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Campanella e il suo Epistolario
di Saverio Ricci
Una svolta nella ricostruzione dell’epistolario di Campanella fu compiuta nel 1927 da Vincenzo Spampanato, che ne raccolse in volume 121 documenti, per la laterziana «Scrittori d’Italia». In seguito, Luigi Firpo e altri studiosi avrebbero rivisto e integrato il corpus con una ventina di nuove acquisizioni, e dello storico torinese era nota l’intenzione di affiancare al volume degli Scritti letterari di Campanella, procurato nel 1954 per Mondadori, un secondo volume, per gli stessi tipi, di Scritti autobiografici, comprensivo anche di tutte le lettere note. Gli sarebbe riuscito di provvedere all’edizione dei soli documenti processuali (Il supplizio di Tommaso Campanella, 1985 per Salerno editrice, ripubblicato, postumo, nel 1998, arricchito e aggiornato, con il titolo I processi di Tommaso Campanella, da Eugenio Canone, per la medesima casa). Ma Firpo non poté dar fuori una nuova edizione dell’epistolario, alla cui preparazione tuttavia lavorò a lungo. Solo nel 2000 Germana Ernst riuscì infine a radunare 38 lettere ignote a Spampanato, sparsamente edite fino ad allora. Germana Ernst, con la collaborazione di Laura Salvetti Firpo e di Matteo Salvetti, ripropone il corpo noto dell’epistolario di Campanella, includendo i ritrovamenti intanto intervenuti, ma ne assicura i testi, e li illustra, in devoto omaggio alla fatica e agli intenti di Firpo, giovandosi, avendoli rivisti, e dove opportuno emendati, dei suoi materiali preparatori (T. Campanella, Lettere, a cura di G. Ernst, su materiali preparatori inediti di L. Firpo, con la collaborazione di L. Salvetti Firpo e M. Salvetti, Firenze, Leo S. Olschki, 2010, pp. 726).
Ora disponiamo di 172 lettere accuratamente controllate e annotate (fra queste, 29 rintracciate da Firpo o da altri autori successivamente al progetto del volume mondadoriano), e dotate di preziosa tavola delle varianti. L’edizione è corredata della traduzione italiana delle epistole latine, fornita sempre da Firpo, e di alcuni altri significativi documenti. L’impegno dei curatori ha assicurato ai lettori e alla comunità degli studiosi il frutto di indagini autorevoli, che ora non corrono più il rischio di essere state invano esercitate.
L’epistolario di Campanella è importante per diversi aspetti, e un’edizione quale quella oggi disponibile rappresenta un contributo rilevante non solo agli studi su Campanella. A considerare il quadro dei maggiori pensatori italiani della sua epoca, fatto salvo Galileo, fatti salvi Federico Cesi e altri scienziati Lincei, che lasciarono cospicui carteggi, editi da studiosi moderni, l’epistolario di Campanella non è forse fra i più ampi, ma certo fra i più ricercati, studiati e adoperati, a motivo della vita e del carattere straordinari dell’autore, per il rilievo delle personalità con cui egli ebbe rapporto, per l’intreccio di importanti problemi teologici, religiosi, filosofici, politici, che le sue pagine restituiscono. In comparazione, per le altre ‘corone’ filosofiche del tempo, Telesio, Bruno, Patrizi, si deve tutt’oggi lamentare che piuttosto poco si è potuto recuperare, o è sopravvissuto, anche se si noti che molta parte dell’epistolario campanelliano è costituito da una tipologia di materiali non propriamente definibili come ‘lettere’, e che non mancano neppure a documento delle vite dei menzionati filosofi, sebbene in quantità minore.
