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Madri e figli: conflitti affettivi, ethos, fratture generazionali nella crisi dell'Italia liberale*
di Adolfo Scotto di Luzio
1. Al capezzale della madre morente

L’esclusa non è solo il romanzo di Marta Ajala, la donna ingiustamente accusata dal marito per un adulterio che non ha commesso, anche se forse ha osato, solo per un istante, immaginare; la donna respinta e oltraggiata da un’accusa infamante, che diventa maestra nel disperato tentativo di riannodare i fili spezzati della propria vita. Più precisamente, non è il romanzo di un’emancipazione femminile come la intenderemmo oggi. Che la patente magistrale rappresenti, sulla soglia del Novecento, per le donne, una via possibile di affrancamento e di libertà, non significa che la giovane e orgogliosa eroina pirandelliana si metta per questo cammino con dolente eppur ferma coscienza di sé. Il verismo appartiene all’Ottocento declinante. Sulla soglia del nuovo secolo (il romanzo era stato scritto nel 1893, ma verrà pubblicato otto anni più tardi, nel 1901), lo sguardo dell’autore ne complica l’originaria ambizione a descrivere il «congegno della passioni» sulla base di una rigida scansione delle gerarchie sociali. Tanto più complicato, quanto più la rappresentazione risale, sulle tracce dei gruppi, dei ceti e delle classi, il «moto ascendente» della società. Così Verga nell’introduzione ai Malavoglia. Fin da questo suo primo romanzo, Pirandello individua altrove il terreno dei conflitti novecenteschi. Che non riguardano più o soltanto la sfera dell’economia, la lotta delle classi. Al centro vi sta la coscienza, il teatro di un’inedita tensione tra l’individuo e l’immagine di una totalità spoglia di connotati sociali rilevanti, un insieme indeterminato, genericamente oppressivo, che in questo romanzo giovanile sono le opinioni del paese, il sistema dei pregiudizi privati, le trame della burocrazia.
Semmai, la via di Marta Ajala è ermeneutica e non sociologica. Un incessante appello al soggetto e ai suoi desideri nello specchio del giudizio degli altri. L’esclusione che patisce la giovane Marta ha molto poco a che fare con la perduta saldezza della sua esistenza di figlia e moglie del medio ceto provinciale siciliano. Riguarda piuttosto il sentimento di sé. Lo stato di indigenza materiale in cui inesorabilmente precipita dopo che il marito l’ha scacciata di casa, la morte del padre per l’onta subita e il suo contemporaneo aborto, restituiscono la protagonista all’essenzialità di una psicologia che sta sotto il segno dell’immaturità affettiva. Marta è dotata di un’intelligenza brillante. Ha studiato con facilità. Soprattutto, ha dimestichezza con i suoi «pensieri strani», quei pensieri «inconfessabili» che sorgono nella mente di ciascuno, come se sorgessero «da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo»1. Il suo stesso adulterio è consistito in uno scambio di lettere con un uomo più maturo, avviato alla carriera politica, un avvocato di grido. Non sono lettere innocenti come lei pretende di fronte a se stessa e agli altri. Certo sono lettere amorose, in cui però l’amore passa attraverso l’orgoglio della scrittura e dell’intelligenza spesa nella controversia sentimentale. In quelle lettere Marta non solo ci si specchia ma dice anche il modo in cui sa amare.
Tutta la vita della giovane donna è insomma segnata da una sorta di primato del principio paterno. Il suo dramma, e con esso la sua maturazione affettiva, cominciano dall’esperienza del tradimento del padre. Quando torna a casa respinta dal marito, suo padre si ritira nel posto più remoto della casa. Chiude porte e finestre. Non vuole vedere più nessuno e soprattutto lei, la figlia più amata.
Dopo aver confessato tutto alla madre – annota Pirandello –, tutto, fin nei minimi particolari, nei più intimi e segreti sentimenti, aveva sperato che il padre almeno, se non più il marito, le rendesse giustizia, e si rimovesse da quel proposito di non uscire più di casa, ch’era per lei, di fronte a tutto il paese, una condanna anche più grave di quella che il marito con sì poca ragione aveva voluto infliggerle, scacciandola dal tetto coniugale. Così egli, suo padre, confermava l’accusa del marito e la infamava irrimediabilmente. Come non lo intendeva2?.

Il trauma dell’esclusione sociale mette la protagonista in contatto con i termini reali della sua insoddisfazione affettiva. Mentre nella nuova casa di Palermo, sostenute dal suo stipendio di maestra, la madre e la sorella ricostituiscono un nucleo di vita intima attorno a quella riconquistata normalità domestica, Marta per la prima volta sente il suo corpo, nel dolce indolenzimento, nella stanchezza delle membra. La madre e la sorella ne lodano l’energia, come quella del padre dicono, ma Marta non sta più solo dalla parte dello spirito. La sua natura convessa cede per la prima volta al piacere femminile di accogliere. Sola, Marta si abbandona. «A lei, quelle sere – scrive Pirandello – quasi non riusciva ingrata la sua amarezza, quell’intenerimento indefinito che la faceva piangere e quel languore greve a cui abbandonava con triste voluttà le membra rilassate; la coscienza infine che in quel momento ella si faceva d’esser debole e donna…»3. Questo inedito sentimento del corpo coincide, per la prima volta, con un senso di smarrimento che si impossessa della giovane per strada. Lontana da casa e non ancora in collegio, tra le sue allieve, nello spazio noto e regolato dell’istituzione scolastica, Marta perde la sua proverbiale «presenza di spirito».
È questa maturazione interiore di un femminile passivo-ricettivo a lungo gravato e nascosto che permette finalmente a Marta di consumare l’adulterio che allora era stato solo di carta. Ma soprattutto è questo il passaggio necessario per ritrovare il marito perduto.
Perché ciò avvenga un’altra cosa deve però accadere e questo non riguarda più la donna ma il suo sposo bambino.
Come dicevo all’inizio L’esclusa non è solo il romanzo di Marta Ajala. È anche, e forse soprattutto, il romanzo di Rocco Pentàgora.
È lui a comparire per primo sulla scena. Scuro in volto, il cappello calato sulla testa ferita, i pugni serrati, ritorna alla casa del padre. Una casa senza affetti, deserta della madre. Rocco infatti è l’ultimo rampollo di una dinastia molto pirandelliana di becchi. Trent’anni prima Antonio Pentàgora aveva fatto la stessa parte che ora tocca al figlio. E come allora, ad attendere il giovane sposo ferito c’è Sidora, la sorella del padre, «bisbetica fin da ragazza»4 scrive Pirandello, che in silenzio, «zitta zitta», aveva condotto il fratello nella sua vecchia camera di scapolo, «come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire davanti, tradito e pentito»5. E che ora abbandona la tavola, insofferente alla voce grossa di Antonio e alla sua filosofia da cornuto. Accanto ad essa c’è Epponina, «una signora caduta in bassa fortuna», che l’odio paterno per le donne si compiace di aver trasformato in una serva, accomunata alla zia nel condiviso e dispregiativo nomignolo di Popònica.
In questo piccolo universo oppressivo le due donne appaiono svuotate di qualsiasi capacità nutritiva. Sono ammuffite, come lo spazio sul quale si apre il romanzo: il tetro stanzone che fa da sala da pranzo, le «pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po’ avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d’appassito»6. Sotto il segno di questa deprivazione affettiva, il fallimento sentimentale di Rocco realizza, in una sorta di coazione a ripetere, il destino dei maschi di casa Pentàgora. Di uomini non amati incapaci di suscitare amore.
È interessante il confronto con il padre. Tra Rocco ed Antonio va in scena un conflitto di prospettive semiotiche. La prima, quella del padre, è segnata dal primato dell’opinione, delle voci di piazza. Per il figlio in gioco è, invece, la felicità, che è sempre personale e privata. Per Antonio le corna sono un blasone, come uno stemma di famiglia, un segno da giocare sulla scena del paese. Nella loro ostentazione sono un modo per dominare la piazza. Per Rocco conta il sentimento dolente di una rinnovata solitudine. L’uomo che ha scacciato la moglie infedele ritrova nella «cameretta nuda, nel lettuccio di prima», il bambino solo, abbandonato dalla madre. Una condizione originaria a cui lo sposo novello aveva sperato di sottrarsi senza esserne evidentemente capace. Nella sua stanza vuota di bambino privo di affetto, Rocco sogna il talamo nuziale, «il suo letto a due»7.
Due. Scriverà Marino Moretti dopo la morte della madre: «Di noi due resta uno solo, cioè niente»8.
È questa condizione di unità simbiotica infranta, di lontananza e di separazione, la radice della «malinconia» dello sposo novello e, c’è da crederlo, la ragione profonda del suo fallimento affettivo. La strada di Rocco, diversamente da quella di Marta, è dunque verso l’origine. È il ritorno alla madre.
È al capezzale della madre morente che Rocco ritrova la donna amata. In un modo che forse non convince sul piano della costruzione narrativa, ma che tanto più sancisce la forza irresistibile del simbolo sul congegno del racconto. Ai piedi di quel letto, Rocco ottiene l’ultima carezza dalla madre, che è insieme un riconoscimento e un gesto di saluto. Solo così lo sposo può venire al mondo, accomiatandosi dalla sua lunga età di dolori, di amarezze, di conflitti. Il bambino solo nel suo «lettuccio», privato dell’abbraccio caloroso, del contenimento della madre, muore infine senza più timore e la sua morte libera il giovane amato e capace di donare amore.
Quando entra nella stanza della madre, Rocco appare alla moglie come trasfigurato. È stato malato e questa malattia-morte segna lo spartiacque tra il bambino ferito e il giovane sulla via della guarigione. Il segno di questa trasformazione della coscienza è il ritrovato sorriso infantile sul viso fatto più gentile dalla convalescenza. È un sorriso che al tempo stesso accoglie e con il quale il giovane Rocco accarezza il se stesso che è stato un attimo prima di lasciarlo finalmente morire.


