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Gentile e il fascismo
di Giovanni Carosotti
Lo studio di Alessandra Tarquini (Il Gentile dei fascisti, Bologna, il Mulino, 2009) si aggiunge a una già sterminata bibliografia dedicata a Giovanni Gentile, eppure l’autrice, nelle prime pagine, rivendica l’originalità del proprio contributo, ad approfondire ulteriormente la complessa personalità del filosofo siciliano. La studiosa trae spunto da un problema di carattere generale più volte discusso a proposito di Gentile, ovvero se egli era o meno organico al regime fascista; e lo affronta non da un punto di vista teoretico, analizzando in specifico il pensiero filosofico di Gentile e avvertendo eventualmente in esso una coerenza con i principi ideologici del fascismo, né esaminandone l’azione politica, bensì passando in rassegna i giudizi che sul filosofo diedero, nell’intero periodo di vita del regime, gli stessi fascisti.
Questa prospettiva, in effetti, cambia il modo di impostare la discussione, in quanto non fa riferimento prioritario ai giudizi formulati nel secondo dopoguerra, quando, con il vantaggio di uno sguardo retrospettivo, sembrava più agevole valutare le responsabilità di quanto avvenuto, e analizzare con maggiore distacco le ragioni che condussero diverse personalità intellettuali ad aderire a un programma politico totalitario. La Tarquini si sofferma invece sul periodo di vita del regime, su quelle discussioni che coinvolsero diversi esponenti del movimento, che si interrogavano se Gentile fosse o no uno di loro. L’interesse di tale impostazione sta nel constatare come l’eventuale coerenza di Gentile con il fascismo costituisse un problema già allora, con valenze ovviamente del tutto diverse (in questo caso, infatti, l’eventuale lontananza dai principi ideologici del regime sarebbe apparsa sconveniente), e che dubbi sull’autentico fascismo di Gentile furono condivisi da molti esponenti del partito, nonostante la salda amicizia che legava il filosofo e ministro a Mussolini.
Ciò che emerge da questa ampia indagine è una frattura profonda, all’interno del fascismo, tra una corrente sostenitrice di Gentile ed altre, pur alternative fra loro, decisamente ostili al filosofo; le polemiche tra questi due fronti furono aspre, e diedero luogo ad iniziative culturali contrapposte, che coinvolsero una parte non esigua della stampa fascista. L’atteggiamento dei vertici del regime, e di Mussolini in particolare, fu ambiguo: in alcuni casi lasciò fare, appoggiando in modo indiretto e quasi sempre con fini strumentali a volte l’una a volte l’altra delle due fazioni; in altri casi intervenne con strumenti repressivi, imponendo la chiusura di alcune riviste oppure organizzando operazioni di controllo poliziesco verso personalità del movimento. Non chiarì comunque mai in modo esplicito la propria posizione a riguardo anche se, alla fine degli anni ’30, l’evoluzione politica fa comprendere come le posizioni di Gentile fossero ormai considerate superate, rispetto alla nuova fase storica vissuta dal regime.
La tesi espressa dall’Autrice delegittima in qualche modo l’oggetto del dibattito di allora, ossia l’accusa ai gentiliani di non essere fascisti; tutti i partecipanti al dibattito, infatti, e Gentile non meno degli altri, si consideravano autenticamente fascisti e ritenevano di comprendere nel modo più profondo il pensiero di Mussolini. A quel tempo Gentile non avrebbe mai accettato, dunque, un’analisi del suo pensiero politico che lo collocava al di fuori dell’ortodossia fascista, più vicino alle posizioni della tradizione liberale (interpretazione più volte invece risorta, anche giustamente, nel secondo dopoguerra), rispetto alla quale collocava però il fascismo in una posizione di continuità. L’interesse maggiore di questa polemica per gli storici è proprio quello di cogliere la profonda divisione del fascismo in diverse correnti, fra loro anche molto distanti per impostazione culturale, programma politico e riferimenti ideologici, che precisarono però la loro identità proprio attraverso un riferimento polemico a Gentile. Ciò non toglie che per lo storico contemporaneo, ormai distante dall’oggetto specifico della polemica, è facile cogliere, dietro i toni aspri e polemici, diversi punti di contatto, spiegabili proprio in ragione del comune progetto politico, o comunque della decisione di appoggiare in ogni caso l’azione di Mussolini: «il filosofo cercò di realizzare un progetto che, per molti versi, coincideva con quello del partito. Anche Gentile contribuì a creare un regime che celebrava il mito dello Stato e aveva della politica una concezione integrale e assoluta. Come i fascisti, anche lui considerava il fascismo come una missione da svolgere, come un impegno politico ed esistenziale costante. E, come loro, riteneva che per costruire una nuova politica fosse necessario superare molti ostacoli, mediare fra esigenze diverse, aspettare i tempi della politica senza per questo mettere in discussione l’appartenenza al partito fascista o la valenza del progetto politico».
