Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XI - n. 4 > Interventi > Pag. 413
 
 
Populismo e democrazia
di Tarcisio Amato
All’incirca nell’ultimo ventennio il tema e il termine “populismo”, dai più usato approssimativamente, se non anche impropriamente, è ritornato via via con forza in auge nella riflessione politologica. E questo non solo ma anche alla luce di cangianti scenari in atto e di tensioni presenti nei sistemi politici liberal-democratici di tradizione europea (oltre che, e non a caso, “europeista”)1, sorpresi da qualche tempo da movimenti variamente riconducibili per l’appunto al modello del cosiddetto e assai controverso “populismo”. Un modello, va subito però aggiunto, che non ha tanto a che fare con quello noto come latino-americano (da Peron a Chavez)2, e men che meno con quello detto un tempo “terzomondista”; ma invece piuttosto, secondo alcuni, parecchio con quello della tradizione nordamericana che, reiterandosi in seguito più o meno periodicamente contro i lobbisti e i corrotti partiti politici, ha sempre considerato il popolo come costituito dalla immensa maggioranza della popolazione attiva, con l’esclusione di una piccola minoranza di plutocrati, sfruttatori e banchieri corrotti. Un populismo quello nordamericano che ha comunque inizio, anche con la nascita fortunosa del People’s Party, nel tardo Ottocento. Periodo nel quale notoriamente venne inoltre sviluppandosi in Russia un altro e, non soltanto negli esiti, tutto diverso nonché storicamente concluso “populismo”, cui da noi dedicò a suo tempo un’opera fondamentale Franco Venturi3.
Rimane a questo punto da capire in che senso debba intendersi l’affermazione di Mény e Surel secondo i quali «nonostante il passare del tempo, la retorica (e la prassi) populista non è cambiata dopo che i contenuti sono stati, per così dire, fissati dal populismo americano»4. A cominciare, si potrebbe sostenere, dalla concezione stessa della democrazia, che nella variante populista si approssima di molto alla definizione enfatica di Lincoln come «il governo del popolo, esercitato dal popolo, per il popolo»5, manifestando inoltre una forte diffidenza antielitista verso gli organismi indipendenti non-eletti e verso il principio stesso di rappresentanza. Notoriamente essenziale quest’ultima per il funzionamento dei regimi liberal-democratici, ma che comporterebbe, fallendo per forza di cose l’istanza populista della “rassomiglianza” fra rappresentanti e rappresentati6, una separazione se non un’estraneità fra governati e governanti; accusati questi di chiudersi in una sorta di sistema autoreferenziale, nonché sospettati di corruzione, scarsa trasparenza e incompetenza. In sostanza si può dire che ciò che separa più nettamente i populisti dall’incarnazione moderna degli ideali democratici, in altre parole dalla poliarchia liberale, è proprio la diversa interpretazione del principio di rappresentanza, che nel caso del populismo si fonda sul presupposto dell’omologia, della similitudine e della prossimità fra rappresentanti e rappresentati, mentre nell’ottica liberale valorizza l’autonomia di giudizio dei primi rispetto ai secondi. Agli occhi dei movimenti populisti il sistema rappresentativo, instaurando una mediazione fra il popolo e il potere, può introdurre in effetti solo distorsioni e deformazioni della volontà popolare. Ed è proprio per quest’ultimo punto, riconosciuto come uno degli elementi costitutivi di un plausibile e condivisibile idealtipo di “populismo”, che è stata proposta la definizione del medesimo non già come patologia della democrazia tout court, quella ancorata cioè riduttivamente al principio che «la sovranità appartiene al popolo»7, bensì invece della democrazia rappresentativa. Vale a dire dell’unica forma storica vincente e diffusa di democrazia sino a oggi istituzionalmente realizzata. E così realisticamente definita da chi, come Sartori sulla linea di Schumpeter (e mantenendo pur sempre costante la distinzione della democrazia in senso descrittivo da quella in senso prescrittivo) ritiene che una democrazia ben funzionante non possa essere altro che una democrazia elitista: «Una democrazia su larga scala è una procedura e/o un meccanismo che (a) genera una poliarchia aperta la cui competizione sul mercato elettorale (b) attribuisce potere al popolo e (c) in modo specifico genera la responsivness dei leaders nei confronti dell’elettorato»8. Stando così le cose, e in una prospettiva critica, il contributo del popolo alla democrazia si ridurrebbe nella sostanza alla partecipazione della selezione dei propri governanti; e questo tanto da suggerire perfino l’ipotesi che il populismo esprima a suo modo un’esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare.
