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«Il Mondo» e la politica economica del centrosinistra
di Piero Craveri
Ricorre nella pubblicistica de «Il Mondo» degli anni ’50 la metafora del “calabrone”, mutuata dal libro di John Kenneth Galbraith sul capitalismo americano, poi utilizzata da Scalfari nel suo Rapporto sul neocapitalismo1, che suona più o meno così: «esaminando l’anatomia di questo insetto gli studiosi delle scienze naturali hanno affermato, tutti d’accordo, ch’esso non può volare. Pesa troppo, ha le ali troppo piccole e deboli. Eppure, smentendo gli studiosi di ogni specie, il calabrone vola. Lo stesso avviene per il capitalismo italiano». Lo sviluppo travolgente della grande impresa, privata e pubblica, a partire dal 1952, imponeva questo interrogativo, nell’ottica della polemica antimonopolistica, che fu uno dei motivi più ricorrenti delle pagine de «Il Mondo», specialmente per la penna di Ernesto Rossi. Poiché la polemica, fin dall’inizio da lui condotta contro gli elettrici, fu il più rilevante, anzi forse l’unico suo successo e si risolse nella costituzione di un monopolio pubblico, qualche premessa è necessaria.
Sulla fine degli anni ’50 poteva dirsi che proprio lo sviluppo della grande impresa aveva rotto gli argini di alcune tradizionali posizioni monopolistiche, consolidatesi negli anni ’30. Questo valeva, ad esempio, per la chimica con l’ingresso in campo, accanto alla Montecatini, della Edison e dell’ENI. Valeva per la siderurgia con l’entrata in funzione degli impianti a ciclo integrale della Finsider. In altri settori la liberalizzazione degli scambi del 1952 e il Trattato di Roma del 1957 introducevano principi di concorrenza che le colonne de «Il Mondo» non trascuravano2 e a cui dedicarono precocemente una riflessione più compiuta, sottolineando come le resistenze imprenditoriali riguardavano solo alcuni settori produttivi e le relative associazioni e che comunque la realizzazione del mercato comune implicava un processo necessario di liberalizzazioni in più direzioni3.
Va inoltre precisato che molti di questi elementi di novità erano determinati dallo sviluppo dell’industria pubblica. Sta diventando un adagio diffuso che le fortune dell’industria pubblica fossero il derivato di un’impostazione “azionistica e giacobina” (come anche di recente è stato detto). Certo l’impostazione che negli anni ’30 Beneduce conferiva al sistema delle partecipazioni statali può dirsi avesse un’impronta “giacobina” ed era consona ad una premessa dirigistica, maturata già prima del fascismo. Ma nel secondo dopoguerra il compromesso sull’economia mista (che rilanciò l’IRI e permise la costituzione dell’ENI) ebbe il viatico, per molti versi decisivo, di Luigi Einaudi. Può dirsi che fu nella sostanza un “compromesso liberista”, da parte di uomini che conoscevano bene la debolezza delle “ali del calabrone”. Senza il deciso intervento di Menichella, ad esempio, difficilmente Sinigaglia avrebbe potuto attuare il suo piano siderurgico. Nel secondo dopoguerra, a cavallo degli anni ’50, quello che Marcello de Cecco ha chiamato il “sistema Beneduce”4 e la tradizione liberista convergono in un unico progetto di “ricostruzione”. Sulla base di queste premesse non può dunque riscontrarsi contraddizione tra la polemica antimonopolistica contro gli elettrici, che prese forma anche in uno dei convegni de «Il Mondo» e l’esito della nazionalizzazione. Rossi, nella sua relazione al convegno, La lotta contro i monopoli, che è del 1955, ricordava l’emendamento presentato da Einaudi, poi bocciato dall’Assemblea Costituente, che suonava così: «la legge non è strumento di formazione di monopoli economici; e dove questi esistono li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta»5. Ascarelli, nello stesso convegno, si era preoccupato poi di chiarire tutti gli aspetti sui quali una legislazione antimonopolistica deve intervenire6.