2. L’incapacità di elaborare il proprio stento

La linearità del racconto pirandelliano non deve trarre in inganno. Attorno al rapporto tra madri e figli, in realtà, si ingarbugliano parecchi dei fili che, al passaggio tra Ottocento e Novecento, si dispongono normalmente all’ordito del problema delle generazioni. Scritto sulla soglia del nuovo secolo, la rilevanza storico-culturale de L’esclusa sta nella chiarezza con cui segnala al Novecento incipiente uno dei luoghi decisivi della sua coscienza. Il fatto è che al rapporto con la madre la più giovane generazione letteraria tornerà ripetutamente negli anni della meditazione matura, alla ricerca delle ragioni di quello che fin dall’inizio ha presagito come un incombente fallimento, uno stento esistenziale, tragicamente incarnato, nell’avanzarsi del secolo, dalle catastrofi personali di molti dei suoi accoliti. Da Boine a Corazzini a Gozzano a Carlo Michelstaedter a Dino Campana. Una catena lunga di malattie, suicidi, follia che esprime un identico disagio del proprio stare al mondo. Fino a quel darsi la morte volontariamente che è stato l’arruolamento in guerra per molti di loro. La stessa conversione religiosa, che segna le biografie di molti letterati primonovecenteschi prima e dopo la Grande guerra, si può leggere sullo sfondo del tentativo di elaborare questo stento. Innalzandolo allo statuto di mito, trasferendo su di un piano epico la propria inettitudine alla vita. Nelle Confessioni a Giulia, Giosué Borsi scrive: «Che impresa eroica sarà quella della mia purificazione!» (mercoledì 8).
È clamoroso, per l’eco internazionale che assunse la sua morte in battaglia, il caso di Borsi, tornato ai sacramenti insieme alla madre alla vigilia della guerra e poi deciso ad affidare risolutamente ad essa il compito di trovare la via d’uscita. Potevo, scrive Borsi, nell’ultima, famosissima, lettera alla madre, sperare di gustare le «buone gioie della vita». Essere un «buono sposo e un buon padre»:
Tutto questo era bello, era lusinghiero, era desiderabile, ne convengo, ma non vale la mia sorte d’ora, ecco la verità, e davvero non so se sarei veramente contento d’aver scritta invano questa lettera. La vita è triste, un penoso e increscioso dovere, un lungo esilio nell’incertezza della propria sorte. Perché la vita mi trascorresse a seconda dei miei desideri e senza offrirmi mille amari disinganni, occorreva un concorso di circostanze troppo rare e difficili. E poi sono e mi sento debole, non ho la minima fiducia in me stesso. Tutta la lotta contro le ingratitudini e le iniquità del mondo non mi avrebbe spaventato come la lotta contro me stesso. Meglio dunque come è avvenuto, mamma. Il signore, nella Sua infinita bontà chiaroveggente, mi ha riserbato proprio il destino che occorreva per me, destino facile, dolce, onorevole, rapido, morire per la Patria in battaglia […] io mi distacco […] da una vita di cui già troppo sentivo il fastidio e il disgusto. Lascio la caducità, lascio il peccato, lascio il tristo ed accorante spettacolo dei piccoli e momentanei trionfi del male sul bene, lascio la mia catena, e volo via, libero libero, finalmente libero, lassù, nei cieli dove è il Padre Nostro, lassù dove si fa sempre la sua volontà9.

Debole, privo di fiducia in me stesso, scrive Borsi. Che cosa significava per contrasto essere forti e chi era forte? Dov’era la forza? Il tema di questa generazione, nata negli anni Ottanta del secolo diciannovesimo, sta tutto qui. Quello che i sopravvissuti proveranno a spiegare e, in fondo, a spiegarsi sarà innanzitutto il perché di un clamoroso tradimento: nei confronti del lascito di fiduciosa operosità, di laborioso buon senso e di agiatezza che era ai loro occhi, indiscutibilmente e pur senza consentirvi, il nucleo dell’eredità post risorgimentale dei padri. Diffidenti nei confronti di quei maggiori, e della prevalente ragione pratica delle loro esistenze; estranei ai padri, a disagio a loro volta in presenza di quegli eredi così nervosi ed impacciati, i figli chiederanno lumi alle madri. L’opposizione tra prosa e poesia è anche il conflitto tra la sfera del padre e l’universo materno. Per molti di quei giovani letterati l’opera è il segno di una «diversità» che solo le madri hanno saputo intuire per tempo e che in fondo hanno preteso dai loro figli come risarcimento delle frustrazioni affettive patite. Una diversità di cui saranno le dolci e al tempo stesso arcigne custodi.


3. Il salotto della signora Carducci

Borsi amava l’ordine e non permetteva a nessuno di mettere le mani sulla sua scrivania, che spolverava da sé. È facile, però, immaginarsi la madre solerte a guardia di quel tabù. Proprio come quella di Marino Moretti, che coglie la sua nell’atto di alzare la mano, «in tempo», per fermare la fantesca che si accingeva ad «accostarsi al mio tavolino»: pareva, annota Moretti, che impedisse un sacrilegio. Era lei «che si avanzava poco dopo col suo straccetto, che era un apposito straccetto; era lei che spolverava qui sopra, dolcemente, delicatamente, quasi temesse di far male alla cartella, alle carte, evitando la pagina scritta o incominciata o tutta bianca. “Non tocco nulla, non tocco nulla!” Se sentiva ch’io la guardavo, sorrideva tutta felice, ma senza voltarsi. Se sentiva ch’io ero impaziente di tornare al mio posto, si voltava come per chiedermi scusa. Pareva veramente ch’ella compisse un piccolo rito indispensabile»10.
L’intenerimento del ricordo non basta a cancellare l’ostinazione di un’intrusione. E tra le lacrime dell’orfano affiora il fastidio del figlio. Queste madri di letterati non hanno alcuna intenzione di uscire dalla stanza, la camera chiusa resta per loro pienamente accessibile. Ritengono di avere un diritto indiscutibile a stare lì dentro. Un diritto che affonda le sue radici nella loro stessa carne e nel legame profondo che da lì origina con le loro creature.
Allora, niente più della rappresentazione dello spazio restituisce la misura della distanza che nel giro di pochi anni separa la generazione crescente da quella dei suoi padri.
Il 23 ottobre del 1921 Ugo Ojetti torna a far visita alla casa di Giosué Carducci. Non vi aveva messo piede dalla sera in cui «egli vi giaceva morto, tra ceri e lauri e fiori, nel mezzo della sua libreria». Era un po’ più vecchio (dai dieci ai quindici anni) dei letterati di cui mi sto occupando e a vent’anni, tra l’estate del 1894 e i primi del 1895, era andato a trovare, in villeggiatura o a casa, un certo numero di autori contemporanei. Per Gobetti era uno che azzeccava le citazioni più che i giudizi. Ma in fondo, nei modi disdegnosi e alteri di un torinese, questo è un elogio, del giornalista e dell’acutezza del suo sguardo.
Per Ojetti ci sono due modi di conservare e onorare delle reliquie. Come fa la Chiesa, scrive, e come fanno i romantici. Preferisce il primo, la teca d’argento e d’oro, la cappella, la scelta dei segni della commemorazione. I romantici, al contrario, pretendono di congelare il passato, di restituirlo intatto all’esperienza del presente. Ma cosa congelano? Una quantità di inezie, la meschinità del quotidiano che non ha nulla a che fare con la grandezza del Santo e del Poeta. Pretendono di mummificare un cadavere e nessuna mummia è immune dalla corruzione. Questa avversione al romanticismo è significativa. Segnala la distanza del più vecchio dalla sensibilità inetta e larmoyante dei giovani. Del critico, e del giornalista, dai letterati. E pone una questione: la durata della lunga parabola romantica nella cultura del Novecento.
In quella casa ci sono, nettamente distinti, due spazi. Il salotto, che riassume l’ansia di decoro e la piccola ambizione sociale della moglie, e lo studio. È questo l’altare di Carducci, un altare, nota Ojetti, che il poeta «si era preparato da sé»: «i suoi libri adorati».
Il resto della casa è affidato appunto allo straccetto della moglie, alle sue preoccupazioni domestiche, in fondo al suo gusto. Ma che se ne faceva di quel gusto il poeta? Un bel niente.
Quando si entra nel povero e comico salotto della signora Carducci – scrive Ojetti –, intatto, coi suoi gessi, le sue oleografie, la sua poltroncina e le sue frange; quando s’entra nella stanza da letto del poeta, con la coperta ingiallita sui materassi tarlati, con la valigiuccia di tela stinta sopra la poltrona zoppa, ci si chiede cosa diventeranno queste miserie tra vent’anni, tra cinquanta. Si vuol ricordare la modesta vita di lui? Ma più l’uomo è modesto ed alieno dal lusso e dal fasto (né il Carducci lo era, a suo modo, perché nella sua libreria gli piacque d’adunare tesori), più la sua mobilia è ordinaria, perché egli non guarda nemmeno. Niente assomiglia al giaciglio d’un anacoreta quanto il giaciglio d’un altro anacoreta. Solo il letto di Luigi decimoquarto è molto diverso dal letto di Luigi decimoquinto. Questa impossibile imbalsamazione di cose brutte, qui a che giova? Niente del Carducci è in loro11.

