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Il testamento biologico*
di Eugenio Mazzarella - Massimo Teodori
I

Le Dichiarazioni anticipate di trattamento: una legge necessaria


Ad oggi sono quindici anni che i temi del “testamento biologico” - legge sì, legge no; quale legge – sono presenti al dibattito pubblico del paese e, senza esito conclusivo, sull’agenda politica italiana. Si è forse alla stretta finale, e da un lato si tratta di evitare il protrarsi di una querelle che non vede solo in campo idealità e valori, ma anche pregiudizi e prese di posizione ideologiche e politiche spesso viziate da interessi d’identità di parte e di consenso presso il proprio vero o presunto elettorato; dall’altro di giungere ad una legislazione che dovrebbe essere sì ormai di urgenza, ma non di emergenza; evitando «il rischio di generalizzare un caso estremo e fare, in conseguenza, una legge da cui non si può più tornare indietro», come ha scritto un commentatore francese, avvantaggiato dal non essere coinvolto in dibattiti politico-ideologici troppo domestici; una notazione che andrebbe tenuta a mente dal legislatore, e dalla stessa opinione pubblica, se si vuole giungere a soluzioni di ragionevole razionalità. Per far questo c’è però bisogno di distinguere.


La necessità di distinguere

Qualsiasi testo che il Parlamento dovesse licenziare sarebbe un testo debole, se non avesse ben presente le opportune distinzioni: la particolarissima situazione dello Stato Vegetativo Permanente e le possibili complessità delle situazioni c.d. “di fine vita”, non certo assimilabili le une alle altre, così come a situazioni che non sono, in senso stretto, “di fine vita” ma di “vita intollerabile”. Anche se entrambi sono stati assunti come icone della necessità di legiferare, il caso di Piergiorgio Welby non è, ad esempio, assimilabile al caso di Eluana Englaro. Il caso di Piergiorgio Welby configura una chiara situazione di “vita intollerabile” ad esito infausto e ingravescente, senza ragionevole previsione di via d’uscita, la cui disponibilità morale e giuridica è del tutto in capo ad un individuo nel pieno esercizio della sua autonomia – umana, morale, giuridica – di “persona”. Ben diverso è il caso di Eluana Englaro, dove siamo in presenza di uno Stato vegetativo permanente, irreversibile secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale; situazione la cui “soluzione” – sia nel senso di porvi fine, sia nel senso di sostenerne artificialmente la “vita biologica” (l’omeostasi chimico-fisica del “corpo” di Eluana) a prescindere da ogni possibilità ragionevole di recuperarla alla “vita biografica e di relazione” secondo l’attuale definizione di “vita” nella sua “complessità” e di “persona”, alla “vita cosciente” – non è nella disponibilità più o meno pacifica di una “soggettività” esercitata o in ipotesi (ri)esercitabile; ma è rimessa di fatto alla disponibilità sociale che se ne prende cura (da chi ne ha la tutela morale e giuridica dei suoi diritti, per finire alla “norma” come presidio generale dei diritti della persona e del cittadino), e che può interrogarsi sugli orizzonti morali e giuridici di questa “disponibilità”, di questa presa in carico di un “altro” che è come “noi”, e che però intanto non è “noi”; e ci costringe ad interrogarci sulla liceità di poter decidere in un senso o in un altro di un destino che resta il “suo”, ma che insieme per restare il “suo” è comunque affidato alla nostra “cura”.


Disponibilità ed indisponibilità della vita

In questo caso, dove niente è pacifico, dove lo Stato vegetativo permanente non trova nel criterio della “morte cerebrale” un’univoca percezione (per altro da alcuni posta in dubbio, con riflessi non secondari per l’etica dei trapianti e la legislazione ad essi riferita) che con l’integrità della “persona” sia anche cessata l’individualità non disponibile della sua “vita biologica”, che non è un “cadavere” ma che non è neanche certo più “persona”, e questo iato ontologico può essere indefinitivamente tenuto aperto, dilazionando l’imminenza della “morte”, che fare?
I valori che entrano in conflitto sono noti. Da un lato c’è l’evidenza ontologica – che la sfera assiologica, il ‘sapere’ custodito nel mondo del valore, registra – dell’indisponibilità “individuale” della vita, e persino sociale, se si va a fondo del tabù del sangue; indisponibilità oggi sancita nella positività storicamente configuratasi dei “diritti umani” come ciò che “naturalmente” ogni vita riconosce a se stessa e che è richiesto di farsi diritto consaputo, condiviso di tutti. Dall’altro c’è il valore dell’autonomia individuale la cui scoperta e la cui enfasi ha storicamente “costruito” la possibilità stessa in discorso dei “diritti umani”. Come rispettare quell’evidenza senza ledere questo valore? Senza ledere l’equilibrio funzionale dei valori in gioco, della saputa appartenenza dell’individualità umana alla totalità organica e culturale – la specie, il gruppo, la comunità – cui appartiene, e che però proprio perché “sa” questa appartenenza se ne distingue e gestisce questa distinzione (il valore funzionale alla stessa comunità “organica” di appartenenza dell’ “autonomia” dell’individuo)?
Questa dialettica è per altro custodita nel sapere della lingua. *Swe, la radice indoeuropea che si ricollega a sé, l’etimo che per noi oggi indica lo strato fondativo dell’io personale, la “base” della sua “autonomia”, in origine vale “noi”, è l’etimo della consapevolezza collettiva del gruppo, di un “noi”; il sapere del linguaggio custodisce la sostanza comunitaria dell’io; nel suo fondamento biologico-relazionale ogni “io” è sostanziato da un “noi”; proprio perchè una comunità vive di individui, è fatta di individui non come somma, ma come totalità organica, di relazioni vive, organiche, sessuali, morali, non siamo “proprietari” del nostro corpo e la vita, anche la propria, resta, indisponibile per chiunque, anche per me stesso che pure l’avverto come mia e solamente mia (il rigetto filosofico e morale del suicidio si argomenta proprio con la contestazione che in esso sia rintracciabile il valore “positivo” – nella sua estrema affermazione – dell’autonomia personale, laddove esso in realtà rappresenta il collasso fattuale dell’autonomia personale, la sua insostenibilità per l’individuo per il “venirgli meno” del “mondo”, per una frattura insanabile nella sua relazionalità, per la sua “perdita di mondo” – “mi è crollato il mondo addosso” è l’esperienza della catastrofe consegnata al linguaggio comune; e proprio il “suicidio per onore” evidenzia che per proporsi come “valore” etico esso deve motivarsi in senso relazionale; il “non potersi più presentare agli altri”: l’etica è sempre relazionale).
La rinuncia alla propria vita – il ‘suicidio’ eroico per la difesa del gruppo –, la pena capitale – come difesa della comunità contro delitti che la mettano a repentaglio, a cominciare dal delitto nel corpo vivo di un altro –, la cessione di parti del proprio corpo, più recentemente – trasfusioni, trapianti, donazione di organi – sono valori etici solo nella misura in cui assolvano in modo estremo o residuale al carattere relazionale della “persona”, della sua “autonomia”.
Ma d’altro canto proprio perché la comunità vive di individui – e tanto più la comunità umana – essi vanno lasciati vivere nella loro autonomia e lasciati vivere la loro autonomia proprio perché si realizzi compiutamente l’umanità della comunità umana, quando questa autonomia non leda la sua costitutiva relazionalità.
Come dunque tenere insieme indisponibilità della vita e libertà della persona che vive – e muore! – in quella indisponibilità?


