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Il "secolo breve" dei due concordati. Chiesa cattolica, Stato e nation building italiano nel Novecento
di Eugenio Capozzi
Da molto tempo la storiografia italiana non affrontava nella sua interezza la vicenda dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica dopo l’unificazione italiana. Tanto più mancava una ricerca che, a partire da una narrazione di ampio respiro sull’argomento, si spingesse fino alla firma del nuovo concordato del 1984, sullo sfondo dei delicati tornanti politici degli anni Settanta e Ottanta. Roberto Pertici, già autore di saggi sui nodi più problematici nei rapporti tra politica e cultura italiana (in particolare proprio la cultura storiografica) nel ventesimo secolo, sembra a prima vista aver intrapreso questo lavoro quasi in punta di piedi, proponendosi essenzialmente di illustrare i dibattiti parlamentari sui due concordati, riuniti a cura del Senato nella collana “Dibattiti storici in parlamento” del Mulino. Ma la materia, evidentemente, gli ha ben presto “preso la mano”, spingendolo a delineare una sintesi interpretativa di tutta la lunga e intricata storia dei tentativi di ricomposizione della ferita apertasi con la Breccia di Porta Pia e il Non expedit. Ne è derivato un volume tanto di enorme mole quanto di avvincente lettura, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna, Il Mulino, 2009.
Un’opera di tale ampiezza non potrebbe reggersi se non fosse guidata da una nitida formulazione del problema storiografico da cui essa prende le mosse. Fin dalle prime righe del volume, infatti, Pertici evidenzia come la questione che lo interessava fosse fondamentalmente l’evoluzione dei rapporti tra Chiesa cattolica e Stato italiano alla luce dell’alterazione dello status quo post-risorgimentale, con il conseguente emergere di un equilibrio istituzionale, politico e culturale nuovo. E come, quindi, egli abbia conseguentemente definito la periodizzazione alla base della sua narrazione ponendo il terminus a quo di essa al 1915 e il terminus
ad quem
al 1984: concentrandosi, quindi, sul tratto temporale che si estende dalla crisi dell’Italia liberale esplosa con la Grande Guerra fino, appunto, al secondo concordato firmato da Bettino Craxi e Agostino Casaroli, firmato nel contesto di una fase “matura”, se non critica, dell’assetto democratico repubblicano del secondo dopoguerra.
Dall’analisi della vastissima documentazione presa in esame dall’autore emerge a poco a poco, sia pure all’interno di una dialettica storica che appare irriducibile ad una lettura monodimensionale, una tesi di fondo: quella secondo cui il lungo, interrotto e ripreso percorso concordatario non va giudicato come una “mutazione genetica” dello Stato italiano rispetto al suo assetto laico post-risorgimentale, ma piuttosto come un processo di ricomposizione dello Stato nazionale stesso, generato da una progressiva presa di coscienza da parte di settori prevalenti della classe politica nazionale.
Già analizzando il panorama politicoculturale dell’Italia dell’immediato primo dopoguerra – nel drammatico periodo del passaggio dal regime liberale alla democrazia dei partiti, del conflitto sociale radicale e poi dell’ascesa del fascismo – Pertici pone in evidenza come proprio in quel contesto emergano, tra gli intellettuali e gli uomini politici liberali meno ostili al cattolicesimo nel momento dell’avvento sulla scena del Partito popolare di Sturzo, i primi inviti ad intraprendere una revisione dei rapporti tra Stato e Santa Sede in grado di superare la dicotomia tra logica delle “guarentigie” da una parte, e rifiuto di riconoscimento dello Stato italiano dall’altra.
La strada della Conciliazione che si sarebbe conclusa nel 1929 con i Patti lateranensi, sottolinea più volte l’autore, non va dunque considerata come un parto di Mussolini e del regime fascista, ma semmai come una tendenza inaugurata già nell’ultima fase del sistema liberale statutario. «Il cammino che avrebbe portato all’11 febbraio», ricorda Pertici, «scaturiva da premesse e valutazioni di lunga data, a cui avevano dato un contributo non secondario anche gli ultimi governi “liberali”; e dagli orientamenti prevalenti in un’opinione pubblica non ancora “fascistizzata”. E questo perché la soluzione della questione romana e la connessa revisione della legislazione ecclesiastica erano percepiti – anche da ambienti schiettamente laici – come un “frutto maturo”: riguardavano un problema secolare della storia d’Italia, la cui soluzione era avvertita come possibile e, forse, auspicabile» [pp. 101-102].
