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A quarant’anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori*
di Piero Craveri
Lo Statuto dei Lavoratori entrò in vigore il 20 maggio di quarant’anni fa. Fu il ministro del Lavoro socialista, Giacomo Brodolini, a farlo approvare dal Consiglio dei ministri e poi il suo successore, Carlo Donat Cattin, a sostenerlo in Parlamento. Ed era frutto dell’elaborazione di una Commissione assai autorevole, di cui il maggior suggeritore fu Gino Giugni, a giusto titolo poi considerato come il “padre dello Statuto”. Nel dibattito parlamentare il PCI non votò a favore ma si astenne. Giuliano Pajetta, nel dibattito alla Camera, nel maggio 1970, motivava così quella astensione:
il fatto è che dal momento in cui si è incominciato ad elaborare questo disegno di legge, fino ad oggi, i tempi sono cambiati. Di questo occorre tenere conto. Quando noi diciamo che la questione è aperta, lo diciamo pensando non soltanto ad un futuro più o meno ipotizzabile, ma ad un presente che è già diverso dalla situazione che il disegno di legge dovrebbe recepire.

Quanto al presente di allora era stato segnato dell’autunno caldo del 1969 e Pajetta poneva il problema politico del potere operaio nella fabbrica, inteso come potere politico. In realtà lo Statuto risponde al contrario ad un’idea di democrazia più industriale che classista, dove il sindacato stesso ha un ruolo più sociale che politico, sulla base di un impianto strettamente privatistico. Quando, lungo il decennio seguente, la UIL e poi anche la CISL posero la questione in termini riformistici, come problema di partecipazione e controllo dei lavoratori sull’azienda, rifacendosi ad istituti vigenti in altri paesi europei, da quella parte venne una tenace e netta ripulsa e il movimento sindacale perse allora un’occasione che ancor oggi pesa.
Quanto al «futuro più o meno ipotizzabile», esso è ora realtà tangibile e pone problemi che sono sul tappeto da oltre un decennio, solo in parte affrontati e risolti.
Nel nostro presente dobbiamo dire anche noi che la «questione è aperta». Ma per venire ad oggi è bene ripercorrere in sintesi quelli che sono stati gli ormai quarant’anni di vigenza dello Statuto dei lavoratori dalla sua entrata in vigore. Esso fu un grande evento, perché innestava nella vita sindacale alcuni elementi estremamente innovativi. Innanzitutto una forte tutela del lavoratore sul luogo di lavoro, che andava assai oltre la richiesta che nel 1954 ne aveva fatto Giuseppe Di Vittorio, preconizzando uno “statuto” che garantisse ai lavoratori le libertà costituzionali. Richiesta quella motivata, dal momento che nel quinquennio precedente l’appartenenza politica dei lavoratori era stata, per decine di migliaia di essi, causa implicita di licenziamento. Ma il nuovo statuto conteneva ben altro, perché conferiva alle organizzazioni sindacali ampie garanzie di svolgere il loro ruolo sui luoghi di lavoro e faceva della contrattazione il perno dell’azione sindacale. A partire dal 1959 la contrattazione aveva ripreso a far sentire il suo peso come variabile di politica-economica. Nel 1962 i protocolli Intersin ed Asap formalizzavano nelle aziende a partecipazione statale la contrattazione aziendale, che si sarebbe generalizzata col biennio 1968-69.
Quello che va considerato è che la filosofia dello Statuto innestava sul sistema italiano di relazioni industriali elementi che storicamente non gli appartenevano. Esso, nella sua ispirazione intellettuale originaria, poneva, come vincolo esclusivo e, per sua natura, invalicabile all’azione sindacale, il mercato, inteso in senso privatistico, assai distante, sotto rilevanti aspetti, dalla realtà storica italiana. I suoi riferimenti originari li troviamo nella legislazione del New Deal americano. Il libro di Selig Perlman, Theory of the Labor Movement fu uno dei testi consacrati, così come poi quello di Otto Khan Freund, un classico nel suo genere, su come si fossero formati nel tempo e consolidati legalmente gli istituti del sistema di relazioni industriali della Trade Unios in Gran Bretagna. L’ispirazione che derivava da questi archetipi presupponeva la centralità dell’azienda, la piena libertà di contrattazione e il costituirsi di un reticolo di istituti procedurali e di soluzioni normative affidate principalmente alla contrattazione. Questi principi si innestavano in un sistema di relazioni industriali, quale il nostro, che storicamente si rifaceva piuttosto ai modelli sindacali dell’Europa continentale, ispirati a criteri accentrati di contrattazione confederale e categoriale, con una duplice struttura organizzativa, territoriale e di categoria. Il sindacato concepiva così la propria azione contrattuale con un rilievo che poteva formularsi anche in termini pubblicistici, concezione che nel dibattito costituente si era espressa nella formulazione dell’art. 39 della Costituzione.
