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L'altra Europa: (quasi) trent'anni dopo*
di Giuseppe Galasso
Non si può dire che siano mancate o non siano state molte o particolarmente rilevanti nei quasi trent’anni trascorsi dalla prima edizione de L’altra Europa nel 1982 le novità nella discussione sui caratteri e sulle particolarità del Mezzogiorno dal punto di vista antropologico-culturale. Se, tuttavia, si fa il confronto con il trentennio, più o meno 1945-1975, successivo alla seconda guerra mondiale, oppure con il trentennio 1885-1915, anteriore alla prima guerra mondiale, che di novità rilevanti, e, in gran parte, fondative, anche su questo piano furono prodighi, la differenza appare subito cospicua1. Analogamente, il vigore della riflessione “meridionalistica” di quel trentennio 1885-1915 e, forse ancor più, dell’altro trentennio 1945-1975 non è stata poi uguagliata negli anni fra il XX e il XXI secolo, ma, certo, neppure in tale ultimo periodo sono mancati episodi importanti e idee nuove sul piano, classico e consolidato, del “meridionalismo” e della “politica per il Mezzogiorno”, che del meridionalismo è la principale finalità2.
Nel ripercorrere qui alcuni aspetti della discussione sul Mezzogiorno dal punto di vista antropologico-culturale nel trentennio seguito alla pubblicazione, nel 1982, de L’altra Europa, coglieremo, peraltro, questa occasione per trattenerci anche sugli antecedenti di alcuni più fondamentali aspetti dei problemi discussi in questo libro quali si erano via delineati, già dalla prima grande fase dopo l’unificazione italiana, negli studi sul Mezzogiorno. Si tratta, dal nostro punto di vista, di poter portare in luce, così, varie componenti del più generale pensiero metodologico e critico sulla cui falsariga L’altra Europa fu pensata e organizzata: una falsariga che metterà in ancora maggiore luce il fondamento storicistico di queste pagine (uno storicismo non di “scuola”, né confessionale), senza venir meno – crediamo (e speriamo!) – alla specificità della considerazione antropologico-culturale e alle sue esigenze di metodo e di merito.


La “categoria” Mezzogiorno

Un episodio di rilievo, sul quale conviene soffermarsi subito, è stato costituito, già negli ultimi anni del secolo XX, dalla negazione di una effettiva realtà e consistenza – sul piano storico – dell’oggetto (per così dire) “Mezzogiorno”, e, in primo luogo, di un Mezzogiorno unitariamente visto e considerato. Si aveva torto, nell’ottica di questa negazione, a considerare questa parte d’Italia come caratterizzata da un insieme di elementi che ne facevano una unità storica a sé nel contesto mediterraneo, italiano, europeo. Esso era uno dei tanti “pezzi di mondo” che appaiono sulla scena della storia, e che come ogni altro, qualsiasi “pezzo di mondo” va studiato; e, ben lontano da ogni intrinseca unità, era da considerare in quella che veniva ritenuta la reale, varia ed eterogenea molteplicità delle sue componenti storico-territoriali. La rappresentazione unitaria del Mezzogiorno era un prodotto artificioso e artificiale del “meridionalismo”, e non bisognava, quindi, continuare «a scambiare per un fenomeno reale la rappresentazione unitaria del Sud elaborata dal meridionalismo» o, ancor più, dalla sua «vulgata». Alcuni facevano addirittura risalire questa “invenzione” a prima della unificazione italiana, per iniziativa dei “patrioti” meridionali esuli dal Mezzogiorno, che volevano accreditare in tal modo la loro lotta al regime borbonico del Mezzogiorno di allora, dipinto come un blocco di arretratezza economica, sociale e civile e di oppressione politica.
Accettare che qualsiasi “pezzo di mondo” possa essere studiato come ciascun altro “pezzo di mondo” è, invero, piuttosto difficile. Significherebbe, infatti, tenersi al di fuori degli specifici contesti in cui ciascun “pezzo” vive e che ad esso sono propri, e, ancor più, al di fuori della singola e intrinseca specificità per cui, anche all’interno del proprio contesto, ciascun “pezzo di mondo” è se stesso ed è inconfondibile con qualsiasi altro. E, quanto alle varie e, certamente, radicate differenziazioni interne del Mezzogiorno, sia gli studi storici che le elaborazioni del meridionalismo non hanno fatto altro che rappresentarle e metterle in evidenza come un elemento imprescindibile nella considerazione della realtà meridionale. Sarebbe, comunque, superfluo tornare su questi mal posti e mal formulati punti di discussione, potendosi ritenere che vadano dati per scontati. La domanda da farsi è, piuttosto, se “la rappresentazione unitaria del Sud” si riduca davvero e soltanto a una invenzione o a un assunto ideologico o se essa non sia che la trasposizione storiografica e critica di una effettiva realtà storica e strutturale3. Domanda che – si aggiunga – ha un particolare valore anche dal punto di vista della considerazione antropologico-culturale.
Ancora una volta si tratta, però, di una domanda che, sia per il merito sia per il metodo, non trova alcuna rispondenza o alimento nella prassi degli studi e, ancor più, nella relativa riflessione tematica e problematica. A prescindere da ogni altro elemento che al riguardo si possa addurre, sta il fatto che il Mezzogiorno continentale è addirittura vissuto come unitaria entità statale per otto secoli, da Roberto il Guiscardo a Ferdinando II di Borbone (e in due secoli e mezzo di questi otto l’unità monarchica del Mezzogiorno ha compreso, con la parte continentale, anche la Sicilia, e in almeno altri tre ha visto l’isola e il continente sotto gli stessi sovrani). Realtà puramente istituzionale, che non suppone necessariamente comunanza di vita e di esperienze sociali e culturali? Si può crederlo, volendo. Al prezzo, però, di obliterare un dato storico macroscopico e presente innanzitutto alla coscienza di coloro che nei secoli ne fecero l’esperienza, e di tali esperienze diedero costante testimonianza di consapevolezza, di identificazione, di soggettiva ed esplicita professione di appartenenza civile e culturale. Al prezzo, inoltre, di rinunciare a percepire e cogliere i riflessi non meno macroscopici che quel dato storico ha proiettato con tutta evidenza – e, ancora una volta, con piena ed espressa consapevolezza dei protagonisti che nei secoli ne vissero l’esperienza – sulla realtà profonda e più autentica del paese meridionale. Al prezzo, ancora, di trascurare l’imponente letteratura che per alcuni secoli ha percepito – negli studi, nei viaggi, nei soggiorni brevi o lunghi o addirittura definitivi, nelle più varie esperienze dirette – con occhi allogeni ed esterni, e ha rappresentato in raffigurazioni e ricostruzioni spesso di grande valore, e sempre di grande interesse documentario, l’unità del Mezzogiorno e della sua vita morale e civile.
Ben più pertinente e persuasivo è il riconoscere quale elemento centrale e fondamentale degli sviluppi storici e sociali nell’area in questione, ossia nel Mezzogiorno d’Italia, il fatto politico della lunga durata di un quadro, di una intelaiatura istituzionale; il fatto politico e sociale di una struttura burocratica o di altro tipo operante a maglie più o meno larghe e con varia intensità come espressione di quel quadro e di quella intelaiatura; i ceti e le tipologie dei rappresentanti ed esecutori di coloro che nel corso del tempo, a vario titolo, e con varia veste e funzione, hanno tradotto in atti operativi il potere riconosciuto nel quadro istituzionale; le profonde ripercussioni del fatto che questi atti operativi fossero e apparissero talora in adesione e rispondenza, altre volte in generale o particolare difformità rispetto alla volontà e agli indirizzi del potere rappresentato. In altre parole, un quadro politico-istituzionale esercita sempre, ma in particolare esercita quando si prolunga per secoli, un condizionamento rilevante su tutti i piani della sensibilità, dell’immaginario sociale; un condizionamento radicale sulle mentalità e sui comportamenti, nonché sulle idee correnti in un ambito storico; un condizionamento che alla lunga concorre in altissima misura a plasmare tanto nei loro tratti più permanenti e duraturi quanto nei loro tratti più mutevoli ed evolutivi lo “spirito”, come suol dirsi, di un popolo e di un paese. Ben più: non è difficile neppure intendere come e perché la lunga durata sul piano politico-istituzionale determina, a sua volta, le condizioni stesse del prodursi di una serie di fenomeni e sviluppi di lunga durata; e che, quindi, la lunga durata politico-istituzionale è, per ciò stesso, una matrice di altri elementi ugualmente di lunga durata.
In questo senso, perciò, a una vicenda politico-istituzionale di lunga durata, qual è quella dell’unità del Mezzogiorno nel quadro di una stessa entità politica e sovrana, non si possono non riconoscere tutti gli effetti, appunto, della “lunga durata”. Gli atti operativi nei quali si traduce, come abbiamo detto, il potere riconosciuto nell’istituzione sono di quelli che più condizionano la vita materiale e quotidiana dei singoli, delle famiglie, delle comunità: amministrazione della giustizia, imposizione e riscossione di imposte e di tasse o di dazi, prestazione di determinati servizi, rispetto della pace, esigenze della guerra, limitazioni diplomatiche o di altro ordine, e così via. È naturale che essi proiettino i loro riflessi in sedimentazioni attinenti, come pure abbiamo detto, alle idee correnti in una società, così come alla sensibilità e all’immaginario sociale, con cui quelle idee fanno corpo. La legge come obbligo, ma anche come metro che sanziona ciò che appare giusto o ingiusto oppure equo o iniquo; il fiscalismo come questione di diritto e di misura nel rapporto tra chi impone e riscuote e chi deve rispondere a quelle imposizioni e riscossioni; la regalità più o meno aureolata di tratti sacrali e di vario altro ordine; il senso della comunità particolare che forma l’ambito più immediato della propria esperienza civile e sociale; le varie trasfigurazioni che dalla leggenda alla tradizione orale e scritta o figurata subiscono le esperienze di una lunga vicenda storico-sociali e i loro riflessi e sedimentazioni nella memoria collettiva e individuale; le convenzioni e gli usi espressivi e pratici ai quali quelle esperienze danno luogo; alcuni valori particolari come quelli legati e attinenti ai piani dell’onore, del prestigio, dello status symbol, della vita privata e della vita pubblica; i cerimoniali e i protocolli della stessa vita pubblica e privata: ecco una esemplificazione puramente indicativa, e tutt’altro che esauriente, delle linee di penetrazione e di formazione e condizionamento proprie delle vicende politicoistituzionali di lunga durata in un corpo sociale. Ed ecco, quindi, l’imprescindibilità di una considerazione anche di questo elemento politico-istituzionale in ogni discorso di antropologia storica o di storia antropologico-culturale che dir si voglia.
Non apparirà – crediamo – peregrino questo discorso dopo ciò che abbiamo detto e cercato di esporre in questo volume circa l’analoga influenza dell’ancor più lunga durata delle localizzazioni e delle forme di insediamento sullo stesso piano antropologico-culturale: un elemento che non trova di solito, così come quello politico-istituzionale, l’attenzione che meriterebbe da parte degli studiosi e specialisti di tale piano della vita sociale. Bisognerà solo avvertire che, quando si procede a una elencazione, sia pure meramente indicativa, come quella sopra accennata, occorre bene avvertire che i singoli capi di tale elencazione non vanno concepiti o considerati come sentieri ciascuno autonomo nel suo percorso rispetto agli altri; e che meno ancora l’intero campo che indichiamo come ambito politico istituzionale può essere separato e mantenuto isolato nella sua specificità. Al contrario, i singoli elementi di tale ambito e lo stesso intero ambito di cui parliamo vanno visti e analizzati nella loro congiunzione e sinergia con tutti gli altri elementi e ambiti della vita sociale. Né può sorprendere un tale richiamo. Dovrebbe, anzi, apparire scontato, se non addirittura banale. L’esperienza sociale vive tanto della sua complessiva e più o meno organica unità quanto della sua distinta e molteplice articolazione in ambiti e su piani diversi; e l’unità nella distinzione è altrettanto essenziale che la distinzione nell’unità. Se questa reciproca e biunivoca relazione non è evidente e forte in un determinato contesto storico-sociale, allora vuol dire che note di disgregazione o di altre dimensioni deteriori caratterizzano quel contesto in maniere e in misure preoccupanti per coloro che vi vivono e vi consumano la loro esperienza e la loro vicenda umana e sociale. Note che debbono attirare la particolare attenzione degli studiosi sia per intendere gli sbocchi, o l’assenza di sbocchi, percepibili o non, di quelle deteriori dimensioni, sia per trarne materia di una più ampia e profonda intelligenza dei problemi storici e antropologico-culturali di cui si tratta.
Dovrebbe essere, quindi, evidente, a conclusione di queste sia pur brevi e sommarie considerazioni, che la “categoria” Mezzogiorno non è una invenzione o superfetazione ideologica o di altro ordine di posteri fuorviati dalle esigenze del loro presente e pronti a indebitamente trasporle nel passato come dato e come lezione della storia. Quella “categoria” è di fatto, e con tutta evidenza, non solo un dato della storia, ma un dato che ha potuto a lungo mantenere – come oggetto del pensiero politico, economico e sociale indicato come “meridionalismo” – validità e capacità stimolatrici di realistiche analisi e prospettazioni economiche, sociali, politiche, culturali anche dopo che era stata superata e soppressa la forma statale e politico-istituzionale in cui la stessa “categoria” è esistita e la si è concretamente e riconosciutamente sperimentata per non meno di otto secoli.
Il “meridionalismo” ha nuociuto a una migliore comprensione della realtà storica e attuale del Mezzogiorno e alla delineazione di una più funzionale e ben riuscita azione per risolverne i problemi? Può darsi, ammesso, e non concesso, che il problema possa porsi nei termini di un “Mezzogiorno senza meridionalismo”4. Quel che assolutamente non si può ammettere, né concedere è che in poco meno di un secolo e mezzo di vita italiana unitaria la classe politica e la cultura del paese, senza consistenti differenze quanto alla loro appartenenza geografica, e quindi al Sud come al Nord, siano state vittime di una illusione ottica o di una speculazione politico-ideologica nel riconoscere un dualismo fondamentale nella struttura dell’Italia unita e nel cercare vie e modi per superarlo. E la questione potrebbe anche rimanere estranea agli interessi di uno studio di storia antropologico-culturale, se non fosse che, come abbiamo qui indicato, la chiara e dura realtà di quel dualismo ha trovato nella lunga esistenza del Mezzogiorno come entità statale indipendente uno dei suoi maggiori motori e canali di formazione della sua identità anche sul piano antropologico-culturale. È, anzi, molto significativo, sullo stesso piano, che contro la negazione storica della “categoria” Mezzogiorno abbia agito efficacemente la constatazione a cui la realtà delle cose ha costretto coloro che alla negazione di quella “categoria” accompagnavano la negazione di un effettivo dislivello e divario tra le condizioni materiali (economia, redditi, modernizzazione etc.) del Mezzogiorno e quelle dell’Italia del Nord. Il presupposto era che si fosse delineato sempre meglio un recupero del Mezzogiorno, ormai sulla via di un deciso sviluppo, e con un ritmo di incremento annuo delle sue attività e condizioni superiore a quello del Nord. Sono, tuttavia, bastati pochi anni per dissolvere completamente questo presupposto e per constatare che il diverso livello di sviluppo fra le due Italie si era, nella prima decade del secolo XXI, piuttosto ampliato che ridotto.
Contro la negazione della “categoria Mezzogiorno” sta, infine, anche la tempestiva percezione, che si ebbe in Italia e fuori d’Italia, ben prima dell’unificazione del paese, di una radicale diversità tra il Nord e il Sud della penisola. Senza una tale consolidata percezione e senza la sua progressiva elaborazione nella storia italiana pre-unitaria, male si spiegherebbe la forma già tanto matura che fin dai primi decennii dell’unità ne sostenne la denuncia, l’analisi, la rappresentazione. Il problema che allora fu posto verteva sulla causa efficiente di quel dualismo. Erano la diversa geografia, le diverse condizioni naturali (clima, suolo, geologia, posizione geografica, orografia, idrografia, risorse naturali o povertà naturale, fauna, flora … insomma, l’ambiente geografico in tutte le sue espressioni e manifestazioni)? Era la storia ad aver determinato, con un suo corso poco felice, una diversità strutturale delle due parti d’Italia? Erano fattori antropologici, razziali, culturali?