L’impostazione data dall’Autrice alla sua indagine risulta in effetti capace di presentarsi come alternativa a tutte le principali interpretazioni storiografiche su Gentile, o meglio di offrire un contributo ad un loro aggiornamento. Non si tratta, infatti, di analisi inadeguate, e costituiscono anzi un punto di riferimento imprescindibile per lo studio del filosofo; rimane però il fatto che nella polemica cui è costretto, Gentile non distingue affatto tra esercizio teoretico, interpretazione storica e opzione politica (come intende invece proporre l’interpretazione di Gennaro Sasso). Neppure le opposte, ma complementari, valutazioni di Garin e di Del Noce (il primo nega l’affinità di Gentile con il fascismo, il secondo invece la sostiene) si confanno alla concretezza del dibattito che su Gentile si svolge lungo tutti gli anni di vita del regime. I due filosofi, infatti, nel respingere o meno la natura fascista del pensiero di Gentile, riducono il fascismo a una ideologia politica di matrice spiritualista e cattolica; mentre invece, il dibattito di allora rivela come il fascismo, soprattutto nelle sua diverse manifestazioni anti gentiliane, fosse ben più ricco e avesse matrici politiche e culturali molteplici e fra loro alternative. In un certo senso, sembra suggerire la Tarquini, tutti erano effettivamente fascisti, ma ciascuno aveva una concezione propria e personale del fascismo che escludeva gli altri. Ed anzi, la componente spiritualistico-cattolica non solo non fu l’unica, ma neppure la principale nel fascismo. In effetti, già aver posto in rilievo questo aspetto attribuisce un’effettiva rilevanza a questo studio.
Il testo prende in esame, in maniera analitica ed esaustiva, tutte le posizioni antigentiliane che, senza soluzione di continuità, si alternarono negli anni ’20 e ’30, con continui rimandi alle fonti e un lavoro di segnalazione bibliografica completo ed encomiabile. Vengono passate in rassegna le posizioni contro Gentile dei “fascisti intransigenti”, che individuavano nel fascismo la più completa espressione della modernità (e il filosofo siciliano, ai loro occhi, non rappresentava altro che un passato ormai irrecuperabile), dei cattolici che, all’opposto, coglievano nel fascismo un’occasione per il recupero della tradizione antimoderna, e l’immanentismo gentiliano per loro rappresentava l’aspetto più distruttivo della cultura moderna. Vengono altresì segnalate tutte le riviste che promossero campagne contro Gentile (per lo più riviste giovanili), così come gli esponenti intellettuali più in vista della cultura fascista che attaccarono il filosofo siciliano, alcuni dei quali, invero, passarono dall’adesione filosofica all’attualismo a una sua severa critica. Oggetto di attenta analisi è pure l’ostilità del Partito Nazionale Fascista nelle sue personalità dirigenti all’attività politica di Gentile.
Quali sono gli aspetti più significativi che emergono da tale minuziosa indagine? Innanzitutto il mai risolto rapporto da parte della cultura fascista con l’intellettualismo. In tutto il ventennio il ruolo della filosofia nel definire la dottrina del fascismo è oggetto di discussione: in particolare la componente che faceva riferimento all’organizzazione squadristica, rivendicava il valore dell’azione e della vita pratica; il fascismo, proprio perché si identificava con la rivoluzione e l’azione politica, non aveva alcun bisogno di essere fondato o di riferirsi a un ben preciso indirizzo filosofico. Di conseguenza, la pretesa di Gentile e della sua concezione attualistica di interpretare al meglio lo spirito e l’ideologia della rivoluzione fascista altro non era che un’impostura; tra i fascisti intransigenti è diffusa l’accusa verso Gentile, accusa di carattere prettamente personale, di avere aderito al fascismo per ragioni strumentali, ovvero per affermare la propria riforma della scuola, concepita in linea con il pensiero politico liberale, e quindi non coerente con lo spirito del regime.