Rispetto al realistico modello delineato da Sartori, l’ideale sistema politico vagheggiato dal populismo si avvicina comunque, almeno tendenzialmente, a un regime democratico per così dire “puro”, nel quale il popolo, vale a dire il demos, si sottrae al ruolo che la politica moderna gli riserva: quello di essere cioè la sorgente di una sovranità che si fa incanalare nella rappresentanza e in tutte le altre mediazioni politiche di un ordine poliarchico sviluppato. Nel modello ideale populista al contrario, e con valenze sicuramente ostili al liberalismo, il popolo ha la prima e l’ultima parola su ogni questione, sottoponendo i rappresentanti al suo controllo, instaurando pertanto una sorta di mandato imperativo, e generalizzando inoltre meccanismi di consultazione popolare di tipo referendario. Rifiutando pertanto la rappresentanza o criticando i rappresentanti, e considerando il costituzionalismo un ostacolo insopportabile al potere del popolo, il populismo è dunque sicuramente antiliberale. L’accettazione inoltre relativa e opportunistica da parte sua di quel complesso giuridico-politico definito come “Stato di diritto”, trova in effetti i suoi limiti immediati nell’affermazione di un principio superiore, quello della critica in ogni momento e per qualunque ragione dei limiti istituiti dal diritto, poiché il popolo può fare e disfare quello che vuole. «Questa logica, ereditata dalla rivoluzione francese nella sua versione illiberale ha una sua coerenza. Se il popolo è la fonte del potere, nulla può limitare la sua capacità di decidere e di criticare. Nel populismo c’è Rousseau, Robespierre, e Marx, mentre la sua critica si dirige contro gli eredi di Montesquieu, di Sieyés, di Tocqueville»9. Il discorso populista è basato insomma e in ultima analisi sulla convinzione che il popolo è, politicamente, un’entità sovrana cui spetta il monopolio della legittimità; che le classi dirigenti lo hanno inoltre tradito, pur dovendogli la facoltà di governare, e che pertanto è dovere del popolo restaurare il proprio primato.
La frattura dominante nel discorso populista, che in sé tende a rifuggire ogni identificazione o assimilazione alla dicotomia destra/sinistra, non si struttura inoltre in modo stabile lungo linee di classe, territoriali, religiose o etniche. I conflitti possono prendere origine, eventualmente, da ognuna di queste fratture, ma il discorso populista tenderà a semplificarli nei termini di una contrapposizione tra il popolo e l’establishment politico-economico-culturale, concepito come un potere opaco e inavvicinabile, sottratto al controllo della gente comune che lavora e produce. A tal proposito, va aggiunto che quello che conta per il populismo è l’esercizio di un lavoro tangibile, fondato sulla produzione di beni materiali, e alternativi pertanto alle attività finanziarie, alla speculazione, alle rendite, ad ogni forma in sostanza di “smaterializzazione” dell’economia. Nella misura in cui, ad ogni modo, il populismo si oppone alle oligarchie, alle caste per privilegio e per derivazione ereditaria, alle sette e alle lobbies economiche, intellettuali, burocratiche, a poteri autoreferenziali che giocano sulla sorte dei popoli nel nome e negli interessi di piccole minoranze con grandi interessi, è allora proprio che il populismo diventa un fenomeno politico di tutto rispetto; diventa cioè perfino, secondo alcuni, una correzione democratica e libertaria della deriva oligarchica di classi dominanti.