Lo Statuto abbandonava quell’impostazione, ma non la sostituiva interamente. La categoria rimaneva il perno del sistema e gli aspetti merceologici, nonché la forma orizzontale e verticale dell’organizzazione definivano rigidamente i diversi ambiti contrattuali. Delle due forme concorrenti ed integrate di organizzazione, per prima la Cisl privilegiò quella categoriale, costituendola come principale fulcro della sua struttura associativa. Gino Giugni, Federico Mancini e altri lavorarono intorno a questo riferimento per modulare il nuovo principio di libertà contrattuale. Ma l’istituto della categoria poteva interpretarsi anche in termini classisti. La ripresa dell’unità d’azione tra le Confederazioni, dopo la ripresa conflittuale del 1959, venne a poggiare su questo ibrido concettuale. Dopo il 1969 il principio classista ebbe il sopravvento, con il suo corredo di varianti concettuali, come quello della presunta egemonia operaia nello sviluppo delle strategie contrattuali, così da unificare idealmente le componenti del mondo del lavoro, e improntò di sé anche quel processo di unità organica del sindacato che ebbe tuttavia una breve storia, per molteplici motivi, a partire dalla diversa impostazione ideologica e politica delle tre maggiori Confederazioni.
Il carattere centralistico del sistema veniva saldamente cementato dall’impianto rivendicativo caratterizzato da un forte egualitarismo, che riguardava sia il salario, sia l’inquadramento professionale e pur con le differenze di applicazione nelle diverse realtà categoriali fu un riferimento che dominò trasversalmente tutta l’iniziativa contrattuale del sindacato. Lo rafforzava la forma assunta dalla rappresentanza sui luoghi di lavoro, che lo Statuto contemplava senza averla definita. Il Consiglio dei delegati fu inizialmente una forma di democrazia semidiretta che inizialmente servì ad ammortizzare molte forti spinte esogene che provenivano dalla base. Ma, come è nella natura di questo genere di organismi, i Consigli si volsero poi in strutture per lo più etero-dirette senza propriamente valore di rappresentanza, e l’egualitarismo rimase il principale strumento che li sorreggesse.
Inoltre, a ben guardare, si verificò così una profonda divaricazione tra aree sindacalizzate e più ristretti noccioli corporativi che ne rimanevano estranei. Si parlò infatti molto allora di giungla retributiva. L’azione egualitaria del sindacato, spinta all’estremo, lasciava germogliare ai suoi margini disomogeneità crescenti. Anche all’interno della vasta area sindacalizzata i limiti di quella impostazione, già alla metà degli anni ’70 presero a farsi sentire attraverso l’innovazione sia tecnologica, sia organizzativa dei processi lavorativi, nonché il decentramento produttivo. Abbastanza rapidamente l’industria si lasciava alle spalle i modelli di organizzazione del lavoro che datavano dagli inizi del secolo scorso. L’organizzazione scientifica del lavoro e il modello fordista rappresentavano lo speculare riscontro della teoria sociologica marxista e leninista, storicamente anzi l’ultimo privilegiato modello produttivo che abbia conferito ad essa un fondamento reale e una prospettiva di fuoriuscita virtuale.
Questa nuova fase di riorganizzazione dell’economia di mercato ha definitivamente spazzato via, almeno in Occidente, ogni plausibilità di quel tipo di impostazioni ideologiche. L’intelaiatura e l’ispirazione stessa dello Statuto erano del resto estranee ad esse, preconizzando piuttosto un sistema decentrato, capace di articolarsi sempre di più da un punto di vista contrattuale. Giugni, a due anni dal varo dello Statuto aveva sottolineato che «ci sono due modi d’intendere questa legge: come dato collegato a una precisa scelta nel 1968-70 o come base di partenza per costruire su di essa soluzioni ancora più nuove. Sono due modi, però, che non sono in contrasto l’uno con l’altro. Si tratta di farli interagire».
Per oltre un quindicennio non fu fatto alcun tentativo per metterli in condizione di interagire. Si aggiunga poi che la tutela dei diritti dei lavoratori ha nello Statuto due pilastri di riferimento: l’azione del sindacato e il ricorso alla magistratura, poi perfezionato dalla riforma del processo del lavoro. Quanto al primo, è pregiudizialmente il sindacato in quanto tale ad essere tutelato per poter esercitare il suo ruolo. Credo che nessuno metta più oggi in discussione l’art. 28 i cui principi hanno modificato molte inclinazioni antisindacali, anche latenti, e possono dirsi oggi largamente acquisiti, sebbene questa sia materia in cui mai dire mai più.
