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L’Italia di De Gasperi: i laici e la Repubblica*
di Giuseppe Galasso
“Laico” è un termine della politica italiana venuto in grande auge dopo il 1945, e precisamente da quando si delineò il primato della Democrazia Cristiana, sancito poi durevolmente dalle elezioni generali dell’aprile 1948. “Laico” divenne allora la qualificazione data ai partiti alleati della D. C. nella maggioranza parlamentare e di governo, con l’intento di sottolineare quella che si presumeva essere la dipendenza della stessa D. C. e, in generale, del cattolicesimo politico dalle direttive e dalle sollecitazioni del Vaticano e della Chiesa. Ben presto, però, il termine vide estendersi rapidamente il suo significato, passando a indicare tutte quelle posizioni politiche e culturali che rifiutavano per principio qualsiasi dogmatismo o ideologia politica o culturale fatta valere come indiscutibile petizione di principio o, peggio ancora, come punto di ortodossia politica.
Negli altri paesi europei l’espressione idée laïque ebbe non solo una diffusione minore, ma riguardò essenzialmente la concezione della laicità dello Stato in contrapposizione alle tradizionali interferenze e invadenze del mondo ecclesiastico nella vita e nella gestione delle cose pubbliche, anche dopo la secolarizzazione a cui aveva già portato in idea o nei fatti la cesura rivoluzionaria del 1789 e anni seguenti. Evento fondante e simbolico, ovunque evocato dai “laici” come tale venne fin dall’inizio considerata la separazione tra Stato e Chiesa proclamata in Francia nel 1907. Era un evento storico effettivamente notevole. Interrompeva la prassi concordataria, fino ad allora prevalsa nei rapporti fra Stato e Chiesa. Già presente nell’ancien régime pre-rivoluzionario, questa prassi aveva avuto con il concordato stipulato da Napoleone con papa Pio VII nel 1801 la sua prima versione moderna, in tale versione lo Stato concedeva alla Chiesa alcune prerogative e facoltà che uscivano fuori dal piano dell’ordinaria condizione di una personalità giuridica e morale nel quadro di un ordinamento moderno e la facevano riconoscere come una personalità storica e giuridica tanto particolare da poter intrattenere con lo Stato rapporti regolati da uno speciale regime di accordi. In cambio la Chiesa riconosceva l’ordine politico costituito, e, se non moralmente, almeno implicitamente si obbligava a sostenerne le posizioni e l’azione.
Questa di una separazione tra Chiesa e Stato sul modello francese divenne da allora la meta ideale del laicismo italiano, che sembrava rispondere anche alle circostanze del tutto particolari dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia. La “questione romana”, il non expedit pontificio alla partecipazione dei cattolici alla vita politica del nuovo Stato nazionale e unitario sorto nel 1861, il fallimento dei tentativi, che pure non mancarono, di conciliazione fra quello Stato e il Vaticano, la forte impronta massonica di una buona parte della classe dirigente nazionale e varie altre ragioni sembravano destinare la nuova Italia a formare anch’essa, come la vicina Francia, un modello di moderno Stato separatista. In questa stessa Italia era, però, poi, sopravvenuto il fascismo, che nel 1929 riuscì dove ancora pochi anni prima la classe politica dell’Italia liberale aveva fallito, chiudendo così la “questione romana” col Trattato del Vaticano e con la geniale soluzione, già prima adombrata, della costituzione di uno Stato della Città del Vaticano: soluzione storicamente e positivamente collaudata nelle circostanze drammatiche della seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo il regime fascista aveva stipulato col Vaticano un Concordato, indubbiamente molto vantaggioso per la Chiesa, senza essere, peraltro, neppure davvero lesivo dei diritti e della sfera dello Stato. Che ne sarebbe stato di Patti Lateranensi – Trattato e Concordato – nell’Italia post-fascista? Nessuno metteva veramente in discussione il Trattato. Il problema era, invece, il Concordato. Il nuovo regime italiano repubblicano e liberal-democratico lo avrebbe conservato, negato o rivisto?