Come avverte Germana Ernst nella Nota al testo, l’epistolario di Campanella accoglie infatti una definizione ampia del genere epistolare, attagliata alla biografia del personaggio. Non vi comprende solo le «lettere in senso stretto», ovvero comunicazioni di carattere personale e privato, generate dalle più diverse ma anche dalle più pratiche occasioni, o rispondenti a esigenze di conversazione scientifica o erudita, il che costituisce in genere il tratto eminente di molti epistolari e carteggi di autori di ogni tempo – e Campanella ne offre esempi notevoli, bastando ricordare le sue lettere a Galileo e ad altri Lincei, e a gentiluomini, autorità ed eruditi francesi e tedeschi –; ma comprende, e restituisce nella presente edizione, generi molto diversi di scrittura: epistole dedicatorie e opuscoli epistolari, ma anche «le dediche apposte su invii di esemplari di proprie opere ad amici o confratelli; brevi biglietti e attestazioni; frammenti inseriti in opere e documenti di altri autori» (p. XXIX).
A questa avvertenza dovrebbe ovviamente accostarsi l’esplicitazione del carattere spesso ‘giudiziario’ e insieme ‘profetico’ e ‘apologetico’ di molti documenti epistolari campanelliani, conforme del resto a larga parte della sua stessa produzione, poiché in forma di lettera destinata di volta in volta al pontefice regnante, a sovrani, ad alte personalità laiche ed ecclesiastiche, a personaggi influenti, Campanella, chiuso nelle carceri spagnole di Napoli dal 1600 al 1626, e già prima costretto, nel tempo dei primi processi, a porgere per iscritto chiarimenti o domande a interlocutori appunto di categoria ‘giudiziaria’, ha lungamente articolato una strategia difensiva davanti alle accuse formulate dai tribunali spagnoli ed ecclesiastici inquirenti sulla rivolta calabrese del 1599. Una strategia giudiziaria, generata nel seno, o, come che si veda il punto, comunque in stretta relazione con esse, di una complessa visione profetica, teologica e filosofica, sulla cui base l’autore si offre al servizio insieme profetico e apologetico della Chiesa cattolica e del papato (e in certa misura del regno di Spagna e poi di Francia); visione e apologia che avrebbero dovuto non solo provare l’innocenza di Campanella, e i suoi comportamenti non solo giustificare, ma rendere riconoscibili, accettabili, e addirittura di capitale, decisivo interesse per i suoi destinatari.
Anche molti fra i documenti epistolari prodotti durante la particolare detenzione nel Santo Uffizio romano, dal 1626 al 1629, e nell’esilio francese, dal ’34 al ’39, ma pure non poche fra le lettere scritte in libertà a Roma, fra il ’30 e la fuga, sebbene spostino su altro oggetto specifico l’intento difensivo – dai fatti del 1599, alla retta interpretazione e alla conseguente approvazione ecclesiastica, messe sempre a repentaglio, attraverso intricati passaggi inquisitoriali e censorii e ‘congiure’ curiali, delle opere di Campanella –, sempre presuppongono il filo ‘profetico’. E certo non viene meno neppure l’indole ancora una volta ‘giudiziaria’ delle scritture, poiché esse rispondono a quello che fu l’assillo permanente e centrale nella vita di Campanella: difendersi, difendere la sua ricerca teologica e filosofica, e difendersi proponendosi come nuovo profeta e nuovo braccio della Chiesa, come nuovo interprete dei destini della cristianità, ma anche dei più diversi regni e popoli, religioni e monarchie, e delle filosofie e delle scienze antiche e nuove.