Ma nella polemica antimonopolistica l’insegnamento di Luigi Einaudi ha un peso rilevante anche sotto un altro aspetto. La sagra dei Padroni del vapore di Ernesto Rossi, che serpeggia ovunque nelle pagine de «Il Mondo», non può prescindere dalla lettura de La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, che Einaudi pubblicò nel 1933, libro chiave per intendere la storia dell’economia e della società italiana. Già qui si denunziavano, conformemente alla polemica liberista di inizio ’900, gli intimi legami che univano il potere politico all’industria pesante, alla siderurgia, all’industria automobilistica, a quella dei concimi e coloranti, ai cantieri navali, ai produttori di cavi elettrici, agli zuccherieri. Rossi partì da qui per analizzare come ulteriormente questo cerchio si era stretto con l’avvento del fascismo.
Il problema era costituito da quella che sembrava l’attualità cogente di quell’analisi. Era un giudizio che aveva una premessa storico politica. Il 1948 aveva rappresentato la fine delle speranze di una centralità liberale nel sistema politico. In realtà questo si era già verificato con l’avvento di De Gasperi alla guida del governo nel dicembre del 1945. Tuttavia il ’48 rappresentò la stabilizzazione definitiva del nuovo corso. Come ha ben sottolineato Teodori nella sua relazione, i liberali de «Il Mondo» erano ben consapevoli di ciò. Il problema era divenuto quello di dare incisività e visibilità ad una forza minoritaria, laica e liberale, nel quadro della coalizione di governo centrista. E qui si aggiungeva un’ulteriore preoccupazione. La stabilizzazione del ’48 aveva dato un punto di riferimento politico sicuro alla variegata galassia di interessi privati e pubblici della società italiana. Una società che era uscita dalle paratie sicure del sistema corporativo fascista e risolveva così il trauma del dopoguerra, riversando i suoi molteplici rivoli nel nuovo contenitore politico del partito cattolico. In effetti la Democrazia Cristiana, a cavallo degli anni ’50, fu attraversata da un processo di metamorfosi che ne mutò profondamente i connotati essenziali. Gli spazi non si chiusero mai del tutto, perché la vitalità e la crescente dinamica della società italiana non l’avrebbero consentito. Ma certamente presero a restringersi considerevolmente. Proprio questo legame tra interessi privati e pubblici da un lato e classe politica democristiana, segnando un’analogia col precedente regime, fece si che sia il termine e sia il concetto furono dagli amici de «Il Mondo» elaborati e applicati alle dinamiche presenti, via via in termini sempre più stringenti. La mozione conclusiva del convegno, intitolato appunto Verso il regime, recitava tra l’altro: «[…] la pressione sullo Stato di forze estranee, materiali e spirituali, determina un progressivo deterioramento delle istituzioni e rende sempre più difficile il gioco dell’alternativa democratica, trasforma giorno per giorno il nostro sistema politico in un governo di regime»7.
Questi fattori di continuità tra fascismo e Repubblica avevano più di un fondamento e caratterizzarono dunque la polemica politica ed economica de «Il Mondo», alimentando quel peculiare suo carattere senza tempo, che ne fa un settimanale così acutamente proiettato sugli avvenimenti del presente, ma che pervicacemente non voleva, a differenza di quello che considerava suo fratello minore, «l’Espresso», essere di attualità. Flaiano aveva notato che «lo sforzo, lo snobismo di Pannunzio era fare un giornale che respingesse l’attualità. Io dicevo, aggiungeva, che stavano sempre facendo il numero precedente». Forse più che lo snobismo, che pure nell’understatement di Pannunzio era radicato, c’era qualcosa di più profondo, che la battuta di Flaiano non coglie. La necessità di rendere visiva e palpabile una continuità che, nel bene e nel male, la realtà della società italiana allora proponeva8.
De Gasperi aveva realizzato delle premesse ed evocato delle prospettive, che la nuova, più giovane, classe politica democristiana non sembrava più garantire. Per condizionare la DC occorreva uno schieramento più ampio di forze laiche di quello che aveva contraddistinto il quinquennio degasperiano. Nel corso di esso «Il Mondo» aveva preconizzato un’alleanza tra i tre partiti laici che non ebbe luogo. L’attenzione si sarebbe rivolta ai socialisti, e si sarebbe conclusa con un definitivo fallimento. Fu tuttavia la stagione della preparazione del centrosinistra ricca di proponimenti, analisi, proposte, dibattiti, quale non si sarebbe mai più riproposta nella storia della Repubblica. La seconda stagione, quella dei primi governi di centrosinistra, fu di richiami, appelli, speranze sempre più tenui. Del resto il centrosinistra fu un’occasione storicamente perduta per la società italiana, non ai fini dell’equilibrio politico, come formula parlamentare, ma come esperienza di governo, per la povertà di effetti che ebbe sul piano della trasformazione della struttura dello Stato e di quella economica e sociale, un’occasione di rinnovamento che inoltre non si sarebbe più presentata in termini altrettanto favorevoli da un punto di vista economico-sociale e con altrettanta ampiezza di iniziali propositi.
