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Gissing e Napoli
di Vincenzo Pepe
Diversamente dai tantissimi viaggiatori i quali, toccando con puntualità liturgica le tappe del Grand Tour, si spingevano nelle nostre contrade a volte solo per mera curiosità, o vanità, o per acquisire l’esperienza necessaria a perfezionare il loro status di gentlemen, Gissing vi fu attratto perché sollecitato da un bisogno profondo, quasi richiamo ancestrale. Se si riflette sul trasporto con cui nelle prime pagine di By the Ionian Sea (1903) pregusta il piacere di «dissetarsi alle acque delle due fontane che si mischiano e scorrono insieme nella Magna Graecia», non sarà difficile riconoscere in questo bisogno un epigono tardo-vittoriano della stessa quest romantica che prima di lui aveva agitato il desiderio di Keats di «dissetarsi a una coppa ripiena del caldo sud».
Proprio come in Keats, nel “bisogno di sud” di Gissing si sintetizzavano due componenti. La prima, di carattere fisico: era indispensabilità di sole luce e calore in chi, ammalato di consunzione, sentiva nella tetraggine del clima inglese una minaccia quotidiana alle proprie condizioni di salute. La seconda componente di gran lunga più importante, era di carattere ideale, e scaturiva dall’amore per la classicità. Era un amore che, nato come gusto per lo studio del latino e del greco, non poteva non essere accompagnato e anzi alimentato da un forte vagheggiare quei luoghi e quei posti che delle due grandi civiltà classiche erano stati il teatro. E così, proprio come era successo a Goethe, anche in Gissing quell’amore per il latino e greco si era legato inscindibilmente a «un desiderio d’Italia così urgente, che gli bastava anche solo guardare un libro di latino per sentirsene torturato». Fu un amore intenso, e di natura così pervasiva da lasciare tracce cospicue in tutta la sua opera narrativa. Si pensi, per fare solo qualche esempio, all’abitudine di Reardon, protagonista del romanzo New Grub Street, di leggere l’Odissea durante le pause del suo lavoro di scrittore; o di commentare con l’amico Biffen gli effetti ritmici e musicali di versi delle tragedie greche. Oppure si pensi alla splendida novella Hester ‘pié veloce’ modellata su una delle storie celebrate da Ovidio nelle Metamorfosi. Ma l’idea più eloquente dell’esclusività di questo amore, e degli effetti palingenetici che esso opera sull’uomo e sullo scrittore Gissing, è affidata proprio al citato By the Ionian Sea nel quale, quasi a mo’ di preambolo, viene ribadito che:

Ognuno ha il suo desiderio intellettuale;
il mio è quello
di fuggire alla vita quale la conosco io e
sognarmi in quel
vecchio mondo che fu la gioia immaginativa
della mia
fanciullezza. I nomi della Grecia e dell’Italia
mi attirano
come nessun altro; mi ringiovaniscono e
mi restituiscono
le vivide impressioni del tempo in cui
ogni nuova pagina
di greco e di latino era una nuova percezione
di cose belle.


