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Sicilia chiama Calabria: all'alba del Risorgimento
di Fausto Cozzetto
Uno degli ultimi seminari di studio, che il Comitato Nazionale per le celebrazione del Secondo Centenario del Decennio Francese ha ritenuto di inserire nel suo programma pluriennale si è svolto nell’ottobre 2008 a Vibo Valentia in Calabria, sul tema “Ordine e disordine. Amministrazione e mondo militare nel Decennio francese”. A me pare che uno dei maggiori meriti del convegno, come ha rilevato peraltro Aurelio Musi nelle sue considerazioni conclusive sui lavori del Convegno, sia consistito nell’avere portato a confronto l’indagine storica sul Decennio francese, come fu vissuto nel Mezzogiorno continentale, e quella sul Decennio inglese, quale si espresse nella Sicilia di Ferdinando di Borbone. Questo elemento, per il tema affrontato, già di per sé inedito, si rafforza con una seconda considerazione che, a mio modo di vedere, ne caratterizza il valore storiografico. Una parte non piccola delle relazioni di questo convegno riguardano la Calabria, una regione che in quella fase storica costituiva una terra di frontiera tra l’ultima propaggine peninsulare dell’Impero francese e la maggiore isola mediterranea, la Sicilia di Ferdinando di Borbone, allora militarmente difesa dall’Inghilterra, perno dell’alleanza antinapoleonica. Occorre tener conto che certamente nel corso dell’Età moderna, durante il viceregno spagnolo e la rinascita del Regno autonomo del Borbone – con lontane radici medievali, risalenti all’occupazione bizantina del Mezzogiorno continentale e insulare, e discendenti fino all’ingresso dei due ambiti territoriali nel sistema della Corona d’Aragona di Alfonso il Magnanimo –, la Calabria, o almeno gran parte della Provincia di Calabria Ulteriore, era stata irresistibilmente attratta dall’economia e dalla vita civile e culturale che si svolgeva, in particolare, nella Sicilia Orientale e a Messina. Nel 1792, un intellettuale come Galanti scriveva che «gran parte della Calabria sussiste per Messina, dove manda i suoi generi e ne ritrae il bisogno vitale». Da parte sua, uno storico calabrese ottocentesco, Davide Andreotti, nella sua tuttora insuperata Storia dei Cosentini coglieva un aspetto essenziale dei contrasti politici che attraversarono la regione durante il Decennio, scrivendo:
I carbonari della Provincia (cosentina) erano in poco accordo con quelli delle altre, e fra loro; quelli di Cosenza sinanco l’un dall’altro discordavano. Causa di questo disaccordo stava in ciò, che alcuni detti Carbonari Murattini volevano Murat con un governo rappresentativo ─ altri un governo rappresentativo, e con esso l’Indipendenza Italiana ─ I Carbonari Britannici volevano l’Italia Indipendente, con un re da proporsi e raccomandarsi alla potenza attuale dell’Inghilterra ─ I Carbonari borbonici aspiravano a cacciare i francesi dal Regno, e cercavano la restaurazione alle franchigie costituzionali garentite dal governo Britannico [ivi, III, ed. Pellegrini, 168].

Una prospettiva, quella dello storico liberale cosentino, che collocava i contrasti politici allora presenti in Calabria opportunamente inseriti nei termini dello scontro ideologico e politico che coinvolgeva tutto il Mezzogiorno continentale e la Sicilia anglo-borbonica. È chiedere troppo invece che lo storico cosentino si rendesse conto come lo scontro settario di cui annotava l’esistenza in provincia di Cosenza fosse una manifestazione da inserire nell’alveo del grande dibattito e connessa sperimentazione storico-politica, avviatisi nel corso del decennio rivoluzionario francese sulla trasformazione dello Stato in senso costituzionale anglosassone, poiché era quello l’unico modello allora proponibile nella doppia polarità costituita dalla monarchia costituzionale britannica e dalla repubblica federale americana. Quel dibattito e quella sperimentazione storico-politica erano proseguiti nei paesi, come l’Italia di fine Settecento, influenzati dalle vicende rivoluzionarie e “gettati” nell’inevitabilità del mutamento istituzionale dai successi militari napoleonici; riemersi con forza, ma questa volta con valenza antinapoleonica, in Spagna come in Sicilia e nelle altre grandi isole del Mediterraneo Occidentale nella sua complessa dimensione europea dei primi tre lustri dell’Ottocento.