Non è senza importanza che Carducci in quella casa e in quel salotto, tra frange e gessi, ci stesse poi comodamente. E sprofondato nella poltrona si godesse, come aveva scritto di altri, la digestione pomeridiana dopo un lauto pranzo. A Ojetti, preme altro. Che lo spazio della creazione e dell’esercizio assiduo del mestiere del poeta siano religiosamente propri, sottratti all’ingerenza della moglie-madre. Interessa che parlino solo del poeta (o del santo) e di nessun altro. Dicono in verità anche del borghese che, soddisfatto del lavoro compiuto, può andare poi in salotto e sedersi comodamente in poltrona.
Moretti trasferisce il suo studio, la sua scrivania e i suoi pochi libri, nella stanza della madre morente. Caccia fuori tutti, le sorelle e il padre, l’unico, forse, che aveva il diritto a stare lì. In una situazione collusiva con la madre che, nella perfetta sovrapposizione di creazione ed estenuazione, realizza al massimo grado l’espropriazione della sfera individuale di Marino (e del diritto della madre a morire in pace, al riparo dallo sguardo indagatore del figlio). Al capezzale della madre morente, diversamente dal personaggio pirandelliano, il figlio espropriato della sua privatezza realizza l’illusione di un possesso perfetto della madre, immobile e finalmente sua. Un romantico congelamento del tempo opposto alla classicistica celebrazione della fama. Una delle esperienze più lancinanti di Moretti è che il possesso della madre non è il possesso del tempo della madre e che lei invecchia a dispetto della sua pretesa amorosa.
In origine, dunque, c’era Carducci. È lui la chiave di un processo di identificazione che in quei suoi giovani eredi (ancorché contestatori com’è di tutti i veri eredi) è come spezzato e tragicamente incompiuto. Borsi deve a lui il suo nome. Carducci era un grande amico del padre Averardo. Insieme ad Ottaviano Targioni Tozzetti e Giuseppe Chiarini, quelli del circolo degli «Amici pedanti», aveva firmato a Castagneto la richiesta del matrimonio dei Borsi e quand’era nato Giosué era stato il suo padrino per procura. Carducci frequentava abitualmente la casa dei Borsi e a Roma, dove Averardo si era trasferito come direttore di giornale, una sera a cena, il piccolo Giosué che aveva allora tre anni, gli disse: «[…] quando sarò grande, sarò più bravo di te»12. Voleva dire, come vedremo meglio più avanti, «più celebre di te». Per Moretti la polarità è formulata in termini ancora più netti: da un lato, c’è la lezione del poeta e del professore di letteratura italiana all’università di Bologna; dall’altro, le sue prime prove adolescenziali accanto alla madre.
Ai fini della mia argomentazione il tema carducciano può essere sintetizzato così: nell’età delle lettere industriali, del giornalismo e dell’industria editoriale (l’età borghese, scrive Carducci non abolisce la poesia, la fa rivivere nelle forme della «lussuria estetica di milioni di lettori e leggitrici») l’otium classicista, gli studi fatti in silenzio nella quieta fatica di tutti i giorni, viene rielaborato sul terreno della professione. Se l’idealismo è l’ornamento del borghese, il lavoro fa del poeta un «artiere» e un «operaio della letteratura». Il lavoro è il grande mito che rilegittima la letteratura che altrimenti sarebbe una «scioperataggine per la quale ogni persona che abbia un po’ di stima di sé è strettamente obbligata ad avere almeno un po’ di diffidenza e di freddezza»13. Nel nuovo universo dei valori borghesi, detto diversamente, l’ozio deve poter bastare a se stesso. Il successo, brutalmente la misura del valore determinata dal prezzo, è la sanzione della rispettabilità del letterato. Nel passaggio del secolo è proprio questo nesso a spezzarsi. Per Borsi il successo è diventato un’ossessione ed è così per molti dei suoi coetanei.
Non solo viene meno, nella nuova generazione letteraria, la calma fiducia nella propria operosità, ma l’imperativo della rispettabilità si fa un peso troppo gravoso da sostenere. Di qui l’oscillazione tipica di quei letterati tra idealizzazione e ribellione. Da un lato, la nostalgia del guscio materno, la provincia, l’infanzia e tutti i miti della protezione e dell’esonero dalle responsabilità; dall’altro, il disperato e inane tentativo di rinegoziare i valori. Analogamente, il fallimento di questa generazione avrà due facce. C’è chi soccombe e chi si fa furbo. Carducci lo aveva spiegato bene: nel nuovo universo psicologico instaurato dalla rivoluzione romantica, la poesia sta tutta dalla parte dei bisogni espressivi del soggetto. Non è più «la produzione immediata o mediata del popolo […] ella è tutta individuale»14. E quando si parla di soggetto, la linea che separa un individuo rispettabile da uno spostato diventa particolarmente sensibile.
Io so, scriverà Sergio Corazzini nel 1906, che per essere detto poeta conviene vivere ben altra vita! E uno pensa subito al verso libero, al lessico dimesso e quotidiano di questa nuova poesia. Ma lo stento del poeta, prima di diventare coscienza riflessa del suo mestiere, è il segno di una frattura che si è prodotta nelle forme del vivere e nella rappresentazione culturale. Sulla linea di questo iato non si dividono solo i letterati giovani dai loro maggiori. Al di qua e al di là della linea ci sono ormai l’eredità del Risorgimento, la fiducia in un progresso graduale nella libertà e nella prosperità, da un lato, e la nuova Italia nata dal calderone della crisi di fine secolo, dall’altro.