Un altro elemento centrale che emerge dalla ricostruzione di Pertici è il fatto che il progressivo dialogo tra classe politica italiana e Chiesa, ereditato dal fascismo e successivamente da esso abilmente gestito per consolidare il proprio potere, non vede sostanzialmente mai, nemmeno nella sua fase iniziale, come protagonista il Partito popolare. Anzi, in quegli anni la Chiesa vede quasi come un ostacolo al processo la presenza politica della formazione cattolica, alla quale non intende delegare la rappresentanza degli interessi istituzionali vaticani, preferendo intessere rapporti diplomatici riservati con i settori più sensibili della classe politica prima liberale, poi fascista, ai livelli più alti delle istituzioni. Ciò in quanto essa punta innanzitutto ad impostare e mantenere la trattativa nell’ambito di un rapporto tra poteri “sovrani”: in primo luogo per sottolineare la propria aspirazione a recuperare la potestas ferita da Porta Pia; in secondo luogo per cercare di recuperare almeno una parte della propria indipendenza “statuale”, senza lasciarsi risucchiare dalla dialettica politico-partitica.
È proprio seguendo la traccia del legame, che nella visione della Santa Sede continua a sussistere dopo la fine dello Stato pontificio, tra effettiva libertà religiosa e salvaguardia in qualche misura della dimensione territoriale-istituzionale della Chiesa che Pertici ricostruisce la paziente gestazione non solo del concordato del 1929, ma della stessa logica concordataria. Ed è proprio in base all’acquisito, sostanziale riconoscimento di quella visione da parte della classe politica italiana che l’autore interpreta la successiva persistenza dell’approccio concordatario – e la generale condivisione di esso nel quadro politico e nell’opinione pubblica – tanto in epoca fascista quanto poi in quella democratico-repubblicana.
Eminentemente sintomatico di tale tendenza appare già a Pertici il comportamento dell’opposizione antifascista liberale al Senato nel dibattito parlamentare sulla ratifica dei Patti Lateranensi. Contrariamente, infatti, alla diffusa visione stereotipata di una persistente contrapposizione tra cattolici e liberali laicisti o anticlericali di origine risorgimentale, in quella circostanza nella pattuglia – non proprio sparuta – dei senatori liberali di nomina prefascista quasi tutti votarono a favore del provvedimento: si contarono 11 voti favorevoli e 5 contrari, ma la grande maggioranza dei senatori antifascisti disertarono il voto non presentandosi in aula. Il più autorevole tra essi, Benedetto Croce, rimaneva contrario non tanto al concordato, quanto al Trattato, perché contrario alla creazione di uno Stato vaticano indipendente, e a tale riguardo si espresse apertamente in Senato in rappresentanza dei “separatisti” (come Ruffini, Albertini e Bergamini). Ma egli non era mai stato portatore di un punto di vista anticlericale. E, ciò che più importa, nella successiva votazione, come quasi tutti gli altri senatori che erano su posizioni simili alla sua, preferì assentarsi piuttosto che votare contro, per non urtare le diverse sensibilità presenti tra gli oppositori liberali e la loro opinione pubblica di riferimento.
Anche i liberali anticoncordatari in ossequio ad una concezione rigorosamente separatista tra Chiesa e Stato, dunque, avevano un certo imbarazzo ad esprimersi in senso contrario ai Patti, in quanto una tale posizione si sarebbe contrapposta ad una tendenza largamente affermatasi nel mondo liberal-moderato prefascista ormai da molto tempo prima dell’avvento della dittatura: quella, condivisa da gran parte della società ed in particolare delle classi medie, in base alla quale si riteneva che il superamento della conflittualità Stato/Chiesa fosse comunque una necessità storica anche e soprattutto per lo Stato.
L’atteggiamento generalmente non ostile al Concordato che univa i fascisti a gran parte dei loro oppositori aveva origine in realtà, sottolinea l’autore, nel fatto che l’impostazione cavouriana della separazione e della libertà di culto sul modello anglosassone non era mai stata attuata nell’ordinamento italiano, e la legge delle Guarentigie aveva in realtà introdotto nei rapporti tra Chiesa e Stato unitario una logica sostanzialmente giurisdizionalistica. Gran parte dei liberali che prendevano culturalmente ancora le mosse da premesse cavouriane si rendevano conto di questo scarto, tanto più alla luce dei giganteschi rivolgimenti politici e sociali verificatisi tra la fine dell’Ottocento e la Grande Guerra. E la convinzione che fosse necessario addivenire ormai ad una condizione di effettivo riconoscimento della Chiesa cattolica all’interno di un sistema liberaldemocratico si univa in alcuni casi (Casati, i liberali di origine cattolica, gli ex-popolari) ad una sincera aspirazione all’integrazione definitiva dei cattolici nella vita politica del paese: risultato che non veniva considerato meno importante solo perché ad ottenerlo era ora un regime dittatoriale.