Da riflessioni, sperimentazioni e conflitti venivano emergendo posizioni politico-pratiche che si proiettavano nella dimensione locale attraverso il fenomeno delle società segrete e dei gruppi di pressione che, in maniera più o meno aperta, sul piano della concreta prassi politica, si contendevano il potere nelle aree, come quella siculo-napoletana, ma anche, come verrebbe di ricordare, limitandosi solo al fronte Mediterraneo, quella iberica, divenute frontiere tra impero napoleonico e sistema delle alleanze antinapoleoniche. Tale prospettiva non ha avuto tuttavia molta fortuna nella storiografia successiva ed è merito proprio del fatto che questo convegno ha messo a confronto temi comuni alla storiografia sulle due aree, ad avere prodotto risultati, a mio parere, molto interessanti, anche nella ricostruzione dello scontro militare e di quello politico ed ideologico che pur si realizzò nel Decennio anglo-francese.
Proprio in una di queste relazioni, presentata da Rosa Ciacco, si può individuare il punto d’avvio di una delle risultanze di questo congresso. Esso si è incentrato sul concetto che Giuseppe Galasso ebbe ad esprimere nel recensire il saggio del Cingari su Giacobini e sanfedisti nella Calabria del 1799 [Messina, Firenze, D'Anna, p. 195], egli osservava che a scontrarsi in quella fase storica erano certamente due fronti ma che il carattere sociale era variegato e che lo scontro «non si prestava a essere definito in termini sociali quanto in termini – come si è detto – ideologici e ideali», per cui si dovrebbe piuttosto parlare di «bipolarità». Ebbene, le relazioni di Vittorio Scotti Douglas e Rosa Ciacco, la prima che compara i termini dello scontro tra francesi e minoranze spagnole vicine alle posizioni dei napoleonidi, da una parte, e maggioranze spagnole sostenitrici del Borbone di Spagna con appoggio inglese dall’altra; la seconda che analizza i modi di essere dello scontro tra sostenitori degli anglo-borbonici, da una parte, e partito francese e truppe napoleoniche dall’altra, sia pure in una ambito territoriale limitato come Cosenza e suoi Casali presilani, appaiono, apparentemente, molto distanti nelle conclusioni di Douglas che sembra distinguere i termini di una “resistenza spagnola” e quelli di un “resistenza calabrese”, ma in realtà mostrano forti elementi di integrazione quando si leggano i termini della “resistenza calabrese”. Per il primo, infatti le ragioni della minore ferocia e, conseguentemente, del “rispetto” che i francesi manifestarono, nei confronti della popolazione civile, possibile imputata di sostegno agli antinapoleonidi fu il risultato, soprattutto del più vasto fronte popolare e dell’assai meno convinta adesione della minoranza spagnola al governo di Giuseppe Bonaparte. Timorosi delle quotidiane insorgenze di città e campagne, non appena abbandonate dalle loro truppe i francesi si comportarono “meglio”. Solo un problema di rapporti di forza perciò, secondo il Douglas, per cui in Calabria proprio le minor dimensioni della resistenza popolare avrebbero reso più sanguinosa la repressione francese, e più disumana, di conseguenza, l’insorgenza delle bande anglo-borboniche. Gli studi condotti sul fenomeno antifrancese nel Mezzogiorno, e in particolare in Calabria, hanno sottolineato l’ampiezza dello scontro ideale e politico e i riferimenti, prima sottolineati, alle diverse anime delle sette sulle prospettive politiche perseguite dai contendenti, non fanno che confermare il carattere di guerra civile tra grossi segmenti socialmente compositi di calabresi filo francesi, filo anglo-borbonici e gruppi di propensioni politiche costituzional-liberali che essa, sostanzialmente, venne assumendo, pur nel rilievo delle operazioni militari condotte dalle truppe napoleoniche.