In ampia misura, le lettere campanelliane sono atti processuali o scaturenti da atti processuali, e gesti profetici; e peraltro, se è lecito lamentare che per la fase dal 1598 al 1606 nessun documento epistolare sia stato finora scoperto, è forse corretto aggiungere che le lettere del periodo immediatamente successivo, aperto dalla fondamentale lettera e dal fondamentale memoriale al nunzio apostolico a Napoli Guglielmo Bastoni del luglioagosto 1606, sulla cui struttura si sviluppano poi in fondo gli appelli a Paolo V, a Filippo III e a vari cardinali e al collegio cardinalizio nel suo insieme del 1606-07 (docc. 8-15), devono essere sempre lette o rilette in assidua relazione con le dichiarazioni e difese processuali del 1599-1601 (ora nei Processi riediti da Canone), nelle quali per la prima volta compare una spiegazione della congiura calabrese e del ruolo in essa di fra Tommaso che con varianti e accrescimenti attinti dalla sua larghissima cultura scritturale, profetale e teologica, l’autore avrebbe ripreso e snodato con continuità lungo tutta la documentazione e la produzione sua; e anche con le scritture difensive del 1620, delle quali è utile l’accostamento alle scarne lettere dello stesso tratto di tempo. Del resto lo stesso Firpo aveva concepito il volume ‘autobiografico’ di Campanella come un volume comprensivo sia delle difese processuali, sia delle lettere, ricomponendo in unità di rappresentazione documenti di genere formalmente diverso. Anche nel caso di Bruno, le cui fonti biografiche e autobiografiche sono meno numerose rispetto a quelle di Campanella, che ebbe fra l’altro anche il tempo di dettare il Syntagma de libris propriis (di cui si veda la edizione curata nel 2007 da Germana Ernst), e la cui lettura pure dovrebbe sempre accompagnare quella delle lettere e degli atti giudiziari, l’auto-rappresentazione in sede processuale costituisce fonte essenziale, ma con le dovute cautele, della biografia del filosofo.
Nella densa Introduzione, Germana Ernst sottolinea la diseguale distribuzione temporale dei documenti – «ad anni fitti se ne affiancano altri vuoti e silenziosi» –, e nondimeno, riecheggiando, senza che fosse necessario puntualmente evocarle, discussioni storiografiche ben note intorno alla ‘continuità’ della vicenda campanelliana, alla ‘sincerità’ di svolte, pentimenti, mutamenti di posizione, alla ‘coerenza’ dell’autore su diversi piani, afferma che l’epistolario del filosofo appare «animato da un’unità profonda, sotterranea» (p. XX).
Per quanto sensibilissimo, e molto informato, delle vicende esterne al carcere napoletano capaci di influire sulla sua situazione, e quindi sempre pronto ad aggiornare la sua strategia difensiva e la sua linea profetico-apologetica, Campanella è ‘profeta’ fin dai primi giorni dal suo arresto; il suo stesso ruolo nella rivolta calabrese, che lo ha determinato, appare modulato secondo ‘profezia’; e la simulazione della follia in carcere e sotto tortura fu un accidente escogitato per motivi processuali contingenti. ‘Profeta’ Campanella resta nei mesi e negli anni a seguire: ma mutando il panorama esterno, egli di volta in volta adegua la rappresentazione della sua missione – e la possibilità che la comprensione di questa da parte di Roma gli spiani se non la strada della libertà, almeno quella del conferimento della sua persona all’autorità ecclesiastica, e la revisione del processo celebrato davanti al nunzio – al momento politico e curiale generale. La professione di ‘servizio’ dell’autore al papato e alla Chiesa nella confutazione e conversione di atei, infedeli, eretici e libertini viene poi inoltre mantenuta anche nelle corrispondenze della fase finale della sua vita, trascorsa in Francia.
Ancora nella sua Introduzione, Germana Ernst propone un’articolazione del materiale raccolto, che rispecchia indiscutibili partizioni della biografia campanelliana (La giovinezza. 1591-1599; Nel Caucaso. 1606-1626; Nella città santa. 1626-1634; Gli anni di Parigi. 1634- 1639). Ma fra teologia e politica, antimachiavellismo e nuova ragion di Stato e di Chiesa, profezia dell’Anticristo e del millennio e impegno insieme riformatore e conversionistico, concezione filosofica e critica del proprio tempo storico, considerazione delle novità celesti rese della scienza a lui contemporanea e astrologia, processi e carceri e negoziati di censura, il filo continuo e unitario professato è più intuibile, che chiaramente descrivibile, e forse non può che esser così. Dimessi per una volta gli abiti dell’‘ispirato’, benché un ‘ispirato’ caduto nelle trappole del demonio, e poi da esse uscito a fatica, acquistando coscienza della vera ‘congiura’, quella ordita dalle forze del Maligno (da Aristotele ad Averroè, da Lutero e Calvino ai politiques e agli atei e ai ‘cortigiani’), contro la ragione e la prudenza umane, neppure nel Syntagma dettato a Naudé Campanella offre tuttavia una chiave di lettura unitaria delle sue opere e della sua vita, che nel Proemio dice tali, con ancor sanguinante modestia, da non poter offrire «agli uomini altro modello se non quello della capacità di sopportare le sventure».