Le due Italie: natura, geografia, storia

Quando nel 1904 Giustino Fortunato diede una delle esposizioni più canoniche e significative di molte delle idee correnti al riguardo, la sua opzione privilegiò senz’altro le condizioni e i fattori naturali, ma, contrariamente a quel che per lo più si ripete parlandone, egli non sottovalutò affatto le componenti storiche della diversità in questione. «Il carattere geografico – egli scriveva – ha preparato, accompagnato e contraddistinto il carattere storico»5: e, dunque, a rigor di termini, ciò non esclude che, sulla base di quel preparare e accompagnare e contraddistinguere geografico, il fattore storico abbia la sua più specifica, diretta e autonoma parte. È sbagliato, dice Fortunato, attribuire i problemi e l’arretratezza del Mezzogiorno e la sua diversità rispetto all’Italia del Nord agli Spagnoli o ai Borboni. Nel Mezzogiorno, «più che in altri paesi del Mediterraneo, storia e geografia furono indissolubilmente legate, e le differenze di quella ebbero sempre un motivo in una differenza di questa», sicché «la storia del Mezzogiorno, nei tanti così ineguali suoi rapporti con la storia generale d’Italia, è inintellegibile, per poco che si prescinda dalla geografia». E la conclusione ultima è che «massimo fattore della vita sociale del Mezzogiorno […] fu il fattore naturale»; e che «le cause e gli effetti di esso s’intrecciarono così strettamente con le sorti politiche del paese, e tanto reagirono le une su le altre, da non poter essere distinte con un taglio netto, ma tutte insieme furono tali da impedire la graduale trasformazione civile del suo popolo», facendo dello stesso Mezzogiorno «un paese che dalla geografia e dalla storia fu per secoli condannato alla miseria, miseria economica e miseria morale, più triste dell’altra».
Storia e geografia, come si vede; e strettamente tanto intrecciate da risultare impossibile distinguerle nella loro azione, anche se si conferma che le radici dell’azione storica stanno sempre nella condizione geografica. E solo se si percepisce appieno il valore che per Fortunato ha l’azione storica si capisce come egli possa poi scrivere, senza radicalmente contraddirsi, che dalla miseria geografica e storica del Mezzogiorno «l’unità politica» dell’Italia «può redimerlo», così come può fare il progresso generale della civiltà (e Fortunato predilige il riferimento alle ferrovie, che hanno consentito di superare il punto gravemente negativo costituito dalla forma molto allungata della penisola italiana, che confinava il Mezzogiorno in una molto svantaggiosa distanza dall’Italia del Nord e dall’Europa). Inoltre, solo alla stessa condizione si può capire come egli possa pensare e scrivere che «la sospirata equazione storica delle due parti della penisola» italiana è un compito «grande senza dubbio […] ma non impossibile»; e che «il Mezzogiorno, se molto impari di forze alla rimanente Italia, ha pur tanto da tenerle dietro e […] forse anche da gareggiare con essa». E chi potrà fare questo se non la politica, ossia la storia, quell’innesto dell’agire umano sul tronco del quadro geografico-naturalistico in cui l’uomo agisce?
È per ciò che Fortunato parla, per l’Italia, della «coesistenza di due civiltà, che la geografia e la storia [il corsivo è nostro] hanno reso differenti, in un sol corpo di nazione»; e, dunque, il suo orizzonte naturalistico non è affatto chiuso alla dimensione dell’agire umano. È, piuttosto un richiamo alla necessità del realismo nell’azione storica, ossia nella politica; un richiamo ai condizionamenti a cui quest’azione soggiace, ossia, in primo, e in sommo luogo, quelli geografici, naturalistici; è un ammonimento a non forzare i tempi e le prospettive dipendenti da tali condizionamenti (ossia, per il Mezzogiorno, far valere quel «pieno esercizio della scarsa, faticosa, lenta sua capacità economica» che ad esso nel passato è sempre mancato, senza pretendere di portarlo alla piena modernità e a un superiore grado di sviluppo tutto d’un colpo e in altri modi che in quelli più conformi alle sue effettive condizioni e possibilità). E, d’altra parte, come si sarebbe potuto anche soltanto pensare a una qualche azione politica per queste regioni (un’azione quale quella che il Fortunato svolse e promosse in tutta la sua vita pubblica), se si fosse creduta impotente la politica rispetto alla legge ferrea e assolutamente determinante delle condizioni date in natura? In realtà, anche il maggiore fautore, per il Mezzogiorno, del determinismo geografico non cancellava affatto la storia dal quadro degli elementi e fattori del movimento storico. Ne traeva motivo, piuttosto, per la sua visione della politica di raccoglimento e di prudente misura che meglio gli pareva convenire alla giovane e nuova Italia dell’unità: la politica del “piede di casa”, senza sogni imperiali e di grandezza, parsimoniosa nella pubblica amministrazione, gradualista e prudente nei suoi tempi e negli obiettivi, e così via. L’indugio su Fortunato non è, d’altra parte, interessante soltanto perché è relativo a uno dei massimi conoscitori e studiosi delle cose meridionali, bensì anche perché è a lui che si deve – come è ben noto – la prima, decisa e largamente recepita chiarificazione sulla effettiva struttura geografico-naturalistica del Mezzogiorno d’Italia, fino ad allora quasi unanimemente ritenuto una terra anche “troppo favorita” dalla natura, e da lui, invece, definita nella reale povertà e problematicità delle sue condizioni geografiche e naturali. Era, questa, una direzione di pensiero alla quale avevano approfonditamente lavorato gli studi geografici della seconda metà del secolo XIX. Studi che, per quanto riguardava il Mezzogiorno, erano culminati in scritti apparsi nei primissimi anni del secolo XX, che Fortunato conosceva assai bene e che utilizzò largamente e citò nella bibliografia del suo lavoro del 1904, al quale ci siamo rifatti per quanto precede: T. Fischer, La penisola italiana (tr. it., Torino 1902), tuttora una delle migliori trattazioni della geografia fisica dell’Italia; C. Maranelli, L’Italia (Milano 1904), autore di quelle illuminanti Considerazioni geografiche sulla questione meridionale, che sono del 1907-1908; G. De Lorenzo, Geologia e geografia fisica dell’Italia meridionale (Bari 1904). Ma fu Fortunato a dare, a ciò che in questi lavori era ancora confinato nello spazio disciplinare degli studi di geografia e di geologia, la larga diffusione e la straordinaria risonanza che ebbe, e che impressionò come una scoperta, la sua affermazione della reale natura e povertà della geografia meridionale. E ciò conferma, quindi, quanto sia fondata l’osservazione circa la maturità con la quale il dualismo italiano viene prospettato già nei primi decennii dell’unità italiana e come essa rinvii a tutta una elaborazione precedente (che risale, invero, a molto prima degli studi di geografia nella seconda metà del secolo XIX).
Oltre che per tali motivi, l’indugio su Fortunato è, poi, ancor più giustificato in quanto dimostra pure, e appieno, come si è detto, che anche in un partigiano particolarmente radicato e tenace nella convinzione dei fattori naturalistici il peso della storia era esplicitamente riconosciuto e dichiarato. E anche questo è un punto sul quale si può considerare ormai chiusa la questione, con un superamento delle visioni legate alla tesi di un determinismo naturalistico, che, peraltro, di rado si è trovato affermato in tutta la schiettezza e la portata che il principio deterministico comporterebbe6.