A queste posizioni si contrappongono i gentiliani Nasti, per il quale «questo radicale anti intellettualismo, a suo avviso, impediva la definizione di una dottrina fascista e rischiava di ingenerare un equivoco pericoloso per il futuro del regime, perché mentre le masse fasciste potevano eludere il problema, i dirigenti non avrebbero potuto prescindere dalla definizione ideologica del fascismo» e Codignola il quale affronta «il problema sollevato nei molteplici interventi su «Critica fascista» e si rivolse ai fautori del primato della politica sostenendo che la subordinazione della cultura alla prassi politica avrebbe prodotto soltanto un nuovo agnosticismo». Fino all’ultimo Gentile affermò la compatibilità tra fascismo e libertà intellettuale: «Il fascismo non ha nulla da temere da questa libertà: anzi! E deve promuoverla questa libertà se esso vuole essere palestra di uomini e non di fantocci […] la grandezza della Patria […] non si consegue senza forza d’intelligenza». Egli criticò il retorico culto della romanità voluto dal ministro De Vecchi: «E quando oggi sentiamo d’altra parte preconizzare a perdita di fiato […] come tradizione italiana o, che è lo stesso, della nostra Roma moderna, di quella Roma onde Cristo è Romano, bisogna pur dire ai romanucci ringalluzziti dai Patti del Laterano, che la loro Italia non è l’Italia autentica, l’Italia nostra; voglio dire l’Italia degli Italiani. E tanto meno l’Italia degli Italiani d’oggi, del fascismo». Gentile, inoltre, si tirò addosso feroci strali soprattutto per il progetto dell’Enciclopedia italiana, avversato da tanti fascisti, in quanto il filosofo vi chiamo a collaborare, in nome dell’esclusiva competenza intellettuale, diversi nomi ostili al regime.
Altro elemento che emerge prepotentemente dalle pagine della Tarquini è la polemica generazionale all’interno del fascismo; i giovani pretendevano ben altro spazio all’interno del regime e Gentile, ai loro occhi, rappresentava la generazione ormai anziana, la cui adesione al fascismo avvenne tardi e che, fosse solo per limiti anagrafici, non poteva incarnare lo spirito attivo, l’unico in grado di dare continuità e compimento allo spirito rivoluzionario: «Se infatti non si è riusciti e non si riuscirà ancora a creare una cultura fascista, ciò non è dovuto alla mancanza di elementi idonei a determinarla, ma alle strettoie in cui sono costretti a vivere i pensatori più giovani, i quali per emergere sono costretti ad incensare il maestro ed a seguirlo pedissequamente in ogni sua idea. […] Occorre impedire che i giovani per emergere debbano rinnegare nel portamento e nello spirito le prerogative della loro età, e siano costretti al servilismo e alla vigliaccheria». Una generazione cresciuta all’interno della cultura liberale non poteva del resto, agli occhi di questi giovani, essere autenticamente fascista. Ovviamente, tale polemica investiva il tema, ben più scottante dal punto di vista culturale, relativo alla continuità: «[…] i gentiliani che divennero fascisti ritenevano che il movimento politico fondato e diretto da Mussolini avrebbe portato a compimento il processo di costruzione dell’identità nazionale. Da un lato erano convinti di partecipare assieme ai fascisti ad un grande sforzo di movimento politico e culturale, dall’altro erano certi che Gentile avesse elaborato le premesse teoriche per l’avvento del fascismo»; dall’altra come sostenevano i più giovani Gentile avrebbe segnato la sua sostanziale discontinuità tra il fascismo e il passato della storia italiana, (dalla Controriforma, al Risorgimento).
L’altro aspetto tematico rilevante riguarda l’insofferenza reciproca tra Gentile e il Partito Nazionale Fascista, che già si manifestò nei primi anni ’20, quando il PNF respinse l’iscrizione dei gentiliani e che, come vedremo più avanti, arriverà alla resa dei conti nella seconda metà degli anni ’30.
Constatata la continua e ampia ostilità verso il filosofo all’interno dell’ambiente fascista, ostilità che non diminuì affatto, anzi in un certo senso aumentò, anche quando Mussolini dimostrò la sua piena ammirazione, personale e politica, per il filosofo siciliano, la lettura di quest’ampio resoconto sul dibattito pro o contro Gentile si sofferma, giustamente, su due questioni decisive: quale corrente riuscì a prevalere e quale fu l’atteggiamento a riguardo dei vertici del fascismo, e di Mussolini in primo luogo.
In merito alla prima questione, la tesi della Tarquini è molto chiara: Gentile, nonostante fosse autenticamente fascista e nonostante rimase fascista fino all’ultimo, risultò sostanzialmente sconfitto e venne praticamente emarginato a partire dalla seconda metà degli anni ’30.