Pertici ricorda, poi, come anche all’interno del regime vi fossero componenti rilevanti, di matrice nazionalista o conservatrice, inclini a convergere su quella visione con i liberali moderati. E come persino le componenti più estremiste, animate ancora dalla volontà di affermare decisamente la superiorità del potere statuale sull’autorità ecclesiastica, convergessero sulla linea mussoliniana augurandosi che il Concordato segnasse l’inizio di una “fascistizzazione” della Chiesa. Idea a cui faceva da contraltare, sul versante cattolico, l’auspicio di quanti ritenevano che i Patti potessero rappresentare la premessa di una progressiva restaurazione cattolica in Italia.
L’accordo raggiunto in Laterano fu anche il frutto di questo delicato compromesso, in cui giocavano aspettative diverse e qualche equivoco. E non a caso negli anni successivi l’intesa tra il Vaticano e Mussolini si andò rapidamente logorando proprio a motivo della crescente volontà del regime di negare effettiva autonomia alla Chiesa, riconducendola a forza sotto l’ala dell’ideologia dominante.
Ma la durata del concordato ad avviso dell’autore si deve, comunque, innanzitutto al fatto di aver interpretato la tendenza storica verso la reintegrazione della matrice cattolica nella corrente principale del nation building italiano. «Il giudizio storico sui patti del Laterano», sostiene Pertici, «non può che essere articolato. Essi […] non devono essere giudicati unicamente sub specie fascismi, ma vanno inquadrati nella più complessiva storia dell’Italia unita, dal prologo risorgimentale alla stagione repubblicana. Se la storia e la civiltà italiana non possono dirsi esclusivamente “cattoliche”, è anche certo che in nessun paese la presenza cattolica è stata così profondamente intrecciata alla vita collettiva in tutti i suoi ambiti» [pp. 149-150]. Significativamente, in tal senso, persino i comunisti uscirono negli anni Trenta da una logica di contrapposizione ideologica alla Chiesa cattolica, in ossequio alla nuova strategia staliniana dei “fronti popolari”, che li spingeva a cercare un terreno d’intesa con tutte le forze dell’antifascismo democratico, tra le quali in Italia quelle del popolarismo cattolico rivestivano un ruolo determinante. Un anticlericalismo programmatico e militante sopravviveva all’epoca, oltre che nei sentimenti profondi delle suddette frange più intransigentemente totalitarie del fascismo, principalmente nel drappello di liberal-radicali e progressisti che facevano capo all’organizzazione “Giustizia e libertà”, da cui sarebbe nato nel decennio successivo il Partito d’Azione: accomunati da una concezione fortemente eticizzata dello Stato laico, che si riallacciava idealmente alle correnti radicali del movimento risorgimentale; e ulteriormente inaspriti, nella loro contrapposizione alla Chiesa, dalle divisioni tra cattolici e laici manifestatesi nella guerra civile spagnola.
Applicando la medesima chiave interpretativa alla fase storica successiva alla caduta del fascismo, Pertici analizza poi il problema della discussione dei rapporti tra Stato e Chiesa nella nuova cornice del sistema democratico-repubblicano, a cominciare naturalmente dal dibattito costituente. A tale proposito, egli evidenzia come l’inserimento del Concordato nel testo costituzionale non possa assolutamente essere descritto – come è stato fatto da certa vulgata storiografica del dopoguerra – nel senso di una convergenza di interessi tra democristiani e comunisti ai danni di uno schieramento laico-liberale intenzionato a tornare ad una logica separatista di modello anglosassone. Ciò principalmente perché sulla volontà di proseguire in un’impostazione concordataria – al di là della preferenza o meno per l’inserimento dei Patti lateranensi nella Carta – si manifestava allora una sostanziale convergenza di quasi tutti i partiti presenti alla Costituente: oltre alla Dc i gruppi della sinistra, il cui consenso era radicato comunque in strati sociali nutriti profondamente di cultura cattolica, ma anche liberali, demolaburisti e qualunquisti, quasi unanimi nel considerare essenziale l’ancoraggio della nuova democrazia ai valori cristiani e all’autorità spirituale della Chiesa. La contrapposizione alla confluenza dei Patti nell’ordinamento repubblicano, in nome di un monopolio dei diritti civili da parte dello Stato laico, senza nessuna particolare considerazione per la condizione speciale della religione cattolica nella storia e nella cultura nazionale, si manifestava soltanto in una parte del campo azionista (nel quale, attraverso Calogero ed altri, confluiva anche un’ispirazione gentiliana) e in alcune frange minoritarie della sinistra liberale.