4. Alfredo Oriani

Fallire, deragliare, dare fuori di matto incombono sull’orizzonte dell’esperienza individuale novecentesca. Deve molto a questo timore l’assidua interrogazione che Renato Serra e Luigi Ambrosini, alla vigilia della Prima guerra mondiale, rivolgono forse al più magniloquente dei fallimenti registrati dalla generazione precedente, quello di Alfredo Oriani.
In un saggio del 1913 Serra scrive che la lettura di Oriani è, prima che letteraria, un’«esperienza morale» e l’anno dopo ribadisce: la vita dello scrittore è, dei suoi romanzi, «il più vario e più ricco»15. L’Oriani di Serra e Ambrosini è lo scrittore provinciale, che fatica a pubblicare, prigioniero nella stanza murata della propria coscienza come nella casa del «Cardello», dove sul finire del secolo si svolge il dramma dell’autore senza pubblico, sequestrato al mondo da una congiura del silenzio contro la quale si batterà per tutta la vita.
Anche qui in gioco ci sono due spazi, che sono altrettante condizioni della coscienza individuale: lo studio, il luogo raccolto di un’operosità feconda e costante, al riparo dal tumulto del mondo e dai tormenti dell’anima, dove l’autore ogni mattina si insedia nel calmo possesso di sé; e la casa prigione, tanto più angusta e soffocante quanto più il giovane letterato scambia la propria irrequietezza per un difetto del mondo.
L’inettitudine è, certo, causa di disperazione, ma gratta gratta viene fuori che è anche un motivo di soddisfazione. Realizza, seppur nelle forme paradossali di un fallimento, la convinzione di non essere come i propri vecchi, grossolani e prosaici.
Aveva dunque ragione Benedetto Croce, quando ricordava ai giovani della «Voce» che la calma e l’ozio dello scrittore richiedevano che egli avesse risolto, preliminarmente, il problema di come provvedere «alle basi economiche della [sua] esistenza»16. Dimenticava, però, di aggiungere che, non bastando evidentemente nascere ricchi, l’«agio» era l’esito nel mondo di un conseguimento interiore. Hai voglia di dirgli, a quei giovani, laureati in lettere e in filosofia, state in guardia, non lasciatevi distrarre dal richiamo della «notorietà», meglio la scuola e la carriera scolastica che i giornali. La scuola sarà pure lenta, ingrato l’insegnamento, pochi i denari e lontani da casa, in luoghi sperduti, eppure, scriveva Croce, «per quelle stesse condizioni di fatto che sembrano la sua miseria», essa opera «all’inverso» del giornalismo: «Sembra sequestrare un uomo dalla vita, e dà di questa il desiderio, e, col desiderio, l’intuizione e l’intelligenza. Sembra mortificare le forze spirituali creatrici; e, con gli ostacoli che pone, le ravviva. Sembra asservire i giovani, privandoli della libertà; ma accresce l’amore per la libertà e ne garantisce il possesso, creandone la disciplina»17.
Troppi «sembra» perché l’ombra non acquisti concretezza e spessore. Non tutti avevano la faccia tosta di Papini, che al filosofo e a stretto di giro di posta, senza timore reverenziale alcuno, scrisse: «liberi, liberi, liberi, bisogna aver tempo di fantasticare, di riflettere, di oziare e di studiare»18. Lavoro e letteratura sono qui ai poli opposti di una divaricazione e la libertà dei giovani non è più il frutto dell’operosità. La libertà è qui, espressamente, rifiuto del lavoro e degli obblighi della rispettabilità.
Croce aveva scritto: la scuola fa stentare, ma gli ingegni veri «si temprano fra gli stenti». Bisognava, però, averlo provato il sentimento di quello stento. Essere vissuti in quella solitudine, reclusi in un angolo oscuro, imprigionati dallo stesso tumulto dei propri pensieri, senza possibilità di esprimersi, di essere visti e di essere riconosciuti. Alle soglie del Novecento l’orgogliosa pedagogia vichiana del filosofo del neoidealismo non bastava più. Un nuovo ethos si stava affermando, a spese delle virtù silenziose dei padri. In nome del diritto del soggetto ad esprimersi.
Per Croce i romanzi di Oriani contenevano una «verità spesso persino tormentosa». Per i più giovani, quelle storie di vite provinciali che appassiscono nell’attimo stesso in cui provano a sbocciare, raccontavano il proprio di stento. E nell’uomo prim’ancora che nello scrittore riconoscevano lo sforzo titanico per non soccombervi. Quasi la cifra delle loro esistenze, con l’idea più o meno consapevolmente espressa di fare di quello stento la chiave di una personalissima interpretazione del mondo.
La stessa disordinata cultura di Oriani appariva loro come il modo disperato con il quale lo scrittore aveva provato a captare il nuovo, a non restare sepolto nella morta gora della sua Faenza.
Serra e Ambrosini indagano la produzione giovanile di Oriani ed è allo scrittore ventenne che si rivolgono innanzitutto. Era allora che molti della loro generazione erano venuti al mondo. Oriani è per loro quasi una casa astrale, il custode di un destino da interrogare come si fa con le stelle: «Basta ricordare i tempi – scrive Serra – e le angustie della vita letteraria di allora, per intendere l’importanza di quella vasta e tumultuosa curiosità del giovane romanziere, che non si contenta dei poeti e dei novellieri di moda, ma si attacca a ogni cosa, con delle velleità di cultura filosofica, classica, perfino teologica, e sopra tutto con una volontà di riflessione, con una inquietudine spirituale, che va molto al di là dei momenti astratti e generici del suo dire»19.
Nella lettura di Serra, la chiave interpretativa è lo stento dello scrittore, della vita dello scrittore. Di Oriani e, nel suo specchio, di Renato Serra e dei suoi sodali. In gioco c’è la vita e la faticosa conquista dell’âge mûr e, in un continuo passaggio di piani, dall’individuale al collettivo, attraverso Oriani, Serra legge la fuoriuscita dai quadri culturali dell’Italia post risorgimentale nel riflesso di un faticoso e precario accesso alla maturità, che è anche il proprio.
Oriani è, dunque, agli occhi dei due campioni della generazione vociana, la figura della propria incerta e inquieta individuazione. Con tutta la sua fatica di scrittore oscuro, con la sua solitudine che mette i brividi, chiuso dentro una stanza che non ne salvaguarda però il lavoro costante e concentrato, ma gli si stringe addosso e lo comprime, lo isola, Oriani è insieme una figura del tempo. Una figura titanica, nell’impresa immensa quanto inconcludente di un velleitario aggiornamento culturale.
Oriani segnala ai suoi giovani lettori il terreno su cui si svolgerà la battaglia e insieme allude alla possibilità di non farcela come cifra di un destino e della sua autocomprensione. Generazione di frattura, venuta al mondo nel solco della frattura della tradizione risorgimentale, Serra e i suoi contemporanei, nati intorno allo spartiacque degli anni Ottanta, nello specchio della propria esperienza provano ad interrogarsi sullo sbriciolarsi della cornice che aveva tenuto insieme la vita dei loro padri e con essa la loro. Oriani stava giusto in mezzo, tra Carducci e loro. Serra e Ambrosini lo sentono come un fratello maggiore a cui chiedere conto della vita e dei padri. Ed è al padre, al maestro della terza Italia, a Carducci, che inevitabilmente ritornano dopo più ampio giro.
Nel costante, quasi ossessivo riferimento a Carducci, che accomuna molti di questi giovani, non c’era soltanto l’inevitabile confronto con un ideale di poesia e di letteratura che a lungo aveva dominato negli studi e nel gusto culturale medio della nuova Italia. Carducci stava per una generazione che aveva agito. Non si era limitata a studiare, come invece era toccato in sorte alla generazione crescente. La nascita tardiva era un rimpianto e un privilegio. E quel privilegio era la condanna dei giovani. I vecchi avevano combattuto e anche quando, come Carducci, avevano solo studiato, del loro studio avevano fatto il contributo portato all’immensa opera di costruzione della nazione. Messi a confronto con quel lascito, i giovani non potevano che perdere. Era impossibile non fare i conti con quella tradizione e dal confronto non si poteva che uscire schiacciati.
Il tema, come è noto, non era nuovo. Proprio un allievo di Carducci, Giovanni Pascoli aveva contribuito alla sua sistemazione culturale con il concetto di «seconda gente». Nell’atmosfera ancora fiduciosa dei primi decenni post unitari, la posizione morale e sentimentale di quelli venuti dopo si lasciava ancora definire sulla base di una semplice domanda: quale la nostra parte? Persino il socialismo rivoluzionario e classicista di questa prima generazione post unitaria si muoveva ancora nel solco della tradizione dei padri. Come voi, dopo di voi era stato lo slogan della democrazia radicale, garibaldina e guerrazziana; senza troppe difficoltà si era adattato alla militanza carica di memorie risorgimentali dei primi internazionalisti.
La crisi di fine secolo, la contestazione a Crispi e, soprattutto, a Carducci, segna al contrario una frattura profonda su questo terreno. Quel passato, l’eredità della nazione risorgimentale, non apparteneva più all’orizzonte morale della generazione crescente. Per prenderne coscienza bastava pensare ai tracciati politici e biografici dei vecchi; il transito di Crispi e soprattutto il «tradimento» di Carducci, fattosi da giacobino monarchico e governativo, erano segnali particolarmente eloquenti della rottura della tradizione.
Ai giovani erano rimasti i cocci e con quei cocci dovevano mettere insieme le loro esistenze. Sullo sfondo di questa frattura storica e culturale, lo stento di questa generazione nata a cavallo tra un secolo e l’altro cessa di essere l’indulgenza morbosa ai propri tormenti dei figli stenterelli dell’agiata borghesia fin de siècle. Diventa il segnale di una ricerca fallita. Di chi avendo fatto esperienza della fine non riesce ad elaborare una soluzione culturale adeguata e della fine si risolve a fare l’orizzonte in cui iscrivere la propria esperienza.