Non c’è dubbio che Gentile rappresentò, da un certo punto in poi, una posizione di minoranza e di marginalità nel fascismo, nonostante la grande autorevolezza che aveva rivestito nel primo governo Mussolini. Più difficile è però datare l’inizio della sua sconfitta; alcuni studiosi affermano che la presa di distanza da Gentile avvenne già a partire dalle aspre critiche con cui parte dell’ambiente fascista accolse la sua riforma della scuola, che si concretizzarono nel 1926, quando il ministro Fedele ridimensionò alcune novità della riforma gentiliana. Per altri storici la data cruciale che segna la prima effettiva distanza tra Gentile e il regime si ha con la firma dei Patti Lateranensi. In effetti, il filosofo si espose sino all’ultimo nell’osteggiare la possibilità di una conciliazione, in particolare con un articolo sul «Corriere della Sera» nel quale ribadì «il suo giudizio severo contro l’ipotesi di una soluzione della questione romana». L’accordo con la Chiesa segnò la vittoria di quella componente culturale cattolica (Gemelli, De Luca fra gli altri) che aveva sempre criticato, pur con qualche ambiguità (ovvero l’approvazione dell’esame di stato nella riforma scolastica del 1923) l’immanentismo ateo propugnato da Gentile.
Eppure, nonostante i fatti sin qui ricordati costituissero una netta presa di distanza dalle modalità con cui Gentile interpretava il fascismo e lo inseriva all’interno della storia d’Italia, essi non possono ancora essere interpretati come una sconfitta definitiva del filosofo. Di contro, infatti, Mussolini difese sempre, insieme alle gerarchie ecclesiastiche, l’esame di Stato voluto da Gentile; il filosofo continuò a ricoprire incarichi prestigiosi, e ricevette esplicite attestazioni di stima da parte di Mussolini che, per le questioni di ordine culturale e per la politica scolastica, continuò a consultarlo.
Rimane poi aperta anche un’altra domanda: chi sconfisse Gentile? Per l’autrice, che in questo intende contrastare le posizioni sostenute a suo tempo da Garin, Del Noce e Sasso, non furono i cattolici. «Con il Concordato, i cattolici antigentiliani ebbero l’illusione della vittoria», convinti «che il regime avrebbe finalmente riconosciuto alla cultura cattolica il ruolo di centro propulsore dell’ideologia fascista». Mussolini tenne però un comportamento ambiguo, sostenendo in più occasioni ufficiali le polemiche contro i cattolici di Gentile, quasi per ribadire che il Concordato non avrebbe provocato un cedimento del regime rispetto ad alcune pretese, egemoniche, del cattolicesimo. Secondo Garin «i vincitori furono i cattolici; e non solo perché la loro alleanza con il fascismo poggiava su solide basi politiche, ma perché con loro si schieravano gran parte dei “filosofi italiani” più autorevoli». In realtà, fa notare la Tarquini, la presa di distanza dall’attualismo non provocò solo un rafforzarsi dei principi filosofici del “realismo cattolico”, ma anche la nascita di nuove tendenze, destinate a sviluppi futuri più solidi, in particolare l’esistenzialismo milanese (Banfi, Abbagnano, Pareyson).
«[…] il declino di Gentile non derivò né dalle vittoria delle correnti tradizionaliste presenti nel fascismo né dall’azione dei cattolici, dato che neppure loro riuscirono ad egemonizzare la cultura di uno Stato che considerava la religione cattolica un instrumentum regni. Come si vedrà, a determinare la sconfitta del filosofo furono gli antigentiliani del partito fascista e lo stesso Mussolini, decisi a costruire un regime totalitario per certi aspetti diverso da quello teorizzato da Gentile». Secondo l’Autrice, dunque, bisogna aspettare il 1935 per constatare, in modo quasi ufficiale, l’umiliazione di Gentile da parte del PNF, quandovenne estromesso, per più di un anno, dall’incarico di direttore della scuola Normale di Pisa.
Sul piano politico, l’antitesi fra Gentile e il PNF non accettava mediazioni; per Gentile «il fascismo si era imposto per formare un nuovo stato degli italiani e non per celebrare la vittoria di un partito politico». Non a caso Gentile, in un numero di «Educazione fascista» del 1927 aveva scritto: «il nostro ideale è quello di un’Italia fascista che coincida con l’Italia: di un partito che fattosi Stato coincida con la nazione stessa. La quale deve, a grado a grado, accogliere in sé effettivamente, e non solo nominalmente, nella storia e non nello stato civile, tutti gli italiani e tutti educarli, tutti stringerli nella nuova fede».