La razza

Fra le condizioni naturali doveva essere compresa, per Fortunato, anche la razza?
Qualche suo passaggio sembra senz’altro autorizzare a crederlo. Nello stesso, fondamentale, scritto del 1904 sopra citato «nessuno – si dice in apertura – diede la debita importanza al fatto, sempre più accertato, che la nazione italiana è formata di due stirpi originariamente dissimili, l’Aria e la Mediterranea, l’una prevalente al nord, l’altra al sud del parallelo di Roma, bionda e di statura alta la prima, bruna e di viso ovale la seconda, sottoposte a ineguale vicenda di nascita, di vita e di morte, a un diverso atteggiamento dello spirito e dell’intelletto». Sembra una dichiarazione molto impegnativa, ma sta poi il fatto che in tutto il resto dello scritto del 1904 essa non viene più ripresa e, al contrario delle altre affermazioni di apertura di quello scritto, tutte largamente svolte in seguito, viene lasciata sospesa alla generalissima formulazione iniziale. E, mentre per tutti gli altri temi dello scritto anticipati nell’apertura viene premessa una bibliografia specifica e significativa per il profilo e per la storia intellettuale del Fortunato, nessuna indicazione bibliografica7 è data per quella questione della razza.
Altrove al fattore razziale è fatto qualche accenno molto generico, tanto generico da apparire casuale, come in un discorso del 1880, in cui «siamo – si dice – quel che la razza, il clima, il luogo, la storia (la storia di un paese naturalmente assai povero, che gli uomini si ostinarono a credere naturalmente assai ricco) hanno voluto che fossimo». Anche in questo caso, però, nessun ulteriore sviluppo viene dato a quell’accenno alla razza, mentre agli altri elementi indicati nella stessa occasione viene poi dato nello stesso scritto, così come in generale negli scritti di Fortunato, un continuo e ampio sviluppo. Ed è pure da notare che, in una lettera a Gina Ferrero Lombroso del 1909, egli definisce «sacra» la memoria di Lombroso per lui8. Ma, a parte la circostanza epistolare, quando poi si va a cercare il nome di Lombroso negli scritti di Fortunato, c’è ben poco, anzi nulla da stringere. Il che fa capire – ci sembra – che quella “sacra” memoria ha, più che altro, il senso di un riferimento a punti generali della cultura positivistica, della quale, come tanti altri del suo tempo (ai quali anche qui accenniamo), Fortunato partecipava appieno.
Appare, quindi, davvero molto difficile parlare, su basi tanto esili da potersi definire inconsistenti, di una professione del principio della razza da parte di Fortunato. Egli aveva indubbiamente assimilato appieno la cultura positivistica del suo tempo, e, quindi, anche i suoi punti di fondo, tra i quali certamente il naturalismo deterministico, la considerazione degli elementi biologici, le strutture fisiche e materiali delle realtà sociali, l’aspetto zoologico (come non si esitava a dire) della condizione umana. Nel positivismo di Fortunato, se qualcosa va segnalato, è, però, l’inclinazione, di sicura, per quanto generica, derivazione da Spencer, all’organicismo come tratto essenziale e caratterizzante della società umana. Non è un caso che la metafora del corpo ritorni più volte nella sua prosa per designare, ad esempio, il popolo italiano. E ritorni proprio, ad esempio, nello scritto del 1904, là dove si parla della «coesistenza di due civiltà, che la geografia e la storia hanno rese differenti, in un solo corpo di nazione»: dove appare il concetto di nazione che in Fortunato è indubbiamente primario rispetto a ogni altro del suo pensiero politico; il concetto che lo lega intimamente al suo tempo e che ha dominato nella sua esperienza pubblica e privata, senza mai trovare smentite o attenuazioni; il concetto in cui pienamente si sciolgono il suo organicismo e il suo riferimento agli elementi fisici e biologici di qualsiasi ordine, che rientrano nell’orizzonte della sa riflessione politica e storica. Chi sottovalutasse, anche di poco, la componente nazionale del pensiero e dell’ethos di Fortunato non solo andrebbe di molto fuori strada nella comprensione della sua più autentica fisionomia intellettuale e politica, ma dimostrerebbe di non essere affatto penetrato in tutto il contesto del mondo italiano del Risorgimento e del primo cinquantennio unitario.
Ciò significa che sotto il manto del valore massimo costituito dalla nazione, gli altri elementi presenti nei discorsi e nel pensiero di Fortunato perdono di rilievo. Per lui, saranno pure diversi per civiltà e per razza, per cultura e per costumi, per la ricchezza e la geografia gli Italiani del Nord e del Sud, ma tutti sono ugualmente italiani, e la loro unità, ingiustificata sotto tanti altri aspetti, ha un fondamento nazionale che la legittima e che rende epocale e irrinunciabile l’unificazione politica del paese dopo un millennio e mezzo di divisione, da cui le due parti del paese sono state rese certamente diverse e difformi. E di qui, appunto, nasce quella vera e propria religione dell’unità italiana che caratterizza tutto il pensiero e l’agire di Fortunato dal principio alla fine, e gli fa temere che perdere l’unità significhi per gli Italiani tornare nella triste fortuna del passato, dalla quale finalmente ci si è emancipati.
Da altre parti venne, invece, quell’accentuazione del principio razziale, che in Fortunato è nulla di più che un quasi inerte riflesso della cultura del suo tempo o, meglio, di qualche punto fra quelli propri di tale cultura. Venne, come è noto, specialmente dalla scuola antropologica e criminologica che della costituzione e dell’eredità genetica dei singoli e dei popoli fecero un principio risolutivo di tutti i problemi della storia individuale e collettiva. La razza, certo; e, tuttavia, anche in ciò, non senza inflessioni, in qualche caso o per qualche aspetto, profondamente diverse da episodio a episodio9.
I nomi sono quelli che si sanno: Lombroso, Sergi, Niceforo, Ferri..10.. Si trattava spesso di uomini della intelligencija di sinistra, ma non vi è troppo da sorprendersene. Il referente a cui queste dottrine antropologiche e criminologiche si riportano non è, in primis, quello dei valori politici. Il referente è quello dottrinario del positivismo e del darwinismo, e non è affatto soltanto italiano, né – anzi, tanto meno – in esclusiva o prevalente relazione col problema del dualismo italiano11. Era tutto un corso della cultura europea, con profonde implicazioni politiche (anche nel campo della politica internazionale), ma non per questo meno contrassegnato dalla convinzione di muoversi su un piano eminentemente scientifico, che poteva favorire o avversare determinate posizioni o interessi politici, ma presumeva di trovarsi su un piano superiore di ricerca e di elaborazione di dati indiscutibili perché, appunto, scientifici, di cui, semmai, la politica doveva tener conto, se voleva fondarsi su elementi di sicura oggettività12.
Quanto alla varietà delle posizioni che, anche sulla base di un’aperta professione di dottrine razzistiche e darwinistiche, ne poteva risultare, basterà accennare al contrasto tra Giuseppe Sergi e la maggior parte dei sostenitori della differenza antropologico-fisica del suo tempo. Per Sergi – è noto – tra popolazioni mediterranee e popolazioni europee valeva la stessa radicale diversità appena accennata dal Fortunato tra Arii e Mediterranei: da quest’ultimo fatta valere specialmente per il rapporto fra Nord e Sud d’Italia, dal Sergi fatta valere piuttosto per il rapporto fra Europa mediterranea e la restante Europa. Ma, mentre le popolazioni nordiche, nelle opinioni di gran lunga prevalenti, erano date come quelle razzialmente superiori e destinate al comando e al successo storico, per Sergi la questione aveva una connotazione profondamente problematica. Le razze avevano qualità diverse che in determinati periodi storici potevano favorire le une, e in altro periodo storico favorire altri. Nel mondo antico il trionfo era toccato ai Mediterranei, e ne era sorto, al culmine dello sviluppo civile dell’antichità, la gloria imperiale e civilizzatrice di Roma. Nel mondo moderno fondamento del successo erano le doti sociali e organizzative degli Arii, non quelle creative dell’individualismo mediterraneo. Il successo moderno degli Arii era, perciò, scontato, ma la decadenza delle nazioni latine non era un decreto definitivo della fisio-antropologia, bensì un problema culturale e politico che Sergi, specialmente dopo la prima guerra mondiale, poneva come di grande attualità13.
Peraltro, certamente in Sergi il riferimento all’idea nazionale superava, nel caso dell’Italia, il contrasto razziale ravvisato e fortemente sottolineato fra le due Italie. E lo stesso può essere altrettanto certamente detto per Niceforo e, già, per Lombroso, nonché per tutti i seguaci della “scuola” antropologica, nessuno dei quali mise mai minimamente in dubbio l’unità nazionale conseguita nel 1861, e meno che mai pensò che essa fosse o potesse essere revocabile. Lo stesso Niceforo, il più impegnato sul fronte della differenziazione razziale fra Italiani del Nord e del Sud, i valori nazionali sono al di fuori e, ben può dirsi, al di sopra di ogni dubbio. «Lo spirito di nazionalità è indipendente dalla diversità delle razze»; e la motivazione di questo principio nel caso dell’Italia era forse ancor più eloquente che in Fortunato e in altri: «se – scriveva – antropologicamente un siciliano e un piemontese sono diversi, pur tuttavia nel seno della coscienza nazionale essi sono simili», poiché questa coscienza «scaturisce unicamente fuori dalla comunanza di aspirazioni, di avvenimenti storici e sociali attraverso i quali ebbero a passare unite razze diverse»14.
Il cammino di quella antropologia fisica era, del resto, cominciato già molto prima, e non a caso si è potuto notare che Cattaneo è sembrato ad alcuni collocarsi tra Romagnosi e Lombroso. Ed è a Cattaneo, appunto, che si rifà la posizione che sul problema della razza assunse Gaetano Salvemini, e sulla quale occorrerà più avanti fermarsi, anche, fra l’altro, perché, come vedremo, è espressa in essa il punto di vista più legato non solo alla tradizione più generalmente italiana, bensì – e forse addirittura di più – legato in particolare alla tradizione meridionale che alla storia e alla formazione storica dei valori e delle realtà sociali aveva sempre annesso una importanza decisiva.
Qui, intanto, notiamo che, rispetto a un secolo prima, la differenza fondamentale e discriminante con le inflessioni, le insinuazioni, raramente le aperte dichiarazioni razzistiche per spiegare il dualismo italiano e, in particolare, i caratteri propri dei Meridionali nell’ultimo scorcio del secolo XX e agli inizi del XXI sta appunto nella evidente e dominante assenza, in questo ultimo periodo di tempo, del valore nazionale come valore compensativo e risolutivo della distinzione razziale. È, anzi, in ciò, uno dei segni più significativi della crisi dell’idea nazionale dopo la seconda guerra mondiale (fenomeno, come si sa, tutt’altro che soltanto italiano). E, analogamente, laddove nel caso del primo cinquantennio unitario il riferimento nazionale comportava anche una componente storicistica molto pronunciata, nel caso più recente la crisi dell’idea nazionale si è accompagnata a un declino dell’idea della storia come valore unificante e risolutivo della condizione umana e dei problemi che in essa si pongono, e all’affermazione, invece, di un’idea di struttura e di organicità che negano alla dimensione storica il ruolo di un valore essenziale della condizione umana.
Nell’Italia della fine del secolo XX non si potevano ritrovare, dopo le tragiche esperienze del razzismo totalitario e della seconda guerra mondiale, gli stessi accenti razzistici che abbiamo evocato per la fine del secolo XIX. La polemica antimeridionale vi ha avuto, però, una parte più cospicua che in ogni altro precedente periodo della storia italiana, e si è addirittura intensificata nei primi anni del secolo XXI. Alla superficie essa appare come una polemica essenzialmente politica, che ha trovato le sue massime voci ed espressioni soprattutto in un movimento politico “nordista”, ma è stata tutt’altro che limitata ad esso. I riflessi di pregiudizi che nel politically correct contemporaneo non erano più indicati come “razzistici”, bensì come “etnici” sono stati, comunque, addirittura trasparenti, soprattutto dall’inizio della fase acuta di tale polemica. Il fatto poi che essi, a differenza che alla fine del secolo XIX, non abbiano conosciuto alcuna trasposizione o mediazione sul piano della cultura scientifica o accademica dice quanto sia fondata l’osservazione, che qui abbiamo premesso, su una sostanziale minore consistenza della discussione sul Mezzogiorno nel quindicennio o ventennio a cavaliere tra XX e XXI secolo. Il che non attenua, peraltro, né il significato politico, né il significato culturale di quella polemica.