Ora è sempre apparso intuitivamente evidente, ma senza che mai ne sia stata offerta una testimonianza storiografica, che in Calabria, i termini dello scontro siano stati resi assai più acuti e coinvolgenti da gruppi e forze sociali che, almeno fino al 1810, si schierarono su posizioni ideologicamente e politicamente opposte per il fatto che prima dell’occupazione francese del 1806 c’era stata la rivoluzione giacobina e la reazione massista del Ruffo, del 1799, e non va mai dimenticato che tutto si svolse nella regione in assenza di occupazione militare francese. In Spagna, invece, come nota il Douglas, il carattere di guerra di liberazione del popolo spagnolo contro lo straniero francese è risultato difficilmente contestabile sul piano storiografico.
Ciò che è emerso, nelle relazioni congressuali, e si tratta di un fenomeno al quale alcuni studi locali avevano fatto riferimento, ma senza che ad esse di riservasse una particolare attenzione da parte della storiografia, è che lo scontro ideologico in Calabria non si attenuò affatto nel corso della prima restaurazione borbonica e che la ricostruzione che il Cingari aveva operato su questa età di “disordine”, i cui primi protagonisti sarebbero stati massisti sbandati, aveva sottovalutata, tra il 1800 e il 1806, la permanenza di aggregazioni politiche di ex giacobini, alimentate dallo scontento popolare verso il restaurato governo borbonico. La relazione di Rosa Ciacco sui Casali di Cosenza porta concreti elementi per testimoniare l’esistenza in questi villaggi di gruppi organizzati legati agli ex giacobini e agli ex massisti, tra il 1803 e il 1804. E, con riferimento ad altra parte della Calabria, il sottointendente di Catanzaro Carlo Plutino ricordava, qualche anno più tardi, come «le persone oneste e comode dei piccioli paesi trovansi emigrate e ricoverate in questa città o nelle altre città grandi di questa o dell’altra Calabria; quelli che restarono nelle loro patrie si odiano scambievolmente e formano la loro occupazione deliziosa di processarsi o di tirarsi qualche piccola fucilata» (cit. nella relazione di Valeria Ferrari) in cui l’ironia del sottointendente sottovaluta le ragioni che portano gruppi di “benestanti”, minacciati dalle vicende belliche, a confrontarsi all’interno delle loro patrie con gli avversari che non erano, evidentemente, come non lo erano nei Casali di Cosenza, solo di clan familiari. Jacques Rambaud, opportunamente citato dal Douglas nel suo intervento, testimoniava a questo proposito, che «si esagererebbe poco sostenendo che il 1806 è nient’altro che il riavvio del 1799, dopo una stasi apparente; si tratta della ripresa della guerra civile piuttosto che di una guerra contro lo straniero» [Naples sous Joseph Bonaparte, 1806-1808, Paris, ed. Plon, p. 103] anche se l’interpretazione della ripresa di questa guerra civile “in sonno” per sette anni era quella tradizionale “dei poveri contro i ricchi”. In questo contesto andrebbe rivisto il troppo abusato cliché interpretativo per cui la sconfitta borbonica spalancò le porte della regione alle truppe di Giuseppe Bonaparte, in una “passeggiata militare” fino a Reggio, frutto della rassegnazione dei calabresi che apparivano scontenti del governo borbonico della prima restaurazione; così come non meno semplicistico appare l’altro luogo comune, che vedrebbe nella violazione dell’onore di una donna di Soveria Mannelli per opera di un soldato francese e della reazione del marito offeso l’avvio di una generale nuova insurrezione calabrese, che innestatasi alla vittoria anglo-borbonica nella battaglia di Maida, portò alla non meno subitanea perdita della regione da parte delle truppe francese, a pochi mesi dalla conquista. Le vittorie di eserciti regolari creano nello schieramento avversario un grave e immediato problema logistico-militare che favorisce la rapida avanzata del vincitore, mentre le tattiche della guerriglia di gruppi di civili armati, utilizzano tempi e moduli militari che hanno bisogno di tempi medio-lunghi per esprimersi.