5. Il cacciatore e il capriolo

Abbiamo parlato di storie individuali che diventano figure del tempo. Bisogna tornare ora a raccontare le vicende dei singoli. Nell’esperienza della più giovane generazione letteraria, abbiamo visto, il legame borghese tra l’arte come mestiere e il lavoro si spezza. L’unità del carducciano «lavoro letterario» non esiste più. Resta come finzione, occultata dalla permanenza dell’organizzazione familiare. Il lavoro è nei fatti il lavoro del padre, che consente al figlio di dedicarsi al mestiere della letteratura. Quando muore il padre la finzione si dissolve e il giovane letterato annaspa. Così fu per il giovane Borsi.
Il babbo morì improvvisamente a Firenze in via Cerretani, all’albergo Milano, di peritonite, e Giosué giunse da Roma alcune ore dopo il decesso: dolore gravissimo alla sua anima e l’incombere improvviso di responsabilità neppure pensate: la famiglia e il giornale. Capo di casa e direttore del Nuovo Giornale, La Nazione e Il Telegrafo20 (Bracaloni, pp. 98-99).

Borsi resse per poco e nel giro breve di qualche mese lasciò tutte le responsabilità paterne, conservando quanto gli bastava, a lui e alla madre, per la loro vita in comune e appartata, dopo le mondanità, la frequentazione degli intellettuali, la vita brillante dell’adolescente dotato che aveva condotto fino a quel momento. Tutto questo cessa di colpo e la vita rimanente sarà all’insegna di un disperato tentativo di espiazione.
La morte del padre è il trauma della vita di Borsi, il primo anello di una catena di tragedie familiari che nel giro di pochi anni, tra il 1910 ed il 1913 renderanno un deserto il piccolo rifugio domestico che era stata la sua famiglia durante l’infanzia e per tutta l’adolescenza. Ma orfani sono un po’ tutti questi letterati.
La morte del padre è un tratto culturale della transizione novecentesca, ampiamente tematizzato. Orfano per eccellenza è Jean Christophes, vera e propria icona generazionale, il protagonista dell’omonimo ciclo romanzesco di Romain Rolland, dieci volumi apparsi tra il 1904 ed il 1912, che valsero al loro autore il premio Nobel per la letteratura nel 1915. Ma la morte del padre non è necessariamente la sua scomparsa fisica. È soprattutto la sua assenza ad essere rilevante. Per inaffidabilità, perché è una figura incerta che lentamente sbiadisce fino a dileguarsi. Perché le mogli diventate madri gli preferiscono i maschi, i primogeniti, caricati del compito gravoso di ricompensarle di tutte le loro delusioni. In fondo a guardarli più da vicino, questi padri tagliano la corda perché gli resta ben poco d’altro da fare. Nel 1895, Sergio Corazzini fu mandato a Spoleto, al Collegio nazionale, per gli studi ginnasiali. Tre anni dopo, nel 1898, fu richiamato a casa, a Roma, perché suo padre si era giocato tutto in borsa, e per correre dietro alle donne. Gli fu trovato un impiego, modestissimo, in una compagnia di assicurazioni, «La Prussiana» e fu mandato a lavorare, unico sostegno in una famiglia ridotta sul lastrico. Aveva poco più di dodici anni. Quando compare sulla scena della memoria autobiografica, il papà di Marino Moretti è poco più di una pedina nel gioco di due donne. Non ha nemmeno un nome. È un giovane dagli occhi azzurri. Il primogenito di una madre arcigna e rigida, come madre e come padrona di casa, scrive il poeta; lei stessa madre e non più moglie da tempo indefinito, che avrebbe alla fine di molte lotte concesso al figlio di sposarsi, «accasandosi senza uscire di casa» tuttavia21. Per salvarsi bisognava darsela a gambe. Ma la forza è un privilegio di pochi. Gli interni familiari diventano così delle camere di tortura, dove non si sa più chi sevizia chi. La cattività del figlio viene ripagata dalla madre da uno sguardo che mentre si inumidisce al ricordo si esercita nel racconto di lei con un acume che rasenta il sadismo.
Senza padre cresce, dunque, Jean Christophes. Il suo è una figura mediocre, che sprofonda nell’alcolismo prima di morire. È il figlio primogenito che si fa carico della sussistenza materiale della famiglia. Indica una condizione di compagno della madre che è una situazione ricorrente nella biografia di molti letterati e assurge a figura culturale. Vale a spiegare la condizione paradossale di una generazione che, nella sua reazione all’ideologia democratica e progressista dell’Ottocento, ama pensarsi, in nome della tradizione, più vecchia dei propri padri, nei termini di un giovane, scriverà negli anni Trenta il poeta brasiliano Gilberto Freire, che le circostanze costringono ad assumere «the part of the older man».
Quasi nessuno ne resta immune, su entrambi i fronti della lacerazione politica e ideologica del primo dopoguerra. Nel romanzo di Giani Stuparich, Ritorneranno, la vicenda sua, di Carlo e di Scipio Slapater, figli della stessa madre nella finzione narrativa, a sancire il primato assoluto dell’orizzontalità fraterna in opposizione al legame verticale con il padre, la spensieratezza, la gioia carnale di vivere, l’infedeltà sessuale e con essa l’intraprendenza commerciale che tiene in piedi la baracca, stanno tutti dalla parte del capo famiglia. Sono i figli che restano a casa e a turno, e tutti insieme, sono gravati del compito di colmare il vuoto affettivo della madre22.
Ora, il paradosso di questa sostituzione non era solo ideologico (dalla parte della tradizione contro la tradizione della rivoluzione, come predicavano tutte le inchieste sui jeunes gens d’aujord’hui dei primi anni del secolo), ma esistenziale. Segnalava la condizione di chi aveva preso il posto del padre a fianco della madre, restando tuttavia ben lontano dalla capacità di assumersene gli obblighi, così fragile e vulnerabile come l’eterno adolescente che sarebbe tragicamente rimasto.
Leggendo le lettere che Ferdinando Palazzi avrebbe raccolto nel 1940 per Garzanti, si resta impressionati dalla precoce sensibilità che Borsi manifesta per la scissione tra mestiere della letteratura ed obblighi feriali.
In un saggio proustiano della prima metà degli anni Cinquanta, dal titolo editoriale L’interrogatorio della gelosia e le intermittenze del cuore, Giacomo Debenedetti scrive di Swann che, quando lo incontriamo per la prima volta nella Recherche, «ha già avuto dalla vita tutte le soddisfazioni che si possono avere da un’amante di lusso che non sia la propria donna». E tuttavia le sue amicizie, i membri del Jockey Club, il principe di Galles, i Guermantes, non sono di quelle che «danno un senso alla vita». Queste amicizie continua Debenedetti, non sono «un dialogo costruttivo con altri esseri umani, [sono] una conversazione affettuosa e spiritosa che sbriciola piacevolmente, e logora, il tessuto del tempo»23. E aggiunge: «il successo mondano è stato un modo per farsi tradire dalla vita».
La vita che tradisce è la vita che scappa. Ora, come si fa a fermare la vita? È la questione aperta di Moretti al capezzale della madre. Proust, scrive Debenedetti, «è il figlio della borghesia arrivata: l’esempio dei vecchi era che la vita si possiede con la conquista, con l’azione. Lui ha l’incapacità della conquista, la ripugnanza dell’azione: [s]fruttare i propri mezzi, prontezza, agilità mentale, talento, ai fini pratici della riuscita, gli pare grossolanità, degna di caricatura». Rispetto a questo mondo e ai suoi valori, scegliere di fare l’artista significava «tralignare». Come aveva scritto Carducci, pieno di sospetto nei confronti dei poeti, dare uno spettacolo di sé che chiunque conservasse un grammo di autostima doveva guardare con diffidenza e freddezza. Di qui «l’obbligo» di offrire «con l’assiduità del lavoro […] con propositi di stare a tavolino» il risarcimento per la propria deviazione24.
Un obbligo prescrive un comportamento in vista di un fine, ma può lasciare quest’ultimo alla libera determinazione del soggetto. Il suo è il linguaggio ipotetico di chi dice: «se vuoi, devi». Ma se il fine non è scrivere, ma ben meritare, l’obbligo cessa di essere la determinazione pragmatica di un comportamento in vista di un risultato liberamente scelto e diventa un vincolo passionale: «fallo per me». Ha i tratti categorici dell’impegno solenne che il bambino assume davanti alla mamma di mantenere la parola data. Ora, sostenere una promessa con una promessa ulteriore non dà molte garanzie. Vale però a fare della madre la custode del vincolo. È a lei che bisogna rispondere ed è solo lei che ci può assolvere quando puntualmente manchiamo alla promessa fatta. Giosué, ricorda un suo biografo, aveva bisogno del continuo «lavacro con la mamma» e a lei diceva egli stesso: «Bisogna che ti confessi tutto. Dopo che l’ho detto a te, sto meglio»25. La svogliatezza e l’incapacità di rendere, la «debolezza» nel linguaggio di Borsi, che sono la conseguenza naturale di un obbligo così inteso, se non legano all’impegno preso ci obbligano alla madre.
