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Mario Segni: solo cambiare l'Italia
di Maurizio Ambrogi
«Nessuna democrazia è tale se il Parlamento non è lo strumento attraverso il quale si esercita la sovranità popolare. Ma è compatibile con la sovranità popolare un Parlamento di nominati?». Mario Segni pone questa domanda nell’ultimo capitolo del libro, Niente di personale, solo cambiare l’Italia (Rubbettino, 2010), in cui ripercorre vent’anni di campagne referendarie. E fissa così efficacemente il punto di stallo in cui si trova la democrazia italiana: bloccata da un bipolarismo muscolare gestito da una classe politica che non ha radici territoriali, né competenza, né autonomia politica. Sospesa fra la spinta verso il presidenzialismo (con Berlusconi che costantemente richiama la sua investitura popolare e lamenta l’impossibilità di governare per mancanza di poteri effettivi) e la tentazione, forte soprattutto nell’opposizione, di tornare a un meccanismo elettorale proporzionale e a una prassi politica più manovriera. E con il sospetto che in fin dei conti almeno un aspetto dell’attuale legge elettorale vada bene a tutti, perché ai capi partito piace, osserva Segni, «un meccanismo che assicura un ferreo controllo sul gruppo parlamentare».
Molte battaglie e molti errori hanno portato al punto in cui siamo: e il libro di Segni ci aiuta a ripercorrere la stagione del bipolarismo italiano attraverso quattro referendum, due vinti e due persi, nell’arco di vent’anni. E ci aiuta a capire, dal punto di vista di un protagonista assoluto di quelle battaglie, il gioco delle alleanze e degli opportunismi che hanno fatto la fortuna o segnato il destino di quelle consultazioni.
Si comincia nel ’91: il referendum sulla preferenza unica. Non è l’inizio della battaglia fra proporzionale e maggioritario, ma dopo anni di dibattito sulle riforme istituzionali il quesito colpisce uno dei meccanismi su cui si fonda il sistema di controllo del voto nella prima Repubblica e asseconda una crescente spinta di cambiamento che le forze politiche faticano a cogliere. L’applicazione della preferenza unica ha tuttavia un effetto ulteriore, probabilmente imprevisto e forse poco analizzato: fa esplodere i costi della politica. I candidati non possono più contare sulle cordate, devono correre da soli, in competizione con tutti gli altri e devono cercare fondi per una campagna elettorale che diviene ancor più fortemente personalizzata. Una distorsione che probabilmente contribuisce a far saltare un sistema già ai limiti.
Dal punto di vista del movimento referendario, la consultazione del ’91 è la scoperta dell’efficacia di un sistema di consultazione popolare che salta la mediazione di partiti incapaci di autoriformarsi. Con tutti i rischi di questa operazione che Segni non si nasconde: «diventato l’unico interprete di questa istanza di popolo, e trovata una forma semplice per l’espressione del consenso come il referendum, il movimento era invincibile. Il rovescio della medaglia fu che il livello delle speranze e delle aspettative divenne talmente alto che era inevitabile, almeno in parte, l’ondata di ritorno della delusione». Ondata che si farà sentire anni dopo: nella prima fase, il movimento ottiene ancora un risultato decisivo: la vittoria nel referendum del ’93 che impone il passaggio al maggioritario, sia pure attenuato nel Mattarellum dalla permanenza di una quota proporzionale.
È il periodo di massimo sbandamento della politica italiana e il nuovo sistema favorisce il passaggio alla cosiddetta seconda Repubblica, ma l’eterogenesi dei fini fa sì che a giovarsi del maggioritario sia un imprenditore e proprietario di un impero televisivo. Il sistema maggioritario non consente scelte politiche diverse dallo schieramento in due blocchi contrapposti: è una trappola nella quale cade lo stesso Segni, e il Partito popolare fondato da Martinazzoli per salvare quel che rimaneva della vecchia Dc. Bisognava cercare altre strade, spiega oggi Segni, che non si sottrae alle sue responsabilità: bisognava capire che la partita non era più fra innovatori e conservatori istituzionali, e che in pochi mesi la politica stava già tornando a dettare le proprie regole. Il movimento referendario non poteva reggere l’urto dei due schieramenti politici che si andavano profilando, così come la “nuova” Dc di Martinazzoli, fortemente voluta dalle gerarchie ecclesiastiche, in prima fila da Ruini, ricorda Segni, non poteva riuscire a frenare l’emorragia moderata verso Berlusconi.
«L’uomo che aveva in mano il paese» perde la sua partita politica, mentre il maggioritario continua a esercitare la sua pressione innovativa. La riforma dei sistemi elettorali dei comuni, delle province e delle regioni comporta la creazione di poteri più forti, per i capi delle tre istituzioni, anche se poi, contraddittoriamente, continua a radicare la frammentazione politica attraverso i meccanismi di rappresentanza nei consigli. L’Italia si abitua al bipolarismo nonostante la curvatura anomala imposta dal berlusconismo. Nel piatto positivo c’è la stabilità, il fatto che due legislature «dal 1996 al 2006, la maggioranza scelta dai cittadini ha governato per l’intero mandato» e ancora che «l’alternanza ha portato al governo forze sino ad allora escluse, come la sinistra post-comunista e la destra di origine fascista, che hanno ricevuto una definitiva legittimazione e una forte spinta alla moderazione. Sotto molti aspetti – conclude Segni – possiamo definirci, grazie a queste riforme, una democrazia matura».