Ma allora, in quella svolta del dopoguerra che fu il 1956, la voglia di guardare avanti col delinearsi del centrosinistra si fece negli amici de «Il Mondo» nuovamente vitale. Tre sono le componenti riformistiche che accompagnarono la formazione del centrosinistra: quella cattolica, quella socialista e in fine proprio quella de «Il Mondo» dalla quale non può essere disgiunto Ugo La Malfa, che ne fu un essenziale riferimento politico, anche dopo la costituzione del partito radicale, come mostra del resto l’alleanza elettorale radical-repubblicana del 1958. C’erano differenze di impostazione non marginali tra queste tre componenti. I cattolici avevano perso con Ezio Vanoni l’uomo che avrebbe potuto dare alla sinistra democristiana una direttiva organica di rinnovamento ed avevano in Amintore Fanfani un leader dalle provate capacità di governo, con un senso organico del potere, finalizzato ad ordinare e rafforzare il rapporto con la società nell’ottica propria dell’interclassismo democristiano. I socialisti avviarono invece il loro approccio al centrosinistra con un’impostazione di tipo classista assai accentuata. «Il Mondo» offrì loro un’ampia apertura di dialogo. Nel 1956 pubblicava una “lettera scarlatta” di Riccardo Lombardi9, in cui l’approccio al “welfare” era considerato insufficiente, anzi deviante, perché non conduceva «alla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, necessari per stabilire una vera democrazia» e, un anno dopo, sempre dello stesso, una nota sul Mercato comune, visto come il trionfo del libero scambio, per concludere con l’auspicio che in Europa si affermasse «un’area di pianificazione economica»10.
C’era stato tuttavia il “vento di Pralognan”11 e poi il congresso di Venezia del PSI, seguito con ottimismo tra il gennaio e il febbraio del 1957. Nenni lasciava la sponda comunista per trovare su quella opposta un esercito conservatore assai agguerrito e perciò andava difeso12. L’attitudine verso i socialisti in materia economica voleva essere pedagogica. Valiani ricordava la svolta delle socialdemocrazie negli anni ’30 e il percorso denso di eventi compiuto nel dopoguerra, da cui potevano trarsi gli auspici di molti punti di confluenza13.
Tuttavia dalle colonne de «Il Mondo» veniva un altro approccio al primato della politica nell’economia. Nei primi anni ’50 la sua piattaforma di politica economica era stata prettamente liberista con la forte accentuazione anti-monopolitistica. Ora quest’ultima approdava ad un’impostazione diversa, e Leo Valiani vi aveva contribuito in modo rilevante, con un interventismo di marca keynesiana, fornendo un riferimento concreto il “new deal” e il “welfare” laburista. Il piano Vanoni era stato difeso ad oltranza14, così come il sistema di economia mista. L’idea era che lo Stato dovesse riappropriarsi degli strumenti di controllo che già possedeva, prima ancora di forgiare quelli nuovi che fossero necessari. Anche la battaglia contro il monopolio elettrico nasceva da questa esigenza. Togliere ai privati una posizione di rendita, basata su di un regime tariffario, che per ciò stesso esercitava un indebito potere, anche rispetto ad altri settori imprenditoriali, e restituirla alla funzione ordinatrice dello Stato. Non si trovano attacchi ne «Il Mondo» sull’IRI e nemmeno sull’ENI, ma immediata è la polemica sul ministero delle PP SS (che pure poteva dirsi una precoce creatura del centrosinistra, frutto, subito imputridito, di una proposta di La Malfa), alla presentazione del suo primo bilancio, per la mancanza di un principio ordinatore e qualsivoglia indirizzo politico15. Non si trattava di scardinare il sistema economico, tanto meno quello di economia mista, ma di ordinarlo e renderlo funzionale ad una moderna politica ridistributiva e di sviluppo. Ne risultava un’agenda diversa da quella socialista. Se si segue la traccia dei convegni che si susseguirono, dalla metà degli anni ’59 ai primi anni ’60, ed anche l’elenco dei “libri del tempo”, la collana della casa editrice Laterza che raccolse il distillato della pubblicistica de «Il Mondo», si ha una prima idea delle priorità che venivano enunciate.
La campagna per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che corre lungo quasi un decennio e a cui fu dedicato nel 1960 un apposito convegno16, negli esiti finali si trovò ad essere quasi del tutto allineata alla proposta elaborata dal governo e centrata sui suggerimenti di Guido Carli, se si escludono i rilievi sulle aziende municipalizzate e sugli autoproduttori, approvando l’espropriazione nei confronti delle società e non degli azionisti, che aveva sollevato le critiche dei comunisti e le perplessità dei socialisti17. Seguiva la proposta di istituire un altro ente pubblico per la produzione di energia nucleare, nella previsione per il decennio seguente che il fabbisogno di energia elettrica si sarebbe triplicato, corredata da un progetto legge redatto da Tullio Ascarelli18, che in parte avrebbe fornito la traccia per la costituzione del CNEN di Felice Ippolito. La riforma urbanistica era poi un tema centrale, affrontato da più lati, da una parte dalla veemente ed esemplare campagna di Antonio Cederna in difesa del patrimonio artistico19 e paesaggistico, dall’altra nei suoi aspetti legislativi di pianificazione urbana e territoriale e di argine alle rendite e speculazioni edilizie20, con riferimento ai vincoli alla proprietà privata, quali si evincevano dalla legislazione inglese ed olandese, che avrebbero costituito un riferimento nell’elaborazione del progetto di legge del ministro Sullo. Non è da trascurare neppure la precoce attenzione verso la RAI.TV, su cui Ernesto Rossi, nel 1957, in Verso il regime, presentava un progetto di legge, primo nel suo genere, in cui si definivano i profili del servizio pubblico. Venivano poi i temi della scuola e dell’università, che si giovavano tra l’altro della riflessione umanistica di Guido Calogero, come problema della formazione della nuova classe dirigente del paese, affrontando anche il nodo della formazione scientifica e del suo maggiore sviluppo, anche a livello tecno-professionale, nel sistema italiano di istruzione21, di cui in quegli anni frutto assai spurio sarebbe stato solamente la riforma della scuola dell’obbligo.
C’erano naturalmente i temi della riforma dello Stato, a partire dalla giustizia, con Achille Battaglia e Marco Ramat, di cui «Il Mondo» fu antesignano e in particolare a Ramat si deve l’avvio di una linea che avrebbe avuto poi una diversa metamorfosi con gli sviluppi politico-culturali della corrente di Magistratura democratica. L’istituzione delle Regioni era naturalmente sostenuta e così la riforma della pubblica amministrazione, che La Malfa, nello scorcio del 1962 e ’63, come ministro del Bilancio aveva sottolineato come improrogabile22.
Tutti questi temi erano innestati su quello della politica economica che faceva da criterio ordinatore. La Malfa per la politica economica fu appunto l’interlocutore principale degli amici de «Il Mondo». E qui si pone il problema “politico”, prima ancora che economico, della strategia delle riforme del costituendo centro-sinistra. Gli obbiettivi cardinali dell’azione di governo per La Malfa erano sei: nazionalizzazione energia elettrica, imposta cedolare di acconto sui dividendi, riforma delle società per azioni, eliminazione della mezzadria e dei tipi affini di contratti agrari, provvedimenti per la scuola, provvedimenti sociali (aumento pensioni e assegni sociali per i coltivatori diretti) e in un secondo tempo la riforma regionale. Tutti nel quadro di una programmazione centrata su di un “contratto sociale” che desse luogo ad un “comitato per la programmazione” in cui fossero rappresentate le parti sociali col compito di attuare una “politica dei redditi”, così da garantire la possibilità di far fronte alle spese prioritarie previste dal piano.
Il tasso di disoccupazione avrebbe raggiunto nel 1963 il valore minimo del 2,5 per cento, ma la spinta inflativa era in atto, con i prezzi all’ingrosso saliti nel ’62 del 30 per cento e nel ’63 del 5,2, mentre la spinta salariale conduceva ad un aumento della massa dei redditi da lavoro dipendente del 18 nel 1962 e del 23 per cento nel 1963. Cresceva la liquidità bancaria, in presenza di un completamento degli investimenti che stavano concludendo un ciclo di rapida espansione. La Malfa accantonava la disputa che attraversava allora il dibattito sul carattere “indicativo” e “prescrittivo” della programmazione e puntava tutte le sue carte su di un’azione di governo capace di rendere operante il “contratto sociale” necessario a questa politica, che assumeva un carattere di intrinseca cogenza. Nel ’63 la legislatura si sarebbe chiusa con l’approvazione della nazionalizzazione dell’energia elettrica, accantonati gli altri punti programmatici, compresa la riforma urbanistica. Il Comitato di programmazione istituito da La Malfa non aveva ancora posto al centro del suo dibattito il rapporto tra politica dei redditi e programmazione e non aveva affrontato il discorso concreto sulle priorità di bilancio dei vari operatori pubblici e delle imprese pubbliche. La linea La Malfa incassava in fine il reciso rifiuto della Confindustria a qualsiasi approccio di programmazione.
Ma, in questa prospettiva, il problema politico centrale riguardava in primo luogo i comunisti. Era chiaro che non si poteva far conto soltanto sul controllo parziale, se non residuale, dei socialisti sull’organizzazione sindacale, per non dire, quanto alla sua parte, della Democrazia Cristiana. La diagnosi che allora svolgeva La Malfa sui comunisti, a pieno condivisa con «Il Mondo», era che essi attraversavano un periodo di problematica crisi, determinato dai rivolgimenti che l’era di Krusciov aveva portato all’immagine internazionale del comunismo, ma soprattutto proprio dall’operazione di centro-sinistra che si andava attuando. I segnali d’altra parte si avvertivano e le antenne de «Il Mondo» li segnalavano con precisione, in una polemica di principio che rimaneva oltremodo aspra, mettendo in luce le avvisaglie di quell’ “unità fittizia” del dibattito interno del PCI, come l’avrebbe definita Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti. In quell’ultimo scorcio della III legislatura anche i segnali parlamentari lasciavano sperare in un rapporto positivamente dialettico. Il governo Fanfani, che si reggeva sull’appoggio dei socialisti, aveva incassato sui maggiori suoi provvedimenti di riforma l’astensione o il voto favorevole del partito comunista.
Finita la legislatura, l’esito delle elezioni non era stato brillante. La DC fletteva per l’ultimo surrettizio balzo in avanti del partito di Malagodi. Il PSI cedeva leggermente e il PCI tornava a crescere e la sua propensione polemica verso il centrosinistra si faceva meno problematica. Sarebbe bastato poco tempo per constatare, analizzando l’andamento dei procedimenti legislativi nella sede parlamentare, che una nuova tendenza di tipo “consociativo” andava affermandosi.
Il primo governo organico di centro-sinistra si sarebbe formato solo un anno dopo. Nell’interstizio di quei mesi veniva avviata la stabilizzazione economica, mediante un contenimento dell’espansione monetaria. I tassi di interesse cominciavano a presentare segni di tensione a partire dalla metà del 1962, ma la restrizione creditizia divenne più netta con l’aggravarsi del processo inflazionistico e della situazione dei conti coll’estero. Nell’estate del 1963 la Banca d’Italia poneva sotto controllo il rifinanziamento delle altre banche e bloccava l’aumento della loro posizione passiva netta verso l’estero, «impedendo in tal modo il finanziamento delle importazioni e della produzione interna con forti attriti sui mercati esteri»23. Nell’estate del ’64 sarebbe intervenuta anche la leva fiscale, aumentando le entrate tributarie, mentre il settore valutario veniva stabilizzato con l’ottenimento di un credito stand-by da parte della Federal Reserve di New York, innanzi al rifiuto dei partner europei di intervenire a sostegno. Già nel 1964 la bilancia dei pagamenti tornava in attivo, mentre l’inflazione defluiva più lentamente. Era un difficile viatico per i socialisti che per la prima volta entravano in un governo di centro-sinistra.
La linea de «Il Mondo» in questi frangenti risultava chiara, pressoché ogni settimana ribadita nei suoi editoriali, che non portavano quasi più la firma dei collaboratori, ma l’asterisco, segno di un intervento continuo di Pannunzio. Subito dopo la crisi del giugno 1964, che portò alla definitiva normalizzazione dorotea del centro-sinistra, la disillusione prendeva sempre più il posto della speranza. Non poteva più dirsi, come un anno prima, che non esisteva «un centro-sinistra buono e moderato ed un altro cattivo e smoderato, sia che si vedano le cose da destra, sia che le si vedano da sinistra, bensì un solo centro sinistra»24. Era ormai chiaro che il centrosinistra «non si farà, se non lo faranno le forze di democrazia laiche e i socialisti e, con esse, le forze di coerente sinistra esistenti all’interno di ogni partito della coalizione».
La difficile congiuntura economica aveva contribuito a travolgere le ultime illusioni. Dinnanzi ad essa la posizione de «Il Mondo» voleva che si tenesse fermo il programma di centrosinistra, senza entrare in collisione con la manovra di stabilizzazione economica di cui non si nascondeva la necessità. Riforma urbanistica, delle società per azioni, della pubblica amministrazione, della scuola e dell’università, ad esempio, potevano essere avviate. Riforme, come avrebbero sottolineato nel XII convegno dell’Eliseo, proprie della «politica di centro sinistra», che «sono nel programma, attuabili anche in un clima di fermezza verso le spinte inflazionistiche e deflazionistiche»25. Era «la battaglia che non è stata combattuta»26. I socialisti avrebbero giocato la più parte delle loro carte sul “piano Giolitti”, in cui si ribadiva la linea di La Malfa d’una collaborazione con i sindacati, ma in modo meno cogente, senza riferimento alcuno alla “politica dei redditi”27. È significativo che quando a giugno si aprì virtualmente la crisi di governo, per la pubblicazione su «Il Messaggero» di un documento, attribuito al ministro Colombo, che poneva in alternativa la linea della stabilizzazione, che la Banca d’Italia andava attuando, alle ipotesi che emergevano dalla prima elaborazione del “piano Giolitti”, «Il Mondo» non sollevasse obiezioni sul contenuto, ma sul modo anomalo di affrontare un tema politico-economico di così centrale rilevanza28.
L’amalgama, sia da un punto di vista politico sia programmatico delle diverse componenti del centro-sinistra non si era verificato. Con ciò, come più tardi avrebbe notato Guido Carli, era venuto anche meno quell’establishment politico, d’alta amministrazione ed economico, che poteva anche essersi diviso su alcune questioni, ma comunque, col secondo dopoguerra, aveva garantito un coerente processo decisionale29. Tra le componenti di questo establishment due sarebbero uscite di scena con gli anni ’60. Quella che è stata definita come il “sistema Beneduce”, per l’età dei suoi protagonisti (sarebbe in fine sopravvissuto per un breve tratto Mattioli, poi ancora Cuccia), ma soprattutto per non essersi rinnovato lo spirito che li aveva animati, volto a realizzare un processo di modernizzazione del paese, individuando gli obbiettivi nuovi e necessari da conseguire, rispetto a cui lo Stato doveva svolgere quella parte che i privati non erano in grado di sostenere. Così pure la tradizione liberal-democratica (anche qui sarebbe sopravvissuto per un altro decennio solo La Malfa), con le sue radici nell’Italia prefascista, che a sua volta aveva dato un contributo decisivo di idee e di senso dell’equilibrio politico e sociale nell’opera di “ricostruzione” e, come si è cercato di esporre, con gli amici de «Il Mondo», nel cercare di indirizzare la svolta di centro-sinistra. Due approcci destinati definitivamente a scomparire dalla scena culturale e politica italiana.