Di Proust Debenedetti scrive: «come di uno scolaro bocciato o infingardo». Di sé, il giovane Borsi dirà nel 1907 di essere un «fannullone fantastico» e che il lavoro improbo e seccante degli esami è «rinuncia», al mondo e alle sue gioie26. Ci metterà anni a laurearsi in legge, come avrebbe voluto il padre. In compenso amava restare coricato fino a tardi e il suo amico Ettore Romagnoli gli aveva regalato un sottomano sul quale, appoggiandosi, poteva prendere appunti senza doversi alzare dal letto. Si sa d’altra parte che Moretti al ginnasio fu uno scolaro mediocre. E la madre sgomenta che gli ripeteva: «Povero papà! Tante spese, tante spese!»27. Moretti era stato allievo della madre alle elementari, l’allievo più promettente. Tra il figlio e lo scolaro aveva scelto fin d’allora, e in un modo che non avrebbe potuto più revocare, la prima condizione. Dalla parte della madre, che sarebbe rimasta per tutta la vita la sua unica maestra.
Eppure, il lavoro continua ad essere l’ossessione (e la retorica) di questi letterati. A diciotto anni, nel 1906, Borsi scriveva all’amico scultore Umberto Fioravanti: «Io lavoro ancora e continuerò a lavorare fino al giorno della mia partenza. Il lavoro è per me la più gran gioia fra le tante che provo in questo bel mondo. Non sono mai stato così fecondo […] Io sono molto contento di me e dell’opera mia»28.
Il fatto è che il lavoro è un topos, un elemento della rappresentazione dell’artista da giovane, colto sulla strada della sua ascesa. In realtà fin dall’inizio questo tema del lavoro è insediato sul terreno di un dissidio e di un madornale equivoco. Nelle lettere l’adolescente associa la propria attività creativa al lavoro del padre. Ma in questa prossimità c’è anche la radice del fraintendimento. Nella villa del Gabbiano, sulle colline pistoiesi, che i Borsi ai primi del Novecento affittavano d’estate e fino ad autunno inoltrato, padre e figlio scrivono. «Anche mio padre lavora», dice nel 1906 all’amico scultore. Ma quello che a Giosué appariva come un lavoro comune non era certo l’unico lavoro del padre. Come dire, Thomas Buddenbrock senza il commercio dei grani.
Dalle lettere di quegli anni la villa del Gabbiano emerge come il luogo di una forma del vivere che è insieme agio materiale e raffinatezza. Serve alla perfezione il bisogno di uno spazio di raccolta intelligenza che è il modo tipico in cui la borghesia ottocentesca di formazione umanistica esprime l’ornamento della propria potenza e traduce in forme godibili e concrete quell’idealismo che, come scrive Debenedetti a proposito di Proust, in filosofia e in tutto l’orizzonte della cultura, «costituiva la sublimazione della fatica e del sudore di quei conquistatori». L’errore dell’adolescente sta proprio in questo scambio tra lavoro ed ornamento. Nell’illusione di una villeggiatura infinita in cui sarebbe consistito il più della sua fatica. Qui, scriveva nel settembre del 1906 ad Umberto Fioravanti, «mi si prepara un lungo periodo di raccoglimento, di lavoro e di studio»29.
Ma la stessa prossimità al padre è illusoria. A sei anni Borsi aveva scritto una poesia, Mio padre. Cominciava così: «Povero babbo/ Fatica tanto/ Per mantenerci/ Sempre alla scuol»; continuava con la promessa di guadagnare «tanti quattrini», ma finiva immancabilmente tra le braccia della madre: «E tu mia mamma/ Stringimi al sen!»30.
Una infanzia così è inevitabilmente segnata dal dramma proustiano del bacio della buona notte. «Quando il babbo, la sera, volgendosi a Giosué che aveva allora cinque o sei anni, diceva: “Su, è l’ora di andare a nannina” il bambino si avvicinava alla mamma e le diceva all’orecchio: “Non vado, sai, mamma, a letto se non vieni tu a dirmi L’Angiolin, bellin bellino”»31. A differenza del padre del piccolo Marcel, tuttavia, Averardo non sta nella memoria del figlio con il braccio alzato come Abramo, nell’atto di intimare a Sara di separarsi dal figlio Isacco. Nonostante le idee e il secolo, ricorda il biografo, «il babbo […] era contentissimo che il suo piccolo Giosué fosse addormentato dalla mamma così»32.
Ora, sarà pure andata così, ma anni dopo, quando il figlio, ormai giovinetto, recitava in giro per l’Italia, nel teatro antico di Ettore Romagnoli, e si rifiutava di presentarsi in scena se non aveva ricevuto il telegramma della madre, Averardo ci appare piuttosto seccato e a stento reprime il suo sarcasmo: «Se non viene la poppatina della mamma il bambino non li dice i versi»33.
Il fatto è che guardato da questa prospettiva, quel «lavoro comune» di tanti anni prima è meno il lavoro a fianco del padre che lo spettacolo, ormai noto, del bambino che scrive i suoi versi sotto lo sguardo ansioso e intransigente della madre. Non c’è alleanza possibile con il padre sotto il peso di quegli occhi.
Deriva da qui l’ansia del giovane Borsi per il successo. All’amica Mercedes Pay, conosciuta in villeggiatura a San Remo, Giosuè lo scrive in continuazione: «Ho ritagliato e inserito nel testo tre mie caricature ritrovate tra i miei fogli. Come vede, la stoffa dell’uomo illustre c’è. Cominci ad ammirarmi fin da ora […]» e aggiunge: «le altre promesse sono la mia venuta a Parigi e l’acquisto della celebrità fra due anni»34. Ricordiamo la sfida lanciata al suo illustre padrino. Rispetto a Carducci il nesso tra artefice di versi e favore del pubblico non si è spezzato (la cura di Borsi per la lingua è meticolosa, filologica, umanistica, come testimonia la sua traduzione dei Contes drolatique di Balzac per i Classici del ridere di Formiggini). È che il giovane letterato dipende totalmente dallo sguardo altrui. Cominci ad ammirarmi fin da ora, scrive all’amica francese nel 1910.
La tentazione di fare dello sguardo di Mercedes (e in fondo delle tante corrispondenti femminili di Giosué) un prolungamento di quello materno è forte e non sarebbe del tutto sbagliata. Ma la relazione è più complessa. Si tratta di spiegare non tanto un’ambizione, il richiamo crociano della notorietà, quanto il suo fallimento, le ragioni di uno stento che il Borsi cristiano proverà a spiegarsi come rinuncia e purificazione.
In Borsi è la certezza del proprio valore che frana in continuazione. Come per Moretti essere due, vale a dire tutt’uno con la madre, è la condizione del sentimento della propria integrità. Senza la madre che cosa resta? È la madre la depositaria del valore del figlio.
Ad una signora ammirata dalle prove poetiche di Marino e che gli scrive per complimentarsi della bravura del figlio, la madre risponde: «Io non so cosa valga il mio figliuolo». Che vuol dire: nessuna mi può dire il suo valore perché solo io ne custodisco la misura. Su queste basi, l’adolescente non ha alcuna possibilità di farsi largo nel mondo. La vita come conquista, in cui sarebbe potuta consistere l’educazione del padre se il figlio avesse avuto la reale possibilità di farsi suo allievo e se il padre avesse sul serio avuto l’intenzione di farsi carico di quell’educazione, gli è preclusa. Il suo legame con la madre è una dipendenza. Si spiega anche il perché del mondo ingrato e iniquo della lettera di commiato, che non è un’espressione generica di sfiducia ma l’individuazione precisa del luogo dove si produce il fallimento. Di fronte al mondo l’adolescente carico di doni è indifeso. Esposto al desiderio di appropriazione e distruzione che il suo talento suscita. La predilezione di Borsi per il teatro, al seguito del progetto di Romagnoli, e, più in generale, la sua fama di raffinato lettore di Dante dicono di un valore che chiede in continuazione di essere verificato. E mentre si espone alla possibilità della disapprovazione e del fallimento evoca l’orizzonte sempre incombente della sua distruzione. Per questo il mondo fa paura, perché il suo giudizio è una minaccia per l’adolescente. Dalla quale l’adolescente sarebbe al riparo se custodisse la consapevolezza di ciò che vale. Ma è proprio questa consapevolezza ciò di cui l’adolescente è stato espropriato nella sua fissazione alla madre.
Il successo, in questa prospettiva, non è più il segno visibile di una avvenuta affermazione di sé. È un dono votivo, l’offerta alla madre, con cui ripagare la madre per le attese, le ansie, i suoi stessi fallimenti affettivi. In una impressionante esplicitazione dei simboli, Marino Moretti si raffigura il libro offerto alla madre come il cuore palpitante della preda, in una immagine in cui il figlio è al tempo stesso il cacciatore di Grimilde e il capriolo cacciato:
Mamma, come l’amavi, come l’amavi la prima copia d’ogni mio libro quando io te lo porgevo semplicemente: “To, prendi”. Era come se ti dessi il mio cuore. Come se tu avessi avuto il mio cuore, come se tu lo sentissi battere nelle tue mani, come se lo sentissi tepido in grembo, tu lo baciavi e ribaciavi e benedicevi, e poi forse stupivi d’aver tanto baciato e benedetto e accarezzato e parlato a un libro, solo a un libro35!

