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Partito Democratico, alternativa, bipolarismo e contesto
di Adolfo Battaglia
Il dibattito interno del Partito Democratico si è svolto nei mesi scorsi su un fondale poco esaminato eppure imprescindibile. È il fondale dei grandi eventi che negli ultimi due anni hanno interessato soprattutto i paesi dell’Occidente, dall’acme delle difficoltà finanziarie alla fuoriuscita dalla recessione; e dalla nuova politica condotta dal Presidente americano in tutti i campi al crollo anche elettorale delle socialdemocrazie europee. Conviene allora, per un giudizio complessivo sull’esito di quel dibattito, partire proprio da alcuni di questi eventi, come paradigmi sui quali misurare la condizione e le prospettive di quello che è l’unico serio raggruppamento italiano della sinistra. Esso sembrerebbe aver ritrovato dopo le primarie, e le convulse giornate seguite alla sentenza della Consulta sul lodo Alfano, una certa unità per la difesa del quadro costituzionale. Ciò è in sé positivo. E per altro verso rende più agevole discorrere delle grandi questioni che condizionano gli svolgimenti della vita e della politica di ogni nazione, e dunque anche la possibilità dell’alternativa e del bipolarismo. Due termini tra loro inscindibili sui quali la divisione nel Partito Democratico, come si dirà più avanti, nasce da ragioni, allo stesso tempo, politiche e culturali.
Per quanto riguarda la prima questione, la fuoriuscita dalla recessione, è generale l’ammonimento che essa non solo non significa la fine delle difficoltà ma esigerebbe una innovativa politica economico-sociale, coerente sul piano nazionale alla condizione delineatasi sul piano internazionale. Nei paesi sviluppati, in effetti, il problema congiunturale della disoccupazione indotta dalla recessione si è congiunto con il problema strutturale della loro diminuita capacità competitiva nel mercato globale. Ed entrambe fanno corpo con l’altro gigantesco problema cui il nuovo secolo è di fronte, lo sviluppo delle infinite aree depresse del mondo, oggi lanciate verso l’industrializzazione. In altri termini la questione della possibile disoccupazione di massa nelle nazioni occidentali è parallela, seppure in modo non meccanico, alla inesorabile crescita dei paesi in via di sviluppo. Ed è su tale questione, anzitutto, che sono attese alla prova le classi politiche dell’Occidente. È lecito dunque domandarsi se sia stato, questo, un punto fondamentale nella riflessione del Partito Democratico; e rispondere che, in verità, sarebbe eccessivo affermarlo.
Carente su questo tema, il dibattito dei Democratici lo è stato anche su un altro che vi è strettamente connesso. Qui il fatto nuovo è costituito dalla riunione del G-20 a Pittsburgh, in settembre, e dall’importanza delle sue conclusioni1. Non si sottolineerà mai abbastanza che esse hanno definitivamente fissato l’assetto internazionale multilaterale delineatosi da tempo (oggi carta vincente della nuova Amministrazione americana) e cominciato a delineare una prima forma di governance mondiale dell’economia. Una forma che non è poi tanto primitiva, visto che ad essa sono stati strutturalmente collegati il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Financial Stability Forum, il meglio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Si fissa definitivamente, in altri termini, il nuovo equilibrio economico mondiale che sostituisce quello della triade Stati Uniti-Europa-Giappone del secolo scorso.
In questa situazione, il problema primo dell’Europa sembra dunque quello di identificare i modi per collaborare alla nuova governance mondiale e in qualche modo influire sui suoi indirizzi. Ciò esigerebbe una politica economica dell’Unione che fosse perseguita in modo coerente ed efficace. E non è dubbio che, teoricamente, essa richiederebbe un salto di qualità nella vita dell’UE, ovvero un governo dell’economia realizzato da una struttura politica istituzionalizzata. Sotto il profilo della realtà politica si tratta naturalmente di un salto di qualità impossibile, perché implicherebbe dagli Stati nazionali quelle ulteriori cessioni di sovranità all’Unione che la condizione europea oggi non consente. E peraltro non consentirà neppure in futuro, anche in vista degli ulteriori allargamenti che il cammino storico imboccato dall’Europa a 27 rende praticamente inevitabili.