Quanto all’intervento giudiziario, specie riguardo all’art. 18, si creò nei primi anni una specie di cortocircuito tra il radicalismo sindacale e la giurisprudenza pretorile. Eravamo alle origini di quel processo di politicizzazione della magistratura, che non è qui da indagare, salvo notare, con riguardo, ad esempio, all’evolversi dei dibattiti interni a Magistratura democratica, che il punto di partenza non fu affatto politico, ma propriamente ideologico, e trovò proprio nell’uso politico del diritto del lavoro la sua prima materia incandescente. Tuttavia, in tema di art. 18 va detto che la giurisprudenza si assestò poi su posizioni di equilibrio verso ambo le parti, anche se i promotori dello Statuto, per non fare legislativamente il passo più lungo della gamba, avevano operato un rinvio all’ordinario processo del lavoro. Dinnanzi all’abnorme allungarsi dei tempi del giudizio, lo stesso Giugni, da ultimo, suggeriva di adire a forme di procedimento arbitrale.
Ma quello che doveva verificarsi nel primo ventennio di applicazione dello Statuto era un totale esaurimento delle strategie sindacali che lo avevano inizialmente caratterizzato. Esaurimento non mutamento, se non al fine di attenuare alcuni effetti delle precedenti impostazioni. Un cambiamento di strategia sarebbe venuto dopo. Questa epoca può dirsi in fine segnata positivamente dall’accordo intersindacale del 1993 che introdusse la prassi della concertazione ed un principio di politica dei redditi che altri sindacati europei praticavano da decenni. E c’è un nesso evidente tra questo approdo e lo Statuto, avendo questo conseguito, negli anni, l’obbiettivo che era prefissato di una piena legittimazione dell’azione del sindacato.
Condussero in un breve volgere di tempo a questo esaurimento più fattori sincronici, quali l’accelerazione dello sviluppo tecnologico che si legò presto alla rivoluzione informatica, la modificazione radicale dei metodi di organizzazione del lavoro, la rapida ristrutturazione organizzativa delle imprese produttive, la disarticolazione sempre più accentuata, in esse e fuori di esse, tra attività terziarie e propriamente produttive, le dimensioni stesse delle unità produttive, in una scala di funzionalità, sempre più flessibilmente dimensionata sugli esiti del mercato, di cui il decentramento produttivo fu il fenomeno più rilevante, mentre la perdita di occupazione divenne l’elemento determinante.
Intervenne poi un fattore diacronico che ha caratterizzato la rivoluzione epocale dell’ultimo ventennio. La mia generazione, ormai di anziani, è certamente stata l’ultima ad aver goduto del privilegio di essere nata in un paese che apparteneva all’Occidente industrializzato, quando quest’ultimo esercitava la sua piena egemonia economica sul resto del mondo. Ricordo sempre ai miei studenti questo dato statistico: la percentuale del 1914 di interscambio nel mercato internazionale del prodotto mondiale (la percentuale non il volume), viene di nuovo raggiunta solo nel 1970. Di mezzo c’è il così detto “secolo breve”, in cui l’economia dei diversi paesi industrializzati continuava ad avere il suo baricentro essenziale sui mercati interni di ciascuno. Da quella data l’interscambio ha preso a correre fino a che le imprese produttive, anche quando il loro principale riferimento di mercato rimaneva quello nazionale, quanto a condizioni di competitività dei loro prodotti concorrevano con imprese di altri paesi. Questa linea di tendenza fu enormemente accelerata dall’impostazione liberista che fu impressa tra gli anni ’80 e ’90 allo sviluppo del mercato mondiale. Resto sempre dell’opinione che lord Robbins, in un celebre pamphlet degli anni ’30, esprimeva polemicamente nei riguardi di lord Keynes, considerando proprio le vicende europee di quei decenni e guardando già allora al futuro possibile sviluppo del Sud-Est asiatico, che se le merci non passano le frontiere liberamente, prima o poi la guerra rischia essere davvero inevitabile, e non è errato dire che lo stato di pace, pur precario, in cui oggi viviamo, poggia proprio in primo luogo sul libero scambio.
Il mercato interno cessava dunque di essere il baricentro delle imprese produttive, gli stessi sistemi nazionali perdevano via via molte delle loro più infrangibili caratteristiche autoctone. Con ciò rimane una discrasia profonda, poiché necessariamente il mercato del lavoro resta, pressoché nella sua interezza, mercato interno. E questo mercato interno si confronta con altri mercati interni, vicini e lontani, costituitisi in modo assai difforme nei decenni precedenti dal punto di vista socio-economico.
Se non sbaglio il fenomeno del decentramento produttivo emerge nella seconda metà degli anni ’70 ed esplica i suoi primi effetti all’interno del sistema economico nazionale. A partire dalla metà degli anni ’80 è già vistoso il fenomeno della delocalizzazione produttiva in altri paesi, principalmente sulla base del parametro del costo di lavoro per unità di prodotto, che un decennio prima mi pare fosse stato Guido Carli, come presidente di Confindustria, ad introdurre nei confronti tra le parti sociali come mero riferimento alla crescita salariale.