Un’uscita dal dilemma

Se si vuole uscire da questo dilemma, l’unica strada percorribile è forse attenersi proprio al lascito personale di una volontà espressa nella pienezza dell’autonomia della persona – quanto a se stessa, sia chiaro e a nessun altro. Da qui la liceità delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, anzi la viva opportunità che il legislatore provveda a dar loro rilievo normativo. Se l’individuo con diagnosi di stato vegetativo permanente, irreversibile secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, abbia nella pienezza della sua autonomia di persona espresso la volontà di non ricevere sostegni terapeutici alla sua vita biologica quando sia venuta meno in modo irreversibile ogni possibilità di restituirlo al suo stato di “persona”, e non accetti di non poter essere più “persona” qualunque cosa sia nell’interregno che lo separa dallo stato certo di “cadavere”, una “vita” in stato vegetativo permanente con perdita delle funzioni della corteccia cerebrale rigorosamente accertata, dove è venuta meno l’ìntegrazione psico-fisica alla base della possibilità stessa della vita cosciente, è una vita che può ben essere accompagnata a spegnersi lasciandola al corso naturale delle cose senza accanimento terapeutico; laddove, ad esempio, l’intervento di sostegno alla vita meramente biologica di un corpo può essere non solo lecito, ma persino moralmente obbligante quando un corpo, sia pure in stato vegetativo permanente e persino in presenza di “morte cerebrale”, alimenta una vita personale potenziale (nel caso di specie di una donna in stato di morte cerebrale incinta che porti avanti una nuova vita, tenuta in vita fino ad dare una chance al nascituro); in questo caso la mera vita biologica è ancora una vita di relazione, una funzione della comunità cui appartiene, ha ancora qualcosa delle finalità della persona, che è autonomia e relazione.
Sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, sono in discussione, in Parlamento, più proposte. Un passo avanti, nella ricerca di una sintesi il più possibile condivisa, si è fatto con il passaggio dalla definizione di “testamento biologico”, con cui si è soliti tradurre il living will americano, a quella di “dichiarazione anticipata di trattamento” (DAT).
Questo slittamento semantico non è neutro; tende a depotenziare il carattere rigidamente vincolante di una disposizione testamentaria (cosa che il living will non può essere) della DAT, facendone piuttosto un’impegnativa per tutti “presa di parola” del diretto interessato nelle cure di fine vita che possano riguardarlo. Quello che si vuole, con questo slittamento semantico, è in definitiva uno stato interpretativo “aperto” delle decisioni di fine vita, che trovi la sua concreta definizione al letto del malato, lì effettivamente “ascoltato” nelle sue volontà disposte; che in altri termini quelle decisioni non discendano sic et simpliciter da una disposizione testamentaria ora per allora, che può farsi obsoleta alla luce dei progressi della medicina; e questo al di là della considerazione che ciò che ritengo oggi preferibile per me in una situazione immaginata non è detto che sia ciò che effettivamente potrò volere nella situazione realizzata.
Ora però proprio questa giusta esigenza che la norma garantisca uno stato interpretativo aperto, affidato all’alleanza terapeutica tra medico e paziente (ovvero il fiduciario che lo rappresenta), nelle cure di fine vita non può tradursi nella non assimilazione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione all’accanimento terapeutico, ovvero – come prevede il testo Calabrò approvato al Senato – nell’esclusione di principio di idratazione e alimentazione artificiali dalla DAT, sul tacito presupposto che esse siano irrinunciabili per il paziente ed obbligatorie in terapia per il medico. Perché l’esclusione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione artificiali dalla valutazione concreta della situazione clinica del paziente, decidendo anticipatamente per legge che non costituiscono in nessun caso accanimento terapeutico, o non concorrono a definirlo, chiude di fatto lo stato interpretativo aperto di un’alleanza terapeutica che si senta impegnata ad ascoltare nella situazione effettiva il paziente; e perché, concettualmente, l’accanimento non è configurato dal ricorso o dall’esclusione di questa o quella tecnica, ma è il complesso di un approccio finalizzato della cura che ha perso la proporzionalità tra mezzi e fini.
La particolarissima situazione dello Stato vegetativo permanente, le possibili complessità delle situazioni c.d, “di fine vita”, non certo assimilabili le une alle altre, così come a situazioni che non sono, in senso stretto, “di fine vita” ma di “vita intollerabile”, possono sì essere il più precisamente approcciabili nella norma, ma il dilemma etico che pongono non può essere sciolto ex ante nella norma, e va sciolto ogni volta nella situazione concreta. È nella situazione concreta, affrontata da tutti in scienza e coscienza, che solo può dirimersi il quesito se l’insistere nel prendersi cura della “vita biologica” (omeostasi chimico-fisica) non paghi prezzi insostenibili, magari in buona fede, alla “vita biografica e di relazione” nella sua “complessità”, alla sua dignità di “persona”.
Forse è giunto il momento che il legislatore aiuti a distinguere la tra la vera eutanasia (peraltro proibita anche dal Codice Deontologico), anche nelle sue forme surrettizie, e quella che più correttamente potrebbe definirsi “distanasia” (è una pregnante formulazione di un illustre clinico cattolico da poco scomparso, Mario Coltorti), il rifiuto accanito di vedere nella morte un pezzo della strada che la vita è chiamata comunque a compiere.
Ciò che va salvaguardato in una norma relativa alle DAT è da un lato l’autonomia personale consegnata ad un libero e consapevole atto di volontà dispositiva; dall’altro la relativa autonomia, anche da quelle disposizioni, della situazione concreta su cui le DAT si esprimono; al letto del paziente incosciente il fiduciario deve poter interpretare nell’alleanza terapeutica con il medico nel miglior interesse del paziente, le sue stesse disposizioni, in una fedeltà che non sia pedissequa; se così non fosse il fiduciario sarebbe poco più di un esecutore testamentario, e non piuttosto un “tutore” che interpreta alla luce della situazione una volontà che non può più esprimersi attualmente in proprio, e che in teoria avrebbe potuto essere, dalla situazione reale e non immaginata, sollecitata a “cambiare idea”. Una riserva di verifica in situazione della volontà disposta, il cui primato morale, e il cui prevalere in diritto, nessuno potrà mettere in dubbio, fatte salve evidenze scientifiche e terapeutiche conclamate in senso contrario che dovessero insorgere alla scienza e coscienza del dialogo tra fiduciario e medico.
Insomma una riserva minima di applicazione delle DAT in capo al dialogo tra fiduciario e medico, all’alleanza terapeutica che dovrebbe continuare a manifestarsi al letto del paziente incosciente, dovrebbe essere prevista; anche perché così la normativa sulle DAT configurerebbe una sorta di “diritto mite”, per dirla con Zagebrelsky, un diritto che si realizza per un concorso di indicazioni deontologiche e normative, e non per un vincolo tassativo di una disposizione avente il carattere di un’obbligazione contrattuale.
Un approccio analogo, legato alla disciplina transitoria della legge, c’è nella normativa relativa alle disposizioni testamentarie relative all’uso di parti del cadavere a scopo di trapianto; normativa, che pur orientata a favorire la “donazione”, grazie al criterio del “silenzio-assenso informato”, continua a lasciare uno spazio sia pure limitato alla volontà dei familiari, cui è riconosciuta una qualche capacità di opporsi alle disposizioni del de cuius, alla luce del valore relazionale e personale per essi del corpo del defunto, anche se in caso di conflitto è la volontà dei familiari a dover soccombere; laddove nella precedente disciplina la volontà dei parenti era talmente forte da poter prevalere sulla volontà in senso contrario del defunto.
Il carattere di diritto mite della normativa sulle DAT potrebbe essere ulteriormente qualificato dal carattere sperimentale della legge, fissando un termine per verificarne la tenuta dell’applicazione in relazione agli scopi sociali che si prefigge.