Ulteriore oggetto della critica democratica populista risultano inoltre spesso il parlamento con le sue procedure dilatorie e vischiose e i partiti politici, concepiti questi ultimi quali usurpatori della sovranità popolare e rappresentati come parte dell’apparato del potere. Non è un caso pertanto che le formazioni partitiche populiste evitino di definirsi “partito” e preferiscano termini come Movimento, Fronte, Lega10 etc. Su queste basi il populismo, quale punto di massima tensione fra potere delle elites e ruolo delle masse, costituisce anche un ulteriore discorso alternativo sulla democrazia, che tende a marginalizzare le istituzioni rappresentative e a concentrarsi sul rapporto diretto e non mediato tra popolo e potere. Un rapporto diretto e non mediato che nei movimenti populisti (o, se si vuole, “neopopulisti”) giustifica la posizione centrale assunta e rivendicata dal leader, che si suppone sia il migliore interprete e difensore della volontà popolare11. Com’è stato da più parti sottolineato, la presenza di un leader che sappia dare voce al popolo, rassomigliargli nei comportamenti, captarne e orientarne le aspirazioni, insomma che dimostri di volerne e saperne incarnare caratteristiche e bisogni, è uno dei tratti essenziali delle manifestazioni politiche del populismo. È stato però tuttavia chiarito come il leader populista non vada comunque assimilato tout court al capo carismatico. Pur dimostrando qualità non comuni, egli deve infatti sapersi sintonizzare con il pubblico dei seguaci, adottandone perfino il linguaggio e la gestualità. Deve inoltre proporsi come un esempio della semplicità che il movimento intende restituire alla politica, dimostrando che le istanze dei cittadini possono essere espresse senza far ricorso alle lungaggini del processo rappresentativo. Insomma, per adottare la formulazione di una configurata perspicua antitesi, «da una parte la spontaneità della comunicazione che si svolge tra il comune cittadino e chi sa interpretarne immediatamente le istanze, dall’altra la chiusura delle classi dirigenti in sedi inaccessibili all’uomo della strada e sorde alle sue richieste, in cui si celebrano riti procedurali inutilmente complicati senza venire a capo dei problemi che irritano o angosciano la gente semplice»12. Non va infine sottaciuto che le tendenze in atto alla personalizzazione della politica, giusta anche la predominanza dell’immagine nelle società contemporanee (tanto da poter configurare secondo alcuni un vero e proprio tele-populismo), favoriscono la spinta populista che configura il leader come colui che più ancora che rappresentare, “incarna” per così dire il suo popolo, suscitando persino fenomeni mimetici, riguardo anche lo stile della leadership, in altri e più tradizionali ma svigoriti partiti13. A tal proposito merita esser tenuta presente la interessante considerazione di una studiosa da sempre impegnata sul tema del “populismo” come Margaret Canovan. La quale sottolinea infatti che in democrazia lo spazio del potere è uno «spazio vuoto», al contrario della monarchia o della dittatura in cui il potere si incarna in una persona. Il popolo sovrano non ha invece un’incarnazione, ma solo dei sostituti: istituzioni, procedure, rappresentanti collettivi, cioè immagini vaghe, astratte e povere, intellettualmente soddisfacenti ma affettivamente frustranti. È questo vuoto che la leadership riempie, questo vuoto che in una società dell’immagine risulta insopportabile. Ma si corre anche il rischio che l’identificazione fra popolo e leader diventi totale; ed è questa la tendenza naturale del populismo, con il possibile rischio pertanto di cancellare paradossalmente il popolo in nome del popolo14.
Rimane a questo punto da chiedersi a quale popolo la mentalità populista si riferisce quando i relativi esponenti pretendono di parlare in suo nome. Ed anche a tal proposito Margaret Canovan formula suggerimenti e indicazioni meritevoli di particolare attenzione. Prendendo spunto infatti dalle connotazioni che il termine people assume nella lingua inglese la Canovan ritiene di poter individuare nelle campagne anti-establishment dei populisti quattro diverse accezioni del concetto sotteso alle parole. La prima di esse rinvia allo united people, ovvero alla nazione intesa come entità coesa che la vocazione dei partiti alla faziosità tende a dividere. In questo caso, la funzione che il populismo si assegna, è di gettare le basi di un’unica organizzazione rappresentativa del popolo nel suo complesso, collocata al disopra delle divisioni ideologiche e di classe con l’intenzione di cancellarle. Un secondo modo populista di richiamarsi al popolo consiste nell’intenderlo come common people, quello cioè dei diseredati, dei lavoratori di umili condizioni, il cui risentimento viene utilizzato nella polemica contro la classe dirigente che sfrutta il potere per arricchirsi alle spalle degli altri. Se l’appello privilegia invece l’ordinary people, la gente comune, i semplici cittadini, il bersaglio dei populisti è l’arroccamento dei politici di professione in un’arrogante indifferenza alle istanze di base che non collimano con i loro interessi, la mancanza di trasparenza nelle loro azioni, la sordità alle proteste che vengono dal basso. Infine, l’ethnic people è la comunità specifica, il “nostro” popolo, contraddistinto da un’identità e da una tradizione che hanno particolari radici culturali, linguistiche, religiose e razziali, la cui persistenza va difesa e serve per creare una barriera verso gli estranei, stranieri e/o immigrati, mai completamente assimilabili15.