Se, anzi, c’è un atto preliminare da compiere, è smettere di essere abbacinati dall’idea di creare gli Stati Uniti d’Europa come Stato unitario guidato da un Governo federale. Il ciclo dell’unità europea si è esaurito, come altre volte si è qui scritto, avendo pienamente svolto la sua funzione storica nel Novecento. I problemi dell’Europa di oggi sono talmente diversi da quelli di allora da esigere non solo posizioni differenti ma anche soluzioni originali. E la cosa più concreta che l’UE possa ora fare per re-inserirsi nei processi della governance mondiale è senz’altro quella di superare le ultime resistenze e nominare entro l’anno, come la presidenza svedese si propone, il Presidente quinquennale dell’Unione previsto dal Trattato di Lisbona. Che si tratti di uno statista di valore riconosciuto, dotato di carisma e pragmatismo, o di un “Europigmeo”, come lo chiama l’«Economist», si tratterà pur sempre di una presenza che cambierà non poco il modo di funzionare dell’Unione e il suo stesso acquis. In effetti il suo compito essenziale, se vorrà politicamente esistere, non potrà che essere quello di mediare fra gli Stati dell’Unione per portare nella governance mondiale una seria posizione europea sulle questioni da cui dipende un mondo più equilibrato: dal protezionismo alle regole finanziarie, dall’aiuto allo sviluppo alle questioni energetiche, dalle politiche anti-climatiche a quelle di riconversione industriale.
D’altra parte, ciò che all’Europa veramente manca non è l’unità politica ma l’unità economica. È questa che può nuovamente rendere il vecchio continente un soggetto “pesante” della vita internazionale. Poca politica estera, come si addice ad un’entità politica dotata di scarsa forza militare, e invece molto soft-power e molta politica economica quale è possibile a una potenza di buona reputazione e rilevante forza economica come l’Europa. O meglio, una buona politica estera attraverso una buona politica economica, secondo la ricetta che sembra dominare il pensiero della Presidenza americana, impegnata a considerare il momento della forza un post e non un prius. È proprio su questo terreno, del resto, che si colloca la nuova chance dell’Europa: rafforzare la guida dei processi mondiali da parte di un Occidente più unito. In certo senso, lo richiede il multilateralismo stesso di Obama. E lo sollecita, ora, anche l’indirizzo del nuovo premier giapponese Hatoyama, con la sua idea di una Unione del Pacifico fra le potenze industriali dell’area, Giappone, Cina e Sud-Corea: una iniziativa che certamente non implica un mutamento delle alleanze del Giappone ma certo un sintomo della velocità con cui si muove l’Asia verso nuovi assetti internazionali. Ed è purtroppo da temere che se l’Unione Europea perseverasse a disconoscere la necessità di una relazione speciale tra Europa e Stati Uniti – sulla quale ha richiamato l’attenzione sotto il profilo economico la stessa Banca d’Italia2 – potrebbe solo accentuare il processo di lenta e dolce marginalizzazione che incombe su essa.
Parrà strano, ma di tutto questo complesso di problemi non esattamente secondari si è sentito pochissimo parlare nel dibattito del Partito Democratico. La globalizzazione, l’Europa, l’economia, la disoccupazione, sembrano come la Cina di Bertolucci, lontane, lontanissime. Ma può un partito proporre il mutamento del Governo, il rovesciamento dei suoi indirizzi politici ed economici, e dimenticare le questioni capitali da cui il mutamento dipende? È difficile, che in questo modo, si irrobustisca la fisionomia del partito. Curiosamente, invece, i discorsi con cui i tre candidati alla segreteria del PD hanno presentato le loro differenti piattaforme all’assemblea nazionale di ottobre avevano una caratteristica comune. Erano tutti e tre inward looking: protesi sui problemi interni del nostro paese, o del nostro Parlamento, o del nostro partito, o delle nostre categorie sociali. Buoni discorsi, certamente, con un identico difetto: dimenticavano il mondo, per così dire, mancavano d’ogni quadro di riferimento. Non collocavano le loro proposte sulla vita del nostro paese nella prospettiva e nei problemi che derivano dalla storia contemporanea, dal respiro dei suoi intrecci, dalla complessità delle cose da cui infine dipendono i destini individuali e collettivi.
