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Barbarossa
di Giuseppe Galasso
Dopo che ben presto, rispetto al suo primo apparire nelle sale cinematografiche, si parlò di un fallimento del film Barbarossa (poco pubblico, incassi modesti rispetto alle aspettative e, soprattutto, rispetto ai costi della pellicola), adesso addirittura nessuno ne parla più, e sembra proprio che nessuno se ne ricordi neppure vagamente. Eppure, si tratta di una pellicola presentata con tanta enfasi, presenti e plaudenti Berlusconi e Bossi, non solo come un grande evento della stagione cinematografica, bensì anche come una interpretazione della realtà storica e un contributo alla individuazione e alla tutela dell’identità dei lumbard. Qualcosa, insomma, di memorabile e da fare epoca nel “cinema dei popoli”, come lo si potrebbe qualificare secondo una terminologia usuale del fondatore e leader della Lega Nord.
Il film rievoca, come si sa, la vittoria dei Comuni della Lega antimperiale sull’imperatore Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, a Legnano, nel 1176; e ne è al centro la figura di Alberto da Giussano, già oggetto di un culto risorgimentale come eroe della vittoria dei Comuni italiani sull’imperatore tedesco. Un culto risorgimentale, cioè nazionale, degli Italiani che, dagli anni del primo Napoleone a quelli di Cavour, si proposero di espellere l’Austria dall’Italia e di dare al paese l’indipendenza e la libertà, e, in ultimo, l’unità.
Quel che, infatti, gli ideatori del film mostrano di ignorare è che Legnano non è affatto un mito lombardo, bensì un mito italiano. E ad alimentarlo come mito italiano furono proprio i Milanesi, che, con pochi alleati, sostennero il peso della battaglia. All’indomani della vittoria, avendo catturato sul campo le insegne e altri trofei imperiali, essi li inviarono, infatti, a Bologna con una vibrante lettera di accompagnamento, sulla quale gli ideatori, promotori, imprenditori e sostenitori del film avrebbero fatto bene a riflettere (se l’avessero conosciuta), prima di passare a realizzarlo.
Vi inviamo – si diceva in quella lettera – questi trofei strappati all’imperatore germanico perché non li reputiamo soltanto nostri, pur avendoli presi noi, bensì di tutti gli Itali (la parola italiano non esisteva ancora: sarebbe nata a non grande distanza di tempo, alquanto meno di un secolo dopo). Una vittoria italiana, insomma, non solo milanese. E tale - in un certo senso, ossia in un senso legato a una viva coscienza della nazionalità delle genti viventi al di qua delle Alpi rispetto a quelle transalpine – la vittoria di Legnano effettivamente era. La nazionalità, si badi; non la nazione quale sarà definita dal corso dei secoli successivi (e mi si perdoni se a questo riguardo rinvio al mio L’Italia come problema storiografico, ed. Utet).
Ai tempi del Barbarossa il Sacro Romano Impero, come ormai lo si chiamava – ossia l’area italo-germanica, con alcuni annessi, che rappresentava ciò che restava, continuandolo, dell’Impero Romano di cui si era proclamato sovrano nell’800 Carlomagno – aveva già perduto molto dei suoi originari poteri, ma rappresentava ancora in Germania una realtà politica consistente e sentita sempre più, quale in effetti si era ridotta ad essere, come una realtà tedesca (e si sarebbe alla fine parlato di Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca).
In Italia l’Impero conservava molti titoli di diritto, poteri e aderenti; e, soprattutto, conservava sempre la titolarità del Regno dei Longobardi conquistato nel 774 da Carlomagno e poi rimasto legato all’lmpero sotto i suoi successori, anche quando, già prima del Mille, agli imperatori franchi della stirpe del fondatore Carlomagno subentrarono quelli germanici. Dopo il Mille in Italia cominciò a svilupparsi il movimento dei Comuni, che non disconoscevano la sovranità dell’Impero, ma rivendicavano un’autonomia che riduceva quella sovranità a nulla, e ciò rese fatale il conflitto col Barbarossa, che osteggiava decisamente la rivendicazione comunale di autonomia e intendeva ristabilire la sovranità imperiale, ovunque, e proprio partendo dall’Italia. Senza, peraltro, per nulla riuscirvi, scontrandosi non solo coi Comuni (molti dei quali seguivano, però, le sue parti), bensì anche col Papa, col Regno di Sicilia e con Venezia, la cui alleanza fu decisiva per il successo dei Comuni e configurò da allora un vero e proprio sistema degli Stati della penisola italica, accentuando così il carattere di contrasto tra area germanica e area italica dell’Impero, subito assunto dal conflitto col Barbarossa.