A loro volta Mény e Surel, mutuando il termine di “comunità immaginata” usato notoriamente da Benedict Anderson a proposito della nazione16, ed adattandolo al popolo (un termine considerato assai prossimo alla nazione) distinguono tre forme di “comunità immaginata”. Tre forme le quali costituiscono tre universi analiticamente isolabili, ma che si confondono spesso nella pratica, e cioè: il popolo-sovrano nell’ordine politico, il popolo-classe nell’accezione socioeconomica, il popolo-nazione in una prospettiva “culturale”. Una forma di “comunità immaginata” quest’ultima che appalesa un isomorfismo evidente con l’ethnic people, ma anche per certi versi con l’united people, così come vengono teorizzati da Margaret Canovan.
Sulla base comunque della “comunità immaginata” alla quale vien fatto riferimento e alla luce inoltre della tripartizione da loro proposta (senza però escludere i casi ibridi) le possibili varianti populiste vengono riassunte sinteticamente, da Mény e Surel, nel modo che segue:
1) Il populismo, quando è definito rispetto all’accezione popolo-sovrano, pone essenzialmente il problema della rappresentanza e della distribuzione del potere; valorizza il popolo non solo come fonte della legittimità, ma anche come effettivo “responsabile decisionale”. Si alimenta quindi delle sfiducie e delle critiche nei confronti delle élites al potere sospettate di tradimento.
2) Nell’accezione socioeconomica il populismo cerca soprattutto di evidenziare il problema della distribuzione delle ricchezze, il cui equilibrio tradizionale è minacciato da nuove logiche economiche. In questo caso valorizza i “piccoli” contro i “grandi”, l’economia “reale” contro la sfera finanziaria, gli scambi su scala umana contro l’internazionalizzazione delle economie.
3) Nella prospettiva “culturale” che associa al termine di “popolo” quello di “nazione”, il populismo è spesso confuso con un tipo particolare di nazionalismo, che insiste sul carattere irriducibile ed eterno della comunità organica. Di recente il populismo si avvicina sempre di più al concetto di völkisch, del popolo-nazione come unione ideale costruita dalla storia, dalla geografia e/o dal sangue. Questa valorizzazione porta al rifiuto dei corpi estranei, intesi sia come minoranze straniere, sospettate di corrompere la purezza del popolo e di portargli via i suoi beni legittimi, sia come attori e dinamiche trans-nazionali e sopranazionali17.
Non va comunque, e in aggiunta, a questo punto trascurato un ulteriore profilo che rende più complicato il rapporto tra il popolo e la nazione. Ed è quello cioè che riguarda la riscoperta e/o l’uso continuo, da parte di movimenti tradizionalmente definiti populisti, dell’accezione culturale nel senso di ethnos in contesti culturali differenti dallo Stato-nazione. Da qualche tempo infatti la nozione di popolo come ethnos sostiene e inquadra anche alcune rivendicazioni regionaliste, se non addirittura separatiste, in rotta di collisione proprio con il medesimo Stato-nazione. Rivendicazioni regionaliste, se non separatiste, che nelle vicende politiche italiane dell’ultimo ventennio e più hanno caratterizzato per un considerevole tratto (e prima, va ribadito, di recenti assunzioni di responsabilità nazionali e di governo) una forza indubbiamente populista, nelle sue origini, come la Lega. Sulla quale, nei primi anni ’90, e sia pur riconoscendone le pretese di democrazia diretta e radicale, G. E. Rusconi così si esprimeva: «I leghisti declinano a loro modo demos e ethnos subordinando il primo al secondo, creando potenzialmente le premesse per una etno-democrazia […] questa espressione segnala la rivendicazione di diritti di autodeterminazione con esclusivo riferimento a criteri etno-culturali o geografici autodefiniti. Questi possono includere il diritto di conservazione e promozione di un patrimonio culturale e linguistico autonomo (vero o presunto) e la pretesa di proteggere e mantenere lo status di benessere regionale al di fuori di ogni vincolo nazionale»18.
È ad ogni modo una conseguenza oggi quasi fatale che, definendo il popolo come ethnos piuttosto che come un più astratto demos19, i movimenti populisti pongano il tema dell’immigrazione, e di quella islamica in particolare, come questione centrale nei loro discorsi20. Gli stranieri sono percepiti, in effetti, come una minaccia non solo per il sistema del welfare o per le possibilità di occupazione dei cittadini nazionali, ma anche per la natura essenziale della nazione stessa, per la sua omogeneità e la sua identità.