Dal “familismo amorale” alla “tradizione civica”

Un binario molto più seguito di quello della razza dopo la seconda guerra mondiale fu, a sua volta, segnato dalla interpretazione che delle particolarità socio-culturali del Mezzogiorno nei loro risvolti sia nella vita privata che nella vita pubblica diede Edward C. Banfield nel suo The Moral Basis of a Backward Society, pubblicato nel 1958 e ben presto tradotto in italiano (Le basi morali di una società arretrata, ed. Il Mulino). L’autore delineava nella sostanza un quadro nel quale l’arretratezza veniva intimamente legata a una scarsa accumulazione di quello che poi sarebbe stato considerato come un elemento fondamentale e determinante dello sviluppo e definito come «capitale sociale » (valori, idee, modi di sentire, prassi sociali etc.); e, per essere più precisi nel valutare la posizione di Banfield, veniva legata a una particolare qualità del «capitale sociale».
Nel caso del Mezzogiorno la qualità particolare si esprimeva nel «familismo amorale», ossia nel concetto che i modi di pensare e di atteggiarsi e comportarsi sul piano sociale erano determinati dalla realtà privata e pubblica del gruppo familiare, e in particolare della famiglia nucleare, e dalla convinzione e dall’attesa che tutti i gruppi familiari si regolassero allo stesso modo, sicché ne risultasse una vita sociale uniforme nei suoi aspetti e sviluppi, e, quindi, del tutto comprensibile e praticabile per i membri di una comunità. Il metro della vita sociale era, così, costituito dagli interessi della famiglia: ovviamente, nella visione materiale e soggettiva che la famiglia ne aveva, e per la quale risultavano, comunque, escluse considerazioni che non si riportassero a quel metro di giudizio.
Sarebbe interessante analizzare la effettiva novità di un tale modo di vedere le cose. Più importante ancora è, però, notare la validità del referente assunto da Banfield a base della sua interpretazione. Un referente forte. Il rilievo della famiglia nel contesto meridionale è fuori di ogni possibile discussione. Merita forse una certa attenzione, da questo punto di vista, il fatto che nella malavita organizzata del Mezzogiorno o di ascendenza meridionale, e particolarmente in Sicilia, il gruppo delittuoso venga definito come “famiglia”: quasi a sottolinearne la natura inderogabile dei legami di identità e di appartenenza che lo costituiscono e lo contraddistinguono.
In uno scrittore particolarmente significativo come Leonardo Sciascia, e in riferimento specifico alla Sicilia, la dimensione familistica della struttura sociale dell’Italia del Sud ha trovato, non a caso, una rappresentazione di grande efficacia. «La famiglia – egli scrive – è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano, ma vivo [ed è qui una precisazione del massimo interesse] più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale. La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori; entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse, il servizio militare, la guerra, il carabiniere». Poi Sciascia svolge considerazioni di ordine più letterario, e addirittura esistenziale. «Dentro quell’istituto che è la famiglia – scrive – il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza»15.
Le osservazioni al riguardo possono essere molte. E, innanzitutto, la famiglia è, poi, realmente, anche nel contesto meridionale, una unità assolutamente coesa, invariante e invariabile nel suo porsi e vivere come nucleo sociale? Non è affatto detto che, anche se questo è il caso di gran lunga prevalente, esso non comporti eccezioni rilevanti. E ciò ha importanza non solo per la fin troppo frequente e documentabile diversità di atteggiamenti e comportamenti tra membri della stessa famiglia, bensì anche perché la famiglia nucleare meridionale raramente consiste nei nuclei elementari dei genitori e dei figli conviventi. Di ordinario, coi coniugi del nucleo convivono frequentemente nonni, zii, fratelli e congiunti varii, nonché, non di rado, qualcuno dei figli coniugati, e, quindi, spesso con prole. E questo anche nelle città, non solo nelle campagne. La famiglia nucleare meridionale è, insomma, molto spesso ancora una famiglia, in qualche modo e in qualche misura, allargata, e ciò rende più naturale e ricorrente la frequenza di articolazioni, ed eventualmente contrapposizioni, al suo interno.
Nonostante le molte critiche in cui incorse, la formula del «familismo amorale» ebbe grande successo, e apparve quasi come un’indicazione risolutiva della problematica posta dalla società meridionale sul piano del comportamento
sociale. A distanza di trentacinque anni da Banfield, nel 1993, un altro studioso americano, Robert D. Putnam, nel suo Making Democracy Work, subito anch’esso tradotto in italiano col titolo La tradizione civica nelle regioni italiane (ed. Mondadori), tornava ad affrontare il problema generale del comportamento sociale proprio del Mezzogiorno e dei valori a cui esso è ispirato, e ne dava una interpretazione alla quale ugualmente arrise un largo successo. Ancora di più di Banfield, Putnam metteva in rilievo il ruolo del “capitale sociale” nella vita pubblica. Egli era interessato specialmente al problema della funzionalità delle istituzioni di un certo tipo (in questo caso le istituzioni democratiche) in varii tipi di modello sociale anche all’interno delle stesse entità statali e dei medesimi ordinamenti politico-istituzionali. La funzionalità era qui connessa al «senso civico», alle sue logiche e ai suoi equilibri, e poteva manifestarsi in varie tipologie nell’arco tra equilibri definibili come “hobbesiani”, ossia ispirati alla logica del carattere particolare e della radicale e insanabile conflittualità degli interessi in gioco nella vita sociale, ed equilibri definibili come autenticamente “civici”, volti a trovare e a realizzare compensazioni, mediazioni e raccordi tra interessi particolari e interessi generali. A differenza di Banfield, Putnam dava, però, una evidenza particolare alla formazione storica del capitale, alla incidenza in esso delle tradizioni di vita civile e di governo locale delle comunità facenti parte del complesso politico-istituzionale.
Le conclusioni erano complesse, ma chiare nel distinguere tra il Nord e il Sud dell’Italia. «Da almeno dieci secoli – scrive Putnam – il Nord e il Sud affrontano il dilemma dell’azione collettiva che affligge tutte le società, in modo diametralmente opposto. Al Nord le forme di reciprocità e le reti di impegno civico hanno funzionato sotto forma di “consorterie”, gilde, società di mutuo soccorso, cooperative, sindacati, e anche come società calcistiche e club letterari, contribuendo a sviluppare livelli di rendimento civico e istituzionale molto più alti che al Sud, dove le relazioni sociopolitiche erano e sono strutturate in modo verticale». La diversità si esprimeva, inoltre, con uguale stabilità, nonostante l’interferenza di forze e di eventi esterni, e al Sud con stabilità anche maggiore che al Nord, ma con minore fecondità di conseguimenti storici e sociali.
La specificazione della diversità del Sud quanto a “senso civico” era altrettanto puntuale. «La vicendevole sfiducia e la diserzione nei confronti della società, la dipendenza – proseguiva Putnam – dall’autorità e lo sfruttamento da parte delle gerarchie, l’isolamento e il disordine, la criminalità e l’arretratezza si sono reciprocamente rafforzati in quei perpetui circoli viziosi» che erano a loro volta dettagliati dallo stesso Putnam; ed egli, perciò, concludeva che «la popolazione di Bologna e Bari o di Firenze e Palermo ha seguito per un millennio e oltre logiche di vita comunale contrastanti».
Come si vede, l’analisi di Putnam non solo aveva un carattere storicizzante da cui quella di Banfield prescindeva, ma andava oltre il piano dell’organismo familiare, entro il quale Banfield si era mantenuto, e investiva l’intero orizzonte della vita pubblica. Da questi punti di vista Putnam segnava, innegabilmente, un deciso passo in avanti. Non ne risultava, però, una innovazione radicale per quel che riguardava il fondamento asociale (non antisociale!) della scarsa consistenza di “senso civico” imputato al Mezzogiorno. La chiave del problema era, in effetti, mantenuta in un altro tipo di particolarismo sociale: non più la famiglia, bensì una serie di “reti verticali” (come Putnam le definiva), in cui si articolavano la coesione e la solidarietà sociale. Il Mezzogiorno faceva blocco sul piano storico come su quello socio-antropologico-culturale in una perenne negatività, inalterata e senza eccezioni, delle sue strutture portanti e caratterizzanti. Una logica che non era più quella che già all’indomani della seconda guerra mondiale aveva fatto inquadrare la realtà culturale del Mezzogiorno sotto il segno idealizzato della «civiltà contadina», e nello spirito della nostalgia o dell’ideologia del «mondo che abbiamo perduto»16. Una logica, tuttavia, che, sia pure in una evidente e forte diversità di motivi, manteneva la generalità di una persistenza storica chiusa nella permanente negatività delle sue forme e manifestazioni.
Non solo in Banfield, ma anche in Putnam l’elemento storico appariva, infatti, troppo sottovalutato per sostenere le loro interpretazioni su un’effettiva base realistica. Invece che nella varietà mutevole e molteplice delle sue vicende storiche, il Mezzogiorno era ipostatizzato fino ad assumere tutti i contorni di un rigido manichino, che il corso della storia travolgeva e trascinava con l’unica remora costituita dalla forza di inerzia di quel manichino, e senza capacità di sviluppo o di trasformazione e senza interne differenziazioni nel tempo e nello spazio. Questa idea astorica della società meridionale non è, peraltro, più accettabile di quella formulata, all’insegna di un “senso civico” più robusto, per l’Italia settentrionale. Il particolarismo, proprio nel senso socio-antropologico, è certamente presente nella storia italiana17, ma non consente in nessun modo di compendiare in esso, assunto come un principio storico assoluto, la complessa e dinamica realtà di quella storia nei quindici secoli del suo svolgimento. E, allo stesso modo, non consente di compendiare in un’unica valutazione negativa la vicenda del Mezzogiorno d’Italia nello stesso periodo di tempo. Ossia, detto in altri termini, anche se si volesse irrigidire la struttura socio-antropologica del Mezzogiorno in una formula, come quella di Putnam, della scarsezza di “senso civico”, il problema resterebbe ancora aperto.
Non è, infatti, per nulla fuor di luogo, anzi è del tutto plausibile (e anche utile e fondato sia dal punto di visto storico che da quello socio-antropologico) identificare e considerare il Mezzogiorno come una “società di famiglie”. Poi, però, occorre ancora – ed è il più e il meglio della questione – specificare di quale tipo di famiglia di volta in volta e di caso in caso si tratti; specificare in quali modi e in quali dinamiche, in questa “società di famiglie”, si esprima, da epoca a epoca, la carenza del “senso civico”; specificare le varianti e le invarianti di questa carenza; specificare tali modi, dinamiche, varianti, invarianti a seconda delle classi, dei ceti, dei gruppi di ogni ordine (sociali, funzionali ideologici etc.) di cui una società è costituita, e a seconda degli ambiti sociali e delle questioni di cui si tratta, nonché le tracce che questa serie di conformità o di difformità lascia sul proprio cammino nel successivo atteggiarsi e manifestarsi del “senso civico”. Il che si dice qui senza che se ne debba dedurre alcuna negazione di una strategia che miri a definire in maniera generale e unitaria o complessiva i “caratteri originali” di una tradizione storica o della storia di una realtà politico-istituzionale. La storia – si potrebbe anche dire così – non rifiuta le generalizzazioni. Esige solo che siano anch’esse storicizzate.