È per caso? Per convenienza di luogo? O di tempo? Veniva il dubbio, ascoltando quei discorsi che non fosse così. Che l’amnesia politica dipendesse da una questione irrisolta di ordine generale. Un partito politico, in effetti, bisogna anzitutto che non assomigli a un orfanello uscito dal brefotrofio. Bisogna sia in grado di indicare almeno genitori antenati e parenti, che sono poi la prima carta da visita di un partito, la sua prima ragione di accettazione. Vale, per la percezione di un partito, quanto diceva Guglielmo Ferrero per la legittimità, deriva da un tempo lungo non da un istante felice: un partito è annusato e riconosciuto anzitutto per le prove che ha dato, per i tratti e i colori che ha assunto nel suo cammino.
Dietro le difficoltà del Partito Democratico si scorge così, anzitutto, un problema di cultura politica, considerando che «la cultura di un partito – come è stato osservato – non è racchiusa in un manifesto, né è un prodotto intellettuale, ma è tutt’uno con gli obiettivi politici e programmatici e con la visione della società, nonché con la prassi stessa del partito»3. È in questa chiave che subito si comprende la difficoltà prima in cui si trova il PD. Non sa bene quale sia la storia della famiglia, sembra dubbioso sulla reale matrice dei suoi propositi, incerto sui suoi legami culturali e morali col movimento progressista dell’Occidente. Qual è, esattamente, il suo riferimento intellettuale? In che consiste il suo rimando lungo? La sua cifra di riconoscimento è stata davvero fissata?
Naturalmente, Franceschini non aveva affatto torto quando alla convention Democratica notava che i partiti dei sistemi bipolari sono grandi formazioni dove si incontrano differenti tendenze, sfumature, propensioni ed ambizioni. Ma in ogni paese di democrazia bipolare i partiti hanno pur sempre una cifra complessiva, espressa da storia, tradizione, obbiettivi, programma e metodo. Certo nessuno immagina che il Partito Democratico sia nato con l’obbiettivo di rinverdire le due tradizioni, quella comunista e quella democratico-cristiana, cui molti dei suoi fondatori appartenevano. E certo non è neppure lontanamente una questione di autocritiche; non si rinnega mai quanto si è fatto con coscienza e passione. La questione è invece quella dei reali pensieri che hanno condotto alla fondazione del nuovo partito. Bisogna rifarsi ad esse – come taluno sostiene – perché rappresentavano interessi popolari? È esatto, li rappresentavano. E però, per presentare un biglietto da visita esauriente bisognerebbe anche stabilire in che modo quegli interessi furono gestiti: non in sede sociale o sindacale ma in sede economica e politica, che sono le sedi cruciali.
Bisogna cioè porsi, necessariamente, acuti problemi interpretativi della nostra vicenda nazionale. In particolare, quelli del ruolo giocato da alcune forze politiche. La storiografia sembra aver cominciato a mettere a fuoco almeno alcuni punti. È notazione ormai largamente comune, per esempio, che la trasformazione dell’Italia da nazione agricola a paese industriale è nata sulla base di concezioni e politiche le quali si rifacevano al pensiero economico di forze democratico-liberali: diverso, come tale, sia dal solidarismo cattolico sia dallo statalismo socialista. Dei protagonisti appartenenti al mondo democratico-laico si sta riscoprendo l’interesse e l’importanza attraverso una serie di biografie storiche di prim’ordine4. Non sembrano ancora esaurientemente delineati, invece, i fattuali esiti della politica condotta dai grandi partiti: che non ebbero, propriamente, successi storici – si può qui almeno dire – visto il loro contributo a quegli snodi della vita italiana che furono, prima, l’arrivo del fascismo e, in altra fase, la caduta della Repubblica nata dalla Resistenza, per verità costata non poco. I rischi stessi che oggi corre la Costituzione, e con essa l’equilibrio dei poteri e l’indipendenza dei media, sono il frutto ultimo della condizione storico-politico creata dal fallimento politico delle grandi forze popolari, molto più, se vogliamo capirlo, che il portato di derive personali.
