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Novembre 2009: tra vecchio e nuovo nei partiti italiani
di G. G.
L’affermazione di Bersani nelle “primarie” per la elezione del nuovo segretario del Partito Democratico non era del tutto scontata. Bersani aveva prevalso, come è noto, nella votazione effettuata all’interno del partito, accreditato, se non erriamo, di 455.000 iscritti. Si diceva, però, che quella era una votazione, appunto, interna, e si lasciava credere che ci fosse parecchio di truppe cammellate in quella massa, molto inferiore a quelle di una volta, ma pur sempre notevole, di iscritti, e specialmente in alcune regioni del Mezzogiorno. Da altre parti si pensava, invece, che, per quanto cammellate, ossia docili e prone ai comandi dei cammellieri, quelle truppe interne erano pur formate da persone che avevano rapporti familiari e sociali, e che esse non avrebbero mancato di influenzare e di spingere al voto per il loro candidato favorito i parenti, gli amici, i vicini, i conoscenti e tutti gli altri loro interlocutori nella vita sociale che fossero stati suscettibili di ricevere e di seguire una tale sollecitazione.
Questa seconda tesi ha dimostrato di essere fondata. L’orientamento prevalso fra i tre milioni di votanti (una bella cifra, ma si sa che le cifre italiane in queste faccende smentiscono puntualmente l’opinione che la matematica non sia una opinione) è stato il medesimo di quello prevalso all’interno del partito, con appena un po’ di flessione percentuale: più o meno dal 54 al 53%. La valanga dei voti “liberi” e “indipendenti”, che avrebbe dovuto sommergere la “palude” del conformismo interno di partito non si è verificata. Non sappiamo, tuttavia, se i fautori della prima e quelli della seconda tesi si rendano ben conto delle deduzioni che dai loro ragionamenti della vigilia si debbono trarre a elezione avvenuta e a risultato conosciuto. La deduzione che in primo luogo appare evidente è che la “straordinaria partecipazione” esaltata come importante dato politico della domenica elettorale del P. D. – essendosi dimostrata a tal punto conforme agli orientamenti interni del partito – deve, quale che ne sia stata la effettiva portata numerica, aver riguardato innanzitutto l’elettorato tradizionale del partito e l’opinione altrettanto tradizionalmente orientata verso di esso, con scarsissimo o nullo coinvolgimento della più generale opinione pubblica, quella cioè che, a conti fatti, decide dei risultati elettorali.
Interpretare, dunque, la “straordinaria partecipazione” del 25 ottobre alle primarie per il segretario del P. D. come “una festa della democrazia”, tale per il partito e per l’Italia, rimane piuttosto audace. È certo un buon segno che intorno a un partito e ai suoi iscritti permanga solidamente accampata una cassa di risonanza politica e sociale consistente. Da quando si è passati al regime dei “partiti leggeri”, come amabilmente vengono definiti e, soprattutto, si autodefiniscono (anche se nella loro leggerezza essi dimostrano di essere altrettanto e più pesanti dei vecchi “partiti pesanti”) i partiti italiani di oggi, l’opinione pubblica italiana è diventata molto più fluttuante e imprevedibile di una volta. E in ciò non vi sarebbe nulla di male, anzi vi sarebbe molto di buono, se la direzione politica nazionale e la direzione delle forze politiche del paese fossero abbastanza vigorose, abbastanza lineari, abbastanza chiare nella loro gestione della vita politica del paese. Così, invece, per generale ammissione, non è; e si deve certamente anche a questo – oltre che a una serie di altre importanti ragioni – il perdurante e finora crescente discredito della classe politica nel paese: un discredito che è un dato non recente e sempre ricorrente nella storia dell’Italia unita, ma che nella cosiddetta (e molto mal detta: non ci stancheremo mai di ripeterlo) “seconda Repubblica” sembra avviato a un vertice anche superiore a quello già notevole conosciuto finora. E, non essendovi alcun segno di inversione di questo stato di cose, il dato per cui l’opinione mobilitatasi per le “primarie” del P. D. è quella più vicina a quel partito rimane un dato, come abbiamo accennato, importante e positivo per il partito, ma per la democrazia italiana è un dato ancora lontano dal poter essere annoverato fra quelli risolutivi. Del resto, già con Veltroni si vide abbondantemente quanto i dati dei milioni di votanti in queste consultazioni di designazione larga all’americana (delle quali ancora non abbiamo percepito, sarà incapacità nostra, le profonde ragioni per cui le si è introdotte in Italia, ma confidiamo che, se durano, alla lunga se ne possa vedere qualche buon frutto) possano corrispondere assai poco ai dati concernenti i milioni di votanti che nelle elezioni legislative e in quelle amministrative concorrono a determinare le maggioranze del governo centrale e delle amministrazioni regionali e locali.
Per quanto riguarda, comunque,il problema politico del P. D. rinviamo al lucido articolo di Adolfo Battaglia in questo stesso numero della nostra rivista. Qui vorremmo ancora insistere sul punto della struttura dei partiti attualmente presenti in Italia. Nessuno di essi può vantare una struttura che possa essere considerata consistente, efficace, funzionale non solo in potenza o auroralmente, ma in pieno atto. Crediamo di potere sfidare chiunque a dimostrare il contrario.