NOTE
1 L’Europa rappresenta la quintessenza di tutto ciò che il populismo detesta: il governo delle regole, un’autorità remota, una leadership debole, una responsabilità politica mal definita, un potere lontano ed estraneo (Bruxelles). È dunque su questo versante che il populismo trova argomentazioni polemiche assai efficaci. Cfr. Y. Mény, Y. Surel, Populismo e democrazia, Bologna, il Mulino, 2004, p. 5 e pp. 134-136. Va inoltre aggiunto che non appare priva di fondamento la tesi di coloro i quali sostengono che una democrazia europea, considerata l’assenza di un popolo europeo, rappresenti una vera e propria contraddizione in termini. Sulla vexata quaestio cfr. almeno C. Malandrino (a cura di), Un popolo per l’Europa unita, Firenze, Olschki editore, 2004. Top
2 Anche se da qualcuno è stato affermato che tutto sommato, e a ben vedere, il nucleo ideologico del populismo latinoamericano non si distingue troppo e in modo significativo da quello del populismo tipico dell’esperienza storica dell’Occidente. Cfr. L. Zanatta, Il populismo in America Latina, in «Filosofia Politica», n. 3, dicembre 2004, p. 387. Il meritevole saggio di Zanatta permette di avere un’adeguata comprensione del populismo latinoamericano.Top
3 F. Venturi, Il populismo russo, Torino, Einaudi, 1952, 1972.Top
4 Y. Mény, Y. Surel, op .cit. p. 68. Sulle vicende, le importanti conseguenze e le conquiste politico-istituzionali delle battaglie populiste americane, legittimate dal richiamo delle parole che segnano l’inizio della Costituzione (We the People), cfr. Ivi, pp. 57-58. Top
5 Vale la pena a tal proposito ricordare quanto scritto a suo tempo da Sartori: «Nel celebre discorso pronunziato a Gettysburg nel 1863 Lincoln ebbe a caratterizzare la democrazia con un aforisma che è sembrato rendere meglio di ogni altro lo spirito di un sistema democratico: government of the people, by the people, for the people. È sintomatico che questo aforisma riesca pressoché intraducibile a chi si preoccupi di renderlo fedelmente. E questo perché, già nella dizione originale apre complesse controversie interpretative. La verità è che la frase di Lincoln ha un abbrivio stilistico e non un significato logico: come tale è a rigore una proposizione inesplicabile. Confesso che è proprio per questa ragione che ho inteso ricordarla e che a me pare felicissima: perché usare la parola democrazia è aprire un discorso prescrittivo, che resta “non finito” per la buona ragione che si deve svolgere ad indefinitum». G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, il Mulino, 1969, pp. 27-28. Top
6 Secondo l’impeccabile ricostruzione storico-critica di Bernard Manin, una volta battuta la richiesta degli anti-federalisti di una rappresentanza fondata sulla “rassomiglianza”, alla fine dei lavori della Convenzione di Philadelphia «fu chiaro in America che il governo rappresentativo non sarebbe stato fondato sulla rassomiglianza e la vicinanza tra rappresentanti e rappresentati […] . I rappresentanti dovevano essere differenti dai rappresentati e porsi più in alto nella scala delle capacità, delle virtù e della ricchezza». B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Champs, Flammarion, 1996, p. 168. Come è noto questa concezione della rappresentanza, sicuramente antipopulista, caratterizzerà la maggior parte dei regimi rappresentativi occidentali. Top
7 È importante ricordare come il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione italiana, recita così: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In realtà la forma mentis populista tende a scavalcare quanto da noi messo in corsivo, diffidando in generale di quei contropoteri che in una democrazia costituzionale limitano e bilanciano i poteri del popolo. La comparsa e la diffusione delle Corti Costituzionali rappresenta notoriamente un’innovazione radicale sul piano politico-giuridico, perché porta ad un drastico ridimensionamento delle pretese della democrazia incentrata sul popolo, configurando una “sfera dell’indecidibile” sottratta alla disponibilità delle maggioranze.Top
8 G. Sartori, The Theory of Democracy Revisited, Chatam, Chatam House Publishers, 1987, p. 156.Top
9 Y. Mény, Y. Surel, op. cit., p. 281. Top
