diritti, quali possiamo intenderli oggi nella loro polarizzazione con il potere, ha avuto altra strada, che è quella delle libertà civili e politiche rivendicate contro il potere pubblico, per un primo tratto, e poi dei diritti umani proclamati dinanzi a tutti gli Stati del mondo, nella nostra età, che è stata chiamata suggestivamente da Norberto Bobbio, l’età dei diritti. Dalle carte costituzionali tardosettecentesche delle rivoluzioni liberali americana e francese hanno origine non i diritti dell’individuo umano, ma dell’uomo divenuto cittadino, transitato da un mitico stato di natura nella comunità politica, dove da suddito di un sovrano reclama lo statuto, appunto rivoluzionario, di cittadino di una Repubblica. Il nuovo sovrano non è più il monarca, ma la legge. E come il re assoluto nelle nazioni cristiane giustificava l’illimitato suo potere con la legittimazione gratia Dei, da cui discendeva il corollario ch’egli non poteva che volere il bene, così del legislatore, che lo aveva detronizzato, si disse non poté volere altro che il bene, e che dunque dovesse la legge essere obbedita «col cuore», e non per il timore della sanzione, come si esprimeva Rousseau, dando fondamenta alla sua religion civile. Nel XX secolo Carl Schmitt poté scrivere che la moderna dottrina dello Stato è costruita con concetti teologici secolarizzati. Ma la differenza tra i due sovrani, il re e la legge, è incolmabile. Nella tradizione occidentale, alla ricerca della consapevolezza di questa diversità, si può risalire di millenni, non di secoli. Un testo di sconcertante chiarezza di idee e di parole è il racconto di Livio sulla congiura dei Tarquini per rientrare a Roma, da cui erano stati espulsi, con l’instaurazione della Repubblica. I giovani congiurati si dolevano dell’eguaglianza della legge, preferendole il re, perché il re «è un uomo, da cui puoi ottenere di esercitare il tuo diritto o recare offesa ad altri, una grazia o un beneficio, un uomo che può irritarsi e perdonare, che distingue tra amico e nemico. La legge invece è una cosa, sorda e inesorabile, più buona e utile per il povero che per il potente; se appena tu pecchi di un eccesso, non ha indulgenza né perdono; ed è rischioso, tante sono nella vita le probabilità di errare, confidare solo nella propria innocenza» (Liv., II, III).
Già allora dunque la legge apparve in tutta la sua astratta potenzialità eguagliatrice. La formula delle carte costituzionali francesi «la loi c’est la meme pour tous», non ha vinto tuttavia le disuguaglianze di fatto, a cominciare da quella tra ricchi e poveri. Il diritto di proprietà, considerato ancora diritto sacro ben oltre l’ancien regime, ha fatto da paradigma al diritto individuale, declinato in una estensione che va dalla personalità alla libertà. Dei diritti del cittadino, la proprietà è il più tutelato. Lo Statuto Albertino dichiara all’articolo 29: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili». Salvo che negli Stati Uniti d’America, dove il primo articolo degli emendamenti alla costituzione federale del 1787 vieta al Congresso di legiferare in materia di stampa e di religione, la civiltà liberale in Europa ha sottoposto al controllo della legge i due fondamentali diritti di libertà, del pensiero e della sua manifestazione, della coscienza e della professione dei culti. E d’altra parte che cosa è accaduto allo Stato di diritto nel corso del XX secolo, se non declinare nella parabola dal liberalismo al totalitarismo? Non è forse questo un segno della fragilità di quei diritti sanciti da statuti, costituzioni e codici in testa a cittadini, che ideologie politiche apparentemente più avanzate e moderne potettero far regredire peggio che a sudditi, a vittime di discriminazioni, persecuzioni, deportazioni, annientamento fisico? Se i giuristi facessero la storia del diritto e della loro propria scienza con attenzione critica rivolta alla vita delle società e degli Stati, avremmo forse un più tempestivo avvertimento
delle tragedie che attendono il mondo. In Germania si poterono utilizzare detenuti politici e malati mentali come cavie da esperimento, in base a un biglietto inviato da Hitler a un medico. A che cosa era potuto giungere il Fuhrer’s Prinzip, teorizzato dai giuristi nazisti! L’ultima grande guerra civile tra i popoli europei, propagatasi al mondo intero, può tra le sue cause vedere disinnescata anche quella di diritti inermi di fronte al prepotere di un potere impazzito? Occorreva l’immane eccidio di cinquantadue milioni di esseri umani, tra cui i sei milioni di ebrei gassificati nella Shoah, occorreva che i cittadini morissero per mano delle loro patrie matrigne, perché i superstiti aprissero gli occhi sul fallimento dei droits de l’homme et du citoyen. Ecco perché, all’indomani della conclusione del conflitto, la commissione presieduta da Eleanor Roosevelt cominciò a redigere il testo di quella che con l’approvazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 sarebbe stata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo.