Fu la prima grande tematica del laicismo italiano dopo il 1945, che si accentuò fortemente allorché la Costituente del 1946 andò preparando la Costituzione che avrebbe sostituito lo Statuto carloalbertino, che dal 1848 aveva retto gli Stati sabaudi e dal 1861 era stato esteso all’Italia unita, ma era stato poi stravolto e disastrato dalle modificazioni introdottevi dal fascismo e mal riparate dopo la caduta di quel regime. Insieme con la Costituente era inoltre nata la Repubblica, sciogliendo così la questione istituzionale che si era posta già dalla caduta di Mussolini nel luglio 1943.
Sulla questione istituzionale si era avuto un sostanziale accordo fra i sei partiti che, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), formarono, in sostanza il parlamento di fatto (con una Consulta Nazionale)e il governo del paese. Di quei sei partiti, due sarebbero ben presto scomparsi dalla scena politica (il Partito d’Azione e la Democrazia del Lavoro). Gli altri quattro (democristiani, socialisti, comunisti e liberali) avrebbero formato il grosso del mondo politico italiano nel successivo cinquantennio. Non aveva, invece, accettato il riconoscimento del governo regio che reggeva il paese dal 1943, il
partito repubblicano, erede della tradizione repubblicana risorgimentale nelle sue varie componenti (mazziniane, garibaldine, cattaneane e di altra scuola), che aveva posto il disconoscimento della sovranità e dei diritti della Casa di Savoia come un presupposto irrinunciabile di ogni avvio realmente innovatore per la ricostruzione morale e materiale del paese. Per questa ragione il partito repubblicano non aveva voluto nemmeno entrare nel CLN, la cui legittimità ugualmente si professava lontano dal riconoscere.
Posizione indubbiamente ideologica e di scuola, questa del partito repubblicano; forte, però, di uno spirito di intransigenza, che sembrava a molti opportuno in un paese nel quale la ragion di stato, le frequenti soluzioni compromissorie delle questioni politiche, i più o meno casti connubii tra forze e gruppi diversi, il trasformismo sempre largamente praticato, il ricorso a formule di improbabile senso politico-ideologico (dalle “convergenze parallele” al compromesso storico”) facevano desiderare che ci si avviasse a una certa linearità di posizioni e delle loro formulazioni per cui il nuovo regime del paese si distinguesse anche in ciò dai precedenti. E che anche questo aspetto delle cose italiane di allora avesse un suo concreto spessore si dimostrò proprio con il referendum dal quale nacque, il 2 giugno 1946, la Repubblica. Dei partiti del CLN solo i liberali, infatti, avevano espresso un orientamento, nella grande maggioranza, monarchico. I voti riscossi dalla monarchia il 2 giugno dimostrarono chiaramente che le posizioni di quei partiti non riflettevano la reale opinione del paese. La sfasatura fu avvertita, in particolare, e in cospicue dimensioni, per la Democrazia Cristiana, che come partito si era dichiarata al 73% per la repubblica, ma il cui elettorato votò per la monarchia in ancora maggiore percentuale.
Alla questione della referendum istituzionale e a quella della laicità dello Stato, maturate fra il 1945 e il 1948, si aggiunse ben presto quella della politica internazionale, con l’inizio, sostanzialmente già nel 1947, della “guerra fredda”. Nel dicembre di quell’anno questo significò in Italia la rottura della cosiddetta “unità nazionale”, che aveva costituito il principio su cui era nato e si era retto il CLN, e l’uscita dei socialisti e dei comunisti, alleati già da due anni, e fino ad allora, della Democrazia Cristiana, nei governi che avevano presieduto alle elezioni e al referendum del 1946 e in quelli costituiti in base ai risultati dei quelle stesse elezioni.
Elezioni particolarmente importanti, perché fu allora, nel 1946, che si stabilì la gerarchia delle forze tra i partiti italiani. Quelle elezioni sancirono, infatti, che la Democrazia Cristiana era nettamente il primo partito italiano, e solo sommando i loro voti comunisti e socialisti la superavano, e, peraltro, di poco. Tutti gli altri partiti avevano suffragi che, nel migliore dei casi, erano di 1/8 di quelli dei democristiani e ¼ di quelli sia dei socialisti che dei comunisti. Era una drastica semplificazione del panorama politico nazionale dal punto di vista dell’accertata consistenza reale delle forze agenti nel paese e in nome del paese, ma era anche una complicazione perché ne nascevano problemi di non facile formulazione, e di ancora meno facile soluzione, per la composizione delle maggioranze parlamentari e di governo.