Una proposta all’esame del Parlamento

Una sintesi su questo linee potrebbe essere cercata, contribuendo alla definizione di una norma che sappia rispettare lo iato tra legge e pietà che vive sempre, nelle situazioni estreme, nella concreta vita etica.
La norma dovrebbe garantire che si assecondi la volontà del paziente nel rispetto del diritto all’autodeterminazione circa le scelte di cura del fine vita, ma riservando al dialogo tra medico, fiduciario e/o familiari una meditata possibilità di sospensione delle volontà del paziente, in relazione ad esempio al rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali, se da questa sospensione si può attendere (e fin quando si può attendere) un reale beneficio terapeutico. Insomma si tratta di saper far vivere al letto del paziente inconsapevole una mediazione umanamente sostenibile tra il rispetto della sua autodeterminazione e l’alleanza terapeutica in cui, anche se inconsapevole, resta coinvolto con il medico che lo ha in cura.
Un approccio siffatto viene incontro, per altro, ad alcune fondate preoccupazioni espresse dal relatore in Commissione Affari sociali alla Camera sui testi all’esame del Parlamento, on. Domenico Di Virgilio, che cioè la legge debba saper dire «No all'eutanasia, No all'abbandono terapeutico, No all'accanimento terapeutico»; e che «il diritto di autodeterminazione, per non divenire costrizione tirannica che può esplicare i suoi effetti contro gli interessi della persona stessa, deve sempre lasciare uno spiraglio alla revisione di quanto deciso in precedenza».
L’indirizzo normativo delineato, in effetti, che si è tradotto in alcune proposte di emendamenti al testo Calabrò messe a punto da chi scrive con l’on. Fabio Granata e altri colleghi parlamentari di diverso orientamento politico, volge in positivo questi tre condivisibili “no”, bilanciandoli tra loro perché il no all’eutanasia vi è articolato in modo tale da non diventare il suo contrario, distanasia; distanasia, che è il presupposto logico e ideologico dell’accanimento terapeutico, come ostinazione tecnica e medicale nella cura, che non vuole ammettere la sconfitta della morte, la semplice verità che essa è sempre l’altro lato del foglio della vita che leggiamo; ostinazione, accanimento terapeutico, che talora è la più sottile forma di abbandono terapeutico, perché abbandono terapeutico non è solo il lasciar da parte tecniche e farmaci, e sostegni vitali ancora benefici per il paziente, ma anche il lasciar da canto, il mettere da parte la pietas e la mitezza che sempre richiede la “cura” della persona umana, soprattutto nei casi estremi; cura che non si risolve, come sa ogni medico e come ogni paziente chiede al suo medico, nella mera tecnicalità della cura, nella sua riduzione a farmacologia.
Lo «spiraglio di revisione» al dispositivo delle DAT che l’on. Di Virgilio richiede è espressamente previsto nella formulazione normativa su riichiamata nella forma mite della possibilità di sospensione motivata e pro tempore dell’attuazione del vincolo giuridico delle disposizioni del paziente, perché una norma che a priori disconosca quel vincolo e sia impediente al rifiuto da parte del paziente di questa o quella previsione terapeutica e/o di cura (nel caso di specie il rifiuto dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali) non rispetta l’autodeterminazione del paziente, riconosciuta in diritto e nella deontologia medica. E in realtà vanifica anche qualsiasi istanza di alleanza terapeutica. Alleanza terapeutica è l’autonomia del rapporto tra medico e paziente. È evidente che proprio questa autonomia viene meno, e con essa l’alleanza terapeutica stessa, se è la norma giuridica, cioè lo Stato, che si fa carico di decidere per legge a quali decisioni di cura deve addivenire quella relazione, magari anche quando la si voglia sbilanciare, reintroducendo vieti elementi di paternalismo medico, a favore del medico, riconoscendogli una sorta di “ultima istanza” nelle decisioni di cura. Con una norma impediente “anche” quello che in ipotesi il solo medico deve decidere, e non come è giusto e coerente in diritto e in deontologia in dialogo con il paziente “informato” e/o con il suo fiduciario, è proprio qualsiasi versione pensabile di alleanza terapeutica che viene esautorata nei fatti, rispetto a cui la norma può essere solo sussidiaria. In uno scenario giuridico di divieti o di prescrizioni obbliganti su questo tema, siamo fuori sia dall’autodeterminazione del paziente, che dall’alleanza terapeutica; siamo sul terreno della biopolitica di Stato, e autoritaria per altro.
Quanto all’assunto che «l’alimentazione e l’idratazione artificiale non possono essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento, trattandosi di atti eticamente e deontologicamente dovuti, in quanto forme di sostegno vitale, necessari e fisiologicamente indirizzati ad alleviare le sofferenze della persona malata e la cui sospensione configurerebbe un’ipotesi di eutanasia passiva», ribadito nella sua relazione in Commissione dall’on. Di Virgilio, qui non è in gioco un problema di definizioni a vantaggio di quella o questa deduzione normativa. Comunque le si voglia definire – terapie, atti medici, sostegni vitali – (a prescindere dal fatto che “nutrizione” o “alimentazione” artificiale, che meglio dovrebbe essere considerata solo come “supporto calorico-proteico-idrico”, nulla ha delle vere caratteristiche dell’alimentazione, ed è quindi da considerare come reale atto terapeutico, peraltro in più occasioni puntualizzato come tale anche dalla Società italiana di nutrizione parentale ed enterale), anche idratazione e alimentazione artificiali, se non aprono alcun orizzonte di cura prevedibile per il paziente, possono concorrere a definire una situazione di accanimento terapeutico se si vuole “passivo”, tenendo inutilmente aperto contra spem uno iato di vita biologico terapeuticamente inutilizzabile e pertanto distanasico.
La difficoltà poi segnalata dal relatore di dare con le DAT attuazione a decisioni assunte ora per allora riceve sufficiente attenzione nella valutazione ex post nel caso concreto al letto del paziente affidata al medico e al fiduciario, quando sia individuabile la motivata esigenza di sospendere l’attuazione delle DAT.