Tutto sommato, pare abbastanza certo che oggi come oggi sia la Lega di Bossi a fornire ciò che più si avvicini a un tipo soddisfacente di partito territorialmente e (nonostante la sua limitazione geografica) nazionalmente presente, e i risultati elettorali di quel partito lo dimostrano col conforto dei numeri. Si tratta, però, di un partito monarchico assoluto, egemonizzato oltre il credibile da Bossi. Difficilissimo è fare previsioni per il dopo-Bossi; e, benché quest’ultimo abbia rivelato una tempra anche di vitalità umana e politica superiore a ogni aspettativa, e quindi il problema del dopo appaia per ora ancora lontano, la realtà è pur sempre quella, che abbiamo indicato, di una difficile prevedibilità al riguardo.
Di gran lunga migliore e più importante è la prospettiva del P. D., nel quale i fondamenti per la solida costruzione di un grande partito moderno ci sono tutti, e tanto da rendere superfluo elencarli. Non si può negare, tuttavia, che questi fondamenti consistano, più che altro, nel vecchio radicamento territoriale del Partito Comunista e, per la parte dei cattolici confluiti nel partito, della Democrazia Cristiana. Un radicamento che, ben si comprende, presenta le differenze di qualità sociali e territoriali che connotavano quei vecchi radicamenti, e che nel “nuovo ordine” sembrano più accentuate che attenuate. In realtà, finora il P. D. è stato molto più un nuovo partito che un partito nuovo. Le sue potenziali novità esigono ancora di essere tradotte, quasi per intero, in realtà. Una delle massime prove alle quali il nuovo segretario è chiamato è proprio questa. E se questa prova sarà guadagnata, allora si, sarà una grande festa anche per il paese.
Sul versante di destra il discorso è molto più complesso. In ogni caso, la costruzione di un partito del genere auspicato e auspicabile nell’Italia di oggi vi appare molto più indietro che non per il P. D. Inoltre, anche la destra vive in regime monarchico; e, benché Berlusconi non sia padrone del proprio partito nella stessa misura e nello stesso modo che Bossi è padrone del suo, questo regime – nell’uno e nell’altro caso – può servire ottimamente nel presente, ma molto meno in prospettiva. In ultima istanza, né il partito di Berlusconi né quello di Bersani, danno affidamento di star costruendo qualcosa anche per il futuro: il futuro del domani degli attuali monarchi. Certo è, però, che questo vale per il partito di Berlusconi molto di più che per quello di Bossi, e questo per il paese fa una grande differenza. Inoltre, anche in questo caso i nuclei più consistenti appaiono quelli che sono trasmigrati dalle vecchie formazioni e partiti della cosiddetta “prima Repubblica” nel nuovo partito berlusconiano. Di nuovo nel senso strutturale da noi qui auspicato non vi è nulla o assai poco. E la promozione e fondazione di un tale nuovo appare, infine, per una serie di ragioni varie, ma forti, più difficile su questo versante che su quello opposto dello schieramento politico italiano (dal che deriva pure, sia detto per inciso, che tanto più deve essere valutato a dovere il semi-prodigio operato da Berlusconi nel metter su in brevissimo tempo, nel 1994, un partito che, sia pure quasi solo per lui, è ancor oggi così forte).
Potremmo continuare in questa analisi, estendendola a qualche altra formazione o gruppo presente sulla scena nazionale, ma l’essenziale di quanto abbiamo detto non muterebbe. C’è solo da aggiungere che una riprova della crisi dei partiti in quanto tali nella presente (e ormai già annosa) congiuntura politica italiana è messa in ulteriore evidenza dall’accentuato personalismo della rappresentanza e delle candidature, da un lato, e delle
leadership di partito, dall’altro lato. Intendiamoci: l’emersione delle personalità nella vita pubblica può essere in se stessa un bene, e anche un gran bene; quel che induce a preoccuparsene e a vedervi un segno deteriore è il fatto che per mille e mille segni nell’Italia di oggi il personalismo funge da surrogato totale di una carenza molteplice: carenza di grandi, persuasive ed efficaci prospettive e linee politiche; carenza di strutture organizzative solide ma nello stesso tempo non soffocanti e aperte e invitanti invece che respingenti; carenza di una dialettica interna anche aspra e rude, ma, comunque, costruttiva e concludente; carenza di supporti sociali e culturali della vita di partito, che vi apportino l’indispensabile contributo di idee nuove e di presenze sociali effettivamente significative e rappresentative.
Colmare la grande distanza che separa il personalismo politico oggi imperante e il grande personalismo della dialettica politica dei grandi paesi moderni è, perciò, uno dei principali problemi da risolvere nel così difficile e lungo riassestamento del sistema e della vita politica in Italia, in corso da ormai troppo tempo. Il personalismo non consiste nel dare il proprio nome alle liste del partito, e neppure nel costruire partiti su misura e a immagine di un
leader, o presunto tale; non consiste nella presenza taumaturgica, o pretesa tale, di un padre-padrone del partito, e in realtà più padrone che padre, mentre nel caso dei partiti non stanno al posto giusto né i padri, né i padroni. Oggi si danno a ogni pie’ sospinto patenti di carismaticità, e si confonde la qualità paterna (meglio: paternalistica) e/o padronale con quella carismatica. Non dovrebbe essere, quindi, un problema di carisma quello della odierna politica italiana. Eppure, è proprio un po’ di grande e autentico carisma quello di cui più si ha bisogno. Il carisma, cioè, che nasce dall’azione e dalle cose, dalle idee e dalla tempestività storica, non dalle autoproclamazioni o dalle speculazioni e dal conformismo di gruppi e partiti, o dalle spesso risibili ideologie di tanti gruppi o partiti dell’Italia di oggi. È come per il personalismo: serve, ma quello buono.
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