Da quella gerarchia elettorale nacque la distinzione, da allora in poi divenuta canonica, tra “partiti di massa” e partiti che tali non erano. Per una convenzione particolarmente arbitraria, si qualificavano senz’altro come “partiti popolari”, o, meglio, partiti di popolo, quelli di massa, e in altro modo (ad esempio, “minori”, oppure di élite) gli altri. Nel caso specifico della geografia elettorale italiana, risultava, comunque, evidente che senza questi partiti minori era difficile costituire maggioranze parlamentari stabili. Il netto predominio elettorale della Democrazia Cristiana non raggiungeva, però, la maggioranza assoluta, e altrettanto accadeva sommando socialisti e comunisti. Solo nelle elezioni del 18 aprile 1848 fu dato alla Democrazia Cristiana di raggiungere, per le ragioni che diremo, la quota del 48% dei voti. Ma ciò, essendo stato stabilito nella Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, un sistema parlamentare di completo e perfetto bicameralismo, non era risolutivo. Il 48% equivaleva alla maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati, mentre, comunque, al Senato la situazione rimaneva diversa. Inoltre, dopo il 1948 i suffragi democristiani non raggiunsero mai più quella quota, e il problema delle maggioranze divenne centrale ed essenziale per la vita politica italiana, dando alla posizione dei partiti minori una nuova e diversa importanza.
Questa nuova e diversa importanza emerse subito con l’inizio della “guerra fredda”, portando alla rottura della “unità nazionale” del dicembre 1947. Risaltarono allora in pieno, innanzitutto, le gravi conseguenze del “patto di unità di azione”, che il partito socialista e il partito comunista avevano stretto negli anni del regime fascista a Parigi e che fu mantenuto in essere anche alla ripresa della vita democratica nell’Italia post-fascista. Quel patto, utile e significativo nelle circostanze della lotta antifascista in clandestinità e in esilio, si rivelò ben presto un limite fortissimo per la libertà di movimento del partito socialista e privò il gioco politico italiano di uno dei suoi protagonisti più importanti, che alle elezioni del 1946 superò coi suoi i voti quelli del partito comunista. Dette, inoltre, a quest’ultimo partito, ben più strutturato e compatto nella sua direzione e azione politica, la possibilità di una rapida egemonizzazione dell’intero campo della sinistra, collocando così su posizioni sempre più chiaramente legate a particolari ipotesi e scelte di politica internazionale, una parte cospicua del mondo politico italiano. Il partito comunista appariva ed era allora chiaramente legato alla disciplina sovietica del comunismo internazionale, e l’orientamento per Mosca costituì anche in seguito, e molto a lungo, la discriminante insuperabile per tutti gli interlocutori del partito comunista in Italia, nell’atteggiamento e nei rapporti a suo riguardo.
Ciò non vietò al partito comunista di svolgere un importante ruolo nazionale, né di contribuire in modo determinante alla fondazione del regime di libertà nell’Italia post-fascista, ma fu all’origine di una polarizzazione delle forze in campo in Italia, che sarebbe stata definitivamente superata solo col crollo del comunismo nell’Europa Orientale e nella stessa Unione Sovietica, o non molto tempo prima di questi grandi eventi. All’aprirsi della guerra fredda la divisione di fondo divenne, perciò, subito quella della scelta fra Occidente e Oriente, mentre la scelta occidentale comportò ben presto l’adesione al Patto Atlantico e al processo contemporaneamente avviato di integrazione europea. Ne risentì subito, e molto gravemente, il partito socialista, una cui consistente parte rifiutò con vigore la prosecuzione del “patto di unità di azione” coi comunisti e optò con forza per la scelta occidentale.
