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Auctoritas
di Mario Miegge
Tensione concettuale e fluidità di scrittura ricompongono e saldano, nelle quattrocento pagine di Auctoritas1, i tre livelli dell'impresa storiografica: la narrazione, che presenta gli eventi e i loro attori; l'esposizione dei testi, inquadrata nelle controversie dell'epoca; l'esame critico degli eventi e dei testi, che si avvale selettivamente di una pluralità di indagini. Trascorsi alcuni anni dalla pubblicazione (2005), è opportuno riparlare di un libro in cui, da una parte, la lunga distanza storica (di quasi cinque secoli) si dilata nel lavoro della critica ma, dall'altra, quella distanza è travalicata nella ricostruzione di un conflitto di idee — e non soltanto di idee — che ci appare in buona misura attuale. Scrive infatti Silvana Nitti:
Nella prima metà del '500 l'autorità non era un principio astratto e neppure solo un concetto teologico, bensì istituzioni, potere, politica, codici. Tanto più analizzando una disputa controversistica, si comprende fino a che punto quello del'autorità fosse un tema nient'affatto confinato nella dimensione dogmatica o religiosa. Gli avversari di Lutero interpretarono subito la critica alle indulgenze [...] come un attacco all'autorità del papa; e poi questo come una minaccia a tutte le autorità, comprese quelle politiche (pp. 206-207).

Questa considerazione si attaglia ancora alla odierna congiuntura, nella quale risorgono le pretese di attribuire alla autorità politica fondamenti incontrovertibili, di tipo carismatico o plebiscitario e comunque sottratti alle procedure di controllo pubblico, razionali e costituzionali.

Eventi ed attori

Nei primi mesi del 1521 il re d'Inghilterra Enrico VIII scrisse e poi pubblicò un trattato di teologia controversistica per attaccare le affermazioni che Lutero aveva esposto nel suo De captivitate babylonica ecclesiae del 1520; un'iniziativa quanto meno singolare per un re (p. XI).
La Assertio septem sacramentorum fu dunque pubblicata nei mesi cruciali in cui Lutero, di fronte alla Dieta di Worms, rifiutò di sottomettersi alle massime autorità del Papa e dell'Imperatore e venne posto al bando. La risposta al re d'Inghilterra fu scritta e stampata dopo che Lutero lasciò il rifugio della Wartburg e ritornò a Wittenberg, per prendere la guida di un movimento di riforma ormai irreversibile. A questi avvenimenti Silvana Nitti ha dedicato di recente un nuovo libro2.
Ma ritorniamo alla Assertio. La novità della iniziativa di Enrico VIII sta nel fatto che un laico (e un laico di rango regale) intervenga in una controversia dottrinale. Il fatto è apparso sconcertante ai contemporanei, a tal punto che si diffusero subito le dicerie e le congetture riguardo alla autenticità del testo, che da alcuni venne persino attribuito alla penna di Erasmo da Rotterdam.
Dopo aver documentato queste vicende (nei cc. IV e V), Silvana Nitti ne propone una lettura molto più ardita, che evoca gli andamenti paradossali della storia. Con un esito opposto la Assertio può essere collocata nel solco aperto dall'Appello alla nobiltà cristiana della nazione tedesca (1520), scritto da Lutero «un mese prima del De captivitate che Enrico si mise a confutare».
Che altro fa, Enrico, se non assumersi quelle che considera sue responsabilità, e intervenire, lui laico, su un terreno specialistico che non sarebbe il suo, se non credesse in qualche modo, anche lui, alle speciali responsabilità di chi detiene il potere politico, come andava predicando proprio Lutero? Le strane combinazioni della storia! A questo punto poco importa sapere la proporzione esatta fra quello che uscì dalla testa del re, e il materiale di cui si servì, fornito da altri. Enrico prese quell'iniziativa, firmò quel libro, fece una scelta che nessun'altro suo pari aveva osato (pp. 69-70).
La cronaca di avvenimenti minori si iscrive in tal modo nella "grande storia": non soltanto la rivoluzione religiosa a cui ha dato inizio il monaco sassone, ma anche il travaglio di nascita dello Stato moderno, che ha tra i suoi protagonisti il re d'Inghilterra. E nel secolo di Rabelais gli attori prendono statura di giganti.
Nel profilo gargantuesco del regale avversario di Lutero si accumulano, a prima vista, le contraddizioni più stridenti.
Enrico era un laico informato e intelligente ed «aveva certamente ricevuto un'educazione multiforme» (p. 46). All'età di trent'anni pubblica la Assertio e di conseguenza la Curia romana lo insignisce del titolo di Defensor fidei. Trascorso poco più di un decennio lo stesso monarca attua lo scisma della Chiesa d'Inghilterra. E nell'Atto di Supremazia del 1534 viene scritto: «Sua Maestà il re giustamente e legittimamente è e dev'essere e sarà ritenuto l'unico capo supremo sulla terra della Chiesa d'Inghilterra, detta Anglicana ecclesia3».
Questi capovolgimenti prendono tuttavia un senso dal punto di vista della ragion di Stato; una strana "ragione", sempre associata alla violenza: più palesemente quando è agita da un despota che non esita a mandare al patibolo due delle sue consorti e i suoi più fedeli collaboratori e consiglieri — come Tommaso Moro. Ma è anche un despota che, nel tempo dello scisma, mette al lavoro per sette anni un Parlamento che fino ad allora nc aveva mai convocato e che gli darà intero consenso.
Per quel che riguarda i nessi tra azione e pensiero si deve allora concludere che Enrico fosse soltanto uno spregiudicato manipolatore di idee? Oppure, nei meandri mentali di quel Principe si può scorgere una traccia di continuità e coerenza, che — come suggerisce Silvana Nitti — corrisponde al processo controverso della moderna "teologia politica"?
Qui entrano in campo le due figure antitetiche della auctoritas.

Lo scontro dottrinale

Lo storico inglese J.M. Headley ha configurato la Riforma come una «crisi di autorità» (p. 204). Abitualmente la crisi viene definita in base allo scontro tra due principi: da un lato la Scrittura, dall'altro la tradizione. Ma la formula è troppo riduttiva. Nell'attacco di Lutero alla autorità della Chiesa, infatti, l'assunto della sola Scriptura è inscindibile da quello della sola gratia. E, dall'altra parte, gli avvesari di Lutero (e la Assertio di Enrico VIII) non contestano l'autorità della Scrittura ma la collocano e ridimensionano nel cerchio complessivo del consensus ecclesiae.
Per dare maggior chiarezza alla polemica tra Lutero ed il re d'Inghilterra, in un capitolo centrale di Auctoritas (pp. 203-240) l'autrice ripercorre l'itinerario concettuale del riformatore, in un arco di tempo non breve — dai grandi commentari biblici degli anni 1515 e seguenti fino al 1530. E poiché gli scritti di Lutero sono diventati per Silvana Nitti una sorta di alter ego, le citazioni scorrono e si intrecciano senza alcuna forzatura.

1. Sola gratia - sola Scriptura
L'unico fondamento della fede e della vocazione cristiana «è per Lutero la Parola di Dio testimoniata dalla Sacra Scrittura». «Escluse tutte le altre autorità, è la Scrittura che torna a regnare» (p. 227).
Per Lutero, dunque, nella Scrittura si manifesta l'evento della Parola. Ma egli dichiara a più riprese che la Scrittura «non è Dio»: «Dio e Scrittura sono cose diverse non meno di quanto lo sono creatore e creatura». Grazie alla distinzione tra la Parola e la Scrittura la norma della sola Scriptura non incorre nelle derive del letteralismo e del fondamentalismo e dà spazio al lavoro di interpretazione dei testi biblici. Nel 1522 il riformatore scrive che i buoni predicatori sono quelli «capaci di estrarre la parola vivente dalla antica Scrittura» (p. 231).
Lo spazio ermeneutico è però segnato dagli impervi tornanti della "dialettica" teologica di Lutero. Nel Commento alla Lettera di Paolo ai Romani (1515-16) è detto che la Scrittura è «ipsa per sese certissima, facillima, apertissima, sui ipsius interpres». Ma quella claritas è paradossale, poiché enuncia principalmente il "nascondimento" di Dio nella stessa Scrittura. Essa, invero, diventa «interprete di se stessa» soltanto a partire dall'Evangelo, nel quale Dio per l'appunto si rivela sub contraria specie (p. 232, e n. 52). Insomma, come viene ridetto sinteticamente nell'altro libro:
Perfino nella Bibbia, dunque, Dio non è visibile prima facie, a prima vista, perché proprio lì - in maniera eccellente nella storia di Gesù di Nazareth — la sua rivelazione si offre nella contraddizione: [... ] la gloria non va predicata se prima non si è predicata la croce4.

In conclusione, se il fondamento della autorità risiede soltanto nella Parola di
Dio, quel fondamento allora si erge nella sua irriducibile alterità di fronte all'uomo e a tutte le istituzioni umane. Del Verbo divino, comunicato sovranamente per sola gratia, neppure la Chiesa può di per sé disporre. Nel 1530 Lutero scrive che la Parola è «di Dio», non «della Chiesa»: «Verbum est verbum Dei originaliter et autoritative, non Ecclesiae nisi passive et ministerialiter (p. 211)».

2. Consensus ecclesiae
Ed ecco, di conseguenza, l'accusa centrale che Enrico rivolge a Lutero. Contrapponendo la Scrittura alla autorità ecclesiastica egli ha infranto l'unità e totalità di un consensus ecclesiae che è universale, simultaneamente tradizionale e attuale:
contro di lui stanno le affermazioni dei santi padri, il canone della messa, totam denique totius ecclesiae consuetudinem, tot saeculorum usu, tot populorum consensu corroboratam (p. 243, A. 147).

Corroborato dalla lunga durata (tot saeculorum) il consensus ecclesiae non dipende però dalla storia: esso è opera dello Spirito Santo che governa la Chiesa e ad essa soltanto conferisce l'autorità di definire la fede e di interpretare le Sacre Scritture. Si può dire pertanto che
la corretta formulazione della verità, così come la vera [...] interpretazione delle Scritture è possibile solo all'interno della comunità spirituale; la chiesa nella quale si definisce il consensus è la sola nella quale lo Spirito si manifesta (p. 245).

E poiché la manifestazione dello Spirito è incessante e sempre attuale, il consensus determina e ratifica anche le innovazioni dottrinali che non traggono origine dalla Scrittura. A proposito della dottrina della transustanziazione, che Lutero ha demolito nel De captivitate, la Assertio dichiara:
La chiesa ha decretato che la transustanziazione è vera, anche se lo ha fatto ora per la prima volta. Gli antichi non credettero il contrario, anche se nessuno mai prima ha posto mente a questo tema. Perché Lutero non dovrebbe obbedire alla decisione attuale di tutta la chiesa [ecclesiae totius presenti decreto], convincendosi che ora finalmente è stato rivelato alla chiesa ciò che prima era rimasto nascosto? (A. 143).

E Nitti commenta:
L'attualità della formulazione dottrinaria è dunque sinonimo di verità [...]: «La vera fede è quella che la chiesa sostiene adesso [nunc tenet]» (A. 146), cioè: la verità che adesso la chiesa ha compreso, conserva, proclama. Un adesso che è sempre in fieri: l'attualità è la cifra del consensus, in essa è possibile l'aggiornamento di ogni dottrina [...] (p. 249).

In conclusione:
Questo potere non ha dunque di fronte a sé una sponda contro la quale urtare per giudicare se stesso, ma al contrario si esercita esso sul complesso deposito della fede; non può essere mai fissato in un momento storico, ma al contrario è connotato dalla sua prerogativa di evolversi nel tempo (pp. 250-51).


3. Il sacramento dell'altare.
La potestas sacra della Chiesa si esplica ed organizza nella dottrina e nella prassi dei sacramenti. Su questo terreno, sommamente concreto, si misurano e scontrano i due principi di autorità: da una parte, nel De captivitate di Lutero, la sovranità della Parola di Dio; dall'altra, nella Assertio di Enrico VIII, il consenso "pneumatologico", che legittima (come abbiamo visto nel caso della transustanziazione) tutti gli sviluppi e le innovazioni del sistema sacramentale.
Attenendosi alla sola Scriptura Lutero ha invalidato cinque dei "sette sacramenti", conservando soltanto i due che sono indiscutibilmente attestati dal Nuovo Testamento: il battesimo e l'eucarestia (o meglio, la Cena del Signore). E riguardo a quest'ultima — che è la colonna portante dell'intero edificio — il riformatore argomenta che la Messa non può in alcun modo essere intesa come un sacrificio che, nell'operazione del sacerdote, ripete quello del Cristo.
Proprio questo, invece - pretendere che nella messa si compia un sacrificio — Lutero lo aveva bollato come "il più empio degli abusi", anzi quello da cui derivano tutti gli altri5 (p. 304).

Al contrario, scrive Lutero,
per giungere in modo sicuro e felice al vera e libera conoscenza di questo sacramento [...] noi dobbiamo volgere i nostri occhi e il nostro animo soltanto alla pura istituzione di Cristo e non dobbiamo avere davanti a noi altro che la parola, con cui Egli ha istituito e compiuto il suo sacramento, affidandocela. In quella parola e in nessun'altra è riposta la forza, la natura l'intera sostanza della messa6.

Ora, in base alle parole del Cristo (ne racconto dei sinottici e di I Corinzi, 11 «la sostanza del sacramento è il testamento». Per ben comprendere questa dichiarazione occorre precisare che cos'è un testamento e quali sono le condizioni che si richiedono perché il testamento abbia effetto. Il testamento è
niente altro che la promessa di un lascito fatta da chi sa di dover morire, che entra in vigore dopo la morte del testatore. [...] Le parole dell'istituzione chiariscono che il lascito è il perdono, gli eredi sono i peccatori, il testatore è Dio stesso (p. 306).

Quanto alle condizioni,
la sola necessaria è che il testamento venga accettato e la promessa creduta vera: ad essa ci si accosta senza opere, senza forze, senza meriti, ma con la sola fede. Dove c'è la parola di Dio che promette, lì è necessaria la fede dell'uomo che accetta (C 514,12).

La Messa, dunque, è la riproposizione della promessa nell'Ultima Cena. Questa promessa si iscrive nella lunga storia biblica dei "patti" e la porta a compimeno (p. 309). Ad essa non rispondono le opere rituali ma soltanto la fede.
Solo della fede, dunque, c'è bisogno nella messa, perché la sua identificazione col testamento rende la messa il luogo e il momento in cui la promessa deve essere accettata. Resta ovviamente esclusa qualunque possibilità di accedervi attraverso le opere, tanto più attraverso un sacrificio: un sacrificio si offre, una promessa si riceve (pp. 3 10-11).

Che ne è, allora, del sacramento tradizionalmente inteso? Secondo Lutero, esso ha la funzione di "segno".
La gerarchia è dunque: prima (e unica cosa necessaria) la Parola, cioè il testamento; solo dopo, e accessorio, il segno, cioè il sacramento. La "forza" sta nel testamento, non nel segno. [...] Ma le opere del rito, le preghiere, restano tutt'altra cosa dalla celebrazione del sacramento, nel quale nulla viene offerto ma tutto viene ricevuto (pp. 313-314).

Il raffronto tra i due avversari è a questo punto agevole. Infatti «Enrico inaugura la sua contestazione [...] affermando un punto essenziale: la messa è un'opera buona, ed è un sacrificio» (p. 317). L'opera, ovviamente è quella del sacerdote, il quale «fa quello che Cristo fece allora. Infatti offre a Dio lo stesso corpo che offrì Cristo» (A 153).
In sintesi: per Lutero «l'eucarestia resta testamento, pegno appunto dell'opera di salvezza». Nella Assertio invece «l'attualizzazione del sacrificio sostituisce l'azione dell'evangelo predicato, e ne risulta un'oggettivazione dell'opera di Dio, una certa sua 'governabilità', affidata alla chiesa nella persona del sacerdote» (p. 324).

4. Proiezioni
Per un'altra «strana combinazione della storia», dopo alcuni anni di eclissi la Assertio fu ristampata a Roma nel 1543, quando il re scismatico era ancora sul trono. È improbabile che quel testo abbia esercitato qualche influenza sui lavori del Concilio di Trento, che ebbe inizio nel 1545. E tuttavia il procedimento della Assertio, che fonda l'autorità sul consensus ecclesiae, «aprì la strada alle applicazioni del Concilio di Trento e poi a tutti gli sviluppi che si produssero in tema di autorità nella chiesa» (p. 255).
Ma la lettura di Auctoritas suscita anche altre domande. Mi limito ad evocarne un paio.

1. Innanzi tutto, viene da pensare che lo stesso concetto di autorità formulato dalla Assertio si prestasse senza troppe difficoltà ad una inusitata translatio: dalla cattolicità della chiesa romana alla compagine di un "Regno ecclesiastico", nel quale il sovrano — che l'Atto di Supremazia ha posto a capo della chiesa nazionale — governa con il consenso di un Parlamento dove siedono (nella Camera alta) anche i vescovi.
È vero che Elisabetta I attenuerà il titolo di "capo" in quello più modesto di "governatore". Ma non è anche evidente che nella vicenda regale di Enrico VIII si delinea una svolta epocale? Una svolta che, nel secolo seguente, si concluderà - sul piano delle idee — negli asserti di Thomas Hobbes:
In ogni Stato cristiano l'interpretazione [delle Scritture] dipende e deriva dall'autorità di quella persona o di quella assemblea che detiene il potere sovrano».
La Chiesa e lo Stato sono una cosa sola (De cive, c. XVII, 27 e 28).


2. Con inoppugnabili basi testuali Silvana Nitti dimostra che, in Lutero, la sovranità della Parola e la trascendente "esternità" della Grazia divina aprono la via al sacerdozio universale dei credenti ed alla "libertà del cristiano" di fronte a tutte le autorità umane.
Ma in quali forme di dottrina e di condotta si sono poi tradotti quei principi, nei rapporti tra le chiese e lo Stato e negli assetti e conflitti della vita pubblica?
In effetti, l'ascesa assolutistica dei moderni Principi fu chiaramente percepita e sovente osteggiata non già dagli eredi di Martin Lutero bensì dagli eredi di Giovanni Calvino. E le denunzie e le lotte "contra tyrannos" dei monarcomachi ugonotti e dei loro correligionari scozzesi e neerlandesi furono infine innalzate al rango di teoria politica da un calvinista tedesco, Johannes Althusius7.
Come si spiega questa frattura nella storia del protestantesimo? Se essa non è riducibile alla contingenza delle situazioni e degli eventi, quali sono allora le divergenze e gli snodi di ordine "teologico-politico"?
E tuttavia, nell'Europa del Cinquecento e del Seicento gli schieramenti non sono mai del tutto lineari. Nei sommovimenti rivoluzionari dell'Inghilterra il filosofo di Cambridge Henry More (collega e amico del giovane Isaac Newton) restò fedele alla Chiesa anglicana. Ma negli anni della Restaurazione pubblicò un trattato sull'Anticristo8, in cui la completa libertà dello Spirito divino si contrappone ad «ogni pretesa di monopolio» del «power of Prophesying» (che dalla profezia si estende alla interpretazione ed alla retta predicazione delle Scritture). È dunque palesemente anticristiano «qualsiasi Potentato» che vuole assegnare a se stesso ciò che appartiene soltanto allo Spirito. La Modest Inquiry non fa menzione degli scritti di Thomas Hobbes. Ma è evidente che, per Henry More, l'Anticristo si manifesta nelle forme di un Ecclesiastic Kingdom. E questo può esser una Chiesa che si fa Regno (come avviene nel papato romano) ma può anche essere un Regno che si fa Chiesa.

Dopo questa breve digressione vorrei infine aggiungere che in Auctoritas la storia ridiventa ancora una volta "contemporanea" - come soleva dire, nel secolo scorso, un illustre concittadino di Silvana Nitti.



NOTE
1 S. Nitti, Auctoritas. L'Assertio di Enrico VIII contro Lutero, Roma, Edizioni di storia letteratura, Studi e testi del Rinascimento europeo, 2005. L'indicazione delle pagine del libro viene data direttamente nel testo. Le citazioni tratte dalla Assertio di Enrico VIII sono contrassegnate dalla lettera A., quelle tratte dal De captivitate babylonica ecclesiae, dalla lettera C. Top
2 S. Nitti, Abituarsi alla libertà. Lutero alla Wartburg, Torino, Claudiana, 2008. Top
3 R.H. Bainton, La riforma protestante, Torino, Eínaudi, 1980, p. 178.r Top
4 Abituarsi alla libertà, op. cit., p. 87. Top
5 De captivitate, 512,7: «Est longe impiissimus ille abusus, quo factum est, ut fere nihil sit hodie in Ecclesia receptus ac magis persuasum, quam Missam esse opus bonum et sacrificium. Qui abusus, deinde inundavit infinitos alios abusus etc.», in Lutero, La cattività babilonese della chiesa, [testo latino e traduzione italiana] a cura di Fulvio Ferrario e Giacomo Quartino, Torino, Claudiana, 2006, p. 122. Top
6 De captivitate, op.cit., p. 125. Top
7 J. Althusius U.J.D., La politica, 2 voll., a cura di Corrado Malandrino, Torino, Claudiana, 2009. In questa recente pubblicazione frutto di ingente lavoro, la prima traduzione integrale in lingua italiana si affianca al testo latino della Politica methodice digesta nella edizione del 1614. Top
8 A Modest Inquiry into the Mistery of Iniquity, London, 1664. Top
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