Tuttavia il cammino di un uomo che nella prima ‘lettera’, la dedicatoria a Mario Del Tufo della Philosophia sensibus demonstrata del 1591, già si presenta, pur incastonando il concetto in un encomio del suo patron, come interprete della providentia divina che regge natura e storia (doc. 1), e al papa si firma nel 1606 «spia delle opere dell’Altissimo», e se ne dice «sentinella» (doc. 9), e che per tale si protesta sempre, profeta a tratti schiacciato, e ridotto a «verme morto» (doc. 14), come ai migliori profeti conviene che accada, pur attenuando successivamente i toni apocalittici e sensazionali delle scritture uscite dalla sofferenza napoletana e dagli intrighi romani, non sembra mai perdere coscienza del senso generale che quella sua sopportazione delle sventure egli riteneva avesse.
L’oscuramento del secolo, diventato «anticristiano», come rammenta a Paolo V e ai suoi cardinali nell’appello del 12 aprile 1607 (doc. 14), ma non solo in quelle pagine, è un oscuramento di ragione e della ragione; è lo stesso giovanile primo contatto con la scienza aristotelica, della quale avverte subito, come dice nel Syntagma, le profonde storture e contraddizioni con il libro del mondo scritto da Dio, a rivelarglielo. Le diffidenze e le misure e le cautele medievali e più recenti, anche di matrice domenicana, verso l’aristotelimo, egli strumentalmente sempre citerà a riprova, senza tuttavia mai vacillare nell’ammirazione per Tommaso d’Aquino, costretto a venire a patti con Aristotele.
L’oscuramento della ragione umana si salda con quello spirituale e politico, e pone urgente l’interpretazione corretta dei ‘segni’ e l’annuncio del tempo nuovo che la ‘provvidenza’ ha preparato. Grandi tradizioni ed energie della sapienza e della profezia ebraico-cristiana sono nel tempo invocate e intrecciate da Campanella, che su molti temi escatologici e politici rielabora note discussioni, e filoni profetali a lui più prossimi, e si rannoda a profeti ed esegeti del suo ordine religioso, e guarda e discute con le linee di francescani e gesuiti, lasciando assonare il suo anti-machiavellismo e anti-aristotelismo con certa apocalittica e apologetica cattolica, anche gesuitica, che in quegli anni pure abbracciava nello stesso sguardo gli antichi e i nuovissimi agenti dell’Anticristo. Ma molta apologetica e apocalittica cattolica avanzava la rassicurante dottrina che quel regno successivo alla caduta dell’Anticristo, nel quale i suoi servitori sarebbero restati confusi, non avrebbe avuto, come diceva Campanella, tempi imminenti e natura di repubblica egualitaria e mondana, e vita millenaria di innocente ‘secolo aureo’, ma sarebbe stato tutto celeste; né avrebbe reso inutile, ma piuttosto avrebbe elevato alla gloria completa nei cieli la Chiesa militante sulla terra. Con originalità Campanella riassumeva invece fonti e associazioni polemiche ben conosciute e diffuse – e sullo sfondo di un secolo che ampiamente adopera in politica e per più fini la ‘profezia’ –, e le dirige verso un esito che non sarebbe in nessun modo potuto convergere – di là da assonanze e relazioni – con quella Chiesa e società della Controriforma, di cui egli tuttavia garantiva di voler essere non l’eversore, ma il correttore e il servitore.