Ne nacque la scissione socialista del gennaio 1948. Essa portò alla nascita di un partito socialdemocratico, che riscosse l’adesione di una minoranza dei socialisti, ma abbastanza per togliere al socialismo italiano la sua forza potenziale, che tutti ritenevano cospicua, e per arricchire il quadro politico nazionale di un nuovo protagonista, che si sarebbe rivelato importante o determinante in molte occasioni. Fu, anzi, una idea generale, allora, che senza il “patto di unità di azione” dei socialisti coi comunisti, molto difficilmente la Democrazia Cristina avrebbe riscosso il semiplebiscito del 18 aprile 1948. Per le elezioni di quell’anno il “patto” si tradusse, tra l’altro, in liste uniche di socialisti e comunisti, sotto l’etichetta di un Fronte Democratico Popolare con l’effige di Garibaldi quale proprio simbolo, che a parere dei più fu una ragione definitiva per avallare la tesi che in Italia una posizione socialista autonoma ormai non ci fosse più e che, quando si parlava di sinistra, era dei comunisti, e di essi soltanto, che ormai si trattava.
Tutto diverso fu il panorama che si offrì sul versante opposto dello schieramento politico nazionale. I liberali, i repubblicani e i neonati socialdemocratici (che, tuttavia, sul momento conseguirono un’affermazione non trascurabile ai fini dell’equilibrio politico generale del paese) pagarono il 18 aprile a duro prezzo l’alleanza con la Democrazia Cristiana; e peggio ancora fu nelle successive elezioni del 1953. De Gasperi, che diede in ciò un’altra prova delle sue eccezionali qualità politiche, resistette alle tentazioni integralistiche assai vive in molti settori della Democrazia Cristiana e mantenne fermo il punto che, pur essendo un partito di larghissima maggioranza, i democristiani dovevano mantenere ferma l’alleanza coi partiti che proprio allora cominciarono a essere denominati sempre più spesso come “partiti laici”, e garantire al paese un governo di coalizione in nome della causa liberale e democratica in contrapposizione a quella comunista e filosovietica della sinistra social-comunista e in nome delle scelte occidentali ed europee, che allora divennero definitive, per la posizione internazionale dell’Italia, in opposizione al totalitarismo comunista.
Naturalmente, le questioni interne e quelle internazionali si legarono in una profonda e reciproca interferenza e si condizionarono variamente a vicenda. La sinistra si proclamò e apparve come una forza volta a una radicale trasformazione dell’assetto e dei rapporti sociali, nel nome di ideali socialistici e comunistici, collettivistici e statalistici, letali per la libera iniziativa, il libero mercato e la proprietà privata. La destra apparve come la garante degli interessi minacciati dalla sinistra rivoluzionaria, nonché dell’appartenenza dell’Italia all’Occidente e alle sue prassi di liberismo economico e di tutela della proprietà privata. Per la destra la sinistra minacciava la famiglia, la religione, la patria, la tradizione e i valori nazionali; sosteneva l’espansionismo sovietico; fomentava agitazioni e rivolte ovunque potesse. Per la sinistra la destra difendeva la causa della conservazione sociale, degli interessi dei ceti alti e più ricchi, del capitalismo nazionale e internazionale, e legava il paese a una irrimediabile subalternità alla potenza che soprattutto rappresentava il capitalismo e la plutocrazia mondiali, ossia gli Stati Uniti, inevitabilmente legati a una politica bellicista, contro la quale la sinistra rappresentava la causa della pace.
Erano semplificazioni in parte anche grossolane, che erano disdette da varii elementi, come, ad esempio, il fatto che su alcuni problemi sociali e strutturali fra destra e sinistra vi erano o potevano esservi più convergenze che contrasti. Così era per l’ammissione della necessità di una riforma agraria; così per quanto concerneva la “questione meridionale”, tornata in grande auge dopo le negazioni e repressioni del periodo fascista. E, tuttavia, erano proprio quelle semplificazioni ad animare e guidare il confronto politico non solo nella pubblica opinione, ma anche nello stesso mondo politico, sicché ne risultava per più versi un’accentuazione della conflittualità politica e un irrigidimento delle posizioni contrapposte nel proporre soluzioni e rimedi.
Nella vulgata posteriore le dure contrapposizioni di quegli anni figurano alquanto edulcorate. si rivendica la comune partecipazione di quasi tutti i partiti, maggiori e minori, alla redazione della Costituzione; si rivendica il ruolo nazionale della sinistra, e in particolare di quella comunista; si sottolinea la comunanza nell’adozione dei valori della Resistenza quale cemento fondante e ideale della nuova convivenza politica nell’Italia repubblicana; si accentua la parte della sinistra nel determinare il particolare accento sociale che fin dall’inizio contraddistinse la linea politica ed etico-politica della Repubblica, già a partire dall’articolo 1 della Costituzione, che definisce la Repubblica come “fondata sul lavoro”.