Ora, la ragione d’essere del Partito Democratico, la sua grande novità derivava da due elementi: da una parte, l’esigenza di avere un sistema politico e istituzionale più efficiente, e perciò non frammentato, non a carattere proporzionalistico e non ispirato da spirito populista; dall’altra, il riconoscimento che è ormai indispensabile ciò che in Italia è sempre mancato: un unico partito riformatore di sinistra, a vocazione maggioritaria, stabilmente fondato non su ideologie e miti ma sulla cultura critica della modernità. Un partito pienamente “occidentale”, nel senso dell’appartenenza senza riserve alla civiltà politica sviluppatasi in nessun altro luogo che nell’Occidente moderno. Un partito intrinsecamente “laico” nel segno del patriottismo costituzionale, poiché l’art. 7 della Carta non contiene solo il richiamo ai Patti lateranensi ma anzitutto la dichiarazione che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»: che è, appunto, il fondamento ineludibile della laicità dello Stato e delle sue leggi. Un partito, infine, che sul terreno economico-sociale, tra liberismo sfrenato e statalismo obsoleto, si riconosce nella tradizione dell’intervento dello Stato nel mercato a fini di interesse generale e sociale: una tradizione di pensiero forse iniziatasi nell’Ottocento con Stuart Mill, trovando poi espressioni fondamentali nel Novecento con Keynes e Beveridge, cioè altri due liberali progressisti, e realizzandosi politicamente in tempi e luoghi diversi: più precisamente, nell’America degli anni ’30 attraverso il Partito Democratico di Roosevelt che blocca la “grande crisi” e una deriva molto simile a quella europea generatrice di nazismo e fascismi; e nel vecchio continente, dopo la seconda guerra mondiale, attraverso la prevalenza di partiti socialdemocratici e di forze riformiste d’ispirazione cattolica o democratico-laica5.
Questi sembravano i punti cruciali d’accordo sui quali legittimamente il nuovo partito nasceva. Non furono ripresi formalmente, al Lingotto, da Walter Veltroni, ma risultavano impliciti in tutti i suoi ragionamenti, che erano quelli di un segretario del partito eletto con immenso consenso. Poi quei ragionamenti hanno dovuto fare i conti con le resistenze interne di questi e di quelli, dell’apparato, delle strutture collaterali forti: e nello scontro, sono andati “ko” non poche volte. La polemica ideologica della guerra fredda ha avuto ancora effetti funesti, alterando molte valutazioni e contribuendo a ritardare una completa definizione del PD. L’Occidente, per esempio, è stato riguardato spesso attraverso le lenti del giudizio negativo propagato per quarant’anni sulla superpotenza americana che ne era e ne è alla guida: una potenza che storicamente ha avuto il significato di contrapporre democrazia a comunismo e che era spacciata invece come un concentrato d’imperialismo e neo-colonialismo, un paese reazionario, pieno di vizi e ineguaglianze. In questa scia, il bipolarismo che domina tutti i grandi paesi occidentali, e sul quale soltanto può costruirsi uno Stato efficiente, non è risultato convincente per tutti i Democratici.
La “civiltà del maggioritario” di cui ha parlato Maccanico più volte, che naturalmente si articola in momenti e strutture politiche, istituzionali, parlamentari, è stata scambiata da taluni come una sorta di attentato alla democrazia rappresentativa. È avvenuto, così, che alcuni leader, e una parte dei vecchi apparati partitici, siano tornati a guardare con interesse e quasi con amore al cosiddetto “laboratorio italiano”: considerando le nostre anomalie rispetto all’Occidente come un fiore da coltivare più che come un’arretratezza da correggere. L’esistenza nel mondo di una riflessione democratica originale, di un pensiero “liberal” autonomo e diverso da tutti gli altri, è relativamente poco conosciuta nel Partito Democratico e nel suo ambiente intellettuale.
Che il pensiero democratico abbia avuto poi rilevanza pure in Italia, non solo nell’Ottocento ma anche nel Novecento, in contrasto con il nazionalismo, il fascismo, il socialismo, il popolarismo, e il comunismo, andando da Nitti a Salvemini e ad Amendola, e da Rosselli a Ernesto Rossi e La Malfa, lascia addirittura perplessi molti esponenti della sinistra culturale e politica. L’articolo sul «Corriere della sera» del direttore di questa rivista6, in cui si rivendicava il peso della tradizione “liberal” nel Partito Democratico, ha destato eco, sorpresa e scuse imbarazzate. Del resto, anche alcuni recenti saggi, pubblicati da studiosi di valore, e tesi a suggerire i tratti di una sinistra italiana più moderna7, sembrano dimenticare un punto non indifferente, che, come si diceva, ha precedenti storici. La crisi che oggi ha scosso gli Stati Uniti, prima in sede politica e poi economica, si è chiusa infatti riportando l’America di Obama, e il pensiero democratico da cui è guidata, all’avanguardia del movimento progressista mondiale. L’analoga crisi che scuote l’Europa esprime invece forze di destra, rinnovate o non rinnovate che siano. Cosa assai preoccupante perché dopo il 2010 l’Unione Europea sarà politicamente dominata dalla destra, che già oggi è maggioritaria in molti paesi forti (Germania, Francia, Italia, Polonia) e domani, probabilmente, vincerà le elezioni anche in Gran Bretagna e Spagna (secondo i sondaggi relativi a Brown e Zapatero).