10 A proposito della Lega condivisibile ci sembra quanto meditato e scritto ultimamente da Galli della Loggia, all’interno di una suggestiva e propositiva riflessione critica più generale: «La Lega rappresenta la prima cultura politica italiana di segno “basso”, che non nasce cioè dall’elaborazione di un’elite. Non già per il suo richiamo al popolo. Infatti tutte le culture politiche dell’Italia moderna, dell’Italia del Novecento, hanno messo al proprio centro il “popolo”. Ma lo hanno fatto per così dire “paternalisticamente”: era un’elite colta, per l’appunto, che assegnava alle masse popolari questo o quel compito storico di carattere generale […]. Con la Lega questa storia del Novecento politico italiano finisce per sempre. Con la Lega, infatti, abbiamo un gruppo dirigente fatto della stessa identica pasta culturale e antropologica del suo elettorato, un gruppo dirigente che ha gusti, modi di vita, ragiona e parla come il suo “popolo”. Il quale non è investito di alcun ruolo storico generale […] poiché esso antepone molto banalmente le sue specifiche esigenze di collettività che abita in un certo posto, che vive qui ed ora, che ha determinati problemi economici e non altri». E. Galli della Loggia, Un futuro per la Lega, in «Corriere della Sera», del 4 aprile 2010. Anche se poi, va aggiunto, la Lega di governo sembra oggi volersi proiettare in una più ambiziosa prospettiva, che è quella non di un partito regionale seppur forte e radicato, ma di un movimento nazionale che vuole esportare l’efficienza nordista anche nel resto Paese. Top
11 Come scrive Paul Taggart, «per i neo populisti la leadership non è un semplice elemento: è l’essenza stessa del loro messaggio e del loro partito». P. Taggart, New Populist Parties in Western Europe, in «West European Politics», 18 (1995), p. 41.Top
12 M. Tarchi, Il populismo e la scienza politica: come liberarsi del «complesso di Cenerentola», in «Filosofia Politica», n. 3, dicembre 2004, p. 426. Tirando le somme di un importante ma parecchio discordante dibattito sull’argomento, nel 1967 Isaiah Berlin accennò al rischio che la pretesa velleitaria di identificare un tipo puro di populismo potesse assoggettare gli studiosi al “complesso di Cenerentola”, cioè alla frustrazione che derivava dal non riuscire a trovare nella realtà oggetti perfettamente rispondenti ai requisiti stabiliti dalla teoria. La convinzione fondata che il rinnovato e particolarmente vivo dibattito sul populismo possa invece in qualche modo oggi pervenire o sia pervenuto ad alcuni punti di accordo, sostanziali e fruttuosi, trova conforto nella meritevole e suggestiva messa a punto di Tarchi sull’argomento. Top
13 Rispetto ad un certo establishment politico-culturale che a proposito di Berlusconi ha usato ed usa, in modo denigratorio ed inappropriato, l’etichetta di “populismo”, se non addirittura di un presunto e conseguente “fascismo”, una delle figure più pensose e di maggior spessore intellettuale della sinistra nostrana, vale a dire Biagio de Giovanni, così di recente ha puntualizzato: «Ma se populismo può essere la parola giusta, si deve subito aggiungere che fra populismo e fascismo può esservi, e in questo caso c’è, una differenza stellare. Il populismo alla Berlusconi è nella sua volontà di comunicazione diretta, senza mediazioni, nell’idea di un’opposizione vista piuttosto come ostacolo ad una decisione veloce […]. Populismo naturalmente significa anche altre cose, ad esempio inventarsi la nascita di un partito dal predellino di un auto, accentuare fortemente il carattere simbolico piuttosto che rappresentativo della politica, o più in generale personalizzare al massimo consentito da un quadro costituzionale, garantito dal Presidente della Repubblica, e dalla Corte costituzionale, l’esercizio del potere politico. Ma qui non entra in gioco solo il centrodestra italiano; dappertutto si estende il fenomeno del leaderismo, che il carattere – come dire? – estroverso di Berlusconi rende in Italia particolarmente evidente […]. Insomma, Berlusconi non è una patologia della democrazia italiana, ma è la variante di un sistema democratico che dappertutto si muove nell’incertezza». B. de Giovanni, A destra tutta, Venezia, Marsilio Editori, 2009, pp. 84-87.Top
14 Cfr. Y. Mény, Y. Surel, op. cit., pp. 118-119.Top