Non avevano, perciò, tutti i torti gli uomini del Risorgimento che di Legnano e della Lega vittoriosa fecero un emblema del movimento nazionale italiano. Né aveva tutti i torti Giosuè Carducci, che scrisse La canzone di Legnano per consacrare poeticamente quel mito italiano e che, ben prima del film, ne mise al centro la figura, eroicizzata, di Alberto da Giussano (commise anche un errore grave, parlando del Sole che «ridea - calando dietro il Resegone», il monte che sta a levante, non a ponente di Milano; ma sono cose che capitano ai poeti e non fanno danno: anche a Leopardi toccò di essere ripreso dal Pascoli, perché il «mazzolin di rose e di viole» della «donzelletta» che «vien dalla campagna» ignora che rose e viole fioriscono –almeno allora era così – in tempi diversi e non potevano, quindi, essere congiunte in nessun mazzolino).
Non voglio dire, con ciò, che l’emergente insuccesso del film sia dovuto a questo suo clamoroso errore storico. Ma, insomma, sarebbe meglio – credo – se, facendo un film storico, non si alterasse in modo così marchiano la realtà storica.
Vero è, peraltro, che sulla discutibile cultura e sugli altrettanto discutibili riferimenti storici della Lega Nord nessuno dovrebbe avere dubbi.
Già sarebbe bastata a ciò l’evocazione di una mai esistita realtà storica dal nome Padania, come canone oggettivo e a fondamento storico, e addirittura etnico, di una pretesa causa indipendentistica, che sarebbe legittimata da quell’inconsistente canone.
I dubbi, poi, crescono ancora, e di molto, quando si riflette sul fatto che, per risalire ai fondamenti storici della pretesa Padania, ci si rifece ai Celti. Abbiamo la presunzione di credere che ci si poteva e doveva attendere, piuttosto, un riferimento ai Longobardi, dai quali i lumbard hanno derivato, insieme col nome, le vere e più profonde coordinate del loro essere storico e della loro identità, via via evolutasi da quella dei tempi longobardi e della loro capitale Pavia a quelli attuali, benché con un progressivo e notevole rimpicciolimento dell’‘area originariamente longobarda, proseguito fino ancora al secolo XVIII, quando i Savoia rosicchiarono ancora qualcosa dello spazio lombardo. E basterebbe. Non senza ricordare, però, che soltanto fra i tempi di Napoleone e quelli dell’unificazione italiana nel 1861 la Lombardia ha finito col recuperare i territori del Bresciano e del Bergamasco, che per quattro secoli e più appartennero a Venezia e portano ancora in tanti loro monumenti e luoghi l’insegna del Leone di San Marco.
Se però, induce a tali riflessioni sulla tradizione e sull'identità nazionale il vagheggiamento leghista di Alberto da Giussano come eroe dei Comuni lombardi (ma italianissimi, come si è detto) contro il Barbarossa, a riflessioni equivalenti, ma contrarie induce l'episodio relativo allo stesso Barbarossa per la statua erettagli a Lodi.
Dal punto di vista della cronaca storica qui le cose stanno a posto. Lodi era stata da quasi cinquant'anni distrutta dai Milanesi, quando nel 1158 il Barbarossa, con alcune famiglie nobili lodigiane la rifondò nella sede attuale, presso l'Adda. Oggi nella città, da poco capolugo della neo-istituita, omonima provincia, l'amministrazione di centro-sinistra ha approvato l'iniziativa del momento (finanziata dalla Banca Centropadana), vedendovi una celebrazione delle origini della città e, quindi, della relativa identità.
Dal punto di vista etico-politico e più generalmente storico le cose non stano, invece, altrettanto bene. La celebrazione della risurrezione di Lodi può essere ben compresa, ma riporta a quella micidiale epoca della storia italiana in cui le rivalità fra le città italiane e al loro interno erano tali da renderne la vita, per questo aspetto, estremamente drammatica. Dante che ne aveva fatto una crudele esperienza descrisse questo stato di cose coi toni dolenti di un'aspra requisitoria nel canto VI del Purgatorio (il canto di Sordello), e quella sua requisitoria rimase tra i più classici riferimenti dell'idea italiana. rifondando Lodi, il Barbarossa stimolava le rivalità e i risentimenti (ma meglio si direbbe gli odi e le incompatibilità) tra le città italiane, secondo un criterio politico fin troppo facile a ravvisarsi e comprendersi. La rifondazione ebbe luogo poco dopo che il Barbarossa aveva costretto Milano a piegarsi a lui, e quattro anni dopo, nel 1162, essendosi quella indomabile città di nuovo ribellata, la rase del tutto al suolo. Il che non impedì che nel 1176 la Milano ricostruita lo sfidasse di nuovo e gli infliggesse la sconfitta d Legnano.
Che cosa c'è da festeggiare o celebrare, dal punto di vista nazionale lombardo, nel Barbarossa? Nulla, oseremmo credere. E oseremmo anche credere che ben di più dovrebbe essere riconosciuto nel suo autentico significato (che non è quello dato ad esso dalla Lega) l'epico e tenace sforzo dei comuni lombardi per preservare la propria autonomia contro l'Impero germanico; e credere perfino che, per celebrare la rifondazione di Lodi moto più corretto e istruttivo, poteva esservi un'idea di monumento commemorativo più felice di quella della statua dedicata al Barbarossa (magari una "geniale" stele o qualcosa che riguardasse i Lodigiani come tali).
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