Nell’impaccio di quel gesto, come di una cosa qualunque gettata lì senza importanza, c’è tutta la misura di chi non osa dichiarare quanto vale. E così il figlio che decide di restare tale si preclude definitivamente la possibilità di diventare grande, come uomo e come poeta: «[…] un libro degno di te – scrive Moretti quando la madre è ormai morta – non lo potrei scrivere io e non lo potrebbe scrivere un altro: perché un altro farebbe un capolavoro, ma non sarebbe tuo figlio»36.


6. Un tentativo di venirne fuori: La madonna di mamà di Alfredo Panzini

Romanzo del tempo della guerra, recita così il sottotitolo del libro di Alfredo Panzini, edito da Treves nel 1921, La madonna di mamà. Tutto il libro è in realtà il racconto della preparazione alla guerra; la storia di un’educazione sentimentale che giunge alle soglie del conflitto come al suo naturale scioglimento. Panzini è un testimone importante della generazione primonovecentesca. Per la mamma morta di Marino Moretti, compare il 31 agosto del 1922 sulle pagine del «Resto del Carlino». Con qualche variazione, tre anni più tardi, servirà da prefazione al libro Mia madre, con il quale Marino proverà a prendere congedo dalla donna amata, morta «senza dirmi nulla!».
Il romanzo si apre con una lunga dedica «a Renato Serra», colpito nelle tempie dalla palla austriaca sul monte Podgora, il 20 luglio 1915.
Morti d’estate, caduti come la spiga, Marino nel modo paradossale e subito del superstite, Renato come chi ha voluto affrettare il passo. Entrambi vittime di un sacrificio.
Panzini ne è ossessionato. Rievoca l’incontro con Renato Serra come con un fantasma, che lo accompagna sul limitare della soglia che li separerà per sempre. Riflettendo sulla morte della madre di Marino Moretti, scrive: «Io credo che anche per i filosofi più sapienti dell’età nostra, non sia troppo facile spiegare in che cosa consista il dolore che noi proviamo quando una persona cara viene divisa da noi dalla morte. Una divisione, appunto, – si dice – cioè come una frattura dell’anima, la quale duole più o meno, secondo che il sentimento è maggiore o minore. Ma quell’angoscia, quell’ansia, quello stupore, direi quell’annullamento di tutto il nostro essere a me pare che provenga come da un improvviso avvicinamento degli spazi del tempo: la bara della madre, la culla nostra, la bara nostra, poi altre culle, altre bare»37. È, a ben vedere, sempre lo stesso tema del due e dell’uno. Si viene al mondo in due e si diventa uno. Per separazione. È proprio a questa separazione che i letterati di cui mi sto occupando non sopravvivono.
Di Renato Serra dice che gli appare morto «per non so quale alta predestinazione»38. Lo rivede su una spiaggia, i grandi corpi delle donne distese al sole «che volgevano verso di noi gli occhi indolenti» e lui domandargli, «perché andare così in fretta, Renato? Perché non stàrcene così indolenti anche noi al sole e spremere qualche grappolo che la fresca vite pur matura agli uomini?»39.
Il tema delle donne, dei molti amori e dell’unico amore, è una delle chiavi della vicenda di questa generazione. Lo ricordava in un lontanissimo articolo sul «Corriere della Sera» Carlo Bo, nel 1965, per il cinquantesimo anniversario delle morti di Serra, Slataper e Borsi. Era uno dei tratti che accomunava storie pur così tanto disparate. Ricomponeva, sul terreno della verità esistenziale, la separazione prezzoliniana che nel tessuto unitario di quella generazione pretendeva distinguere i vociani da quel loro sodale rifattosi cattolico.
Lo sguardo di Panzini è meno generico di quello di Bo. Coglie un elemento in più, molto importante per decifrare lo stento di questi letterati. Sfuggire al grande corpo indolente della donna distesa al sole, nel grande spazio simbolico della spiaggia lambita dal vasto mare, dice, con la fretta di Serra, dell’inquietudine dei suoi contemporanei, della loro riluttanza a posare il piede, a fermarsi. Ci permette di entrare nella stanza chiusa di quei letterati, all’insaputa della madre, e di spiegarci il perché di quella loro mancanza di calma. Il segreto delle sere di Marta Ajala è l’impaccio dei suoi coetanei. L’attrazione del grande corpo materno, il piacere di stare, gli si rivolta contro nella minaccia dell’incesto e rende impossibile quello stare e proibito il piacere che evoca.
Panzini da parte sua sente di aver trovato la via d’uscita. Mentre il fantasma di Serra dilegua, tra la rena e il mare, egli si accinge al suo romanzo. Libro nato di me solo e non di donna, scrive. Nato con dolore. Lo scrittore viene al mondo sulle basi di una risentita coscienza di sé. L’adolescente non è qui il predestinato al sacrificio, il virgulto primaverile mietuto sul campo d’estate, ma la coscienza virile sulla strada della propria affermazione, la cui certezza ricava dal sentimento di un’autofecondazione che è metafora dell’opera, come contenuto estratto da sé. Per questo, a differenza dell’amico Moretti, qui il libro non è l’offerta votiva ad un femminile insaziabile, ma riconoscimento, di sé nella distanza dal se stesso di un tempo che è l’amico predestinato alla morte.
Il tema della madre è in Panzini l’infedeltà all’origine. Il richiamo struggente dell’asilo materno, il desiderio di restare, sottratti al tempo e al mutamento scrive l’autore, e la necessità di partire: «com’era lontana mamà – nota ad un tratto il protagonista del romanzo –, e che viaggio aveva fatto lui: altro che trecento chilometri!»40. Il personaggio si chiama Aquilino, che è al tempo stesso allusione all’acutezza dello sguardo e alla qualità del volo spiccato.
La differenza tra Panzini e «gli altri», i morti nel cui nome è scritto il libro, sta nel fatto che quella che per loro resta tragicamente la fissazione alla Madre, diventa nel personaggio romanzesco la conoscenza delle tante madri che non sono quell’unica Madre. Nella sua ansia di vivere e nel suo coraggio di vedere, Aquilino scompone l’immagine imponente, padroneggiando così quello da cui rischia di restare schiacciato e venendo finalmente a capo della sua vita.
Aquilino è, come molti dei personaggi che abbiamo incontrato, orfano del padre. Vive in un piccolo villaggio, accanto alla madre, in riva al mare. Il gran mondo vi compare solo d’estate e resta lontano e irraggiungibile. Aquilino studia al liceo, è un ragazzo promettente e senza un quattrino. Entra come precettore al servizio di una nobile famiglia. Abbandona il borgo natio e si trasferisce in città. È questo il momento della sua seconda nascita. E per nascere, al mondo delle convenzioni, dell’artificio e del moderno, Aquilino deve innanzitutto rispondere ad una domanda, che come tutte le domande fondamentali è una domanda sull’origine. Da dove vieni, gli chiede una sera, e con l’intento di umiliarlo, uno degli ospiti della sua aristocratica padrona. «Dal paese delle caverne», risponde con grande consapevolezza il giovane, che è come dire dalla parte della madre, che è origine e rifugio, cavità che accoglie e protegge, e dalla quale pure bisogna uscire. Dimora premondana e inconscia del tempo anteriore alla nascita dell’Io. In questa consapevolezza c’è già il segno del distacco. L’emergere alla coscienza adulta.
Aquilino diventa l’amante della sua padrona. All’inizio prova a frenare il proprio desiderio e per farlo si impone il pensiero del parto, del concreto venire al mondo del bambino, per quelle vie che egli si accinge a penetrare: «Inter faeces et sanguinem natus – diceva per indurre in sé ripugnanza. Ma non vi riusciva»41.
Il tentativo fallito di Aquilino è solo apparentemente uno dei tanti inganni del desiderio. In quell’obbligarsi al pensiero del ripugnante non c’è l’oscena e concreta visione del corpo della donna, ma la chiarezza simbolica del proprio destino. La marchesa è una figura della madre e al tempo stesso ne costituisce una tappa evolutiva nella storia della coscienza del personaggio. È la conquista di una soglia ulteriore sul terreno della propria autonomia.
«Materno» definisce, all’inizio, il tono della Marchesa il giovane Aquilino; di una «superiorità materna» che, se non ha esperito fino ad allora in forme così esplicite, pure è in grado di riconoscere quando vi si trova di fronte. «Materno» è, alla fine, l’abbraccio dell’inglese Edith, la donna «istruitissima», l’altra donna che il giovane incontra sulla via della sua amorosa inchiesta. È tra le sue braccia che Aquilino compie la propria educazione sentimentale, prima di partire per la guerra e prima che il romanzo finisca. E come tutte le fini, anche la sua è un ritorno, lì da dove era partito. Come Antonio Pèntagora del romanzo di Pirandello, anche Aquilino ritrova il bambino amato dalla madre e con lui il sorriso. Narciso può ora finalmente morire e la creatura imperfetta che viene al mondo amare: «[…] Aquilino sorrideva come un fanciullo baciato. Sentiva – e gli pareva di vederlo – un sorriso di beatitudine infantile disegnarsi sul suo viso, come un lontano strano ricordo materno»42.
Il cerchio si chiude. La madre è morta e il primo sentimento del figlio è la libertà: «libero», esclama, finalmente libero. Aquilino l’ha sepolta con tutti i suoi miseri oggetti. Ha salvato soltanto una piccola immagine della madonna, quella che dà il titolo al romanzo, e che ora dona all’amante inglese. Parte per la guerra e il romanzo si chiude su questa partenza. Non sappiamo cosa gli toccherà in sorte. Né importa saperlo. Il punto qui è altro dalla concreta sopravvivenza del protagonista. La guerra raccontata da Panzini è propriamente la fine del rifugio dell’infanzia, la metafora del travaglio dell’età dell’uomo, il dolore di chi diventa adulto, non perché banalmente la guerra è il mondo degli uomini di contro all’infanzia, ma perché diventare adulti significa abbandonare il rifugio, sperimentare, dopo quella fase della vita senza responsabilità e senza fatica, il dubbio e la dissociazione dal mondo. In una parola: il conflitto. Proprio ciò a cui non erano sopravvissuti Borsi e tutti quelli che come lui erano stati colti nella tragica estate della loro giovinezza.
Un fiore sta sul confine di questi due differenti destini generazionali, il ramo di calicanto, il fiore del gelo, che fiorisce solo d’inverno. Lo scopre pieno di stupore Marino Moretti quando torna, dopo molti mesi dalla sua morte, alla dimora della madre. È lo stesso fiore di cui si adornano «le belle femmine» del romanzo di Panzini. Per Moretti è l’ultima struggente testimonianza della madre, quello che «resta» di lei: «Oh, mamma! Resta qualcosa! Una pianta fiorita […]»43. Il segno dell’ostinata volontà del poeta di congelare il tempo. Per Panzini, al contrario, quel fiore e il suo profumo penetrante stanno lì a testimoniare del passaggio delle donne nella stanza. Sono il documento di un evento che si produce nella storia del giovane Aquilino e che da lì prende una strada imprevista. Sono il fiore della trasformazione, di una stagione che muore e che annuncia un nuovo inizio. Non della fissità immobile di un ricordo raggelato.
La guerra sbroglia la matassa affettiva dentro la quale era rimasta impigliata la generazione di Serra e di Borsi. Spetterà ad un altro di quelli nati negli anni Ottanta, Benito Mussolini, risolvere con la sua rude intraprendenza più di un conto rimasto aperto con l’Italia dei padri. Guerra e fascismo sono l’occasione tanto attesa dai nati troppo tardi. E quello che per gli uni era stato un rimpianto in cui avevano finito per consumarsi, per gli altri diventa un programma d’azione. Nostalgia e rivolta sono i due poli della nuova Italia fascista. Così come erano stati i termini del dissidio dei giovani letterati primo novecenteschi. Mussolini trasforma i poli di una irresolutezza individuale nei modi efficaci di una tecnica del governo degli uomini. Il fascismo è un mito tecnicizzato del passato al servizio della politica.