Mediterraneo e Meridiano

A sua volta, non è affatto lontano dal vero il ritenere che negli anni ’90 del secolo XX il luogo della “civiltà contadina”, nella caratterizzazione antropologico-culturale del Mezzogiorno, sia stato occupato dal riferimento al Mediterraneo e dalla elaborazione dell’idea del cosiddetto “pensiero meridiano”. Riferimento ed elaborazione in cui certamente ricorrono elementi varii, importanti e numerosi del tópos fissato in quello che potrebbe essere definito l’ideal-tipo della “civiltà contadina”. Sarebbe ingiustificato, però, ridurre a questo tópos la sostanza del nuovo riferimento mediterraneo e meridiano. È necessario, anzi, sottolineare con chiarezza le novità per nulla trascurabili di questo riferimento, che riporta a un quadro di valori in cui la componente “contadina” non è assente, ma è lontana dal caratterizzare in misura determinante e, ancor più, dall’esaurire il senso del nuovo valore. E, allo stesso modo, ingiustificato sarebbe pure il riportare questo nuovo valore al discorso sul “mondo che abbiamo perduto”, così intimamente legato, anzi, per così dire, consustanziale a quello sulla “civiltà contadina”. Nella rievocazione nostalgica che lo prospettava quale luogo storico e umano di sedimentazione e di vivente deposito di superiori idealità e modelli umani e sociali “il mondo che abbiamo perduto” appariva, infatti, anche come un mondo perduto per sempre, evocabile e da rimpiangere, ma non recuperabile o restaurabile: un mondo perduto per sempre nel ritmo travolgente e implacabile della storia. Il riferimento mediterraneo si pone, invece, come un’alternativa non solo di evidente superiore qualità, bensì anche praticabile; come un mondo che, lungi dall’essere stato perduto, è ancora da conquistare o che si può (e, anzi, si dovrebbe) riconquistare.
Mediterraneo e meridiano: l’associazione è ricorrente, e non è casuale. Nell’impostazione che ne dà uno dei suoi più noti esponenti (Franco Cassano) il pensiero mediterraneo è opposto a quello settentrionale. Pensiero meridiano è «quello che ha conosciuto il sole che si interseca al mare, l’amore per la bellezza, la forza e la sofferenza degli eroi, il loro essere insieme sfida al cosmo e parte di esso». A questa «tradizione di accordo solare» viene contrapposto «il pensiero settentrionale, spinto dalle sue tenebre verso un insanabile desiderio di rivalsa»18. Non è necessario ricordare che non c’è in questa contrapposizione nulla di sostanzialmente nuovo. È dall’epoca del romanticismo che la contrapposizione tra un Settentrione nubiloso e tormentato e un Mezzogiorno solare e armonioso ricorre come un luogo comune speso nelle più varie occorrenze ideologiche o polemiche. Nella tradizione poetica italiana, ad esempio, lo si ritrova con grande evidenza nella polemica degli inizi del secolo XIX tra classicisti e romantici. Basterà ricordare il Sermone sulla mitologia di Vincenzo Monti, del 1825, indubbiamente uno dei testi più significativi al riguardo. E giova citarlo:
Audace scuola boreal, dannando - tutti a morte gli Dei, che di leggiadre - fantasie già fiorir le carte argive - e le latine, di spaventi ha pieno delle Muse il bel regno […] Le Grazie anch’esse, - senza il cui riso nulla cosa è bella, - anco le Grazie […] cesser proscritte e fuggitive il campo - ai Lemuri e alle streghe. In tenebrose - nebbie soffiate dal gelato Arturo - si cangia (orrendo a dirsi) il bel zaffiro - dell’italico cielo; in procellosi - venti e bufere le sue molli aurette; - i lieti albori dell’aonie rive - in funebri cipressi; in pianto il riso; - e il tetro solo, il solo tetro è bello19.

A seguire la costante riformulazione di questo motivo (per stare solo all’Italia) da Leopardi a Carducci o a D’Annunzio vi sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. In Cassano è interessante peraltro che la contrapposizione tra Settentrione e Mezzogiorno si converta anche in quella tra Mezzogiorno e Occidente. Il motivo dell’armonia meridionale opposta alla disarmonia settentrionale si converte, infatti, senza (si direbbe) soluzione di continuità logica nel motivo del contrasto di quell’armonia col modello occidentale. Modello adottato come esterno e superiore rispetto a quelli indigeni e propri, con riferimento particolare e specifico al Mezzogiorno d’Italia. Il riferimento è, in effetti, più precisamente, al discorso sulla modernizzazione dello stesso Mezzogiorno, in quanto condotta sulla falsariga di valori non solo altrui e non propri, ma anche alienanti e disumanizzanti rispetto a quelli intrinseci al modo di essere e di comportarsi della tradizione meridionale. Perciò, si dice, «il Midi si ribella all’Abendland»20, nella scia di un non peregrino concetto del ribellarsi per cui una realtà umana viene rigettata in nome di un’altra esaltata in suo luogo.
Anche qui, come si vede, Mezzogiorno e Mediterraneo vengono non solo congiunti, bensì sovrapposti, postulando una loro sostanziale, piena identità, ma anche non senza note di una contraddittorietà non tanto sottile e occulta, se si afferma anche che il pensiero meridiano «non è estraneo alla modernità», con la quale «sa di avere delle radici ad esso comuni»21; se il discorso sullo specifico Sud europeo e italiano sfocia ricorrentemente nel discorso su “tutti i Sud del mondo”; se l’antitesi tra “meridiano-mediterraneo” e “moderno” è visto come antitesi tra un pensiero che ha istituito un «monoteismo della tecnica», la quale pretende con arroganza di sottoporre e amalgamare tutto e tutti, e un pensiero che «accumula e custodisce tutte le forme di vita» e preserva le ragioni del pluralismo umano e sociale, storico e culturale22. Notiamo solo subito, e per inciso, che si tratta qui di una idea della modernità ridotta a una povertà assoluta, quasi che la modernità non fosse altro che “monoteismo della tecnica”, disumana materialità di aspirazioni e di progetti, e volontà e arroganza dominatrice e assimilatrice, senza luce di ideali umani e sociali, senza le sue particolari e originali socievolezze, solidarietà e fraternità. L’elemento di contraddittorietà ne esce, comunque, rafforzato, essendo difficile postulare una tale antitesi e poi pensare a forme di una qualche sorte di composizione, che lasci intatte le ragioni del “meridiano” e, insieme, ne consenta una sorta di “coesistenza pacifica” con una modernità condannata dalla «percezione della disperazione che aleggia al suo fondo»; e pensare, ancora, alla «sostituzione di senso che si avverte nella sua incapacità di sottrarsi all’accelerazione»23, nonché – ovviamente! – schiava sempre della sua volontà di dominio.
Al fondo di tutto ricorre, dunque, ancora una volta, anche in questo caso, la polemica contro la modernità e la modernizzazione, che tante versioni e riformulazioni ha trovato nella cultura europea dei secoli XIX e XX. Ma da questo punto di vista la risposta migliore è nella stessa marcia inarrestabile e globale della modernità, che risponde a idee e aspettative che non possono essere maturate nell’intero orizzonte geografico dell’umanità solo per un malinteso o equivoco richiamo di miglioramenti materiali e di valori che si presumono disumanizzanti. Significativo è, però, a questo punto, che – proprio, si direbbe, sotto l’effetto dell’onda d’urto di questa marcia della globalizzazione – da un lato, le contrapposizioni di cui si è detto (Nord-Sud, Sud-Occidente) cedano a una molto più strumentale e ideologica e meno strutturale ed essenziale contrapposizione Mediterraneo-Atlantico; e che, d’altro lato, l’idea stessa della mediterraneità si evolva in una particolare direzione.
Lasciamo, comunque, qui da parte la contrapposizione Mediterraneo-Atlantico, dato il suo evidente e forte spessore politico-ideologico, anche molto contingente e unidirezionale.
Quanto alla mediterraneità il mutamento è notevole. «Il Mediterraneo – si dice in un intervento di Danilo Zolo a proposito di “alternativa mediterranea” – viene inteso come un “pluriverso” di civiltà, di culture, di lingue, di universi simbolici ed espressivi, e in quanto tale viene contrapposto alle derive “oceaniche” della globalizzazione». Questo “pluriversismo” rompe, quindi, l’unità mediterranea postulata dalla rappresentazione che se ne fa in chiave “meridiana”, e configura, piuttosto, un «crinale che oppone il nord-ovest del mondo al sud-est del mondo», come dice Zolo, con una ulteriore modificazione, come si vede, dell’antitesi Nord-Sud del mondo. Non, però, con una disdetta della teorizzazione “meridiana” del Mediterraneo. «All’inizio del nostro discorso» sull’ "alternativa mediterranea”, dice Cassano, «abbiamo messo da parte le seduzioni che vengono dalla bellezza dei luoghi, il desiderio di rallentare il tempo, il piacere delle lunghe chiacchierate e delle notti all’aperto. Lo abbiamo fatto per non distrarci, per non farci prendere di sorpresa dalla feroce creatività della storia. Ma quella grammatica non è stata tradita. L’obiettivo è sempre quello. Far sì che su questo mare […] sulle sue rive si possa vivere e morire in pace, con molta luce e all’interno di una fraternità più larga». E si confermerebbe, così, che «la forza e l’attualità del pensiero meridiano non significa inseguire un mito letterario, ma offrire una risposta ai problemi del futuro»24.
La risposta proviene, poi, in effetti, da una contaminazione crescente di queste teorizzazioni con posizioni di immediata e, naturalmente, particolare natura politica; ma la contaminazione non le salva dalla loro originaria inadeguatezza dottrinaria e pratica a fronteggiare, come è nelle loro intenzioni e aspirazioni, la modernità e lo spontaneo corso globalizzante e amalgamante della modernità. Alle sfide della modernità, che sono effettivamente tali, e che hanno dimensioni e caratteri anche ben più insidiosi e drammatici di quanto farebbe supporre la semplice contrapposizione tra Nord e Sud, Sud e Ovest, Nord-Ovest e Sud-Est, Mediterraneo e Atlantico, non si risponde con antropologie e con Weltanschauungen incentrate sui valori e sul modo di essere di condizioni e mondi pre-moderni. Si risponde con una antropologia e con “filosofie” che affrontino il “nocciolo duro” di quelle sfide secondo le logiche della modernità. La quale – contrariamente a quanto se ne dice – è anch’essa un “multiverso”, tutt’altro che monolitico e completamente predeterminato. Opera umana, la modernità è, infatti, sempre varia, e nessuna modernità è mai compiutamente identica a nessun’altra; e il problema – per stare ai termini alternativi del pensiero mediterraneo-meridiano – sta nell’opporre alla modernità della deprecata globalizzazione, alla modernità del non meno deprecato Occidente (o Europa che sia), modelli ed esperienze vincenti di altrettanto schietta modernità.
L’esperienza storico-antropologica del Mezzogiorno moderno e contemporaneo è, certamente, su questo piano, una palestra ricchissima di insegnamenti e di confronti illuminanti. Lo è nel rispetto al Mediterraneo, come lo è rispetto all’Europa, alla quale si soleva contrapporlo, non per indicare prospettive o strategie superiori e risolutive, bensì, al contrario, per mettere in ancora maggiore evidenza la insuperabile problematicità dei processi storici e delle relative logiche, di cui non si svolga per intero la dialettica.