Non c’è alcuna parentela, malgrado la parziale assonanza tra i diritti degli human beings e les droits de l’homme et du citoyen del 1789. Non una rivoluzione interna ad un popolo e ad uno Stato volta a instaurare uno statuto di cittadinanza politica, ma una alleanza di nazioni legano nel 1948 un nuovo ordine mondiale «al riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali e inalienabili, fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Le istanze del personalismo cristiano entrano nella Dichiarazione Universale. Il francese René Cassin e il libanese, non cattolico, Charles Malik, due tra i più autorevoli membri della Commissione Roosevelt, erano amici di Jacques Maritain. Il figlio di Malik ha confidato direttamente a Mary Ann Glendon che suo padre aveva appreso le idee sulla dimensione sociale della persona e sull’importanza delle strutture di mediazione dalla enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 e dalla Quadragesimo anno di Pio XI del 1931. E d’altro canto, in reciprocità, la Dichiarazione doveva avere uno straordinario ascolto nella Pacem in terris di Giovanni XXIII e nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II; si può anzi dire che grammatica e sintassi dei diritti umani attraversano gli atti del Concilio Vaticano II. La Dichiarazione ispira molte carte costituzionali nazionali, che si usa distinguere come carte della dignità proprie del XX secolo, dalle carte della libertà del XIX. Pressoché coeva della Dichiarazione il Grundgesetz della Germania Federale del 1949, che si apre con il comma 1 dell’articolo 1: «La dignità umana è intangibile». Ma per quegli Stati che pur membri delle Nazioni Unite non appartengono all’area raggiunta dalla civilizzazione occidentale e dai suoi regimi di Stato sociale di diritto, democratico e pluralista, quale è la valenza effettiva dei diritti umani? Dobbiamo avere fiducia in processi evolutivi di una cultura universale dei diritti, in grado di innovare, quando non rovesciare tradizioni sociali e religiose, accompagnando o determinando mutamenti in senso democratico degli assetti del potere. Certo recenti immagini color arancione dei monaci buddisti caricati dalla polizia si aggiungono a quelle più remote dei carri armati cinesi della Piazza Tien –an –men contro giovani studenti, e si tratta di manifestazioni eclatanti. Nel tragico quotidiano si allineano le lapidazioni delle adultere, la pena di morte, la subalternità delle
donne, le persecuzioni religiose, popolazioni abbandonate alla fame, alla sete, alle malattie, alla ignoranza. Dove sono i diritti umani? Ma anche nei nostri paesi pervasi dallo spirito della Dichiarazione, i diritti umani più avanzati e sofisticati trovano adeguata promozione e tutela? Innanzi tutto i diritti sono riconosciuti nelle costituzioni nazionali e la Dichiarazione non è una costituzione. Essa si è dovuta versare nel 1976 nei due Patti internazionali, sui diritti economici, sociali e culturali, e sui diritti civili e politici. Per un ulteriore passo in avanti occorrerebbe una costituzionalizzazione dei diritti umani oltre e al di sopra delle costituzioni nazionali, come per i cittadini europei sarebbe dovuta essere la Carta di Nizza del 2000, che ha vissuto una vita effimera come parte del Trattato recante una costituzione per l’Europa del 2004, bocciata dal referendum dei francesi e olandesi. Questo effetto non si è raggiunto nel successivo Trattato di Lisbona. I diritti umani non sono del resto esauribili nell’elenco della Dichiarazione del 1948, perché essi si rivelano con la crescita civile delle società nelle varie aree del mondo. E dunque clausole costituzionali, come ad esempio quella dell’articolo 2 della Costituzione Italiana, aperte ad una interpretazione evolutiva, possono tenere il passo con l’esigenza rivendicativa di nuovi diritti.