Aristotelismo, averroismo, machiavellismo, politiques, che poi vuol dire saperi raggelati in forme antiche, Stati nazionali e di potenza, e un sistema di confessioni nazionali, cristallizzate nella reciproca sopportazione, tramonto degli universalismi politici e pertanto anche dell’attesa nell’età dello Spirito antiveduta da Gioacchino da Fiore, e dell’unità di tutto il gregge sotto il Buon Pastore (Giov. 10, 16), sono agenti dell’Anticristo in quanto agenti corruttori dell’unità del genere umano fondata nella sua ‘ragione’ e nella sua recuperabile generale ‘innocenza’; nella ‘provvidenza’ che è però ‘sapienza’ della natura. Il paradosso campanelliano, fatta astrazione da invidie e inimicizie curiali, era forte e interessante, ma alcune sue conseguenze non sarebbero sfuggite ai censori delle sue opere maggiori.
Campanella respingeva un certo nucleo di valori e di inclinazioni della incipiente modernità, e dei patti che con essi, di là delle apparenze, e della persecuzione degli eccessi, cominciava a stringere la Chiesa, che si adeguava a nuovi nemici ma si adattava al secolo ‘anti-cristiano’, e libertini e machiavellici ospitava nelle sue stesse gerarchie. Egli mobilitava gran parte della Rivelazione ebraicocristiana, scritture e profeti antichissimi e nuovi, per disegnare però la fine della Rivelazione; per annunciare il dipanarsi della nube del gran conflitto teologicoconfessionale del suo tempo, e oltre questo l’emergere di una nuova età cristiana, ma nel senso di razionalità provvidente, e di una nuova scienza della natura e del regno universale e prudente.
Paolo V non si sarà commosso quando Campanella gli scrisse «il mondo intero è anticristiano» (doc. 14), e non solo perché i pontefici possono temere in generale i profeti; ma per quella identificazione tra rationalitas, grazie alla quale «omnis doctrina lucida est in fide nostra», e la perfetta società universale, cristiana perché ‘naturale’, del nuovo millennio, che in quelle medesime carte egli compiva. Lo stesso primato universale spirituale e temporale del romano pontefice dichiarato da fra’ Tommaso, in apparenza convergente con la parte più estrema dei fautori medievali e moderni della potestas directa, e che avrebbe potuto piacere al papa, non era affatto approvabile. A parte ogni considerazione di ragion di Chiesa e di realismo politico, se ne poteva scoprire, se ne sarebbe scoperto, il radicamento, nel caso di Campanella, non nella Rivelazione, ma nella natura e nella ragione umana.
Il cristianesimo si dilatava in Campanella in modo molto diverso rispetto all’empito evangelizzatore della Congregazione de propaganda fide; e i rovesciamenti suoi sul tema della grazia (da antimolinista ad anti-alvareziano) non furono probabilmente scelte tattiche, e segnalano invece la centralità assillante del problema. Da religione di pochi eletti che vogliono salvarsi, ma accettando i mezzi e gli strumenti dalla Chiesa gerarchica e sacramentale rivelati e amministrati a tale fine, nelle sue mani la fede in Cristo diventava utopia di relazioni intraumane e intramondane; una nuova ‘città solare’, nella quale la salvezza è per tutti gli uomini, perché nella loro ragione; e la Chiesa e il papato, che pure ne avrebbero dovuto dirigere la finale ‘unificazione’ monarchica, evaporano alla fine in essa, tutto il genere umano facendosi ‘cristiano’ e ‘nuovo Adamo’. Peraltro, il filosofo di Stilo avrebbe sollevato un conflitto destinato a riprodursi, mutatis mutandis, nel cristianesimo e nella Chiesa dei secoli posteriori, tra dogma che contrasta il mondo ed esige rinuncia, ed ecumenica ‘apertura’ al mondo.
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