Così, nel ciclo pluriennale che in Europa sembra nuovamente aprirsi per il centro-destra è difficile pensare che un controbilanciamento sarà assicurato dai Governi socialdemocratici di Norvegia, Portogallo e Grecia. Piaccia o meno, l’esaurimento tematico e politico della socialdemocrazia europea è giunto alla sua conclusione. Da ultimo, le catastrofi elettorali in Germania e in Francia lo hanno detto in modo inequivoco, o equivocabile solo per persone di fede cieca. Quali che ne siano le differenti spiegazioni, di Giuseppe Berta, di Giuliano Amato o di Alfredo Reichlin8, alla fine Alain Touraine ha ragione. «Il Pse è diventato un guscio vuoto, una burocrazia autotrofica»9. In Italia ci siamo salvati perché, invece di un partito socialista, si è presentato alle elezioni un Partito Democratico.
C’era – è vero – l’eccezione della Gran Bretagna: dove il drastico rinnovamento blairiano negli anni Novanta, in altri paesi deplorato in nome del vero socialismo, innescò una stagione straordinaria. Ma dopo il record di dodici anni ininterrotti di governo, oggi anche il New Labour appare stanco e sprovvisto di nuovi traguardi. Così, dunque, l’idea che per vivificare il Partito Democratico sia necessario richiamarsi al socialismo, o alla socialdemocrazia, appare più una stranezza che una tesi, sebbene sia sostenuta da alcuni sempre valorosi esponenti del partito.
D’altra parte, nel mondo del 2000, di fronte ai nuovi paesi che cercano nuovo sviluppo economico e nuove strade per la democrazia, ci si può presentare offrendo la ricetta di una esperienza puramente e tipicamente europea, fiorita nel secolo scorso in una breve “età dell’oro”?
Non servirebbe qualcosa di lievemente più moderno, e anche più universale?
Nel Partito Democratico, si diceva inizialmente, ci sono divisioni culturali e politiche. C’è anche, però, un sentimento unanimemente condiviso: eliminare un leader di governo che, sul piano internazionale, è divenuto purtroppo oggetto di scherzo molto più che d’attenzione politica; mentre nel paese ha tanti problemi personali da potersi reggere soltanto per una capacità di dominio dei media da rasentare la maestria (talvolta, forse, eccedendo?). L’ultima sua idea, fare a colpi di maggioranza una riforma della Costituzione sul punto delicatissimo della giustizia, non pare propriamente ben pensata. E ci si può domandare, anzi, se essa non assorbirebbe, o non ridurrebbe di molto, la divisione interna dei Democratici che si è cercato qui di analizzare. Questa divisione di natura politica e culturale si fissa con chiarezza nei differenti disegni politici che investono sia, a breve termine, la tattica da seguire col Governo Berlusconi, sia, a lungo raggio, gli obbiettivi di sistema che si perseguono.
Sotto entrambi i profili l’idea di fondo dell’on. D’Alema, massimo stratega di una delle due parti Democratiche, appare tanto strana quanto irrealizzabile. Che senso può avere il ritorno alla “civiltà del proporzionale” in una condizione storico-politica che oggi non la richiede più? Ieri, certo, nell’epoca della guerra fredda, delle grandi spaccature ideologiche, dello scontro politico che non ammetteva alternanze, erano essenziali sia la proporzionale sia le politiche di allargamento della base democratica, su posizioni centrali, che la proporzionale permetteva. Si privilegiava la rappresentanza parlamentare delle forze politiche e la Costituzione materiale piuttosto che la costruzione di uno Stato efficiente e la Costituzione formale. E ad imporre il tragitto non era un interesse di partito ma l’esigenza obbiettiva di un minimo di coesione nazionale. Ora, quindici anni dopo la crisi della prima Repubblica – di cui molti stabiliscono la data alla domenica del ’93 in cui il referendum popolare sconfessò di fatto la rappresentanza proporzionale – il problema numero uno è divenuto il costruirlo, quello Stato moderno, perché nell’attuale condizione il paese non può che essere condannato ad arretrare ulteriormente. E tutta l’esperienza dei grandi paesi europei sta lì a dire che per realizzare una democrazia efficiente non serve la proporzionale ma il maggioritario; non serve la frammentazione partitica ma il bipolarismo aggregante; non un centro ambiguo, perennemente arbitro in Parlamento di maggioranze opposte, ma l’alternanza di governo e il ricambio di classe politica attraverso il giudizio popolare, cioè il bipolarismo politico (è pura invenzione che esso non permetterebbe pluralismo. Non c’è pluralismo in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti?).