Sull’altro piatto, c’è l’imbarbarimento della vita pubblica, il mancato rinnovamento dei costumi, il mancato raggiungimento di «quella limpidezza delle regole e dei comportamenti pubblici che erano la grande promessa delle nostre riforme».
In questo quadro di progressivo declino si spengono gli entusiasmi attorno al movimento referendario, peraltro sempre più isolato politicamente. Molto più difficile diventa raccogliere le forze per promuovere il referendum contro la quota proporzionare del Mattarellum. La consultazione si tiene nel ’99 e il quorum viene mancato per una manciata di voti: una notte che passa alla storia anche per il fallimento delle proiezioni che fino alle due di notte davano per certa la vittoria ai referendari. Ancora più isolato sarà il gruppo di costituzionalisti e politici che tenterà l’impresa di affondare il Porcellum di Calderoli: il referendum, previsto nel ’98, slitta causa elezioni, e si svolge a metà giugno del ’99, dopo le europee. Il quorum, ovviamente, sarà lontanissimo.
Segni ricostruisce quelle battaglie e ricorda le difficoltà, le resistenze, i nemici imprevisti, i voltafaccia. Val la pena di ricordare il doppio tradimento di Di Pietro, nel ’99 e nel 2009: protagonista della raccolta delle firme, in entrambi i casi l’ex magistrato sceglierà la sponda del No. Val la pena anche di ricordare l’avallo che arrivò dell’allora presidente di Confindustria Montezemolo (che oggi si candida a “riserva della Repubblica”) alla controriforma elettorale di Calderoli che sarà approvata nel dicembre del 2005. «Probabilmente la legge Calderoli sarebbe passata ugualmente – annota Segni – ma l’intervento di Montezemolo, giunto in un momento in cui le posizioni erano ancora fluide, diede una spinta molto forte al successo del governo».
Negli ultimi dieci anni, mentre si attenua la spinta referendaria, la partita istituzionale si fa più complessa: nel metodo, diventa confronto fra chi crede nella spallata referendaria e chi punta sulla soluzione parlamentare; nel merito, diviene scontro fra maggioritari e neo proporzionalisti.
Gli sforzi di mediazione parlamentare si fermano, per ora, al tentativo Marini del 2008: dopo la caduta del governo Prodi fu il presidente del Senato a tentare, senza fortuna, la costituzione di un governo che avesse al primo punto l’accordo su una legge elettorale, quella messa a punto dalla commissione Affari Costituzionali guidata da Enzo Bianco: un sistema che recuperava elementi di maggioritario (i collegi uninominali per la metà dei seggi da assegnare), introduceva la soglia di sbarramento e la sfiducia costruttiva. La guerra fra proporzionalisti e bipolaristi è invece ancora aperta: e fa bene Mario Segni a respingere gli attacchi sempre più feroci che arrivano alle riforme che hanno cambiato lo schema della lotta politica in Italia. «Le nostre riforme hanno tracciato l’unica strada che può permettere all’Italia un salto di qualità» scrive Segni, anche se «una facile vulgata attribuisce proprio al bipolarismo la crisi che attraversiamo, i fenomeni degenerativi che si sono sviluppati, la sfiducia che pervade oggi la società».
Certo i tempi non sono favorevoli per chi vorrebbe completare il percorso avviato vent’anni fa, quando, come osserva Segni, milioni di italiani avevano visto nella riforma elettorale e in quella dello Stato «lo strumento per un risanamento epocale della vita pubblica». Oggi questo risanamento passa anzitutto attraverso la profonda riforma dell’attuale legge elettorale, quella che produce il “Parlamento di nominati” di cui si parlava all’inizio. Nessuna riforma che prevedesse un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo potrebbe reggere in mancanza un bilanciamento di poteri, in primo luogo quello parlamentare.
L’interesse purtroppo è scarso (anche nell’opinione pubblica) la confusione è molta: soprattutto nel centrosinistra, che avrebbe tutto l’interesse a cambiare le cose. C’è chi vorrebbe il sistema tedesco (facendo finta di non vedere il suo fallimento proprio in Germania) chi il sistema francese (che Pdl non ha alcuna convenienza a concedere) e chi preferisce il male minore, il vecchio Mattarellum (che avrebbe il pregio, almeno, di reintrodurre il collegio uninominale). La scelta di un’alternativa non è politicamente indifferente, si sa. Chi parla tedesco (D’Alema, Casini) vorrebbe tentare di spacchettare il bipolarismo. Chi parla francese (Veltroni) vorrebbe consolidarlo. Ma in mancanza di una visione comune, una trattativa col centrodestra è persa in partenza. E viene da pensare che la legge elettorale attuale sarà toccata, probabilmente, solo nei punti più scandalosi, non solo sul meccanismo basilare.
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