Nell’Occidente e nella storia: lezioni da ricordare

Se ora dovessimo riassumerne un po’ il senso, diremmo che, dopo tutto, le vicende delle discussioni di cui abbiamo finora fatto cenno sembrano ampiamente confermare le linee direttive sulle quali L’altra Europa. Non appaiono persuasivi i rifiuti della piena contestualizzazione europea dei problemi di “cultura” del Mezzogiorno. Né appare persuasivo il rifiuto della visione di un’Europa, sul piano culturale, «a macchia di leopardo», se la conclusione è che un certo modo di considerare «famiglia, campagne, religioni, superstizioni» è, sì, «presente ovunque in Europa», perché l’Europa della luce, della ragione, della “grande trasformazione” «non è un “mondo nuovo”», in quanto «risulta da una vecchia civiltà rurale trasformatasi in industriale», e perciò sopravvivenze, persistenze, difformità tradizionalistiche e altro di simile o di affine non possono non perpetuarvisi, ma l’ombra del passato vi si perpetua di meno. Rifiuto, quest’ultimo, per cui, in sintesi, l’“altra Europa”, «in qualche punto è più presente, e parecchio, che in altri», dove quell’ombra risulta assai meno gravosa e condizionante (il corsivo è nostro, e intende richiamare a un punto centrale, come si vedrà, della questione). Di conseguenza, richiamare il contesto europeo non porterebbe ad altro che a «far balzare evidente, più vivida che mai, una spiccata fisonomia antropologica del Mezzogiorno, variegata e sfaccettata, ma profondamente unitaria e, soprattutto, prepotentemente diversa da ogni altra che si conosca in Europa»25. Giudizio sul quale non si può rinunciare ad almeno due osservazioni.
La prima è che la periferia del Mezzogiorno italiano sarebbe la sola in Europa a presentare quei caratteri di una fisionomia antropologica unitaria bensì, ma diversa da ogni altra del continente, come se l’Europa meridionale, balcanica, orientale non offrisse nulla di simile, e magari di più. La seconda è che, in realtà, superstizioni, irrazionalità, credenze ed “errori (come si diceva una volta) popolari” sono presenti e documentati in tutta Europa con la ben nota diffusione di maghi, astrologi, oroscopi, indovini, cartomanti, chiromanti, “sensitivi”, guaritori dei più incredibili tipi, feste e celebrazioni di un tradizionalismo così invecchiato (e in realtà desueto) da muovere non di rado al sorriso se non al riso; con la mistica delle Case reali e dei loro fasti e nefasti, e simili altri aspetti della vita sociale, che non sono certo una sola cosa con gli aspetti caratterizzanti dell’Europa della luce e della piena modernità (né si può dimenticare come, fino a date ancora molto recenti, nel cuore di questa Europa si siano avute manifestazioni di una mistica del sangue e del suolo, della razza, del Führerprinzip e di altro che rinvia a un passato non meno passato di quello dal quale si vede aduggiata l’Europa ritenuta più vecchia). Pensare che la struttura antropologico-culturale a macchia di leopardo dell’una e dell’altra Europa le renda uguali ed equivalenti sarebbe addirittura puerile. Ritenerle, però, pure ammettendo, in tutto o in parte, la sussistenza di quella struttura, del tutto eterogenee, e anche frontalmente contrapponibili, in base alla diversa proporzione del bianco e del nero (sempre per stare alla stessa metafora) in ciascuna di esse, e che da questa diversa proporzione dipenda la loro diversa facies culturale, è – si direbbe – ancora meno verosimile.
Certo, il più e il meno (si ricordi il nostro corsivo nella citazione sopra riportata) offrono una prospettiva accettabile nella considerazione del problema di cui parliamo. Diversità soltanto quantitativa? Può crederlo solo chi non si rende conto che le forbici della quantità, allargandosi oltre misura, danno luogo a salti di qualità che definiscono fisionomie e ruoli storici all’apparenza divaricanti ed estranianti. Occorre solo aggiungere che la divaricazione e l’estraniamento non comportano una diversità di radici e di natura del corso storico in Europa; non rendono l’Europa periferica meno Europa del cuore europeo; non rompono la solidarietà storica costituita (nel caso dell’Europa) da fattori di primario rilievo storico, dalle grandi parentele linguistiche alla profonda e comune e ultramillenaria professione della religione cristiana, dalla similarità (quando non l’identità, e quali che poi ne siano stati gli esiti ultimi) dei processi storici che nel quadro europeo si sono manifestati e svolti; non attenuano gli effetti (spesso più alla periferia che al centro) della millenaria partecipazione comune a grandi e piccole vicende politiche e militari, in una dialettica continua fra i poli dell’egemonia e dell’equilibrio continentale; non impediscono da sempre il generale diffondersi ovunque in Europa delle mode e degli usi sociali, dei modelli di comportamento, delle idee della tecnica, in qualsiasi misura possa esplicarsi tale diffusione.
In tutto questo genere di indicazioni, che potrebbe essere facilmente moltiplicato, se non fosse superfluo farlo, l’essenziale è chiaro: la storia e la realtà diacronica e sincronica del Mezzogiorno sono pagine e aspetti della storia d’Europa. Fuori di questo nesso – non v’è alcuna ragione per non ribadirlo ancora una volta con la massima chiarezza ed energia – la storia del Mezzogiorno diventa l’indecifrabile o inclassificabile peripezia di un frammento storico senza identità contestuale. E, insieme, astrarre nella storia d’Europa dal Mezzogiorno bizantino e musulmano dell’alto Medioevo, dalle fastose vicende della monarchia normanna e sveva coi suoi grandi protagonisti fino a Federico II di Svevia, dalle forti pagine della monarchia angioina e aragonese, dal barocco napoletano, dalla speculazione meridionale dal tardo Rinascimento a Vico, dalla scuola musicale napoletana, dall’Illuminismo dei Genovesi e dei Filangieri e da tante altre vicende e momenti della storia del Mezzogiorno certamente è un depauperamento, non un arricchimento della coscienza storica e civile dell’Europa: anche questo bisogna ribadire. Né in questa continua intersezione della storia del Mezzogiorno e della storia d’Europa si consumano soltanto vicende della grande cultura e dell’alta politica. Si esprime, allo stesso tempo, una travagliata, parziale, magari distorta partecipazione meridionale alla comune storia europea; si formano e si manifestano quelle particolarità che, nel comune contesto europeo, individuano e contraddistinguono l’identità specifica del Mezzogiorno: ma anche tutto questo fa parte dell’esperienza europea e della storia d’Europa.
Singolare può apparire che in ambienti politici ed economici tutto ciò sia stato ricorrentemente notato, o, almeno, percepito. L’Economic Survey of Europe in 1953, redatto dalla Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, affermava senz’altro che la condizione depressa del Mezzogiorno nell’ambito di «una più grande entità nazionale rende l’Italia meridionale un caso del tutto specifico, non facilmente comparabile coi problemi degli altri paesi dell’Europa meridionale»26. E si sa che sul presupposto di un «Mezzogiorno nell’Occidente» condusse la sua azione meridionalistica un uomo politico rilevante del suo tempo, quale fu Ugo La Malfa, che esplicitava così una convinzione largamente diffusa nella vita pubblica italiana27. Ma la cosa è meno singolare di quanto appaia. Quegli ambienti politici ed economici riflettevano, in effetti, idee e convinzioni largamente diffusi, ancorché non sempre esplicitati con la chiarezza e con la linearità che il linguaggio dell’economia e della politica richiede.
L’altra osservazione è che la forte storicizzazione sia degli sviluppi della società europea che, nella fattispecie, di quelli della realtà del Mezzogiorno d’Italia mette in condizione di porre nella più giusta luce una serie di questioni che, al di fuori del discorso storico, diventano indecifrabili e fuorvianti.
«Nego assolutamente – dichiarava Gaetano Salvemini nel 1900 in una delle sue pagine più forti e magistrali, ancorché alquanto meno ricordata di altre – che il “carattere” dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nello sviluppo dei due paesi. La “razza” si forma nella storia ed è effetto di essa, non causa, e nella storia si trasforma. Spiegare la storia di un paese con la “parola” razza è da poltroni e da semplicisti»28: è frutto, cioè, di pigrizia intellettuale e di povertà raziocinativa. Era questa profonda convinzione a spingere Salvemini a respingere con decisioni le tesi di coloro che nel Mezzogiorno vedevano una società pietrificata, arrestatasi nella sua evoluzione sociale, quasi un vagone della storia finito su un binario morto, caratterizzata da un comportamento umano e sociale proprio di “società inferiori”. In altri termini, e come sarebbe stato detto da altri, una certa storia aveva fatto del Mezzogiorno quel che esso era; una storia diversa lo avrebbe fatto diverso. La chiave di questo nesso – possiamo, dunque, a nostra volta dedurne – è nella volontà di storia del Mezzogiorno non meno che nelle possibilità di storia offerte dal contesto.