Per quanto non priva affatto di elementi di sicura fondatezza, questa vulgata risponde, però, assai male alle esigenze di una visione storica attendibile di quel periodo. In realtà, le contrapposizioni di quel periodo furono profonde, effettive e laceranti, tali da determinare proprio e soprattutto nel settore dei “laici” ripetuti sconvolgimenti, secessioni, diaspore, che concorsero non poco a ridurne il ruolo e le forze. Appariva incredibile che partiti per originaria tradizione laici come i liberali e i repubblicani collaborassero con i clericali democristiani; che i socialdemocratici, malgrado il loro nome, si legassero ai partiti della conservazione; e così via. Fu sintomatico allora che proprio nella cultura laica si avessero numerosi casi di passaggio sulle posizioni della sinistra, che si ammantava delle grandi parole d’ordine della giustizia e del progresso sociale, della pace, della difesa della laicità dello Stato e della scuola minacciata dall’invadenza democristiana, nonché di una decisa opposizione all’armamento atomico, del quale gli Stati Uniti mantennero per qualche anno l’esclusività. Né le defezioni dal campo laico si arrestarono quando fu ormai più che chiaro che i termini della contesa in corso con la “guerra fredda” a livello planetario erano ben diversi da quelli che emergevano nella spicciola polemica quotidiana fra i partiti.
In quegli stessi anni si ebbe la grande espansione del partito comunista nella società italiana, sia nelle regioni di vecchio e tradizionale insediamento socialista, sia in regioni, come quelle meridionali, in cui questo significava un grande sommovimento degli orientamenti tradizionali. Fu, specie al Sud, una grande mobilitazione alla politica di grandi masse, e in fondo, per questo verso, anche una modernizzazione. Fortissima fu anche l’accentuazione che i comunisti diedero alla presenza e al ruolo degli intellettuali e della cultura nella lotta politica: che fu un altro canale della diffusione del loro partito, ma anche un elemento importante per la società italiana, nonché un fronte sul quale furono proprio i “laici” a ritrovarsi in maggiore difficoltà.
In tale contesto le posizioni sostenute dalla sinistra, e in particolare dai comunisti, non riuscirono mai a fare davvero breccia nell’opinione pubblica. L’allineamento sovietico ne appariva indiscutibile. Era paradossale il fatto che per l’armamento e per gli esperimenti atomici americani vi erano sempre manifestazioni, manifesti, proteste, deprecazione del rischio a cui i si esponeva con quegli esperimenti; per l’armamento e per gli esperimenti sovietici nulla di tutto ciò: essi servivano a garantire la pace. Ancora nel 1956 “l’Unità” commentò i fatti d’Ungheria con un lungo e aspro editoriale dal titolo Da una parte della barricata a difesa del potere socialista (e quella fu pure l’occasione di un certo, significativo esodo di comunisti dal partito). Sul tema della destalinizzazione non si fece che seguire l’impulso e i tempi della vicenda sovietica, e la parola d’ordine fu per l’occasione quella del ritorno a Lenin e alla “legalità socialista” da lui stabilita. Il modello politico alternativo a quello occidentale, e comunque, a quello che si costruiva in Italia con la partecipazione degli stessi comunisti, era indicato nelle “democrazie popolari” dell’Europa centro-orientale, ossia degli Stati di cui la natura sostanzialmente totalitaria non si sarebbe mai potuto riuscire in nessun modo a nascondere. E quando si parla di intesa tra Occidente e Oriente per cui l’Italia era riservata all’Occidente, e quindi i comunisti nulla avrebbero mai potuto fare in contrario, si dice cosa verosimile, ma non univoca ed esclusiva. La lotta della sinistra per portare l’Italia almeno sulle posizioni neutraliste, di cui era in tutto il mondo evidente il netto significato antioccidentale, fu una lotta effettiva; e ad essa avrebbe potuto anche arridere il successo in una combinazione politica italiana non schierata, come invece fu con De Gasperi, su posizioni, al riguardo, assolutamente intransigenti.