Infine, un’ulteriore e decisiva spinta all’avvicinamento tra il mondo cattolico e quello laico di ispirazione liberale e democratica sarebbe venuta, negli anni successivi, proprio dalle contrapposizioni della guerra fredda e dalla priorità, sentita in entrambi i campi, della resistenza alla minaccia comunista, che avrebbe cementato l’alleanza centrista degasperiana.
La chiave di lettura proposta getta una luce decisiva anche sull’interpretazione dei complessi sviluppi della questione nella storia del secondo dopoguerra: in particolare nel periodo tra gli anni Cinquanta, le grandi fratture ideologiche e socio-culturali iniziate con il Sessantotto e le trasformazioni del sistema politico e della cultura italiana, nel cui contesto si colloca il dibattito sulla revisione dei Patti e la firma del secondo concordato del 1984. L’autore sottolinea, in proposito, come il generale spostamento politico verso sinistra manifestatosi in Italia tra anni Sessanta e Settanta recasse senza dubbio con sé una componente di scardinamento degli equilibri tra Stato e Chiesa, per reazione alla stretta connessione politica che tra essi si era creata negli anni del centrismo attraverso il tramite della centralità democristiana nel sistema della democrazia “bloccata”. Ma, parallelamente, egli pone in rilievo come l’elemento maggiormente destabilizzante rispetto a quegli equilibri sia stata l’affermazione di una cultura diffusa sempre più integralmente secolarizzata, individualista, radicata nelle nuove fasce borghesi e intellettuali emergenti dal “boom” economico in avanti, e che, nata dal liberalismo radicaleggiante, avrebbe trovato nel libertarismo sessantottino un potente veicolo di espansione e di estremizzazione.
Fu sull’onda di questa nuova egemonia ideologica e culturale, secondo l’autore, che anche nella sinistra tradizionale e persino nel mondo politico di ispirazione cattolica, agitato dai grandi mutamenti post-conciliari, si radicò gradualmente l’idea dell’urgenza di una profonda revisione dei Patti, nel senso di un superamento dello Statuto di religione di Stato assegnato al cattolicesimo. Ma le trattative tra Stato e Chiesa in vista di una riscrittura dei documenti del 1929 maturarono, non casualmente, in una fase ancora successiva, caratterizzata dalla grave ed ormai evidente crisi del sistema politico e dei partiti, nel momento in cui il tramonto degli assetti ideologici e degli equilibri internazionali del dopoguerra indicava la necessità di una revisione complessiva del rapporto tra classe politica e istituzioni, e la Chiesa sotto il pontificato di Giovanni Paolo II appariva di nuovo come un’interlocutrice forte e necessaria ad una parte consistente della classe politica nazionale.
Il delicato spartiacque tra la presa d’atto dell’esistenza di una società profondamente secolarizzata, con molti tratti addirittura di “scristianizzazione”, e quella di una rinnovata autorità spirituale della Chiesa alla luce dell’indebolimento delle ideologie, fu allora il sentiero precario sul quale si sarebbe avviato quel nuovo Patto che avrebbe sancito l’avvento del pluralismo religioso, un più coerente inserimento della Chiesa italiana nell’orizzonte della democrazia liberale e la premessa della scissione del soffocante abbraccio tra Chiesa e partito unico dei cattolici, pienamente dispiegatasi in seguito dopo la fine della “prima Repubblica”.
Quel crinale è esemplarmente rispecchiato, secondo Pertici, dalla leadership da ultimo esercitata, nel lungo e sofferto processo neoconcordatario, dagli eredi di due tra le principali tradizioni politiche laiche-secolari nella storia nazionale, quella repubblicana-mazziniana risorgimentale e quella socialista: Giovanni Spadolini e, appunto, Bettino Craxi. Tale guida attribuisce, a suo avviso, al nuovo concordato un profondo significato simbolico di “pacificazione” della società italiana dalle divisioni apertesi tra la Chiesa e la classe politica-intellettuale antifascista dopo il 1929, delle quali erano state espressione le posizioni di “Giustizia e libertà”, e poi del Partito d’Azione, del «Mondo», e infine del movimentismo del Sessantotto.
Per altro verso, però, sulla base della ricostruzione di Pertici quella pacificazione si può anche leggere non soltanto come un punto di arrivo, ma anche come un precario punto di equilibrio in un momento storico gravido di nuovi, radicali conflitti: in particolare, tra un rinnovato ruolo pubblico esercitato direttamente e senza mediazioni partitiche dalla Chiesa e un ampio settore di opinione pubblica secolarizzato sempre più refrattario a riconoscere la presenza fondante del cattolicesimo e dei princìpi cristiani nella storia nazionale, in quanto sempre più sensibile all’egemonia para-ideologica di un individualismo edonistico radicale e di un aggressivo scientismo neo-positivistico.
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