Eppur si muove (anche l’antropologia)

Un Mezzogiorno immobile, allora, anche nell’ultimo trentennio, come – più o meno – indicano gli studi dei quali abbiamo parlato, che lo riguardano? Sarebbe un vero errore crederlo. Salvemini lo notava per il suo tempo già nelle condizioni materiali del paese meridionale. «La società meridionale – scriveva, riferendosi al periodo dal 1860 in poi – ha avuto anch’essa il suo progresso nell’ultima metà di questo secolo»29. E così pure nella seconda metà del seguente secolo XX il Mezzogiorno appare ed è in costante, ancorché più o meno avvertibile e avvertita, evoluzione. Sulla scala breve di un trentennio può essere audace e ingannevole cogliere effetti o sintomi rilevanti di tale evoluzione. Ma a uno sguardo un po’ più addietro nel tempo, qualcosa può emergere di significativo e, forse, di non del tutto labile sulle onde del tempo breve.
Netto appare, ad esempio, il progressivo allontanarsi da alcune forme appariscenti, ma anche fondamentali della vita religiosa del passato. Ci riferiamo, in particolare, alla devozione come culto di determinate figure di santi, con le quali si è legati da quel tipo di rapporti che abbiamo avuto occasione di analizzare in uno dei capitoli di questo volume. L’affidamento a un santo protettore e fautore appare in netto declino. Una serie di manifestazioni collettive, pubbliche, comunitarie, come celebrazioni di feste religiose (patronali e di ogni altro tipo) appaiono largamente confinate in una ritualità sempre più consuetudinaria e da festa civile più che religiosa. La rarefazione notevolissima dell’uso della bestemmia e di espressioni volgari nei riguardi dei santi e fino al livello mariano e del divino è, a suo modo, un indizio, in parte minore, di un raffinarsi o educarsi del comportamento e del sentimento religioso; in altra parte, però, maggiore e più importante, appare dovuta alla rottura di quel rapporto di familiarità col santo e col divino, e immedesimazione in esso, che forniva un segno significativa della profondità e autenticità del vissuto religioso.
A sua volta, impressionante è stato il mutamento nell’onomastica personale, che ha vistosamente e largamente decristianizzato o reso del tutto soggiacente alla moda della società dominata dai media il sistema onomastico tradizionale, i cui riferimenti religiosi appaiono sempre meno forti. Sull’onomastica è, anzi, da segnalare un disancoraggio non solo su questo piano del riferimento religioso, bensì anche sul piano dell’altro riferimento fondamentale del sistema tradizionale, ossia la trasmissione dell’onomastica familiare, regolata da ricorrenze inevadibili secondo lo schema:
1° figlio(a)/nonno(a) paterno(a);
2° figlio(a)/nonno(a) materno(a);
3° figlio(a)/primo(a) zio(a) paterno(a);
4° figlio(a)/primo(a) zio(a) materno(a)

e così a seguire, o evadibili solo per particolari ragioni (voti, eventi imprevisti di famiglia e non, circostanze di qualsiasi ordine, ma più che raramente dovute al caso o a capricci o altro di simile).
Tutto, inoltre, concorre a far credere che la pratica dei sacramenti e dei precetti ecclesiastici, così come la frequentazione delle chiese e delle cerimonie o eventi religiosi, siano declinate in molto alta misura. Alcuni sacramenti (battesimo e matrimonio) appaiono ugualmente ridotti nel loro significato religioso, e sempre più praticati come convenzione sociale (così come i funerali religiosi), anche se la dimensione religiosa resta ben chiara ai partecipanti e protagonisti dell’evento ed è almeno nominalmente riconosciuta e accettata quale fonte di un loro obbligo formale. Il declino delle vocazioni alla vita religiosa sia per parte maschile, sia (e, a quel che pare, addirittura di più) per parte femminile non è da meno quale segnale di un indebolimento dell’esprit de religion; anzi, è addirittura molto più significativo. E connessi a questo piano appaiono anche fenomeni come la pratica di festeggiare il compleanno (neutra e laica ricorrenza anagrafica, calendariale) anziché l’onomastico delle persone (legato a una dedicazione del neonato a un santo, che è considerato, insieme, protettore, emblema e guida di chi ne porta il nome, e richiede una particolare devozione); o di festeggiare il Natale con l’albero della tradizione nordica più che con il presepe della tradizione cattolica e mediterranea; o, inattesa, di celebrare la festa di Halloween a preferenza di quella, molto sentita nella tradizione meridionale e cattolica, di Ognissanti e dei Defunti, con il sopravvenire, così, di un folklore molto lontano da quello tradizionale nella iconografia e nel dispiegamento celebrativo.
Parallele e omogenee a tutte le precedenti sono pure le indicazioni derivanti dall’osservazione dei comportamenti su piani sociali eminenti, e tradizionalmente ritenuti fra i più caratterizzanti per il Mezzogiorno e per la sua particolarità umana e sociale. Ci riferiamo alla innovazione profonda registratasi sul piano dei costumi sessuali e familiari, nella concezione dell’“onore”, nella pratica della prolificazione. Il “delitto d’onore” è pressoché scomparso dal costume sociale prima e più che sul piano giudiziario. La libertà femminile è cresciuta in misura che sarebbe stata giudicata fino a qualche decennio prima inconcepibile. Il sesso viene largamente e notoriamente praticato molto a prescindere non solo dalla osservanza dei precetti ecclesiastici, bensì anche dalla connessione con finalità o consuetudini matrimoniali. Sempre più frequente, quando ce n’è la possibilità economica, è la scelta dei giovani di andare a risiedere fuori della famiglia. Diffusissima è la pratica delle convivenze non regolate col matrimonio. Il numero delle separazioni legali e dei divorzi è cresciuto altrettanto, e appare in ulteriore incremento, così come accade per i figli di genitori separati o divorziati, coi relativi problemi di convivenza e di rapporti col genitore non convivente. Il numero dei figli e la conseguente ampiezza della famiglia hanno subìto la stessa sorte di riduzione, al punto da portare a livelli irrisori l’incremento naturale della popolazione. Il rapporto tra genitori e figli ha visto una modificazione consistente nella massima libertà dei figli già negli anni dell’adolescenza. Nella partecipazione a concerti e ad eventi di massa – di gran lunga più sentiti ormai delle feste tradizionali – la libertà giovanile ha trovato un momento dei più significativi.
Nel costume sociale le innovazioni sono state e sono continue, e portano a convergenti deduzioni. Ne abbiamo già accennato per molti versi. Qui aggiungiamo solo che, ad esempio, sembra pesare sempre meno la manifestazione esteriore di antiche credenze, anche là dove la credenza continua, come nel caso della jettatura, mentre l’inverso si può notare per l’interessamento alle manifestazioni sportive e, per quanto assai di meno, per la pratica degli sport, parallela, peraltro, a una forte intensificazione delle attività ginnastiche, specialmente di palestra e di piscina, che è da segnalare perché correlativa a una pressoché inedita cura estetica e fisica del corpo, prima propria soltanto delle classi al vertice della società, e anzi a una parte di tali classi, e ora estesa anche a un’accresciuta pratica della chirurgia estetica. L’analfabetismo si è ridotto a livelli minimi, anche se in alcune zone non sono ancora trascurabili.
Più in ombra appaiono gli aspetti del comportamento legati alla vita politica e amministrativa. Nessuno potrebbe sottovalutare il fatto che per la prima volta e più che in ogni altro precedente periodo il Mezzogiorno ha rivelato una capacità di associazione di massa e di disciplina nella militanza in partiti e sindacati di tipo nuovo, non tradizionale, come quelli sviluppatisi nell’Italia post-fascista e repubblicana, nei quali ci si è sempre più riconosciuti fino alla crisi dissolutrice del sistema politico italiano fra gli anni ’80 e gli anni ’90 del secolo XX. Non che in questa militanza tutto sia stato positivo e progressivo, e più volte se ne sono denunciate le note di populismo, di “clientelismo di massa”, di particolarismo di gruppi e di famiglie, di contrapposizione fra gruppi locali in prosieguo di antichi precedenti al riguardo, di opportunismo e di trasformismo, e di altri elementi, che hanno connotato negativamente o in maniera non costruttiva quell’esperienza di nuova militanza politica e sindacale (e, forse, di quella sindacale alquanto di più di quella politica). Il valore esemplificativo e indicativo di tale esperienza resta, tuttavia, pur con tutti i suoi limiti, come un segno concreto e comprovato della plasticità e dell’apertura dei comportamenti meridionali al nuovo e al diverso, a malgrado di tutte le teorizzazioni sulle loro rigidità e chiusure, magari etnicamente configurate. E, anche se, alla resa ultima dei conti, nel ventennio 1990-2009 di tutto ciò poco sembra rimasto di vitale e di dinamico, non solo resta valida l’indicazione del mezzo secolo precedente, ma la stessa notazione può variamente, ma sicuramente farsi per molte parti della restante Italia.
Difficilissimo è, invece, il discorso, che pure non si può mancare di avviare a riguardo della malavita organizzata, le cui fortune hanno raggiunto in tale ventennio un livello di diffusione, di influenza e di inquinamento sociale, di prepotenza, di capacità delittuosa e di materiale prosperità, superiore a ogni precedente. E, ciò, malgrado sia andato crescendo lo sforzo innegabile, e spesso coronato da successo, di combatterla, e con tecniche e strumenti nuovi, su ogni piano: legislativo, politico-amministrativo, economico-finanziario, giudiziario, e, innanzitutto, di perseguimento e di repressione da parte delle forze dell’ordine; e malgrado, anche, una mobilitazione dell’opinione pubblica e della società civile, anch’essa maggiore che mai prima. Nuova è, peraltro, anche la possibilità della malavita di agire su terreni nuovi (quello, innanzitutto, e amplissimo e determinante, del traffico delle droghe), e in forme nuove, anche sul piano dell’amministrazione e dello sviluppo delle fortune criminosamente acquisite e sul piano della penetrazione negli apparati pubblici e nella vita politica e amministrativa.
La difficoltà del discorso riguarda qui la questione, che ugualmente non si può mancare di sollevare, se codici, procedure, eziologie, manifestazioni e tutto quanto attiene a una tale criminosa appartenenza e ai suoi riflessi nella vita sociale obbediscano a logiche e forme tradizionali di appartenenza o di satellitismo o se anche su questo terreno vi siano da registrare novità apprezzabili dal punto di vista che qui ci interessa. Né si può dire se la difficoltà dipenda soltanto da una evidente mancanza di studi specifici o da più radicali ragioni che rendono poco praticabile, nel metodo e nelle tecniche, il terreno degli studi in tale materia, o, ancora, da un’assenza o debolezza (che sembra, peraltro, poco probabile) di “cose notevoli” di ordine antropologico-culturale nelle forme attuali di una, così grave, patologia sociale.
Le innovazioni manifestano, inoltre, esiti assai spesso singolari, che vanno notati non solo per la loro singolarità, bensì soprattutto per il rapporto tra innovazione e tradizione che in tale singolarità si esprime. È il caso, ad esempio, delle numerose occorrenze in cui l’innovazione non sradica la tradizione e semplicemente si associa ad essa, dimostrando, nella loro coesistenza, una reciproca compatibilità, di cui occorre sottolineare sia l’incidenza che il significato nella vita sociale. Accade così, ad esempio, per il festeggiamento dell’onomastico e del compleanno: invece di escludersi a vicenda, i due festeggiamenti si sono cumulati, ed è ormai frequente il caso del doppio festeggiamento. Altrettanto accade per l’albero di Natale e il presepe, per cui è ancora più frequente che nella maggior parte delle case siano presenti al tempo dovuto sia l’uno che l’altro, anche se sembra che l’uso di deporre i doni natalizi ai piedi dell’albero richiami l’attenzione su quest’ultimo alquanto di più che sul presepe. Nel caso di Halloween, invece, quella che sembra in corso è una vera e propria sostituzione della nuova alla vecchia tradizione. E questa pluralità di esiti conferma quanto complesso, se non travagliato, possa essere il processo innovativo in un universo tradizionale molto consolidatosi e strutturatosi nel tempo, come è quello meridionale. Essa richiama, inoltre, e ancora di più, il problema dell’assunzione di modelli moderni – la cui genesi e ragione di sviluppo si ritrovano altrove, e precisamente nelle zone avanzate della modernizzazione – in aree periferiche o dipendenti o subalterne nella determinazione dei modelli di comportamento e, attraverso di essi, dei valori della vita contemporanea: problema che abbiamo esaminato nel capitolo su Mezzogiorno e modernizzazione de L’altra Europa.