La parte dei “laici” su questo sfondo fu difficilissima, e non solo per le dimensioni dei fatti e delle forze con cui si aveva a che fare, bensì anche perché l’inevitabile alleanza con la Democrazia Cristiana era fonte a sua volta di problemi del più vario ordine, che riguardavano talora la laicità dello Stato e della scuola, talora la concezione assistenzialistica e populistica oppure corporativistiche dell’azione sociale dello Stato, talora le venature mediterraneistiche e filoarabe (o anti israeliane) e perfino neutralistiche e sottilmente antioccidentalistiche di alcuni settori del partito cattolico, talora contrapposizioni culturali fondamentali anche per l’azione pubblica, talora (e anzi spesso) contrasti nascenti dalle spinte interne a far valere appieno, senza le prudenze e le limitazioni degasperiane, la grande maggioranza che i democristiani conservarono a lungo in parlamento e in ogni sede elettiva.
Furono, inoltre, i “laici” a sopportare il peso maggiore del confronto coi comunisti sul piano culturale. Basti pensare alla denigrazione ben presto avviata della cosiddetta “dittatura” idealistica e crociana (di Gentile per un certo periodo non ci si ricordò più) nel precedente periodo della storia italiana, con una contrapposizione in gran parte artificiosa e forzata del pensiero di Gramsci a quello di Croce, sicché il gramscismo divenne rapidamente una specie di parola d’ordine e anche di un nuovo conformismo non solo della sinistra. L’attacco a Croce era, infatti, comune anche a varii settori politico-culturali, dai cattolici a molte parti degli stessi “laici”, né si poteva pensare che Croce potesse rappresentare il piano unico di sostegno ideale e politico della causa dei “laici”. Proprio da questi ultimi provenne, anzi, allora una forte spinta a un ampliamento rinnovatore e cospicuo degli orizzonti culturali italiani. A loro volta, i socialdemocratici furono oggetto di una polemica particolarmente severa, al punto che sul piano culturale come su quello politico il termine “socialdemocratico” divenne poco meno che un epiteto infamante. Né da parte cattolica si tendeva a essere più transigenti verso la cultura laica. Era sorprendente da questo punto di vista il frequente cumularsi delle spinte cattoliche e di sinistra contro la cultura dei “laici”, che però confermava così ancora di più il suo ruolo di struttura portante essenziale e non rinunciabile della fisionomia storica e nazionale della cultura italiana.
Pur fra tante difficoltà e sproporzioni, la parte allora svolta dai “laici” fu essenziale per l’avvio della Repubblica sui binari di un ordinamento duraturo e vitale. Da parte liberale la politica economica e monetaria sostenuta da Einaudi avviò a un risanamento che fu la premessa indispensabile del successivo “miracolo italiano”. Da parte repubblicana e socialdemocratica, oltre che liberale, venne una spinta particolare al legame con l’Occidente e con gli Stati Uniti in particolare, di cui nei governi De Gasperi fu parte attivissima il repubblicano ministro degli Esteri Carlo Sforza. Il ministro repubblicano del Commercio Estero La Malfa fu il promotore della liberalizzazione degli scambi, altra premessa dell’ammodernamento del sistema economico nazionale. Non d’accordo i liberali, ma con forte influenza repubblicana e socialdemocratica fu avviata la politica di riforma agraria, attuata in particolare dai ministri democristiani dell’Agricoltura, e di riforma tributaria inaugurata dall’altro democristiano ministro delle Finanze Ezio Vanoni, integrata poi dal ministro socialdemocratico Tremelloni. Il ministro repubblicano della Difesa Pacciardi attuò una notevole riforma della coscrizione obbligatoria e dell’ordinamento militare. Iniziativa comune dei “laici” e dei democristiani fu l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, primo sforzo organico dello Stato italiano per affrontare nel suo complesso quell’annosa questione.
Anche in altro, ma pur esso fondamentale, campo “laici” e democristiani operarono sinergicamente, rompendo l’“unità sindacale”, eredità degli anni dell’“unità antifascista”, inficiata dalla grave politicizzazione del sindacato operata da parte comunista, e promossero la costituzione di altri sindacati, che, a fianco dei quelli della CGIL, formarono ben presto le due organizzazioni della CISL e della UIL, e assicurarono così al paese un pluralismo conforme all’ispirazione generale dell’ordinamento repubblicano e certamente vantaggioso anche dal punto di vista delle lotte del lavoro.