Per fare qualche esempio nell’ordinamento italiano, solo sentenze della Corte Costituzionale hanno ricondotto all’articolo 2 della Costituzione i diritti all’immagine, al nome, alla riservatezza, all’onore e alla reputazione, all’identità personale, al mutamento di sesso, al diritto di fondare una famiglia e di procreare, alla libertà di informazione, al diritto di ratifica, al diritto all’abitazione del convivente more uxorio del locatario defunto, al diritto alla salubrità dell’ambiente, alla libertà sessuale, all’autodeterminazione, alla privacy, alla frequenza scolastica del disabile, all’espatrio, al diritto di figli incestuosi al riconoscimento giudiziale della paternità e della maternità.
Ma se i diritti della Dichiarazione erano originati dalla necessità di una resistenza universale al dominio di un potere politico dimentico della dignità umana, un’altra resistenza si andava sviluppando contro il dominio della tecnica sul corpo dell’uomo. I progressi della biomedicina sono occasione non solo di speranze ma anche di paura. Si comincia a temere che l’interesse del malato possa essere subordinato a quello della società o della scienza. La selezione degli embrioni umani potrebbe dar vita a pratiche eugenetiche di massa, che altererebbero l’uguaglianza e la disuguaglianza naturale tra gli uomini. La possibilità di eliminare embrioni che porterebbero alla nascita di individui malati induce la rivendicazione di un diritto a nascere sani o a non nascere. La possibilità che un malato terminale sia tenuto tecnologicamente in una condizione di vita non accettata apre la via ad un diritto a morire, e dunque ad una richiesta di eutanasia. L’esistenza biologica dell’essere umano oscilla tra la persona e la cosa, tra la dignità e l’utilità. La stessa concettualizzazione della dignità è ambigua. Il malato che reputi non degna di essere vissuta la vita che gli è data, ha il diritto di rifiutarla, in nome della dignità della persona umana? ’espianto e trapianto di organi e tessuti, da cadavere o da vivente, si è certi che non dia luogo a pratiche di commercializzazione del corpo? La libertà della scienza è un diritto inviolabile, quali che siano i giudizi etici sui suoi metodi e fini? Ogni innovazione nel dominio della tecnica pone in discussione diritti umani. È giocoforza riconoscere che la tecnica si muove nell’alveo dei fenomeni di globalizzazione più rapidamente e agevolmente del potere politico. Le tecnoscienze governano risorse planetarie non perimetrabili da frontiere politiche. Esse tendono a perseguire finalità pratiche ed utili, non valori morali. Se il potere non avrà la forza di anteporre loro i diritti, anche l’età dei diritti, in cui ancora confidiamo, avrà chiusa la sua epoché. E, scomparsi i diritti, tornare all’antica giustizia amministrata dai sovrani giudici giusti o addirittura santi, potrebbe essere una pia illusione. Sarà più probabile che l’ordine tra gli uomini verrà garantito da macchine intelligenti, cui forse daranno il nome di robot di giustizia.


* Testo letto in occasione del Convegno dell’UNESCO a Palermo il 20 novembre 2008.
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