“Differentia specifica” e “genus proximum”

Quelle che precedono sono considerazioni dedotte da un’amplissima e poco disciplinabile varietà di fonti30: poco disciplinabile anche, e innanzitutto, perché la varietà risponde pure alla plasticità germinale di processi che si svolgono in assoluta contemporaneità con la loro presa di coscienza a livello riflesso e “scientifico”. In questo caso il valore maggiore sta nella già richiamata dinamicità storica, generale e particolare, che le vicende più recenti confermano anche a un’osservazione, per così dire, di livello appena iniziale più che di vero e proprio primo livello. Come sempre, sotto la dura scorza di una granitica e insuperabile realtà di persistenze tanto ostinate da farne ricorrere ripetutamente diagnosi e prognosi di tipo etnico, se non, in forma ancor più greve, razziale, anche nel Mezzogiorno d’Italia scorre e si fa chiaramente avvertire il magma della storia che si fa. Per questo lato, almeno, la corrispondenza tra la geologia vulcanico-sismica del Mezzogiorno e la sua facies e logica storica può essere concessa con il sorriso che possono sollecitare le metafore immaginose quando sono alimentate da riferimenti a una realtà di comune esperienza e di accertato fondamento. E in questo caso l’esperienza e il fondamento sono quelli derivanti dalla riaffermazione della diversità della specie (Mezzogiorno) nell’appartenenza di genere (Europa) a cui quella specie appartiene e si riporta storicamente e strutturalmente. Per una volta, la classificazione zoologica può trovarsi in piena sintonia critica e metodologica con il procedimento storico e antropologico-culturale.




NOTE
* Si pubblica il testo della Postfazione alla terza edizione di G. Galasso, L’altra Europa, Guida, Napoli.^
1 Mancano lavori di insieme su questi sviluppi, e mancano largamente anche lavori relativi a particolari settori. Si vedano, tuttavia, le indicazioni che diamo per l’ultimo paragrafo di questo capitolo. ^
2 Per la storia del pensiero meridionalistico fino alle più recenti elaborazioni cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005. ^
3 Per i varii aspetti delle questioni storiche e storiografiche qui accennati si veda G. Galasso, Mezzogiorno, problema aperto (1), in Idem, Il Mezzogiorno da “questione”…, cit., pp. 481-513; Idem, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1982, pp. V-VII; e anche Idem, Medioevo euro mediterraneo e Mezzogiorno d’Italia da Giustiniano a Federico II, Roma-Bari, Laterza, 2009, capitoli introduttivi. Queste indicazioni e le precedenti valgono anche per tutto quanto si dice nel prosieguo di questo paragrafo. ^
4 A queste tesi si ispira, e le ha a sua volta rafforzate, G. Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo, Venezia, Marsilio, 1992. ^
5 Qui e in seguito, salvo diversa indicazione, le citazioni da Giustino Fortunato sono dal suo scritto del 1904 La questione meridionale e la riforma tributaria, in Idem, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici (1880-1910), 2 voll., Bari, Laterza, 1911, vol. II, pp. 311-373. ^
6 Per i varii aspetti qui richiamati delle posizioni del Fortunato rinvio a G. Galasso, Il pensiero storico di Giustino Fortunato, in Idem, Da Mazzini a Salvemini. Il pensiero democratico nell’Italia moderna, Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 233-255; Idem, Giustino Fortunato, in Idem, Italia democratica. Dai giacobini al partito d’azione, Firenze, Le Monnier, 1986, pp. 70-122. ^
7 Cfr. G. Fortunato, Le banche mutue popolari nel Mezzogiorno, in Idem, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano…, cit., p. 54. ^
8 G. Fortunato a Gina Lombroso Ferrero, 1 febbraio 1909, in G. Fortunato, Carteggio. 1865-1911, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 155. ^
9 Per lo sviluppo e le vicende delle idee antropologiche e razzistiche in Italia si vedano, fra gli altri, L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Roma-Bari, Laterza, 1985, e Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia. 1870-1945, a cura di A. Bugio, Bologna, Il Mulino, 2000, nonché, in specifico riferimento al Mezzogiorno, l’utile antologia di V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma, Manifestolibri, 1993. ^
10 Da segnalare, in particolare, su varii aspetti di questa “scuola” (il termine è alquanto approssimativo), sono i due saggi di A. de Francesco, Razza, delinquenza e carattere degli Italiani: un idioma risorgimentale?, in Revisioni e revisionismi. Storie e dibattiti sulla modernità in Italia, a cura di I. Botteri, Brescia, Grafo, 2004, pp. 87-107; e Idem, Inferiorità politica o inferiorità di razza? Alcune note sulla diversità meridionale nella scuola antropologica italiana di fine secolo XIX, di prossima pubblicazione (e cortesemente datomi in lettura dall’autore, che ringrazio). ^
11 Per una generale, ma sufficiente indicazione dello sviluppo delle idee sulla razza anche fuori d’Italia si veda G.L. Mosse, Razzismo in Europa: dalle origini all’Olocausto, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1980 (ed. originale New York, 1978). ^
12 Essenziale è su questi punti il riferimento a Spencer, che abbiamo già segnalato per Fortunato, ma che è molto più diretto e più forte in tutti gli altri esponenti della “scuola” antropologica di cui parliamo: un riferimento tanto più importante in quanto si sa che anche Darwin e altre espressioni della cultura e della scienza del periodo positivistico passarono attraverso interferenze e contaminazioni col pensiero di Spencer. Lo si vede, come non di frequente accade, messo nella dovuta evidenza, a proposito di quello che ben si può definire un “caposcuola”, in D. Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, passim, e in particolare pp. 138-140 e 202-208. Per la cultura del periodo richiamiamo anche le nostre osservazioni in G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Bari, Laterza, 2002, cap. I, e, per l’Italia, cap. II. ^
13 Sergi aveva già enucleato le sue idee sulla realtà nazionale italiana nel suo La decadenza delle nazioni latine, Torino, Bocca, 1900; e le avrebbe poi ribadite nel libro di vent’anni dopo Italia. Le origini, Torino, Bocca, 1919. ^
14 Cfr. A. Niceforo, Italiani del Nord e Italiani del Sud, Torino, Bocca, 1901, p. 23. ^
15 Cfr. L. Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1962, p. 94. Notiamo, per inciso, che questo importante giudizio è attribuito, nel romanzo, a un ufficiale (non meridionale) di polizia in servizio. ^
16 Cfr. al riguardo della nozioni di “civiltà contadina” e di “mondo perduto” le nostre osservazioni in G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione”…, cit. passim; e nel presente volume L’altra Europa. ^
17 Si veda in particolare G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia dalla caduta dell’Impero romano a oggi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 295-296, che definisce il “particolarismo” non in quanto fenomeno della storia politica, giuridica, amministrativa, ma secondo la «nozione sociologica del gruppo come soggetto diretto o indiretto, ma primario o di base delle relazioni e delle azioni e reazioni in cui la vita sociale si articola», e fornisce alcuni riferimenti bibliografici più immediati al riguardo, ai quali aggiungiamo qui qualche rapsodica indicazione: H. Sumner, Costumi di gruppo, tr. it., introd. di A. Cirese, Milano, Comunità, 1962; G. Simmel, La socievolezza, tr. it., Roma, Armando, 1997; L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, tr. it., Milano, Franco Angeli, 1997; J. Maisonneuve, La dynamique des groupes, Paris, P.U.F., 2002. Utili indicazioni anche in R. Cavallaro, Il concetto di gruppo nella teoria e nell’analisi sociologica, Roma, SEAM, 1999. ^
18 Cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 91, in pagine dedicate ad Albert Camus. ^
19 È l’inizio del Sermone sulla mitologia, vv. 19. ^
20 F. Cassano, op. cit., p. 92, sempre commentando Camus. ^
21 Ivi, p.7. ^
22 Ivi, p. 6. ^
23 Ivi, p. 8. ^
24 Dalle introduzioni di D. Zolo, La questione mediterranea, e di F. Cassano, Necessità del Mediterraneo, in L’alternativa mediterranea, a cura degli stessi due autori, Milano, Feltrinelli, 2007, rispettivamente pp. 13-77 e 78-110. ^
25 Citiamo dalla recensione di Luciano Cafagna alla prima edizione della nostra L’altra Europa, già apparsa sul settimanale «L’Espresso», per cui si veda ora Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 101-103. ^
26 Cfr. Economic Survey of Europe in 1953, including a Study of Economic Development in Southern Europe, U. N., Department of Economic Affairs, Economic Commission for Europe, Geneva 1954, p. 137. ^
27 Ci riferiamo a U. La Malfa, Mezzogiorno nell’Occidente, in «Nord e Sud», 1 (1953-54), n. 1, pp. 11-22. ^
28 Questo passo fa parte della risposta data da Salvemini all’inchiesta sulla questione meridionale promossa dalla rivista «Il pensiero contemporaneo» di Catanzaro, diretta da Antonio Renda, nel 1900, che si può leggere anche in S. F. Romano, Storia della questione meridionale, Palermo, Pantea, 1945, pp. 212-213 (e, per i quesiti dell’inchiesta, ivi, pp. 209-210). ^
29 Così all’inizio della risposta di cui alla nota precedente; ma si ricordi che questo motivo ritorna spesso in Salvemini, fino al confronto fra la sua Molfetta del 1896 e quella di sessant’anni dopo, per il quale si vedano i suoi Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), a cura di G. Arfé, Einaudi, Torino 1955. ^
30 A titolo puramente indicativo, notiamo qui che ci siamo avvalsi in questo paragrafo delle statistiche dell’Istituto Centrale di Statistica, di varie relazioni e studi di organi statali e di uffici pubblici, dei rapporti annuali di istituti come la svimez (la ben nota Associazione per lo Sviluppo industriale del Mezzogiorno) come il censis o come il Consiglio nazionale delle Ricerche, degli studi che si sono resi disponibili in sede universitaria o in qualsiasi altra sede (partiti, sindacati dei lavoratori e degli imprenditori etc.), delle ricerche demoscopiche più generali e attendibili, e così via dicendo, nonché, ovviamente, dalla nuova letteratura più varia riguardante il Mezzogiorno e la materia qui trattata, e, non meno ovviamente, dei dibattiti, dei servizi e delle informazioni fornite dalle riviste scientifiche e da ogni tipo di media, a partire dai giornali. La sistemazione data al materiale così disponibile in ordine ai fini di questo studio è quella, beninteso, dei lavori in corso, ed è, quindi, offerta qui come primo e “greggio” strumento di ulteriore lavoro e di riflessione in materia, ma appare confortante la sua, come abbiamo già notato nel testo, chiara corrispondenza alle linee direttive di questo volume. ^
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