Il Titolo V dello Statuto sul collocamento è stato da tempo abrogato e più volte si è intervenuti legislativamente sulla materia del mercato del lavoro. Si sono inoltre introdotte nuove tipologie di contratto di lavoro che andavano incontro all’inderogabile necessità di flessibilità del sistema delle imprese. Si sono creati così presupposti che si collocano oltre lo Statuto, si è ibridato il sistema, con conseguenze che sono state positive dal lato produttivo e dell’occupazione. Si sono venuti tuttavia introducendo ulteriori elementi di disomogeneità e diseguaglianza. Un nuovo problema di tutela si pone, senza che lo Statuto offra rispetto a questo mutamento di tipologie sia contrattuali, sia professionali, strumenti soddisfacenti.
Con la reintegra nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 dello Statuto si realizza il grado più alto di tutela dei diritti costituzionali di cittadinanza del lavoratore, anche rispetto alla legislazione di altri paesi, sia riguardo ai suoi diritti civili e politici, sia sociali, in specie con riferimento al diritto al lavoro. Questo peculiare diritto costituzionale di cittadinanza non opera tuttavia in sé e per sé nel rapporto di lavoro, ma sub condicione, presupponendo che il rapporto di lavoro si configuri come contratto di lavoro a tempo indeterminato. L’effettività del diritto rinvia dunque ad una specifica natura contrattuale del rapporto di lavoro, con l’ulteriore condizione che tale rapporto si svolga in un’azienda con più di 15 addetti. Ora questa tipologia di contratto a tempo indeterminato, nella realtà effettiva va risolvendosi sempre più nei nostri sistemi socio-economici, non come norma generale, ma in più circoscritti termini funzionali. E bisognerà dare a questo processo una “ratio”, perché la scelta delle tipologie contrattuali sia funzionalmente intrinseca ai processi lavorativi, eviti esiti arbitrari, causa ulteriore di ingiustificabile diseguaglianza. Ad esempio, nel pubblico impiego, incomincerei da prima, abolendo il valore legale del titolo di studio, quello universitario, non quello delle scuole superiori, liceali e tecnico-professionali, a rendere flessibile la carriera dei professori universitari.
Diventa dunque necessario pensare ad altre forme di tutela per la nuova area contrattuale, che non mettano in discussione il principio di flessibilità complessiva del sistema, e si muovano su due registri distinti, destinati ad interagire, quello delle nuove professionalità che emergono dai mutamenti tecnologici ed organizzativi e quello delle nuove necessarie tipologie contrattuali. La stessa distinzione tra occupati e precari, che si connette impropriamente a quella tradizionale tra occupati e disoccupati ha un senso sempre più relativo. Il grado di stabilità nei nostri sistemi a venire non potrà più essere legato al posto di lavoro, ma garantito solo dal sistema, cioè come stabilità complessiva del sistema socio-economico, condizione della sua crescita, dello sviluppo complessivo del reddito procapite, non come oggi avviene del suo lento declino. Non si tratta dunque di abbassare le attuali tutele garantite dallo Statuto. Non solo i principi a cui si ispira, ma le normative con cui li applica, vanno conservati. Il problema è quello di estendere codeste tutele, nel modo maggiormente possibile, a quell’area sempre più vasta di lavoratrici e lavoratori che ne sono oggi esclusi, mantenendo fermo l’incardinarsi dei diritti costituzionali nei rapporti di lavoro.
Sull’attuale congiuntura economica condivido l’analisi di coloro che mettono l’accento, accanto alle crisi dei bilanci pubblici e valutarie, sulla fragilità del sistema economico europeo, sul suo tasso di crescita inferiore alla stessa possibilità di riproduzione e tenuta. Probabilmente lo stesso “modello renano”, che negli anni passati abbiamo idealmente contrapposto a quello americano, mostra segni di usura. Il “passato che non passa” è radicato nella mente degli uomini, difficile da superare senza chiaroveggenza intellettuale e politica e senza un alto senso di responsabilità. Non nella realtà, in cui la velocità dei cambiamenti è ora tale da modificare rapidamente e profondamente, come mai nella storia si era verificato, gli stessi presupposti antropologici ereditati. E mai storicamente, come nel presente, rispetto al problema capitale del lavoro, le classi dirigenti politiche e sindacali hanno avuto congiuntamente responsabilità così cogenti e ardue da ordinare e risolvere.



NOTE
* Discorso di apertura dell'Assemblea Nazionale della UIL, Roma, 20 maggio 2010.Top
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