Una riflessione più generale: dignità e sacralità della vita, due valori in dialogo

Ma nel momento in cui ci si avvia a legiferare su una questione certamente “eticamente sensibile”, come si dice, non è fuori luogo una riflessione più generale.
Il percorso legislativo delle DAT dovrebbe essere tenuto accuratamente al riparo dai toni spesso impropri che hanno inquinato fin qui il pur necessario e libero confronto delle opinioni e delle opzioni etiche; e dagli stereotipi di cui spesso siamo anche inconsapevolmente vittime.
Le opzioni etiche, è noto, sono le più diverse, ed un loro corretto confronto arricchisce lo spazio della riflessione morale; e così certamente etica della responsabilità, più attenta alle conseguenze delle proprie scelte, ed etica della convinzione, costruita sull’affermazione purchessia dell’intenzione “buona”, si misurano, si contrastano, e si fecondano da sempre a vicenda, temperando nella situazione l’una le unilateralità dell’altra.
Ma lo spazio etico è cosa diversa dallo spazio giuridico. Nello spazio giuridico può solo esserci una legislazione della responsabilità e non della convinzione, per quanto animata dalle migliori intenzioni. Nello spazio giuridico, una meccanica traduzione nella legislazione di un’etica della convinzione, non vede all’opera neppure più una sollecitazione etica, ma questa sollecitazione funziona piuttosto come ideologia, come falsa coscienza che difende una posizione di parte creduta assunta come interesse generale.
E per venire agli stereotipi, si crede spesso ad una tensione irriducibile tra le scelte operate – nelle questioni eticamente sensibili – ispirandosi ai contrapposti valori della dignità della vita e della sua sacralità, intesa come intangibilità già della sua biologia, che non tollera manomissione, neanche quella personale circa se stessi. In realtà nella concreta vita etica questi valori hanno sempre dialogato, e non sono il differente appalto di un’etica laica, dell’autodeterminazione “illuministica” della ragione, da un lato, e di un’etica religiosa, nel nostro caso, nel caso che ci sta più a cuore, della religione cristiana come “religione della vita”, dall’altro; religione della vita che il cristianesimo pure è, non meno però di quanto sia religione dell’autodeterminazione della vita che “sceglie”, e liberamente, di rispondere ad un appello di salvezza.
Il Socrate del Critone come modello etico dell’affidamento illuministico rischiarato dalla ragione delle proprie scelte di vita, la scelta razionale di accettare di morire per non venir meno al rispetto per le leggi della città che lo condannano, per non venir meno alla “dignità” della coerenza di cittadino rispettoso delle leggi di tutta la sua vita («Caro Critone, il tuo zelo vale molto se accompagnato da una certa correttezza, altrimenti, quanto più è grande, tanto più mi è grave. Bisogna esaminare se dobbiamo fare o no ciò che tu dici — cioè fuggire — perché io non ora per la prima volta, ma sempre sono stato tale da prestare ascolto a niente altro di me, che alla ragione, la quale calcolando [cioè vagliando il bene e il male], mi è parsa la migliore»), questa scelta circa la vita che è degno vivere, non è molto distante dalla scelta del “martire”, del “testimone” cristiano che come Socrate sceglie la morte, per sé solo s’intende, rifiutando come non degna della sua fede una vita privata della sua possibilità di vivere il divino.
Ma d’altro canto già il Cristo è il primo martire, il primo testimone della sua fede che non considerò “tesoro geloso” la sua vita, la sua "natura divina", tanto da non offrirla per la salvezza degli uomini in obbedienza libera alla volontà del Padre che lo aveva mandato.
Quando Paolo in Filippesi, 2, 5-8 ci dice : «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce», e sì che lui qualcosa del Cristianesimo doveva aver capito, Paolo ci sta dicendo che la vita del cristiano è sempre a disposizione di sé per un’idea più alta di vita, la propria e quella degli altri.
Se anche la “natura divina” non fa feticcio intangibile la propria vita, ma mostra di poterla convocare in giudizio, qui è affermato nel modo più potente il principio della dignitas hominis come autodeterminazione della coscienza, come scelta della propria “forma di vita”: la vita degna non è la vita in sé, ma la vita che sceglie di farsi santa nel nome di Dio: “chi la salva la perderà, chi la perde la salverà”. Per la vita del credente, ad essere il bene supremo è la vita qualificata nel segno della salvezza, neppure il tessuto relazionale puramente comunitario della propria vita, e tanto meno la nuda vita biologica; entrambe certo condizioni di quella salvezza, ma che dal punto di vista di quella salvezza possono e devono essere giudicate. La "vita cristiana" si (auto)determina sempre dall'idea - di fede - della sua "dignità".
Come si vede, la “religione della vita” è anche sempre la “religione della scelta” della “propria” vita.
In questa scelta c’è sempre, certo, il più ampio rispetto della vita degli altri, e nella vita degli altri della vita in quanto tale, del suo esserci data, del suo trovarla già sempre là per noi (ne sia "fonte" la "natura" o la "creazione", la percezione esistenziale dell'homo religiosus è sempre questa). Il suo tabù relazionale fondativo è “non uccidere”. Nella vita associata questo tabù fondativo protegge le basi della sua riproducibilità biologica, e umana: il sentimento di amore desiderante e consapevole che accompagna la riproduzione e le cure parentali, la sociabilità piena che è cornice e possibilità della “felicità”, del successo della "nascita", che in ultima istanza è il metterla in condizione di poter fare ancora nascere, di “propagarsi” (l'essere si giustifica se nasce: “crescete e moltiplicatevi”). Ad ogni religione come religione della vita ciò che sta a cuore ad ogni costo, e si comprende, è il modo del nascere, anche a prezzo della sua dignità sociale (la nascita illegittima, socialmente impropria è nei miti di molte culture persino valorizzata, in quanto percepita come obbediente - al di là e al di sopra delle convenzioni sociali - all'imperativo di autopropagarsi della vita: nell'archetipo dell’eroe spesso ricorre la “nascita dubbia”).
Dal punto di vista della "vita" la nascita è degna per il solo fatto che nasce; non così la morte. La “morte”, come la vita che ha assolto (o assolve) il suo compito di proteggere la vita, o come vita che ha assolto il suo compito di "via" alla riproducibilità della vita, la “morte” come vita che sta “disvivendo” e alla vita, anche alla propria, niente può più dare, è rimessa nelle mani del suo titolare pro tempore, e della percezione che ne ha della sua dignità.
Così è degna la vita che si sacrifica per i propri simili e così è degna la vita che cerca il congedo. Nell'accantucciarsi dell'animale che va a morire, lasciato in pace dai suoi simili, è l'archetipo etologico della scelta consapevole umana che dice ai suoi affetti “ora lasciatemi andare”. Questa dignità della vita la si certo può scegliere, e sempre la scegliamo, senza ledere in nulla la sacralità vita, anzi rispettandola nella mia vita. La vita ha sempre saputo riconoscere alla morte una "privatezza" che la nascita non conosce, per l'ovvia ragione che si nasce da e con altri, e si muore "in proprio", e questo non significa "da soli". Bisogna, da questo punto di vista, essere sempre attenti ai pur cospicui doni dell’etica della sofferenza. Anche in essa bisogna saper vedere il limite: quando la sofferenza non ci migliora e ci fa solo maledire la nostra vita.
Il «Lasciatemi andare alla casa del Padre» di Giovanni Paolo II morente, che è stato richiamato nel merito più di una volta, è nel cuore di un’etica che sa che alla fine può scegliere di sé, che la dignità della morte è bene non meno prezioso della sacralità della vita fino all’ultimo giorno difesa.
Se tutto questo ha un senso, i paladini della rissa tra i principi della dignità della vita e della sacralità della vita devono trovarsi altre fonti normative da quelle che di solito credono di avere dalla loro parte. Le cose sono molto più complesse e la prudenza dell’intelligenza è sempre anche prudenza del cuore.