Nell’accesa immaginazione dello scrittore il Sud si colora di valenze mitiche, fino a diventare l’ombelico del mondo. «Per lui – come nota il suo biografo e amico Morley Roberts - il Sud fu sempre la Mecca, il Kiblah dell’universo».
In questa geografia dell’anima, a occupare un posto di rilievo, se non il posto di rilievo, fu Napoli e tutto il circondario, da Pozzuoli a Pompei, da Salerno ad Amalfi. Vedremo in seguito come si configura in particolare questo interesse per la città partenopea; per ora basti dire più in generale che anche il soggiorno a Napoli rivestiva per Gissing quasi un carattere di necessità metafisica: «Gli capitò di sentire qualcuno parlare di Napoli – fa dire al suo alter ego Henry Ryecroft – e solo la morte avrebbe potuto trattenerlo». Ed è forse proprio per questo che sempre Morley Roberts arriva a dire del suo biografato «che in qualche precedente incarnazione… doveva essere stato uno scrittore di quel Sud amava tanto». Da questo punto di vista la gissingiana “passione per il Sud” è in linea con l’atteggiamento rilevato dal Pemble in molti viaggiatori suoi connazionali come l’Arnold o il Lear i quali, arrivati in Italia, avevano la sensazione di esservi già stati, e di vivere un déjà vu.
Ma come si configurò il rapporto di Gissing con Napoli, e, soprattutto, quali furono in particolare gli effetti che il soggiorno in questa città operò sulla sensibilità dello scrittore?1
Per rispondere a queste domande dobbiamo partire da un’annotazione del suo diario registrata in data 19 ottobre 1888, la quale, per essere in sintonia con il suo su citato «desiderio intellettuale…di fuggire dalla vita quale la conosco io», potrebbe essere assunta come termine a quo di una nuova fase nella ideologia letteraria dello scrittore, e, per conseguenza, nella sua produzione narrativa. In questa registrazione del diario, difatti, Gissing dichiara di avvertire «per il momento, un profondo disprezzo per tutto quello che concerne la vita della gente». Non si tratta, beninteso, di un cedimento nella sua carica di solidarietà e simpatia umana, la quale in tutti i suoi romanzi, da Workers in the Dawn all’allora appena concluso The Nether World, gli ha fatto volgere attenzione pressoché costante ai problemi e alle difficoltà degli strati più umili della società inglese.
A venir meno in questo momento è piuttosto il morale, minato in parte dalle non buone condizioni di salute, sulle quali non poco hanno inciso le «fearful difficulties» incontrate nella composizione proprio di The Nether World. In parte, ancora, sul suo crollo psicologico hanno pesato le ricorrenti crisi depressive che nell’annotazione del 3 giugno precedente gli fanno confessare che l’idea della morte vicina non gli dà più tregua, e anzi “colora” ormai ogni suo pensiero quotidiano. A queste componenti esitenziali si aggiunge poi uno scetticismo che investe la dimensione dell’ideologia letteraria, e che, connotandosi come calo di interesse per la rappresentazione degli ambienti e personaggi che finora hanno quasi esclusivamente trovato cittadinanza letteraria nei suoi romanzi, prelude all’abbandono del modulo realistico. Quando difatti, grazie ai proventi di The Nether World, può finalmente attraversare la Manica per intraprendere il tanto vagheggiato suo primo viaggio in Italia, egli annota compiaciuto nel diario di essere «diventato un poeta puro e semplice, o sarebbe meglio dire, uno studente idealista di arte».
Questa intenzione sarà meglio compresa se si considera che gli aggettivi con i quali egli connota la sua nuova identità estetica, sono gli stessi con i quali designa invece la realtà dalla quale prende polemicamente le distanze. Perché “puro e semplice”, è anche “l’artigiano, il meccanico” Plitt, il compagno di viaggio che si ritrova, e che con la sua volgarità e rozzezza gli rovinerà, lui teme, la gioia della “sua Italia”.
Il proposito di sottrarsi alla brutalità della “realtà meccanica”, sembra trovare rispondenza immediata al suo arrivo nel porto di Napoli, il 30 ottobre del 1888. La confusione assordante, l’incomprensibilità della lingua e dei modelli di comportamento, e, soprattutto, la bellezza ineffabile dello scenario naturale che fa da sfondo alla concitazione di quello umano: tutto sembra sollecitare in lui l’assunzione di una sensibilità che definiremmo vichianamente “dispiegata”, dove udito, vista, olfatto, intervengono, singolarmente e congiuntamente, a far fronte alla miriade incessante di sensazioni e percezioni che fanno ressa alla soglia della sua coscienza, reclamando di essere accolte, filtrate, godute. Significativa, in tal senso, ci sembra l’annotazione relativa alle operazioni di sbarco. Nel bailamme di barcaioli urlanti che si contendono i clienti da trasportare agli alberghi, e di viaggiatori vocianti che si accalcano verso l’ufficio della dogana, lo scrittore è intento al “non facile compito” di sorvegliare il suo bagaglio; ma la bellezza del primo dipinto naturale che gli si presenta all’improvviso ha la meglio su di lui, e lo distrae dall’incombenza pratica: gli fa distogliere gli occhi dalle valigie, e glieli indirizza alle vele «rosseggianti per l’effetto della luce del sole al tramonto» contro la sfondo della sagoma del Vesuvio «di cui non ha mai visto niente di più glorioso».
Nell’emozione di Gissing di fronte allo spettacolo delle bellezze naturali, però, non c’è solo una componente estetica. Il Vesuvio, per esempio, non è mai visto come un elemento decorativo. Più che come entità fisica esso viene percepito come essenza magico-religiosa, quasi presenza protettiva ancorché inquietante nel suo orizzonte.
«Il Vesuvio è di fronte alla mia finestra mentre scrivo; il fumo si leva splendidamente colorato dal primo sole», scrive al fratello Algernon già all’indomani del suo arrivo a Napoli, dalla sua pensione in Vico Brancaccio. Alle quali parole fa eco la seguente annotazione del diario di qualche giorno
dopo: «Ieri sera la mia prima vista del fuoco del Vesuvio…come un segnale rosso ammiccante, piccolissimo, con il riflesso sul fumo». Ecco, dopo ancora qualche giorno, come la montagna gli si presenta in una scena di crepuscolo: «Bellissimo tramonto. Il Vesuvio incoronato da enormi nubi di un colore sfolgorante. Dieci minuti dopo il tramonto, la cima era chiara, e sotto di essa
si intrecciava una grigia nebbia spettrale». Ed ecco, infine, lo scenario ammirato nel pomeriggio del 10 novembre:

Nel pomeriggio una stupenda vista del Vesuvio e di tutta la costiera sorrentina. Il vento dell’Est sembrava aver schiarito l’aria in quella direzione; le montagne erano indescrivibilmente vicine, tanto da sembrare molto più piccole del solito. Il Somma, con la sua cresta frastagliata era di colore rosso bruno fino alla cima. Il Vesuvio aveva il cono nero. Ma più strano di tutto era il modo in cui il vento soffiava via il fumo: lo adagiava tutto sul crinale della montagna fino a Torre del Greco, di colore bianco nitido, quasi come un gran treno di neve, che solo a valle si sfaldava in nebbia fluttuante.

Ma, come accennavamo, non è solo il fascino prorompente dello scenario naturale ad allertare i sensi di Gissing, perché anche la bellezza di quello umano pretende che la vista non violi i diritti dell’udito, e questo quelli della vista o dell’olfatto. È il caso, per esempio, di alcune descrizioni del paesaggio urbano napoletano che lo scrittore affida alla corrispondenza privata. La prima, contenuta in una lettera alla sorella Ellen del 9 novembre, dimostra chiaramente che mentre la retina è intenta a catturare la policromia delle case, l’orecchio non si lascia sfuggire il simpatico anche se assordante sottofondo:

I colori delle case: ci sono quelle in cui prevale il bianco, in altre il color salmone e bianco luminoso. Ovunque tetti piatti, convertiti in giardino. Intorno alle porte c’è spesso un bordo di colore blu intenso…Ovunque c’è abbondanza di frutta…uva bianca…fichi… limoni… pomodori…arance che stanno maturando. Il ragliare degli asini colpisce sempre gli orecchi.

Nella seconda, contenuta in una lettera all’amico Bertz della stessa data, è la percezione acustica che dà il là alla veloce panoramica su una tipica scena di una strada napoletana:

Il frastuono terrificante è ovunque. Il vero Napoletano coglie qualsiasi occasione per far chiasso o gridare. La quantità di merce che si vende e si acquista lungo le strade è sbalorditiva: l’abbondanza di frutta, il gran numero di asini e il loro orribile ragliare; il bagliore della elaborata bardatura dei cavalli, e il modo come vengono trattati gli animali, il gran numero di barbieri.

Nelle annotazioni del diario alle date del 3 e del 6 novembre, invece, è una percezione olfattiva che fissa sulla pagina l’atmosfera autunnale napoletana, perché vi si fa riferimento, rispettivamente, all’esiguità del numero di strade «dove non aleggi il profumo delle caldarroste», e nella seconda all’odore dei «resti dell’uva pigiata tolti dal torchio», i quali, caricati in gran quantità su un carro fanno il giro per le strade della città. Ma non è solo il paesaggio della
metropoli a potenziare la percettività dello scrittore, perché anzi le più suggestive sinestesie si registrano proprio nel circondario napoletano. Ecco,
per esempio, l’annotazione del 3 novembre relativa a una visita fugace a Pozzuoli:

Splendida cittadina Pozzuoli, riccamente italiana, piena di colore. Ne ricordo la piccola piazza con la fontana e due statue. Incantevole il porticciolo dove mi sono seduto a fumare la pipa, mentre con lo sguardo seguivo le navi fin verso Baia. Intanto si sentiva il suono di uno dei languidi pianini italiani. Mi sono sentito felice, più che felice.

E si vedano, ancora, le annotazioni relative alla visita a Paestum. Dal centro del tempio di Nettuno lo scenario è «squisito», perché gli occhi spaziano da un’estremità all’altra delle file di colonne doriche, a cogliere «da una parte una sottilissima striscia di mare azzurrissimo, … dall’altra una splendida vallata che si eleva verso le montagne». Ma proprio mentre la vista è intenta a districare le matasse di “ineffabili” colori del tramonto, gli arrivano le note di un canto “peculiare”, quale, dirà in altra circostanza, solo al Sud ha sentito: un canto che sa di lamento, di struggente malinconia.
La sinestesia viene wordsworthianamente tesaurizzata, perché l’emozione ad essa associata sarà rivissuta, anni dopo, dal suo alter ego Henry Ryecroft nel contesto della campagna inglese. Ecco come la memoria la riattiva:

Passeggiavo nei vicoli, quando da qualche parte in lontananza risuonò la voce di un campagnolo. Strano a dirsi, cantava. Le note erano indistinte, ma arrivavano al mio orecchio con la tristezza musicale di un momento, e all’improvviso il mio cuore fu colpito da un ricordo così vivido che non sapevo se fosse gioia o dolore. Perché la melodia mi sembrava quella del canto di un contadino che sentii una volta mentre ero seduto tra le rovine di Paestum. Lo scenario inglese si dissolse davanti ai miei occhi. Vedevo grandiose colonne doriche di travertino del colore dorato del miele; tra di esse, mentre guardavo da una parte, una profonda striscia di mare; quando mi girai, le vette dell’Appennino. E tutta intorno al tempio dove sedevo in solitudine, una landa morta e immota se non fosse stato per quella lunga nota di lamentosa melodia.

Abbiamo riportato il brano per intero perché esso ci permette non solo di cogliere quella che da ora in poi e fino alla sua morte sarà una costante nella vita di Gissing; ma anche di esplicitare qualche altro corollario della nuova estetica che lo scrittore abbracciava, lo abbiamo visto, nel momento di varcare la Manica. Più volte nel corso del suo diario, difatti, quel canto lamentoso, o il languido suono dei pianini, saranno associati a Napoli; si identificheranno, anzi, con essa, al punto che basterà ricordare gli uni perché sia immancabilmente evocata l’altra. Il canto del contadino, o il suono del pianino, diventano i catalizzatori di una regressione allo stato primordiale, puro e innocente, della sua coscienza, nel quale solamente è possibile riconquistare la «gioia immaginativa della sua fanciullezza». Si comprende allora perché, come ci riferisce il suo biografo e amico Morley Roberts, per lui la musica di Napoli arrivava alle altezze di «un coro greco». È che come un coro greco, quella musica e quel lamento arcaico attingono l’altezza e la purezza dell’idea. Non a caso il sentimento associato al ricordo del canto del contadino di Paestum è indistinto, una sintesi di opposti, gioia e dolore, un assoluto. E non a caso la realtà evocata da quel ricordo annulla ogni particolarità culturale o geografica: lo «scenario inglese si dissolse davanti ai miei occhi». Possiamo tentare allora le prime conclusioni.
Il viaggio al Sud, e segnatamente a Napoli, forse più della sua stessa attività di scrittore, ha reso possibile a Gissing realizzare quella che è la massima aspirazione di ogni vero artista: la contemplazione della bellezza assoluta. Il concetto è espresso in un brano di New Grub Street, il romanzo che analizza proprio il problema complesso del ruolo dell’artista nella società vittoriana. «I migliori momenti della vita», dice difatti il protagonista, «sono quelli nei quali contempliamo la bellezza con spirito puramente artistico: oggettivamente. Questi momenti li ho vissuti in Grecia e in Italia; momenti nei quali ero uno spirito libero».
Viaggio al Sud come percorso estetico di purificazione e liberazione, dunque. Anche se il percorso si inizia, lo abbiamo visto, con i sensi e nei sensi, la contemplazione estetica per Gissing mira come meta finale a liberare dai sensi e dai pregiudizi. Per questo motivo abbiamo all’inizio di trattazione definito palingenetico l’effetto che l’amore per la cultura classica e per il Sud hanno sulla sensibilità di Gissing. In una lettera a Margaret del 17 dicembre il Nostro rimpiange di non essere venuto prima in Italia, perché secondo lui l’esperienza è indispensabile per “ricominciare”, per riorientare da capo la propria visione del mondo. Non a caso, tornato in Inghilterra si buttò a capofitto nella composizione di The Emancipated, il romanzo che ricostruisce le tappe attraverso le quali una «puritana» inglese si «emancipa» appunto, e, prendendo gradualmente coscienza dei propri condizionamenti psicologici e pregiudizi culturali e religiosi, si dona fiduciosa e gioiosa alla vita e all’amore. Ma non è un caso che il processo di “emancipazione” di questa puritana cominci e si esplichi a Napoli. Anzi questa città, con la bellezza dei suoi paesaggi naturali, e la semplicità e la spontaneità dei modelli di comportamento della sua gente favorisce e alimenta la bildung della protagonista. Significativamente, nel romanzo i personaggi ripercorrono tutte le tappe che hanno scandito il primo rapito, entusiastico, soggiorno napoletano del loro autore. Pompei, il Vesuvio, Amalfi, Pozzuoli lasciano le pagine del taccuino di viaggio per entrare in quelle del romanzo, a crearvi vita e senso, a dialettizzare vicende sentimenti, emozioni, pulsioni. Ecco, per esempio, l’effetto che lo scenario di Capri, visto da Napoli, ha sulla protagonista di cui si è detto:

Andò alla finestra e guardò in direzione di Capri. Una leggera nebbia ne attenuava i contorni questa mattina; sembrava lontana, ai fiochi confini del mare e del cielo. Da parecchio avvertiva il fascino seducente di quell’isola sempre davanti ai suoi occhi, eppure nient’altro che un’azzurra forma montuosa. Di recenteaveva letto qualcosa su di essa, e la sua immaginazione, nuova a questo tipo di fantasticherie, era tutta presa dalla misteriosa paura della sua storia antica, dalla grandiosità delle sue scogliere, dalla bellezza delle sue verdi vallate, e dalla meraviglia delle sue grotte marine. La sua fanciullezza non aveva saputo niente di regno delle fate, ed ora in questo tardo risveglio della parte immaginativa della sua natura, pensava a volte a Capri proprio come un bambino è abituato a pensare ai paesi fatati, senza nome, senza luogo nei libri di favole.

Ed ecco uno scenario composto, che abbraccia insieme Napoli e Capri:

Dal giardino dell’albergo si apriva una nitida vista verso Napoli, che si stendeva come un lunga scia di luci oltre la superficie di azzurro intenso. La costa si stagliava chiara; contro il cielo lontano ammiccava a intermittenza il fuoco del Vesuvio. Sugli alberi del giardino splendono bianchi dirupi, incorporei, sovrannaturali nella luce lunare. Non si sentiva rumore, eppure a porger attento l’orecchio, l’aria si rivelava ricca di musica marina. Era la notte di Omero, l’incanto-isola dell’Odissea.

Ma forse proprio il fatto che si fosse riversata nella faticosa stesura del romanzo, fece sì che questa visione mitica di Napoli stemperasse tutta la sua carica affabulatoria, e favorisse, per converso, una lettura più smaliziata della realtà. Proprio grazie ai proventi di The Emancipated, difatti, e forse con l’intento di riassaporare il gusto e il piacere interrotto dal rimpatrio, Gissing ritornò subito in Italia. Questa volta a Napoli egli soggiornò per un periodo anche più lungo rispetto al precedente, e ne studiò più a fondo la storia, la cultura, e perfino la lingua e le canzoni. Ma in nessuna parte dei suoi appunti di viaggio relativi a questo secondo soggiorno è dato trovare il tono rapito e ammirato che invece in continuazione accompagna e sostiene l’osservazione e le descrizioni durante il primo viaggio. Sono passati solo pochi mesi da quando ha lasciato la città, eppure ha l’impressione di una Napoli completamente diversa, dove tutte le cose belle da lui ammirate e godute nel primo soggiorno gli sembrano sparite. Le strade gli appaiono meno chiassose, e meno caotiche, ma non si sente più la languida musica dei pianini che tanto gli piaceva, e l’apparato urbano gli sembra deturpato dalle pure utili trasformazioni che si stanno apportando con il Risanamento.
Il fatto però che si fosse stemperata, non significa che la carica affabulatoria del mito di Napoli e del Sud in particolare si fosse esaurita. Perché anzi i lunghi anni che tennero lontano il Nostro dall’Italia prima che vi ritornasse per la terza e ultima volta, servirono a dare rinnovato impulso ai sogni della «terra fatata», e al desiderio di «dissetarsi alle fonti della Magna Graecia». L’8 novembre 1897 ritornò in Italia, difatti, e si fermò ancora a Napoli, anche se solo il tempo per salutare qualche persona, e per dettare il testamento al consolato britannico. Parecchi avevano tentato di dissuaderlo a spingersi in Calabria rappresentandogli gravi rischi per la salute e perfino per la sua incolumità fisica. Ma il sogno e il desiderio erano più forti di qualsiasi deterrente, e così il 16 successivo si imbarcò alla volta di Paola, per avventurarsi sulle «rive dello Ionio», e per smarrirsi «nel silenzio del mondo antico, dimentico dell’oggi e di tutto il suo clangore».


NOTA

1 Gissing fu a Napoli tutte e tre le volte che venne in Italia. Il primo soggiorno, che fu forse quello fondamentale dal punto di vista dell’impatto che la città ebbe sulla sua sensibilità, durò quasi un mese (30 ottobre-28 novembre 1888); il secondo durò quasi il doppio del primo (19 dicembre 1889- 20 febbraio del 1890); il terzo solo pochi giorni (9-16 novembre 1897).^
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