Il disegno dell’on. D‘Alema, sotto il profilo delle concezioni politiche e istituzionali, ha dunque caratteri antistorici così spiccati da colpire sfavorevolmente. Servirebbe, almeno, a mandare a casa Berlusconi? Purtroppo, si ha l’impressione che si pensi a qualcosa di simile alla combine che nel ’94 vide insieme, per breve tempo, Buttiglione, Bossi e D’Alema. Il rapporto fra le forze politiche adesso è diverso e il disegno più ambizioso. Si pensa di associare il Partito Democratico e l’Unione di Centro dell’on. Casini come fondamento di una nuova maggioranza; di scindere, invece, il Partito delle Libertà, acquisendone una parte per rafforzare il nuovo Centro; di isolare la Lega Nord all’opposizione; di buttare Di Pietro sui comunisti di Ferrero. Una cosa napoleonica, che c’è il rischio finisca, come altre volte è successo, in una Waterloo. Davvero è realistico che PdL e Lega si separino, col risultato di perdere la maggioranza in gran parte del Nord? È realistico che il Pdl si spacchi per mandare a casa i ministri del Governo Berlusconi e diventare minoritario in un nuova maggioranza? La capacità di convincimento e di influenza della sinistra sembra un poco sopravalutata. È ben probabile che non sarà la sinistra a far cadere Berlusconi: sarà la destra, quando riterrà che il suo carisma si è sfilacciato e la sua presenza procura più danni che vantaggi (come del resto sta avvenendo con gli errori e la megalomania del premier). E quando ciò prima o poi avverrà, si muoveranno contemporaneamente altre forze, di altra natura, che poco hanno a che vedere con la sinistra, e daranno anch’esse una bella spinta. E tutto avverrà non per fare un favore a Casini e D’Alema ma per far vincere nuovamente la destra con un nuovo leader più credibile.
Questo sembra un quadro meno brillante e vittorioso ma più probabile dell’altro. E può essere contrastato solo da una visione politica e culturale diversa da quella del proporzionalismo e del neo-centrismo: da un disegno spesso, da un progetto strategico a medio raggio. Non dare tregua alla destra attraverso l’articolazione continuativa del progetto riformatore e la proposizione concreta di soluzioni fondate su economia di mercato e riforma del welfare: nelle condizioni create non da una economia autarchica alla Tremonti ma dalla competizione globale. Ridare slancio all’unità dell’Europa e dell’Occidente nel quadro della ripresa generalizzata dell’economia, riequilibrando il pendolarismo del berlusconiano verso il gas di Putin10 e contribuendo ad una governance mondiale che assicuri un migliore equilibrio dello sviluppo. Costruire un modello di Stato che non sia quello centralistico né quello regionalistico, entrambi falliti, e affronti insieme le due questioni nazionali connesse, il federalismo solidale e l’unificazione economica del paese. Fissare definitivamente quell’unica piccola rivoluzione costituita dal bipolarismo di tipo occidentale. Portare ad una legge elettorale che almeno assicuri agli elettori la scelta dei loro parlamentari. Favorire nella sinistra una risposta cattolico-liberale alla destra alleata al clericalismo curiale. Sostituire l’accattonaggio degli spezzoni di sinistra con la vocazione maggioritaria di un grande partito. Richiamarsi nella politica al metodo del riformismo e nella società ai criteri del merito e della competenza. Realizzare un nuovo tipo di partito, che sia capace di radicare con nuovi strumenti la presenza e la partecipazione non più assicurata dal modello di partito del Novecento. Chiamare infine il paese a decidere con chiarezza che cosa vuole sulla base dei risultati e del disegno avvenire. Ecco, su questa strada l’idea iniziale del Partito Democratico lanciata da Prodi sembrerebbe avere spazio e prospettive, garantire modernità e restituire speranza.