Eugenio Mazzarella




II

Tre casi e il testamento biologico



I - Luca, Piergiorgio, Eluana

Luca Coscioni: «il diritto del malato di vivere un’esistenza piena»

«Il significato della mia esistenza è quello di viverla, così come mi è consentito, punto e basta. Nella mia avventura radicale, la cosa più importante... è di aver fatto di una malattia, un’occasione di rinascita, e di lotta politica. Di avere avuto la forza e il coraggio di trasformare il mio privato in pubblico. Di avere ribadito che la persona malata è, innanzitutto, persona, e come tale, ha diritto di vivere una esistenza piena, e libera, contro il senso comune e le ipocrisie quotidiane, che vorrebbero, invece, relegarci in una terra di nessuno». Ecco la coraggiosa testimonianza che Luca Coscioni, malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), volle rendere pubblica venti mesi prima della morte sopraggiunta il 20 febbraio 2006 nel rifiuto degli accanimenti terapeutici.
Il ricercatore trentenne era la prima persona che in Italia trasformava la sua condizione di malato irreversibile in campagna per la libertà della ricerca scientifica proprio quando si faceva più incalzante l’offensiva integralista contro l’autonomia della politica e la libertà della scienza. Nel 2001, il giovane disabile era entrato in contatto con il mondo radicale che ben presto ne faceva il protagonista e il simbolo della battaglia per la libertà della scienza nominandolo presidente del partito e costituendo intorno alla sua persona un’associazione formata, oltre che da malati, da scienziati, intellettuali e operatori della salute che si opponevano ai vincoli religiosi imposti alla legislazione italiana.
Nel segno e per volontà di Coscioni nasceva così una lobby radicale che affrontava con l’ottica laica i problemi della vita, della morte e del sesso, divenuti molto più complessi da quando il progresso delle biotecnologie aveva trasformato il concetto stesso di natura. L’associazione Coscioni, con i convegni sui temi cosiddetti «etici» – la fecondazione assistita, le cellule staminali, l’aborto, il fine vita, il testamento biologico e l’eutanasia –, diveniva in tal modo il principale gruppo in grado di contestare in Italia il monopolio dell’etica pubblica, rivendicato dalla Chiesa e accettato passivamente da buona parte del mondo politico.
Malgrado la diffusa mancanza di cultura laica, quando Coscioni morì, unanime fu il cordoglio dei politici d’ogni colore che riconobbero nel malato un esempio di coraggio civile. Per il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, «I suoi interventi, sempre lucidi e mirati, hanno contribuito ad accendere il dibattito sui temi cruciali per il futuro dell’umanità»; per il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, «Nella sua breve ma intensa e impegnata esistenza ha testimoniato con forza il valore dei diritti civili che sono alla base del pensiero liberale»; per il leader dell’Unione Romano Prodi, «Era stato un coraggioso testimone di uno straordinario impegno in difesa della dignità della vita e dei malati»; per il presidente dei DS Massimo D’Alema, «Il suo coraggio e la forza della sua personalità gli hanno consentito di trasformare la sua sofferenza in una testimonianza preziosa di lotta e solidarietà verso gli altri»; e per il presidente della Camera Pierferdinando Casini, «Il suo impegno civile e politico resta per tutti noi un esempio straordinario di coerenza, di determinazione e di speranza».
Ma i riconoscimenti pronunziati in morte si rivelarono ben presto parole vuote, almeno in quegli esponenti politici che nei comportamenti smentirono le idee che erano state testimoniate da Coscioni. Infatti la sua rivendicazione della dignità dell’esistenza era ben distante dalla retorica della sacralità della vita da tanti professata in sede politica; la sua idea di libertà della ricerca, secondo i canoni della comunità scientifica, era assai distante dalla subordinazione della ricerca ai precetti morali e religiosi; la sua campagna perché tutti potessero utilizzare le conquiste della scienza e della tecnologia era agli antipodi della negazione dell’autodeterminazione dell’individuo perseguita da chi riteneva che le scelte sulla propria vita dovessero essere affidate allo Stato o alla Chiesa.
L’intensa campagna condotta dai radicali insieme a Coscioni fino alla morte, non fu tuttavia vana, anche se incise in profondità più nella società che nella politica. Dopo la sua vicenda pubblica, molti malati nelle stesse condizioni aderirono alla associazione per rivendicare il diritto di decidere sulla propria esistenza e per scegliere il percorso del fine vita. Da allora i media non avrebbero discusso i casi di Piergiorgio Welby, di Giovanni Nuvòli, di Eluana Englaro e di Paolo Ravasin, solo per citare i nomi più noti, se Coscioni non avesse trasformato il suo dramma privato in questione di diritto e di scienza riguardante le regole del vivere comune.


Piergiorgio Welby: «Morire mi fa orrore, ma ciò che è rimasto non è più vita»