Il Partito, da parte sua, lamentava che la concezione di Gentile, fondata sul principio dell’autonomia della cultura e della libertà della ricerca scientifica, era un freno alla fascistizzazione sia della scuola sia dell’intera società; e che il Partito dovesse prendere sulle proprie spalle la responsabilità di fornire alla politica del governo un chiaro indirizzo culturale, caratterizzato ideologicamente, fondato su principi di assoluta fedeltà al regime.
Quale fu l’atteggiamento di Mussolini nei confronti di questo scontro, che toccò delle punte anche molto aspre? Il suo atteggiamento, come abbiamo già rilevato, fu spesso ambivalente. Sincero amico ed estimatore di Gentile fino all’ultimo, lo sostenne però solo in parte, contrappesando, per così dire, il proprio sostegno alle diverse correnti. Sul piano politico, Mussolini aveva delle convinzioni in contrasto con i principi ideologici di Gentile: in particolare era convinto della bontà, ma anche della necessità, di una politica di conciliazione con la Chiesa; ma soprattutto il Duce finì per far sua una tesi che convinse anche molti altri passati sostenitori di Gentile, tra cui Ugo Spirito e Giuseppe Bottai, ossia quella del necessario superamento storico del gentilianesimo, sicuramente utile al fascismo ai suoi inizi, quando il partito agiva ancora in un contesto segnato dalla vecchia cultura liberale, ma non più valido nel periodo di dispiegamento della rivoluzione, quando divenne prioritario fascistizzare la società e la scuola. Paradossalmente, fa notare la Tarquini, il vero momento della sconfitta di Gentile si ebbe quando cessarono gli attacchi più verbosi verso la sua persona, quando cioè lo si lodava per la sua passata attività a favore del regime, ma lo si riteneva ormai superato. Non a caso «Critica fascista», la rivista diretta da Bottai, continuò a lodare la riforma del 1923, ma «la ritenne inadeguata a rispondere alle esigenze del regime» negli anni Trenta. Così – afferma l’Autrice con un certo gusto del paradosso – coloro che sconfissero Gentile non furono gli autori dei feroci attacchi sulla stampa, o gli organizzatori di convegni filosofici ostili all’attualismo, che anch’essi in qualche modo rimasero in una posizione di marginalità, quanto proprio coloro, e Mussolini in primis, che continuarono ad elogiarlo, ma che in realtà, emarginandolo, finivano col dare ragione ai suoi più radicali oppositori.
In apertura dello studio, la Tarquini afferma di voler offrire un panorama completo ed esaustivo delle posizioni critiche verso Gentile, interne al fascismo, fino alla morte del filosofo. In realtà – e questo stupisce – i cenni agli anni ’40 sono marginali e, soprattutto, manca la polemica che contro Gentile si sviluppò all’interno della Repubblica Sociale Italiana, quando la posizione delle frange più radicali guadagnò una maggiore visibilità politica. È vero che i momenti più significativi di questa polemica (la condanna che Gentile ebbe per i suoi contatti con il ministro della pubblica istruzione del Regno del Sud, Alessandro Casati, o per il discorso all’Accademia d’Italia in onore di Gian Battista Vico) sono stati oggetto di una convincente analisi da parte di Luciano Canfora, nella sua pubblicazione intitolata La sentenza. Giovanni Gentile e Concetto Marchesi (Sellerio, Palermo 2005), a cui la Tarquini non fa alcun riferimento, ma le cui analisi (e soprattutto i documenti utilizzati) sono in perfetta continuità con quanto da lei affrontato. Anzi, per chi ha già letto il saggio di Canfora, la lettura de Il Gentile dei fascisti è veramente utile per comprendere in modo adeguato gli antecedenti polemici dell’atteggiamento antigentiliano diffuso nella Repubblica Sociale Italiana.
Notevole è una considerazione riferita al secondo dopoguerra, ripetuta più volte nel volume ma, soprattutto, in chiusura: alla caduta del regime, molti fascisti antigentiliani, che avevano accusato il filosofo siciliano di non essere realmente fascista e di avere aderito al regime per opportunismo, si riferirono alle loro polemiche con Gentile per sostenere una loro distanza dal regime appena caduto. Questo atteggiamento opportunistico ingannò anche un intellettuale come Natalino Sapegno il quale, nel lodare uno dei massimi teorici della concezione totalitaria delle istituzioni scolastiche e universitarie, Antonino Pagliaro, così gli scrisse in una lettera: «Né posso dimenticare di averti avuto alleato costante nella lunga e tenace lotta che, insieme con pochi altri, sostenemmo contro la prepotenza ed il settarismo del defunto senatore Gentile».
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