Possiamo sbagliare, naturalmente, ma Bersani e Franceschini, se vogliono davvero incidere sulla condizione italiana, hanno qualcosa da dirsi che sia diverso dagli scambi polemici della loro campagna elettorale. Ciò che oggi serve veramente al Partito Democratico, del quale sono ormai i leader consacrati dal voto, popolare, è un profilo. Un profilo politico e programmatico che ancora non ha. Un profilo che si allunghi sul futuro evitando che il partito sia identificato con le faziosità marginali del presente. Diciamo la verità, nella condizione attuale del paese, così deplorevole sotto tutti i punti di vista, non serve partito dell’anti-berlusconismo: ciò cui bisogna piuttosto pensare è il partito del post-berlusconismo. La destra italiana, alle corte, sta anch’essa pensando a questo, sull’esempio delle principali forze di destra europee, datesi intelligentemente contenuti e volti largamente dissimili tanto dal vecchio conservatorismo quanto dal neo populismo. Per questo vincono nei grandi paesi europei, dove non trovano avversari capaci di contrastarla al di là di socialdemocrazie obsolete. Bersani e Franceschini se ne vogliono rendere conto? Vogliono seriamente pensare a disegni politici e programmatici che abbiano respiro autentico, invece che a invenzioni di mezza estate? Sarebbe un grande progresso non solo per la sinistra ma anche per il paese: due forze serie e alternative, entrambi capaci di governo ed egualmente legittimatesi, una prospettiva o un’illusione?



NOTE
1 Cfr. l’ampio comunicato conclusivo del G-20 di Pittsburgh in www.g20.org/Documents/pittsburgh_summit_leaders_statement_250909.pdf ^
2 Cfr. lo scritto del Direttore generale di Banca d’Italia, estratto da una più ampia relazione presentata ad un Seminario interno: F. Saccomanni, Il futuro è ancora EurAmerica, in «Il Sole-24 Ore», 11.10.2009.^
3 Cfr. le acute osservazioni contenute nel libretto di S. Biasco, Per una sinistra pensante. Costruire la cultura politica che non c’è, Venezia, Marsilio, 2009.^
4 Vedi per esempio quelle di Soddu su Ugo La Malfa, di Graglia su Altiero Spinelli, di Polese-Remaggi su FerruccioParri, di Cicalese su Guido de Ruggiero, di Borgna su Galante Garrone, di Ristuccia su Adriano Olivetti.^
5 Su questo punto un riconoscimento fondamentale su una vicenda italiana che il Partito Democratico continua ad ignorare, è quello di Giorgio Napolitano in Dal Pci al socialismo europeo, un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, pag. 57, dove il documento presentato nel ’62 al Parlamento dal ministro del Bilancio La Malfa con la collaborazione di un economista cattolico di valore come Pasquale Saraceno, viene definito «il punto più alto di analisi dell’evoluzione del paese, a partire dal dopoguerra, e di elaborazione di una visione nuova dell’azione pubblica»: un documento nel quale «si sarebbero potute riconoscere tutte le forze della sinistra, anche quelle di opposizione».^
6 Cfr. G. Galasso, Il PD e i liberal-democratici dimenticati, in: «Corriere della Sera», 30 agosto 2009.^
7 Cfr. B. de Giovanni, A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?, Venezia, Marsilio, 2009. A. Schiavone, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Roma-Bari, Laterza, 2009. G. Berta, Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, Il Mulino, 2009. ^
8 G. Berta, op. cit. A. Reichlin, Editoriale, in «ItalianiEuropei», 3 (2009). G. Amato, L’Europa alza i ponti levatoi, in «Il Sole-24 Ore», 14 giugno 2009.^
9 Cfr. S. Verde, Ecco perché in Europa muore la socialdemocrazia, in «Europa», 5 ottobre 2009. «Autotrofia: proprietà di alcuni organismi di nutrirsi, cioè di costruire sostanze organiche del proprio corpo partendo da sostanze inorganiche» (dal Lessico Universale Italiano, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1969). ^
10 Cfr. F. Venturini, Il pendolo verso Mosca, in «Corriere della Sera», 20 ottobre 2009.^
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