Dieci mesi dopo la fine di Coscioni, il 20 dicembre 2006, si spegneva un altro malato di SLA, Piergiorgio Welby, al termine di una lunga battaglia vinta nelle aule di giustizia per staccare sotto sedazione la ventilazione artificiale. Il caso poteva sembrare diverso da quello di Coscioni, nel senso che il cinquantenne chiedeva l’interruzione di un trattamento terapeutico già in atto, ma in sostanza le rivendicazioni dei due malati di SLA erano entrambe riconducibili allo stesso diritto individuale di decidere della fine della propria vita. Ed è proprio intorno a questo nodo che si scatenarono gli integralisti che negavano alle persone malate l’autodeterminazione. Perciò il 21 settembre 2006
Welby si rivolse direttamente al presidente della Repubblica perché fosse riconosciuto il diritto a rifiutare la terapia, secondo le previsioni dell’articolo 32 della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto delle persone umane».
«Sono come in un baratro», scriveva il disabile, «da dove non trovo uscita. Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive le funzioni biologiche... Io amo la vita... Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa"... L’eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna... ». Con questa lettera al Presidente irrompeva nel dibattito pubblico l’argomento eutanasia: «In Italia l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non "esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per timore dei medici... e viceversa possono venire praticati atti eutanasici senza il consenso informato dei pazienti coscienti...». Quindi Welby citava una dichiarazione di Benedetto XVI secondo il quale «di fronte alla pretesa... di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale»; e si domandava cosa ci fosse di «naturale» in una sala di rianimazione, in uno squarcio della trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni, in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale... Infine concludeva con una richiesta: «Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine a una sopravvivenza crudelmente "biologica", io credo che questa sua volonta` debba essere rispettata e accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico».
Le migliaia di persone che due mesi dopo parteciparono al suo funerale civile in piazza Don Bosco al quartiere Tuscolano di Roma restando fuori dalla parrocchia che aveva chiuso le porte su mandato del cardinale vicario Ruini, testimoniavano non solo il cordoglio per l’uomo, ma anche la condivisione della battaglia che Welby aveva condotto contro il mondo clericale dimostratosi del tutto estraneo alla sua morale laica e umanistica. Nei palazzi del potere, invece, molti di quegli esponenti politici che avevano manifestato il pietoso cordoglio per Coscioni, condannarono l’operato di Welby: in prima linea il presidente emerito del Senato, Marcello Pera, seguito da Gaetano Quagliariello che esprimeva il timore «che i tanti orfani dell’ingegneria sociale stiano trasferendo il loro costruttivismo in ambito antropologico», e il presidente della consulta etico-religiosa di AN, Riccardo Pedrizzi, che commentava: «Noi preferiamo pensare che il Creatore si sia ripreso Welby, sottraendolo all’osceno circo mediatico e al cinico disegno di chi l’aveva trasformato in mezzo per arrivare a una legge che legalizzasse l’eutanasia».
Anche nel centrosinistra non mancarono le paternali. Se prudenti erano le osservazioni della senatrice DS Anna Serafini («Su Welby si fa troppa ideologia. All’integralismo non si risponde con il laicismo») e del ministro della Famiglia Rosy Bindi («Welby è un esempio della strumentalizzazione politica di un caso doloroso»), la senatrice Paola Binetti con tono da crociata invocava: «la Bonino si dimetta: ha strumentalizzato il dolore!» Per non parlare delle indefinibili invettive del giornalista «cristiano» Antonio Socci che riempiva una paginata del quotidiano Libero per spiegare che «Welby [è] scudo umano per proteggere Prodi », un perfido «gioco della sinistra», e del deputato «carcerario» UDC Luca Volontè, che all’indirizzo dei radicali gridava «arrestateli, arrestateli!»
Di fronte a tanto accanimento si potrebbe erroneamente ritenere che su Welby si fosse riacceso l’eterno scontro tra cattolici e laici. Ma non era così. Il conflitto apertosi intorno al diritto di una persona di vedere attuata una norma costituzionale metteva di fronte gli integralisti apocalittici, decisi a imporre con intolleranza le loro credenze religiose con la forza della legge che punisce come reati ciò che loro considerano peccati, e i laici liberali per i quali sulle questioni personali ognuno ha il diritto di scegliere la sua strada come meglio crede, anche quando diverge da quella della maggioranza.


Eluana Englaro: chi deve decidere sulla vita?

Il 9 febbraio 2009 si spegneva la trentottenne Eluana Englaro dopo diciassette anni di coma irreversibile causato da un incidente d’auto. È conosciuto il conflitto insorto tra il padre tutore, Beppino Englaro, determinato a interrompere la non-vita di sua figlia Eluana, e le autorità politiche decise a impedire la volontà paterna che, dopo un lungo e travagliato percorso, fu eseguita grazie a una sentenza definitiva della Cassazione convalidata dalla Corte costituzionale.
Ancor più che per Welby, le reazioni furono rabbiose perché la vicenda di Eluana da caso personale aveva assunto un forte significato simbolico nella controversia bioetica. All’annunzio della morte della ragazza, il vicepresidente vicario del gruppo del centrodestra in Senato, Gaetano Quagliariello, dichiarò in aula: «Eluana non è morta, Eluana è stata ammazzata», facendo eco al coro tutt’altro che misericordioso delle alte sfere ecclesiastiche. Per il presidente emerito della CEI, Camillo Ruini, si trattava di «un omicidio»; per Angelo Bagnasco, suo successore, «Eluana ha cominciato il cammino forzato verso la morte»; per Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna: «Una giovane donna è diventata il segno di contraddizione fra una cultura della morte e una cultura della vita»; per Javier Lozano Barragan, «ministro della Sanità» della Santa Sede, sarebbe stato obbligatorio «fermare quella mano assassina»; per Agostino Vallini, cardinal vicario di Roma, «era prevalsa la cultura della morte»; e per Pietro Brolio, arcivescovo di Udine: «Per definire quello che aveva fatto c’è una sola parola, omicidio».
Nessuno dubita che con quelle condanne morali gli uomini di Chiesa riaffermavano, se pure in maniera truculenta, la loro fede secondo cui la vita è data da Dio che è l’unico titolato a toglierla. Indicativo, invece, della scarsa cultura civile dei politici italiani era l’atteggiamento assunto dagli esponenti clericali di entrambi gli schieramenti. Per il cattolico popolare Carlo Giovanardi, «non si può spegnere una vita con un omicidio amministrativo»; per il sottosegretario Alfredo Mantovano di Alleanza nazionale, «è la prima condanna a morte in Italia dal 1948»; e per Roberto Formigoni, governatore della Lombardia, «l’Italia non poteva permettere che una persona fosse mandata a morte al di là della sua volontà».
Qual è stato, dunque, il significato della disputa su Eluana che ha appassionato il Paese, e perché mai gli animi si sono così infiammati? In sostanza quelle controversie riguardavano il contrasto tra la concezione laica dell’uomo e la visione religiosa della Chiesa cattolica; in altre parole si trattava dell’alternativa tra l’autodeterminazione della persona e il conferimento del potere di decidere sul fine vita a una autorità esterna, fosse essa la Chiesa o lo Stato. Pertanto l’intera vicenda assunse il significato di un vero e proprio paradigma morale a cui, nell’ultima fase, si sovrappose anche un conflitto di natura squisitamente politica e istituzionale: era legittimo che il potere esecutivo imponesse la propria volontà ribaltando i deliberati dell’autorità giudiziaria? Con questo criterio il governo Berlusconi, su iniziativa dell’ex socialista Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, e dell’ex radicale Eugenia Roccella, sua sottosegretaria, propose un decreto legge per bloccare l’esecuzione della sentenza che dava il via libera all’interruzione dell’alimentazione. Se il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non avesse impedito il vulnus costituzionale rappresentato dal ribaltamento della sentenza, la politica avrebbe costituito un pericoloso precedente disponendo il diritto di intrusione dei pubblici poteri sulle scelte etiche individuali.


La politica deve fare un passo indietro?