15 Cfr. M. Canovan, Il populismo come l’ombra della democrazia, in «EuropaEurope», 2 (1993), II, pp. 54-57; ma per un discorso ad assai più ampio raggio sul problema del “popolo”, cfr. M. Canovan, The People, Cambridge-Malden, Polity Press, 2005. Sul significato di “popolo” nella storia, indicazioni e suggerimenti fruttuosi, ma diversamente orientati, sono anche reperibili in G. Sartori, The Theory of Democracy Revisited, cit., pp. 21 sgg., ove, a proposito della concezione organica e olistica del popolo, vien detto che «non conduce in alcun modo alla democrazia». A sua volta Norberto Bobbio, pur concedendo che «di sovranità del popolo si potrebbe parlare appropriatamente soltanto da quando è stato istituito il suffragio universale», sulla stessa linea di Sartori così si esprime: «Se ancora si vuole parlare rispetto alla democrazia moderna, fondata sul principio del potere ascendente, di sovranità, intesa come potere originario, principio, fonte, misura di ogni altra forma di potere, la sovranità non è del popolo ma dei singoli individui, in quanto cittadini. “Popolo” non solo è un concetto ambiguo, proprio perché non esiste se non per metafora un tutto chiamato “popolo” distinto dagl’individui che lo compongono, ma è anche un concetto ingannevole […]. Nella democrazia moderna il sovrano non è il popolo ma sono tutti i cittadini. Il popolo è un’astrazione, comoda ma anche, come ho detto, fallace». N. Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, Giulio Einaudi editore, 1999, pp. 331-333. Top
16 Per Anderson infatti la nazione è caratterizzata da quattro elementi congiunti: 1) «È immaginata perché anche i membri della più piccola delle nazioni non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti e neppure potranno incontrarli o parlare con loro, anche se nell’animo di ognuno vivrà l’immagine della loro comunione». 2) «La nazione è immaginata come limitata perché anche la più grande ha frontiere definite, anche se possono essere flessibili, aldilà delle quali vivono altre nazioni». 3) «È immaginata come sovrana perché questo concetto apparve in un’epoca in cui i Lumi e la rivoluzione francese distruggevano la legittimità del regno dinastico gerarchico ordinato da Dio». 4) «È immaginata infine come una comunità poiché le nazioni, lasciando da parte l’ineguaglianza e lo sfruttamento reale che possono prevalere in ognuna di esse, sono sempre concepite come strutture fraterne profonde e orizzontali». Cfr. B. Anderson, Comunità immaginate, Roma, Manifesto Libri, 1996, pp. 26-28. Top
17 Cfr. Y. Mèny, Y. Surel, op. cit., p. 198.Top
18 G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, il Mulino, 1993, p. 32.Top
19 Sulla dicotomia tra popolo o nazione-ethnos e popolo o nazione-demos, ritenuta come «un paradigma tra i più stimolanti» per un suo elaborato discorso su quella da lui densamente definita e teorizzata come «nazione democratica» G.E. Rusconi così inoltre si è espresso: «È la dicotomia tra il radicamento in una matrice culturale “originaria” particolare, locale e l’appartenenza elettiva ad una comunità politica in linea di principio universalistica». Aggiungendo egli ancora: «Infatti l’identità nazionale, articolata attraverso il lealismo politico rimanda al modello politico del demos (appartenenza elettiva ad una comunità politica), ma rivendica nel contempo il riferimento a comuni radici storiche e culturali, all’ethnos appunto». Ivi, pp. 31 e 42.Top
20 Come ha osservato correttamente Biagio de Giovanni: «Ci sono pulsioni originarie della Lega […] legate largamente al rigetto popolare dell’immigrazione “stracciona” e guardata come potenzialmente criminale. E dico pulsioni originarie, perché la Lega di governo cerca in prevalenza di mitigarle, sapendo bene quanto l’immigrazione legalizzata sia stata necessaria per lo sviluppo del Nord, e quanto essa, a un tempo, crei rigetto nel corpo delle società soprattutto al Nord. Ci sono difese identitarie e di civiltà nei confronti di comunità forti come quelle islamiche». Difese, sia ben chiaro, aggiunge de Giovanni, che non hanno a che fare con il solito luogo comune del “razzismo”. B. de Giovanni, op. cit., p. 76.Top
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft