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Un dibattito sull’identità nazionale. Società multietniche e integrazione all’alba del Terzo Millennio
di Eugenio Di Rienzo
Nell’ottobre dello scorso anno, Eric Besson, titolare del nuovo dicastero dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale, creato nel 2007, ha lanciato un «grande dibattito» sul significato dell’«essere francese oggi», destinato a coinvolgere politici, amministratori, intellettuali, ma anche comuni cittadini chiamati a interrogarsi su questo tema con un questionario diffuso nella rete (www.debatidentitenationale.fr) e attraverso incontri periodici organizzati dai prefetti nei 96 dipartimenti e nei 342 arrondissements della Francia. Secondo Besson se parlare oggi di «Nazione» è divenuto politicamente scorretto, se molti preferiscono a questo termine forte la più neutra nozione di «appartenenza civica», se altri hanno contestato l’accostamento dei vocaboli emigrazione e identità nazionale considerandolo provocatorio e pericoloso, occorre invece ribadire che «la Nation fut aussi synonyme, dans notre histoire, d’émancipation, de liberté, de démocratie, de citoyenneté, et de République» e che oggi essa rappresenta un valore imprescindibile di fronte alle sfide poste dalla deriva dei nuovi integralismi, dallo sviluppo delle nuove forme di comunitarismo e di regionalismo, dalla costruzione progressiva dell’identità europea, dalla mondializzazione dell’economia1. Parole queste che in buona parte rimandano al progetto di revisione culturale realizzato da Nicolas Sarkozy, che, sebbene violentemente criticato dal gruppo di storici riunito nel Comité de vigilance face aux usages publics de l’histoire2, è stato in grado di ricomporre nel solido involucro del neo-gollismo, anche a costo di una spregiudicata e forse spericolata manovra egemonica, l’eredità delle diverse famiglie politiche e delle diverse tradizioni culturali francesi. Da Napoleone III a Jules Ferry, a Maurice Barrès, a Georges Clemenceau, a Léon Blum, a de Gaulle ovviamente, a Jean Moulin. Dall’eredità capetingia e carolingia, all’illuminismo, alla Rivoluzione francese, al Primo e al Secondo Impero, alla Terza Repubblica. Dall’orgogliosa rivendicazione del passato coloniale e della missione civilizzatrice della Grande Nation nei suoi dominions d’oltremare3 fino alla resistenza contro il nazismo.
Accolta con molto scetticismo dai circoli intellettuali di sinistra che hanno definito l’intera operazione di Besson una sorta di non sense, con un atteggiamento qualificato da André Gluksmann «un assez triste attitude intellectuelle» che preferisce condannarsi al silenzio invece di tentare di cauterizzare le piaghe della xenofobia, il grand débat ha registrato immediatamente un forte tasso di opposizione. Un irriducibile figlio del ’68, come Daniel Cohn-Bendit, lo ha definito un’inutile mossa propagandistica voluta dal governo Sarkozy per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica da ben più gravi problemi. Mona Ozouf, regina incontrastata della storiografia francese, ne ha stigmatizzato il carattere d’iniziativa verticistica che rivelava «un manque de confiance dans l’expression démocratique spontanée», rimandando, per una risposta in merito al quesito posto da Besson, al suo recente volume Composition française, dove si parla di «un’altra Francia» non più «nazionale» e «universale», ma regionale, locale, fiera dei suoi particolarismi, impegnata nella difficile lotta per difendere il suo diritto ad esistere. Una «Francia diversa» che con la sua stessa esistenza mette in evidenza la stridente contraddizione tra due concetti di unità nazionale: uno basato appunto sulla «composizione» delle differenze, sui diritti-doveri delle minoranze, sulla concorrenza tra le molteplici appartenenze che caratterizzano l’uomo moderno, l’altro semplicemente fondato sulla subordinazione ad un’autorità centrale4. Bernard-Henry Lévy, infine, con maggiore intransigenza, ha dichiarato che l’iniziativa del nuovo ministero costituiva un vero e proprio attentato al processo d’integrazione europea, concludendo che:
Ou bien on fait taire Monsieur Besson, ou bien on enterre définitivement l’Europe. Ou bien on consent à la diversion nationaliste, ou bien on renonce au beau projet de cet objet politique de type nouveau, de cette chimère institutionnelle et idéologique, qu’était la construction européenne. On ne peut pas, en tout cas, faire les deux: lancer, d’un côté, l’inutile débat sur une identité dont chacun sait qu’elle ne se porte pas plus mal aujourd’hui qu’il y a dix, vingt ou trente ans et alimenter, relancer, faire avancer, l’autre débat qui, lui, pour le coup, est vital et qui porte sur une Europe qui sait de moins en moins ce qu’elle est, ce qu’elle veut et ce qui lui est permis d’espérer.

La polemica di Bernard-Henry Lévy, nuovamente ripresa e poi filtrata anche in alcuni organi di stampa italiani, si concludeva in un appello indirizzato a Sarkozy, individuato come il vero primum movens dell’intera operazione, a porre fine con un atto di autorità al débat5, che ha intanto suscitato più di qualche perplessità e di qualche semplice malumore anche tra i sostenitori dell’attuale compagine governativa. All’interno di essa tre ex primi ministri della destra (Alain Juppé, Jean-Pierre Raffarin, Domenique de Villepin) hanno infatti espresso le loro riserve sull’iniziativa, seguiti dai presidenti dei gruppi parlamentari dell’Ump, Gérard Longuet e Jean-François Copé6, tanto da suscitare una precipitosa contro-marcia dello stesso Besson che nel discorso tenuto a La Courneuve, il 5 gennaio 2010, ha affermato:
La France n’est ni un peuple, ni une langue, ni un territoire, ni une religion. C’est un conglomérat de peuples qui veulent vivre ensemble. Il n’y a pas de Français de souche, il n’y a qu’une France de métissage7.

A questo clamoroso voltafaccia, che ha fatto concludere a un intellettuale della «nuova destra», come Alain de Benoist, che in questo caso la Francia rischiava veramente di identificarsi «in un luogo di passaggio, in una società anonima, in un supermercato», in un «altro Brasile» provvisto però di minori potenzialità economiche e demografiche8, non è stato certo estraneo il tentativo del Front National di monopolizzare la discussione promossa dal ministro dell’immigrazione che un vero e proprio bombardamento mediatico aveva intanto definito una «Waterloo», un «enterrement de première classe», une «capitulation en rase campagne», une «défaite politique et idéologique majeure». Ma su quello scomposto dietrofront ha pesato anche la vigorosa reazione della gauche radicale che ha dato vita a diversi tentativi di contro-dibattito sull’identità nazionale (organizzati nei siti Rue89, Respectmag, Ligue des droits de l’homme de Toulon, Africultures, e dal collettivo d’intellettuali Pour un véritable débat) in buona parte ispiratisi ai contenuti dell’opuscolo, À quoi sert l’identité nationale, redatto da Gérard Noiriel, autore di importanti lavori sui temi della storia dell’immigrazione, della mancata integrazione e delle vecchie e nuove tendenze xenofobe in Francia9.
Nel suo instant book del 2008, Noiriel ricordava che proprio il termine «identité française» venne usato nel 1980 da Jacques Le Pen come cavallo di battaglia della sua offensiva razzista contro gli emigrati, per poi passare ad analizzare le diverse fasi dello scontro elettorale tra Sarkozy e Ségolène Royal. Durante quell’acceso dibattito si sono fronteggiati, secondo Noiriel, due diversi tipi di «nazionalismi» già entrati in rotta di collisione alla fine del XIX secolo. Il primo che si rifaceva a quello di Maurice Barrès, concentrato sul culto cimiteriale della «terre des morts», sul revanchismo anti-tedesco e sulla diffidenza verso lo straniero, destinato a costituire una versione conservatrice dell’idea nazionale che la destra repubblicana manterrà in vita fino alla seconda guerra mondiale. Il secondo che trovava le sue radici nel «patriotisme» di Jean Jaurès e che, pur opponendosi alle tendenze anti-nazionali dell’estrema sinistra, si muoveva «sur le terrain privilégié par la gauche, à savoir le terrain social»10.
Nonostante questo fuoco di fila il referendum Besson, seppur ripudiato dal suo stesso promotore, ha però preso quota registrando un numero elevato di importanti adesioni. L’ex ministro dell’Educazione nazionale Luc Ferry ha affermato che il dibattito trovava la sua più ampia giustificazione non solo nel peso crescente dell’immigrazione ma soprattutto nella decomposizione dei valori di riferimento tradizionali che si è registrato nell’ultimo squarcio del XX secolo. Uno dei più apprezzati direttori del quotidiano «Le Monde», André Fontaine, ha sostenuto che il criterio identitario, ormai inconciliabile con la vecchia idea di grandeur, deve trasformarsi nella nozione di «radicamento» e cioè nello sforzo di fornire a tutti i francesi, al di là delle loro differenze etniche e sociali, qualcosa da condividere e soprattutto «quelque chose à aimer». Mohamed Moussaoui, presidente del Consiglio di culto mussulmano, ha ribadito con forza la necessità di trovare un equilibrio tra la libertà degli islamici residenti in Francia di praticare la loro religione e la «visibilité ostentatoire» di questa pratica, concordando con l’affermazione di Sarkozy che «si la civilisation chrétienne a laissé une trace très profonde en France, les musulmans doivent en tenir compte». L’economista Jacques Attali ha ricordato che neppure il «nomadisme croissant des Français comme des étrangers», la cancellazione delle frontiere politiche in Europa e di quelle economiche al di là del nostro continente, potranno mai distruggere la sola cosa che definirà per sempre l’identità di una nazione: la sua lingua, la sua cultura, il suo particolare approccio alla realtà.
Più deciso l’intervento del saggista Max Gallo che ha stigmatizzato la responsabilità delle élites culturali che, da circa 40 anni, hanno abbandonato il discorso sull’identità nazionale nelle mani delle forze neo-fasciste, rinunciando così a porre in termini credibili la questione dell’integrazione dei non francesi. Perentorio, poi, quello dello scrittore Dominique Venner che si è domandato «pourquoi le désir d’identité serait légitime chez les Noirs américains, les Chinois, les Arabes, les Israéliens, les Ouigours, les Turcs ou les Maliens, mais condamnable chez les Français et les Européens?». Più moderata nella forma ma non più debole nei contenuti, la risposta di Jacques Delors, presidente della Commissione europea dal 1985 al 1994, nella quale si rammentava che «la France, c’est plus qu’une géographie, plus qu’une histoire, c’est un ordre humain, un idéal auquel on adhère, un vouloir vivre ensemble».
Al di là della diversità dei toni, tutte queste testimonianze delineano un modo molto diverso di concepire l’identità francese da quello illustrato dal generale de Gaulle nei suoi Mémoires de guerre, dove si riesumava l’antico mito fondatore della «France éternelle» con queste parole:
Toute ma vie, je me suis fait une certaine idée de la France... Le sentiment me l’inspire aussi bien que la raison. Ce qu’il y a en moi d’affectif imagine naturellement la France telle la princesse des contes ou la Madone aux fresques des murs, comme vouée à une destinée imminente et exceptionnelle. J’ai d’instinct l’impression que la Providence l’a créée pour des succès achevés ou des malheurs exemplaires. S’il advient que la médiocrité marque, pourtant, ses faits et gestes, j’en éprouve la sensation d’une absurde anomalie, imputable aux fautes des Français, non au génie de la patrie. Mais aussi le côté positif de mon esprit me convainc que la France n’est réellement elle-même qu’au premier rang; que, seules, de vastes entreprises sont susceptibles de compenser les ferments de dispersion que son peuple porte en lui-même; que notre pays, tel qu’il est, parmi les autres, tels qu’ils sont, doit, sous peine de danger mortel, viser haut et se tenir droit. Bref, à mon sens, la France ne peut être la France sans la grandeur11.

Il riferimento generale dell’intero dibattito ha trovato il suo punto di forza in altre testimonianze, piuttosto che nelle parole dell’«homme du destin». In quelle di Fernand Braudel e Claude Nicolet che nei loro lavori del 1986 e del 2000 hanno sostenuto che il concetto di Nazione francese poteva avere un senso compiuto solo riconoscendosi «dans le résultat vivant de ce que l’interminable passé a déposé patiemment par couches successives, en somme, dans un amalgame, dans des additions et des mélanges, dans un processus, dans un combat contre soi-même, destiné à se perpétuer» e quindi unicamente a patto di trasformarsi in «une création continue qui n’a rien de figé ni d’intangible, qui réclame des citoyens qu’elle crée adhésion, dévouement, parfois obéissance, et même amour, mais qui ne veut l’incantation, ni l’aveuglement, ni le conformisme, ni même l’altruisme naïf»12. In quella di Simon Weill, principalmente, che, nel suo L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain del 1949, aveva concluso:
Comme il y a des milieux de culture pour certains animaux microscopiques, des terrains indispensables pour certaines plantes, de même il y a une certaine partie de l’âme en chacun et certaines manières de penser et d’agir circulant des uns aux autres qui ne peuvent exister que dans le milieu national et qui disparaissent quand le pays est détruit13.

Infine, soprattutto nella tesi espressa da Ernest Renan che, nella famosa lezione tenuta alla Sorbona l’11 marzo del 1882, pronunciata proprio quando si levava più impetuoso nell’Esagono il vento dello sciovinismo dovuto alla piaga ancora sanguinante della sconfitta di Sedan, replicava alla domanda «Qu’est-ce qu’une Nation?», sostenendo che essa non poteva basarsi soltanto sullo jus sanguinis e sullo jus soli, sulla comunanza di lingua, di costumi, di tradizioni, di credo religioso, di istituti giuridici e politici. La Nazione, sosteneva Renan, era piuttosto un principio morale destinato a rinnovarsi continuamente e a essere continuamente confermato dal «plébiscite de tous les jours» che ogni cittadino doveva esprimere a favore della volontà chiaramente manifestata di cementare la grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme.
Nous venons de voir ce qui ne suffit pas à créer un tel principe spirituel: la race, la langue, les intérêts, l’affinité religieuse, la géographie, les nécessités militaires. Que faut-il donc en plus? Une nation est une âme, un principe spirituel. Deux choses qui, à vrai dire, n’en font qu’une, constituent cette âme, ce principe spirituel. L’une est dans le passé, l’autre dans le présent. L’une est la possession en commun d’un riche legs de souvenirs; l’autre est le consentement actuel, le désir de vivre ensemble, la volonté de continuer à faire valoir l’héritage qu’on a reçu indivis. L’homme, Messieurs, ne s’improvise pas. La nation, comme l’individu, est l’aboutissant d’un long passé d’efforts, de sacrifices et de dévouements. Le culte des ancêtres est de tous le plus légitime; les ancêtres nous ont faits ce que nous sommes. Un passé héroïque, des grands hommes, de la gloire (j’entends de la véritable), voilà le capital social sur lequel on assied une idée nationale. Avoir des gloires communes dans la passé, une volonté commune dans le présent, avoir fait de grandes choses ensemble, vouloir en faire encore, voilà les conditions essentielles pour être un peuple. On aime en proportion des sacrifices qu’on a consentis, des maux qu’on a soufferts. On aime la maison qu’on a bâtie et qu’on transmet. Le chant spartiate: “Nous sommes ce que vous fûtes; nous serons ce que vous êtes” est dans sa simplicité l’hymne abrégé de toute patrie. Dans le passé, un héritage de gloire et de regrets à partager, dans l’avenir un même programme à réaliser; avoir souffert, joui, espéré ensemble, voilà ce qui vaut mieux que des douanes communes et des frontières conformes aux idées stratégiques; voilà ce que l’on comprend malgré les diversités de race et de langue. Je disais tout à l’heure: “avoir souffert ensemble”; oui, la souffrance en commun unit plus que la joie. En fait de souvenirs nationaux, les deuils valent mieux que les triomphes, car ils imposent des devoirs, ils commandent l’effort en commun14.

Quella di Renan è una risposta valida anche oggi, in Francia come in Italia. Ad essa sembra riferirsi il presidente Giorgio Napolitano nella recente raccolta dei discorsi tenuti nella prima metà del suo mandato, parlando di un «patriottismo costituzionale» che si traduce in un concorso di volontà più forte di tutte le ragioni di divisione e che costituisce la frontiera della nuova cittadinanza15. Resta però da aggiungere che l’acquisizione di quella cittadinanza anche per i non nativi può passare solo per la lunga strada che porta all’adesione sincera e consapevole non solo a quella «costituzione formale» che regola i diritti e i doveri dei componenti di una comunità territoriale, ma anche a quella «costituzione materiale» fatta di usi e costumi secolari, di sensibilità, di conquiste individuali e sociali che vanno rigorosamente rispettate nella quotidianità anche più banale.
In questo senso, parlare di una «cittadinanza breve» da conferire tutta e subito ai tanti «dannati della terra» che valicano i nostri confini è invece solo la testimonianza di una filosofia delle buone intenzioni (che, come è noto, lastricano la strada dell’inferno) presente trasversalmente nello schieramento politico italiano dalla sinistra antagonista al Pd, al cosiddetto «finismo»16. Ritenere poi, come ha fatto Roberto Saviano, dopo i fatti di Rosarno del gennaio 2010, che il ricorso alla violenza possa fornire un legittimo titolo di italianità è un’affermazione semplicemente irresponsabile, dannosa per tutti e non utile per nessuno17. Il droit de cité si conquista anche con l’uso della forza, posta al servizio della propria patria d’adozione, come accade negli Usa per le minoranze asiatiche, centro e sud-americane impegnate in Irak e in Agfagnistan nella war on terror, ma non la si ottiene certo scatenando un’insurrezione etnica che ha preso di mira indiscriminatamente la popolazione della piccola cittadina calabrese e che mi pare possa essere difficilmente considerata una sorta di «guerra giusta» contro la criminalità organizzata.
Una nazione appartiene, infatti, senza esclusione, «à qui l’aime», ha detto Nicolas Sarkozy, in un intervento dedicato al problema migratorio del dicembre 2006, aggiungendo tuttavia che: «celui qui entre clandestiment en France, celui qui ne fait aucun effort pour s’intégrer, celui-là ne doit pas s’attendre à se voir reconnaître les mêmes droits qu’un Français». Il problema capitale della Francia, continuava Sarkozy in quello stesso discorso, non sta nel supposto indebolimento della sua antica tradizione di accoglienza ma risiede invece attualmente nel fatto «qu’à force, pendant longtemps, de ne rien exiger de personne même pas le respect de ses valeurs et de ses lois, la nation française a nourri l’une des plus graves crises d’identité de son histoire»18. Una posizione questa che si è accompagnata alla decisa «moral suasion» utilizzata dall’inquilino dell’Eliseo nei confronti della commissione parlamentare che si è dichiarata, alla fine di gennaio dell’anno un corso, favorevole ad un possibile intervento legislativo per la proibizione totale e assoluta del «velo integrale» (burqa) negli spazi pubblici, considerato una grave offesa ai valori repubblicani, alla dignità e alla libertà della donna, agli stessi principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Si tratta di conclusioni che, quantunque fortemente osteggiate da una parte dell’opinione pubblica francese e internazionale19, appaiono per molti versi condivisibili nella sostanza, a patto naturalmente di tener ben presente che quell’«amore», di cui è tornato a parlare Sarkozy nel discorso di Vercors del 12 novembre 2009, affermando che «la France demande à ceux qui veulent lier leur sort au sien de prendre aussi son histoire et sa culture en partage», non può crescere spontaneamente ma deve essere alimentato da una vigorosa strategia di inserimento dei non autoctoni in grado di passare dalla politica dei buoni sentimenti a quella dei fatti. Resta il fatto tuttavia che lo sforzo di «maîtriser l’immigration», posto all’ordine del giorno da Sarkozy, costituisce una delle più grandi sfide del nuovo millennio e il capitolo privilegiato dell’agenda di ogni leader europeo veramente degno di questo titolo.
Come ha sostenuto Christopher Caldwell, uno dei più autorevoli editorialisti del «Financial Times»20, in quest’ultimo decennio il Vecchio Continente è divenuto non soltanto una società «multietnica» quanto piuttosto società «multiculturale», senza alcuna programmazione, senza alcun progetto, senza una guida politica. Una società nella quale, in alcuni dei suoi Stati, gli immigrati sono più del 10% della popolazione complessiva e dove, su 375 milioni di europei, ben 40 milioni vivono fuori dal loro paese d’origine, mentre la maggior parte dei nuovi venuti hanno culture e tradizioni difficilmente assimilabili alle nostre e fortemente resistenti ad ogni politica d’integrazione. Cosa succederà allora degli «indigeni» francesi, italiani, tedeschi, con il loro basso tasso di natalità e con il loro inarrestabile invecchiamento demografico? E in particolare, quale potrà essere il loro rapporto con una minoranza di 20 milioni di persone, fortemente coesa, come quella musulmana21, infiltrata dalla propaganda di un aggressivo fondamentalismo religioso che si è diffuso dai suoi tradizionali santuari all’intero pianeta sull’onda lunga della globalizzazione22, se non si tiene bene ferma l’identità di un’Europa che per sopravvivere deve in primo luogo continuare ad essere un’«Europa delle Nazioni»? Sono gli stessi interrogativi posti sul tappeto da Giovanni Sartori sulle pagine del «Corriere della Sera». In un’editoriale, che purtroppo peccava di un fastidioso pressapochismo storiografico23, Sartori dopo aver ricordato come «xenofobia» e «xenofilia» possono essere alla fine le due facce dello stesso problema ambedue rivelatrici di una grave lacuna di razionalità politica, concludeva che «essendo l’Islam un invasivo monoteismo teocratico, che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù infiammando, illudersi di integrarlo “italianizzandolo” è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare»24.
Di fronte a questa inquietante prospettiva, un grande intellettuale francese, come Tzvetan Todorov, ci ammonisce, in controtendenza alla previsione di un imminente e inarrestabile Clash of Civilizations profetizzata da Samuel Huntington nel 199325, a rifiutare la «paura del diverso», a non identificare con una viziosa analogia storica l’odierna, massiccia ondata migratoria alla calata di nuovi barbari, assumendo come punto di riferimento mentale l’apocalittico ricordo della caduta dell’Impero romano26. Eppure, nella sua generosa esortazione, Todorov, dimentica di ricordare che la fine di quell’organizzazione politica non fu soltanto dovuta all’invasione dei barbari esterni. Quel Decline and Fall, per dirla con Gibbon, fu anche determinato, secondo la lettura fattane da Michail Rostovzev nel 1926, dallo sfruttamento selvaggio e poi dall’altrettanto selvaggio ammutinamento, soprattutto nei grandi latifondi asiatici e africani, delle masse contadine e del proletariato urbano (i cosiddetti barbari interni) e cioè di quella forza-lavoro semi-servile che, insediata all’interno del limes imperiale senza però condividerne i più elementari punti di riferimento culturali, sconvolse e poi distrusse, con una serie di rivolte contro l’aristocrazia e la borghesia cittadina, spesso supportate da elementi militari, le strutture politiche, istituzionali, economiche del mondo antico27.



NOTE
1 Tutte le citazioni, prive di altro riferimento, compaiono sul sito www.debatidentitenationale.fr Top
2 L. De Cock, F. Madeleine, N. Offenstadt, S. Wahnich, Comment Nicolas Sarkozy écrit l’histoire de France, Marseille, Agone, 2008.Top
3 Su questo aspetto del passato francese, che, a partire dal 2005, ha scatenato una vera e propria «guerre des mémoires», si veda l’ampia sintesi di M. Platania, Un passato che non passa. La “question colonial” e la storiografia francese (secc. XVIII-XXI), in «Contemporanea», 2 (2009), pp. 227 ss.Top
4 M. Ozouf, Composition française. Retour sur une enfance bretonne, Paris, Gallimard, 2009.Top
5 B.-H. Lévy, La Francia e l’identità nazionale. Un dibattito che Sarkozy deve chiudere, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 2010. Si veda anche Y.Ch. Zarka, Pour en finir avec la piège de l’identité nationale, in «Le Monde», 11 dicembre 2009. I temi di questa contestazione all’iniziativa di Besson sono stati ripresi, nel nostro paese, nell’articolo di M. Valensise, La bagarre de l’identité. Così la Francia di Sarkozy discute e si accapiglia per capire come si può essere e diventare francesi, in «Il Foglio», 30 dicembre 2009.Top
6 Sull’identità nazionale Sarkozy passa la palla a Fillon (per ora), ivi, 5 dicembre 2009.Top
7 P. Bernard, De la diversité à l'identité, le virage de Nicolas Sarkozy, in «Le Monde», 21 Janvier 2010.Top
8 Si veda A. De Benoist, Francia, sotto la bandiera niente, in «il Giornale», 16 febbraio 2010 e il mio commento pubblicato sulla stessa pagina, Se capissimo che l’Italia non è soltanto arte e moda…Top
9 G. Noiriel, Le Creuset français. Histoire de l’immigration au XIXe et XXe siècles, Paris, Seuil, 1988; Id., La Tyrannie du National. Le droit d’asile en Europe, 1793-1993, Paris, Calmann Lévy, 1991, Id., Immigration, antisemitisme, racisme en France (XIXe-XXe siècle). Discours publics, humiliations privées, Paris, Fayard, 2007.Top
10 Id., À quoi sert l’identité nationale?, Marseille, Agone, 2008, in particolare pp. 38 ss. Top
11 Ch. De Gaulle, Mémoires de guerre. L’appel: 1940-1942, Paris, Plon, 1954, I, p. 1.Top
12 Si veda rispettivamente, F. Braudel, L’identité de la France. Espace et Historie, Paris, Arthaud-Flammarion, 1986, p. 121 e C. Nicolet, Histoire, Nation, République, Paris, Odile Jacob, 2000, p. 139.Top
13 S. Weill, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Paris, Gallimard, 1949, p. 252.Top
14 E. Renan, Qu’est-ce qu’une Nation? Conférence faite en Sorbonne, le 11 mars 1882, Paris, Calmann Lévy, 1882, p. 15.Top
15 G. Napolitano, Il patto che ci lega. Per una coscienza repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2009. Sul concetto, pure non esente di ambiguità di «patriottismo costituzionale», si veda M. Virole, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari, Laterza, 2001. Si veda anche, G.E. Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Roma-Bari, Laterza, 1991. Top
16 L’avvento di questa nuova categoria politica è stata annunciata con enfasi da Alessandro Campi sull’ultimo numero della rivista «Charta Minuta», organo della Fondazione Farefuturo. Le tendenze di questo spezzone della vecchia Alleanza Nazionale, in materia di emigrazione, sono bene espresse in G. Fini, Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Milano, Rizzoli, 2009.Top
17 Gli africani coraggiosi, che si ribellano alla criminalità, in «l’Unità», 9 gennaio 2010, dove si riportavano le affermazioni di Saviano: «Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte. E qualunque sia la nostra opinione sulle modalità della rivolta è necessario comprendere che ad essersi ribellata è la parte sana della comunità africana che non accetta compromessi con la ‘ndrangheta». Sui fatti di Rosarno, si veda invece l’equilibrato commento di Angelo Panebianco, La fermezza e l’ipocrisia, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 2010.Top
18 G. Noiriel, À quoi sert l’identité nationale?, cit., p. 93.Top
19 A. Fournier, Une loi sur le voile intégral sera injuste et inapplicabile (intervista a Dominique Rousseau, professore di diritto costituzionale all’Università di Montpellier), in «Le Monde», 28 gennaio 2010 e Burqa: le “New York Times” accuse Sarkozy d’“attiser la haine”, ivi, 27 gennaio 2010.Top
20 C. Caldwell, L’ultima rivoluzione d’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente, Milano, Garzanti, 2009. Top
21 Sull’«Islam emigrato» come «cultura naturalmente antagonista», si veda, in particolare, ivi, pp. 161 ss. e 289 ss. Top
22 B. Milton-Edwards, Il fondamentalismo islamico dal 1945, a cura di F. Sforza, Salerno Editrice 2010.Top
23 G. Sartori, Le nuove regole dell’immigrazione. L’integrazione degli islamici, in «Corriere della Sera», 20 dicembre 2009, dove, a proposito della non integrabilità dell’Islam, era contenuta questa paradossale affermazione: «Il caso esemplare è l’India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto [sic!]. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue». Top
24 A queste affermazioni obiettava Tito Boeri (I mussulmani e i tempi dell’integrazione, ivi, 4 gennaio 2010), che paragonava senz’altro Sartori a «quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città e che pretendono che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica». Obiezione, questa, a cui faceva seguito la vibrata risposta di Sartori, Una replica ai pensabenisti sull’Islam, ivi, 7 gennaio 2006.Top
25 S.P. Hntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Milano, Garzanti, 2000. Un saggio, quello di Huntington, che troppo spesso ha sofferto di una lettura giornalistica immediata e di un uso strumentale che ne ha frainteso i reali contenuti.Top
26 T. Todorov, La peur des barbares. Au-delà du choc des civilisation, Paris, Laffont, 2008. Il volume di Todorov riprende gli argomenti dell’articolo di D. Moïsi, The Clash of emotions, apparso in «Foreign Affairs», 2007, 1-2, pp. 98 ss. Nel suo intervento, Moïsi sostiene che oggi i paesi occidentali sono dominati dal sentimento della «paura», sia rispetto alle nuove grandi potenze emergenti (Cina, Brasile, India) e al loro rapido sviluppo economico sia nei confronti dei cosiddetti «paesi del risentimento», che facevano parte dell’impero coloniale europeo, ora animati da un odio viscerale verso i loro antichi dominatori. Nell’uno e nell’altro caso, secondo Moïsi, questo sentimento di panico inibisce una reazione adeguata a fronteggiare la nuova situazione geopolitica.Top
27 M. Rostovzev, Storia sociale ed economica dell’Impero Romano, Firenze, Sansoni, 1992, pp. 521 ss. Sul punto, ma in una diversa prospettiva, S. Mazzarino, La fine del mondio antico. Le cause della caduta dell’Impero romano, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 158 ss.Top
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