NOTE
* Questo saggio è stato scritto in una forma molto abbreviata, con il titolo Madri e figli, per l’opera coordinata da M. Isnenghi Gli italiani in guerra, Torino, Utet. Sono grato al professor Isnenghi per aver acconsentito alla sua pubblicazione in questa sede. Il mio ringraziamento va al professor Galasso per l’accoglienza, per la sua disponibilità di lettore e i consigli che ne sono derivati. Per il resto, come si usa dire in questi casi, la responsabilità è tutta mia.^
1 L. Pirandello, L’esclusa, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1984, p. 33.^
2 Ivi, p. 35.^
3 Ivi, p. 117.^
4 Ivi, p. 7.^
5 Ivi, p. 8.^
6 Ivi, p. 5.^
7 Ivi, p. 12.^
8 M. Moretti, Mia madre, con prefazione di A. Panzini, Milano, Treves, 1925, p. 246.^
9 Cfr. L. Bracaloni, Il capolavoro di Giosué Borsi. La sua vita, Vicenza, Sat, 1941, p. 166.^
10 M. Moretti, Mia madre…, cit., p. 119.^
11 U. Ojetti, Cose viste, prima serie, Milano, Treves, 1925, p. 5.^
12 L. Bracaloni, Il capolavoro…, cit., p. 38.^
13 Giosué Carducci, Critica e arte, in Prose, Milano, Garzanti, 1999, p. 388.^
14 Ivi, p. 387.^
15 Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di M. Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974, p. 274.^
16 B. Croce, I laureati al bivio, in «La Voce», 1 (1909), n. 8, p. 29.^
17 Ibidem.^
18 G. Papini, Il giovane scrittore italiano, in «La Voce», 1 (1909), 18 febbraio.^
19 R. Serra, Scritti letterari…, cit. p. 285.^
20 L. Bracaloni, Il capolavoro…, cit., pp. 98-99.^
21 M. Moretti, Mia madre…, cit., p. 14.^
22 G. Stuparich, Ritorneranno, Milano, Garzanti, 1991 (1941).^
23 G. Debenetti, Proust, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 257.^
24 Ivi, p. 259.^
25 L. Bracaloni, Il capolavoro…, cit., p. 51.^
26 G. Borsi, Lettere scelte. 1902-1915, a cura di F. Palazzi, Milano, Garzanti, 1940, p. 51.^
27 M. Moretti, Mia madre…, cit., pp. 39-40.^
28 G. Borsi, Lettere scelte…, cit., p. 41.^
29 Ivi, p. 39.^
30 L. Bracaloni, Il capolavoro…, cit., p. 32.^
31 Ivi, p. 36.^
32 Ivi, p. 37.^
33 Ivi, p. 68.^
34 G. Borsi, Lettere scelte…, cit., p. 100.^
35 M. Moretti, Mia madre…, cit., p. 124.^
36 Ibidem.^
37 A. Panzini, La madonna di mamà. Romanzo del tempo della guerra, Milano, Treves, 1921, p. XII.^
38 Ivi, p. VII.^
39 Ivi, p. VI.^
40 Ivi, p. 94.^
41 Ivi, p. 222.^
42 Ivi, pp. 300-301.^
43 M. Moretti, Mia madre…, cit., p. 282.^
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