Il contributo dei “laici” agli anni e all’opera fondativa della Repubblica fu, dunque, intensissimo, e tale che, prescindendone, ne risulterebbe addirittura mutilata la storia del paese, così come fu altamente meritorio che, per perseguire la politica scelta e sentita come propria e come un dovere democratico e nazionale, si pagassero i costi politici ed elettorali che quei partiti pagarono tra il 1947 e il 1953. Furono appunto gli anni del “centrismo” degasperiano, base del “miracolo italiano” e della rapidissima e profonda modernizzazione della vita e della società italiana negli anni ’50.
A metà degli anni ’50 il volto e la realtà del paese erano, infatti, profondamente mutati non solo, senza confronti, con l’aspetto di desolazione e di morte che nel 1945 vi avevano lasciato le cosiddette “ferite” della guerra più disastrosa della storia italiana, ma addirittura più visibilmente e marcatamente rispetto al suo volto e alla sua realtà dell’anteguerra.
Sarebbe ingenuo ritenere che fosse tutto dovuto al governo e alla sua azione. Fu, in realtà, tutta la società e la cultura italiana ad avere in quegli anni una reazione di slancio vitale, di fiducia e di impegno civile e intellettuale, di imprevista creatività in ogni campo della vita civile da far pensare davvero a una di quelle stagioni per cui il Carducci parlava di Itala gente dalle mille vite. Le lettere e le arti, il cinema e lo spettacolo, il dibattito filosofico e scientifico, l’editoria e la lettura, la frequentazione e la conoscenza di letterature e culture straniere, non solo produzione e commerci fiorirono in quegli anni con una intensità e una vivacità sorprendenti. Cominciò allora la prima, vera unificazione fisica degli Italiani a seguito delle alluvionali migrazioni che in meno di un decennio portarono nell’Italia settentrionale centinaia, centinaia e centinaia di migliaia di meridionali, mentre un’altra consistente parte di meridionali, di veneti e di friulani riprendeva la grande emigrazione all’estero, interrottasi dopo la prima guerra mondiale. E da tutto ciò derivò un’apertura della società italiana a nuovi modi di essere e di comportarsi, che risultarono alla fine anche più omogenei su tutta la lunghezza della penisola.
Nessun dubbio è, tuttavia, possibile che il governo e la sua azione siano stati non solo parte essenziale, ma elementi pregiudiziali e condizionanti della mirabile stagione della “ricostruzione” e del “miracolo”. Le scelte economiche, finanziarie e monetarie, e ancor più quelle europee e occidentali di politica internazionale, nonché varii aspetti della politica di riforme condotte dai governi De Gasperi furono assolutamente decisivi per l’avvenire di quella Italia. Democrazia Cristiana e “laici” si potevano considerare, perciò, benemeriti del paese. Eppure si avvertì, già nel momento in cui si vedevano i primi cospicui segni della grande trasformazione italiana, il senso di un logoramento della grande maggioranza (Democrazia Cristiana, soprattutto, ma anche “laici”), che aveva trionfato nelle elezioni del 1948.
Vi influirono fattori esterni alla coalizione di centro che allora si era formata, e che aveva inaugurato gli anni del “centrismo”, come passarono subito a essere denominati nel vocabolario politico contemporaneo, e di lì nella storiografia. La Chiesa avrebbe voluto piuttosto una estensione di quella maggioranza verso destra, incontrando la resistenza devota, ma ferma del cattolicissimo De Gasperi. L’azione dell’opposizione, egemonizzata dai comunisti, fu pertinace e abilissima nel suo lavoro di erosione del consenso della maggioranza in nome di esigenze e suscitando problemi effettivi economici, sociali, culturali, che l’azione del governo lasciava più o meno fatalmente scoperti. La forza presa in campo internazionale dal movimento per la pace e il disarmo nucleare, nonché l’antiamericanismo, sempre latente in Europa, e più forte a mano a mano che ci si allontanava dalla guerra, ebbero ripercussioni sempre maggiori anche in Italia. Né l’opposizione di destra era trascurabile nella sua continua critica in nome di interessi e questioni nazionali, che al governo si faceva colpa di non tenere nella dovuta considerazione, anzi di tradire in nome di ideologie qualificate come essenzialmente antinazionali.