NOTE
1 Bari, Laterza, 1961, p. 7.Top
2 A. Garosci, L’Europa a spicchi, in «Il Mondo», 29 ottobre 1957 e sempre ivi, E. Scalfari, La disputa sul mercato, 13 agosto 1957 e ancora A. Spinelli, La disputa sul “mercato”. Prima domanda, 24 settembre 1957.Top
3 E. Bergman-R. Giordano-A. De Vita-L. Madia-G. Di Nardi, Europa senza dogane, Bari, Laterza, 1956.Top
4 M. de Cecco, Splendore e crisi del sistema Benedice, in Storia del capitalismo italiano, a cura di F. Barca, Roma, Donzelli, 1997, pp. 389-404.Top
5 E. Rossi, Il mezzo estremo della nazionalizzazione, in La lotta contro i monopoli, Bari, Laterza, 1957, p. 229.Top
6 T. Ascarelli, La riforma delle società per azioni, la legislazione anticonsortile e lo strumento fiscale, in ivi, pp. 103sgg.Top
7 La mozione conclusiva del Convegno, in Verso il regime, a cura di S. Bocca, Bari, Laterza 1960, p. 317.Top
8 E. Flaiano, Intervista di Aldo Rosselli, 1972, in Opere, Scritti postumi, a cura di M. Corti-A. Longoni, Milano, Bompiani, 1988, p. 1214.Top
9 Rivalutazione della politica, 7 agosto 1956. Vedi su ciò A. Cardini, Tempi di ferro. “Il Mondo” e «l’Italia del dopoguerra», Bologna; il Mulino, 1992, pp. 291sgg.Top
10 A. Cardini, Tempi di ferro…, cit., p. 355 e Socialisti e mercato comune, in «Il Mondo», 26 marzo 1957.Top
11 Vedi l’articolo su l’incontro tra Nenni e Saragat su «Il Mondo», 4 settembre 1956.Top
12 L. Piccardi, Come lo vorremmo, in «Il Mondo», 26 novembre 1957.Top
13 L. Valiani, Socialismo e radicalismo, in Il Mondo, 7 agosto 1956.Top
14 E. Scalfari, Austerità e privilegio, in «Il Mondo», 18 gennaio 1955; U. La Malfa, Una scelta necessaria, in , 19 giugno 1956.Top
15 E. Rossi, Pangloss in Parlamento, «Il Mondo», 2 dicembre 1958.Top
16 E. Scalfari-J. Eccles-E. Rossi-L. Piccardi, Le baronie elettriche, Bari, Laterza, 1960.Top
17 Vedi l’introduzione di L. Piccardi a E. Rossi, Elettricità senza baroni, Bari, Laterza, 1962, pp. 16sgg.Top
18 Atomo e elettricità, a cura di E. Scalfari, Bari, Laterza, 1957.Top
19 A. Cederna, Le mani sulla città, Bari, Laterza, 1960.Top
20 L. Cattani-A. Conigliaro-E. Scalfari, I padroni delle città, Bari, Laterza, 1958.Top
21 Vedi G. Galasso, L’Unità del sapere, in «L’Acropoli», 10 (2009), pp. 324-341.Top
22 Vedi su questo punto P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, Torino, UTET, 1995, p. 112sgg.Top
23 F. Forte, La congiuntura in Italia, 1961-1965, Torino, Einaudi, 1961, p. 276. Sulla crisi economica di quegli anni e la manovra di stabilizzazione, oltre a questo libro di Forte, una consolidata letteratura: B. Andreatta, Il governo della liquidità, Milano, F. Angeli, 1967; P. Baffi, Nuovi studi sulla moneta, Milano, Giuffrè, 1973; M. de Cecco, Saggi di politica monetaria, Milano, Giuffrè, 1968; A. Fazio, La politica monetaria in Italia dal 1947 al 1978, in «Moneta e credito», settembre 1979, n. 127, pp. 269-319; F. Spinelli-M. Fratianni, Storia monetaria d’Italia. L’evoluzione del sistema monetario e bancario, Milano, Mondatori, 1991 e, da ultimo, P.L. Ciocca, Introduzione a, Guido Carli governatore della Banca d’Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 8-41.Top
24 Socialisti e comunisti, in «Il Mondo», 3 agosto 1963.Top
25 Il convegno dell’Eliseo. Un primo bilancio, in ivi, 31 marzo 1964.Top
26 Una battaglia perduta, in ivi, 28 luglio 1964.Top
27 Cfr. il taccuino, Il piano e i sindacati, ivi, 12 maggio 1964.Top
28 Cfr. il taccuino, Il caso Colombo, 9 giugno 1964.Top
29 G. Carli, Intervista sul capitalismo, a cura di E. Scalfari, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 21.Top
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