Ed è proprio sul rapporto tra potere politico e scelte individuali che si accese un dibattito culturale nella fase critica del caso Englaro. Luca Ricolfi, un brillante opinionista laico della Stampa di Torino, auspicava, ad esempio, che la politica si ritirasse di fronte al dissidio insanabile che oppone «la Chiesa e i suoi sostenitori più fanatici», che «sono certi che togliendo l’alimentazione a Eluana si stia uccidendo una persona», e «il mondo laico» che «è certo che così non si fa altro che rispettare la sua volontà»; e, sulla stessa lunghezza d’onda, lo scienziato politico liberale Angelo Panebianco osservava che «i giacobini che si fingono liberali non sono sfiorati dal dubbio che esistono aree dell’esistenza che in nessun caso dovrebbero essere ’regolamentate’», mentre i cattolici «si arrampicano penosamente sugli specchi alla ricerca affannosa di argomentazioni pseudo-razionali» per opporsi «all’interruzione dell’alimentazione ai pazienti in coma, anche in caso di esplicita volontà del malato».
Non c’è dubbio che le osservazioni dei due intellettuali estranei al clericalismo aprissero un interessante dibattito culturale sull’opportunità che in casi del genere la politica facesse un passo indietro secondo un criterio «non interventista». Ma al punto in cui era arrivato il caso Eluana, dopo anni e anni di controversie anche giudiziarie, non si trattava più di attenersi a una formula teorica, quale poteva essere la «terza via» adombrata dai due opinionisti, bensì di prendere partito nel grave conflitto in corso: chi doveva decidere del corpo di una persona malata non più in grado di decidere? Da una parte si collocava il potere esecutivo che tentava insistentemente, per non dire violentemente, di imporre per via amministrativa, o addirittura per via legislativa, le sue decisioni pregiudiziali senza alcun riguardo per la volontà di chi aveva legalmente il diritto di prendere le decisioni sulla sorte del malato, e dalla parte opposta si collocava chi rivendicava il diritto costituzionale all’autodeterminazione della persona umana.
In sostanza il decreto governativo cosiddetto «Salva-Eluana» metteva in evidenza la contrapposizione tra gli integralisti clericali, decisi a far valere a qualsiasi costo la loro visione etica, e i laici liberali, difensori dei diritti individuali. Nel primo gruppo si distinguevano monsignor Rino Fisichella, per il quale «la sentenza» della Corte costituzionale «manda a morte di grande sofferenza la ragazza», e la sottosegretaria Eugenia Roccella, per la quale «per la prima volta qualcuno muore a causa di una sentenza», seguiti a loro volta dallo stato maggiore del centrodestra con Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Alfredo Mantovano e Laura Bianconi, dai parlamentari dell’UDC Pierferdinando Casini, Rocco Buttiglione e Luca Volontè, e dai Democratici Paola Binetti, Luigi Bobba, Emanuela Baio Dossi e Marco Calgaro. Da parte sua l’ispiratore degli atei clericali, Giuliano Ferrara, forniva l’argomento conclusivo alla pattuglia integralista commentando con foga:
«Questi che si dicono laici e che sono soltanto relitti del vecchio familismo amorale degli italiani, specie quando recitano il coro vomitevole di papà Beppino e di una nichilistica libertà di coscienza per giustificare l’eliminazione fisica di un disabile, una esecuzione degna dei nazisti... è un orrore funesto assistere a questa immonda accademia, uno schifo senza speranza».
Dalla parte opposta la causa dei diritti individuali era difesa da quei laici di diversa estrazione che appoggiavano la decisione costituzionale del presidente Napolitano: con Marco Pannella secondo cui «il decreto è una misura penosa e allucinante che corrisponde agli interessi e alla cultura di questo presidente del Consiglio»; con Massimo D’Alema schierato a favore di Napolitano «presidio delle istituzioni», e Barbara Pollastrini per la quale «è tristissimo vedere calpestato, insieme allo Stato di diritto, il rispetto per il dramma di una donna e di una famiglia»; e, infine, con Benedetto Della Vedova, un liberale del centro-destra che si dichiarava «interdetto della deriva clericale del Popolo della libertà».
Con voce alta si faceva sentire anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che dapprima dichiarava: «Invidio chi ha certezze sul caso Englaro. Personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov’è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla», e poi esprimeva in una nota ufficiale la «forte preoccupazione per il fatto che il governo non abbia accolto l’invito del capo dello Stato a evitare un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza».


II - Il falso biotestamento

Un provvedimento sbagliato

Il 26 marzo 2009, sull’onda emotiva del caso di Eluana Englaro, il Senato approvava un disegno di legge sul testamento biologico («Dichiarazione anticipata di trattamento», DAT) incentrato sui punti: a) divieto di qualsiasi forma di eutanasia, b) divieto di sospendere l’alimentazione e l’idratazione, nonché le terapie mediche se causa di morte per il paziente, c) istituzione di un collegio di tre medici per giudicare lo stato clinico dell’infermo, d) prescrizione di complesse procedure per depositare la dichiarazione anticipata. In pratica, la legge, approvata da un solo ramo del parlamento, cancellava il diritto del paziente di dire l’ultima parola sulle terapie che lo riguardano, ovvero annullava la ragione stessa del biotestamento. Si schieravano a suo favore i senatori del centrodestra con diverse eccezioni e alcuni cattolici del centrosinistra; si dichiaravano contrari anche alcuni deputati del centrodestra dell’altro ramo del parlamento che preannunciavano il loro dissenso tra cui l’avvocato Gaetano Pecorella per il quale decisiva era la risposta da dare «a una semplice domanda: la vita a chi appartiene? Alla Chiesa? Allo Stato? O all’individuo inteso come persona morale? Io penso che appartenga all’individuo e per questo vanno rispettate le scelte dell’individuo».
Nel corso del dibattito, Emma Bonino, vicepresidente radicale del Senato eletta con il PD, aveva implorato: «Vi prego di fermarvi. È una legge crudele, un atto di intolleranza»; ma in maniera opposta si esprimeva la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella che esaltava «la buona legge che rispetta i punti di partenza». Un giudizio, questo, smentito da personalità di grande esperienza come Ignazio Marino, medico specializzato in biotecnologie per malati gravi, e Stefano Rodotà, giurista laico attento ai diritti di libertà. Nel fuoco della discussione il senatore medico dichiarava: «Una legge sbagliata votata senza ascoltare nessuno, ignorando le obiezioni più ovvie... è un errore gravissimo dare al Paese una norma fondata sull’ideologia e sull’emotività, una norma che limita un diritto sancito dalla Costituzione: decidere sui trattamenti sanitari». E il giurista precisava: «Il Senato della Repubblica ha battezzato come "dichiarazioni anticipate di trattamento" il loro esatto contrario cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla».