Un luogo a sé ebbero in ciò anche le lotte sociali e del lavoro, che, a prescindere dalle strumentalizzazioni politiche, soprattutto da parte comunista, furono molto sollecitate dalla concorrenza accesa dal sopravvenuto pluralismo sindacale e, soprattutto, dallo stesso sviluppo economico e sociale del paese che faceva comprensibilmente e positivamente alzare la soglia così delle condizioni di vita delle masse come delle loro esigenze e richieste nel quadro sociale. E anche di ciò i “laici”, specie coi repubblicani e i socialdemocratici, si trovarono a sopportare il peso maggiore.
Non meno, anzi più determinanti erano i fattori di crisi o di incertezza della maggioranza interni ad essa. Qui ci limitiamo a indicarne solo qualcuno. Nella Democrazia Cristiana le opposte spinte della destra e della sinistra, ciascuna di esse in varie articolazioni, minavano sempre più la leadership di De Gasperi, a malgrado dell’enorme prestigio che egli si era acquistato sia all’interno che all’estero. Fra i liberali si delineava sempre meglio la spinta a destra che negli anni successivi avrebbe trovato in Giovanni Malagodi un leader autorevole e moderno quanto sostenitore di un liberismo e di una politica sociale in sempre maggiore contrasto con l’avvio allo Stato sociale che si delineava all’orizzonte prossimo, anche politico-culturale, della vita pubblica italiana. Fra i repubblicani si accentuava l’antagonismo tra coloro che ritenevano necessario un ampliamento della maggioranza per far sì che la politica delle riforme continuasse con un ritmo più forte e continuo di quello che sembrava aver raggiunto il massimo possibile con De Gasperi e coloro che ritenevano inalterabile la dislocazione centrista della maggioranza. Qualcosa del genere si profilava, con minore chiarezza, anche fra i socialdemocratici, fra i quali, però, si andava rafforzando anche il richiamo alla riunificazione socialista, che sembrava resa possibile dai primi indizi della destalinizzazione e dai suoi effetti sui socialisti italiani, a cominciare dal loro leader Nenni.
Alla sensazione delle difficoltà crescenti della maggioranza questa reagì tentando di risolverle con una riforma della legge elettorale in senso maggioritario, che produsse però varie lacerazioni nella stessa maggioranza e facilitò l’attacco dell’opposizione a quella che venne subito definita con palese mistificazione come “legge truffa”. I “laici”, che con poche eccezioni avevano sostenuto questa riforma elettorale, ne vennero ancor più penalizzati nelle elezioni del 1953, che – ironia della sorte – provarono come la coalizione di centro avrebbe ancora avuto la maggioranza anche senza quella infausta riforma.
Fu segnata così la sorte della leadership di De Gasperi. La Democrazia Cristiana vide cambiare allora la sua dirigenza e il suo indirizzo. La spinta verso l’allargamento della maggioranza ai socialisti cominciò a diventare più visibile e più forte, così come la resistenza ad essa. Ma che il centrismo non fosse stato una coalizione forzata e puramente contingente venne dimostrato dal fatto che per giungere alla “apertura a sinistra” ci vollero ancora alcuni anni e un ulteriore mutamento del quadro internazionale. E allo stesso modo il decennio 1954-1963 dimostrò ugualmente essenziale il ruolo dei “laici” nel determinare l’equilibrio politico nazionale, così come era accaduto negli anni di De Gasperi: una conferma che sarebbe stata disdetta e sarebbe cessata solo con la fine della cosiddetta Prima Repubblica all’inizio degli anni ’90.



NOTE
* È il testo, ampliato, della relazione letta al Convegno di studi su Nazione e Stato. L’Italia di Ricasoli e di De Gasperi, tenutosi a Roma, presso la Camera dei Deputati, l’8 giugno 2010, a cura del Comitato per le celebrazoni ricasoliane della Fondazione Alcide De Gasperi e della Fondazione Spadolini.Top
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