Il Vaticano vuol dettare legge

Una volta di più su un tema etico, il parlamento approvava un provvedimento d’ispirazione clericale con un consenso ancora più ampio dei confini del centrodestra. Nei Paesi occidentali le norme sul fine vita sono ispirate a due criteri: le fondamenta scientifiche e il rispetto della volontà individuale. In Italia, invece, il testo del Senato disattendeva entrambi i principi per conformarsi alle direttive ecclesiastiche. Lo ammetteva Gaetano Quagliariello riconoscendo che «sarebbe stupido negare che non si è tenuto in considerazione quel che pensa la Chiesa», anche se poi si cautelava aggiungendo che «sarebbe altrettanto stupido pensare che si è scritto tutto quello che voleva la Chiesa»; e lo confermava il senatore Raffaele Calabrò, relatore del disegno di legge, che in dispregio ai canoni medici accettava di legittimare la norma a-scientifica secondo cui «l’idratazione e la nutrizione» non sono terapie e quindi non si possono sospendere perché è in gioco la «scelta tra vita e morte». Ancora più indicativi dell’intervento ecclesiastico sulla DAT erano le opinioni di due esponenti della Chiesa: il vescovo Lucio Soravito, commissario CEI per la dottrina della fede, che commentava: «Il governo e il centrodestra mantengono la promessa fatta per impedire altre morti come quella di Eluana. In questo clima così acceso era lecito temere un passo verso l’eutanasia, invece ora il testamento biologico non è vincolante ed esclude la nutrizione. Di fronte alle preoccupazioni della vigilia, troppa grazia, quasi»; e monsignor Rino Fisichella che aggiungeva:
«Se la dichiarazione anticipata di trattamento fosse vincolante, il medico non sarebbe più libero, quindi almeno va garantita agli operatori sanitari l’obiezione di coscienza ».
Di fatto con quella proposta di biotestamento si approfondiva la frattura tra le posizioni della comunità scientifica e le posizioni bioetiche del mondo clericale. Risultava avvilito il principio laico che riconosce all’individuo la libertà di scelta nelle vicende biologiche, mentre era specularmente valorizzata l’etica assolutistica che vuole l’origine divina dei «diritti naturali» che dovrebbero essere accolti in quanto tali dalla legislazione civile. Il senatore Pera, interlocutore diretto di papa Ratzinger, consegnava agli atti del Senato proprio queste idee, anche se alla fine votava contro il testo: «La religione dell’articolo 2 della Costituzione è la religione cristiana. Oggi molti laici lo hanno dimenticato... credono che questa religione sia di ostacolo, credono che l’interprete di questa religione, cioè la Chiesa cattolica, sia di impedimento o interferisca, credono che senza quella religione noi saremmo più liberi, renderemmo più omaggio alla libertà individuale. È un altro grave errore».
Inoltre, con l’escamotage di considerare non terapeutiche l’alimentazione e l’idratazione, si violava l’art. 32 della Costituzione sulla necessità del consenso per ogni trattamento sanitario. «Togliere l’alimentazione a un paziente», continuava il senatore Pera, «significa togliere il presupposto della dignità; ma se significa togliere la dignità, allora lì c’è la violazione di un diritto che è inalienabile».
Nei palazzi della politica, grazie alla sintonia tra il centrodestra e il Vaticano, l’impostazione clericale prevaleva, anche se la stragrande maggioranza degli italiani la pensava in maniera diversa, come testimoniano i sondaggi effettuati dopo la fine di Eluana. L’osservatorio del Corriere della Sera indicava cifre di per sé evidenti: «Tre italiani su quattro auspicano la possibilità di richiedere liberamente, nel testamento biologico, l’interruzione delle cure qualora si trovassero in una situazione di coma irreversibile. Questa opinione coinvolge anche il 55% di chi si professa credente e frequenta regolarmente le funzioni religiose... Anche sulla possibilità di interrompere la nutrizione e l’idratazione nel caso di coma irreversibile, il 68% auspica di poter decidere liberamente in merito nel testamento biologico». La conclusione era: «Spesso su tematiche attinenti la vita dei singoli, i cittadini assumono l’orientamento che sembra loro più corretto, anche indipendentemente dal proprio orientamento politico. È sovente accaduto anche in passato, ad esempio in occasione del dibattito sul divorzio o sull’aborto».
Anche nel centrosinistra le iniziative laiche non abbondavano, dato il peso assunto nel Partito democratico dalle componenti cattolico-democratiche, cattolico-sociali, oltre che dalla vecchia tradizione catto-comunista. Non mancavano certo personalità schierate sul fronte laico che, pur in minoranza, contrastavano la legge ispirata al conformismo para-ecclesiastico: tra loro la pattuglia dei tre senatori pannelliani, Ignazio Marino, instancabile sostenitore delle ragioni della scienza medica e della libertà dell’individuo, e Massimo D’Alema, per il quale « l’alimentazione forzata è un trattamento medico e imporla contro la volontà del paziente che si è espresso in direzione opposta magari dichiarandolo nel testamento biologico, è un sopruso che va contro la liberta` di cura garantita dalla Costituzione ».
Nel Paese oltre che nelle aule parlamentari si faceva sentire la voce di Umberto Veronesi, oncologo di fama internazionale e senatore del PD, che rifiutava di «assistere impotente alla celebrazione di una legge che è antidemocratica perchè limita la libertà dei cittadini, antistorica, perchè tutto il resto del mondo civile va in direzione del tutto opposta». Con laica tensione, l’illustre medico suscitava le rabbiose reazioni dei circoli tradizionalisti quando affrontava, senza reticenze, le questioni della vita e della morte fino a sostenere il diritto all’eutanasia: «Morire è un dovere biologico ma anche un diritto etico. La libertà dell’individuo, del cittadino, deve riguardare non solo il suo progetto di vita, ma anche il suo progetto di morte. Deve essere riconosciuta a tutti la libertà di scelta e di coscienza anche in questo. La scienza e le tecnologie della medicina non possono evitare la morte, ma possono allungare la vita anche per decenni. È giusto riconoscere a chi lo vuole il diritto ad andare avanti senza limiti prevedibili, ma anche a chi la vede diversamente di chiedere di evitare o sospendere inutili accanimenti... quando ci si trova di fronte allo stato vegetativo permanente diagnosticato a livello neurologico. Insomma, quando muore il cervello, come verificabile dopo almeno un anno di osservazione clinica e di esami elettroencefalici. È una fase in cui gli organi continuano a funzionare, ma la persona non è` più viva, non ha coscienza, percezione, nemmeno sofferenza. Proprio come in una pianta ».


La politica si divarica dalla società

Attraverso le parole di Emma Bonino, Ignazio Marino e Umberto Veronesi si riproponeva in parlamento l’antica sfida tra laici e clericali che metteva in luce la divaricazione tra politica e società che ha connotato la storia civile dell’Italia contemporanea. Per un verso la società politica, mano a mano che soggiaceva all’influenza delle gerarchie ufficiali della Chiesa, ignorava i bisogni della società secolarizzata, rinchiudendosi negli angusti labirinti delle leggi proibizionistiche estranee al comune sentire della popolazione. Per un altro, fiorivano i circoli scientifici e militanti portatori di diffuse domande di liberta` individuale e di nuovi diritti civili anche in materia etica, che tuttavia non riuscivano a esercitare alcuna influenza sulle decisioni politiche e legislative.

Massimo Teodori





NOTE
* Sul tema del testamento biologico, che è fra quelli di maggiore rilevanza etica, sociale, umana ed etico-politica (anche se spesso sommerso dal dibattito su problemi di altra qualità e di meno duraturo rilievo), offriamo alla riflessione dei lettori due testi che ci sembrano di particolare efficacia e interesse. Il primo è un ampliamento dell'articolo Fine-vita: la grandezza del cuore e quella dell'intelligenza, pubblicato da Eugenio Mazzarella, deputato del Partito Democratico, in «Fare Futuro webmagazine», 1° ottobre 2009; il secondo riproduce due capitoli del libro di Massimo Teodori, Contro i clericali, dal divorzio al testamento biologico. La grande sfida dei Laici, Milano, Longanesi, 2009.
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