Ma un altro aspetto molto interessante è stato evidenziato nei lavori del congresso da parte di studiosi siciliani ed è la complessità delle condizioni politiche ed ideologiche in cui visse il Regno di Sicilia nel “Decennio inglese”, è questo era certamente già noto, ma nuova è l’attenzione che Francesca Lo Faro e la Michela D’Angelo hanno portato nel delineare quanto di “partito napoletano” operò all’interno della Sicilia anglo-borbonica, collocandosi nella prospettiva, del tutto funzionale ai disegni borbonici, della riunificazione dei due Regni, ma con progettualità politiche o del tutto simile alla prima e fallita restaurazione borbonica, o dell’accoglienza di suggestioni liberaleggianti e costituzionali che la stessa Maria Carolina aveva lasciato che circolassero. E, sul fronte opposto della vita politica siciliana, quanto operò la “guerra ideologica” inglese in nome dei principi del costituzionalismo britannico, a favore della dimensione talassocratica e mediterranea che prevedeva addirittura il passaggio della Sicilia alla Gran Bretagna, espressa, non solo dalla costituzione siciliana del 1812, quanto anche dalle altre esperienze simili vissute in Corsica, a Malta e nella confederazione delle isole Ionie. Ed è appena il caso di ricordare che i motivi di “Sicilianità” in essi contenuti si sposavano con il sostegno della grande aristocrazia siciliana ai progetti di monarchia costituzionale, che riprendeva e rafforzava il ruolo del parlamento quale si era manifestato in Sicilia, a partire dalla rivendicazione, per secoli, del carattere pattizio della monarchia siciliana. Al contrario, la rivendicazione da parte del partito napoletano in Sicilia di riforme che, sulla scia del riformismo settecentesco napoletano e sulla base di quanto stava avvenendo nel Regno di Napoli, con l’abolizione della feudalità, ridimensionassero il ruolo della grande feudalità siciliana, rafforzando nel contempo il ruolo della Monarchia. Motivi tutti che si ritrovano nei termini ideologici delle presenze settarie in provincia di Cosenza testimoniati dall’Andreotti. Su queste presenze la relazione di Luca Addante affronta alcuni aspetti che lo portano a ritenere che l’abate Francesco Saverio Salfi, uno dei maggiori punti di riferimenti della massoneria e del giacobinismo calabrese e, più specificamente, cosentino, fosse divenuto carbonaro, certo, tuttavia rimane da spiegare il perché proprio nella provincia cosentina in cui la modernizzazione amministrativa e gli effetti sociali dei processi riformatori francesi – vi è un dato riportato di recente da Rossana Sicilia in un convegno svoltosi a Bari [A. Spagnoletti (a cura di), Governo della città governo nella città, Bari, 2009, p. 59] riferentesi alla sola Cosenza ( con un 12,8% di impiego pubblico, un 6,3% di professioni liberali, un 11,5% di scolari e studenti) – avevano dato i maggiori risultati, il fenomeno settario assunse un carattere di agitazione costituzional-liberale in un contesto nazionale unitario e antifrancese con i gruppi che ebbero nel Federici alias Capobianco il loro esponente più emblematico. Ed è ancora l’Andreotti a testimoniare in maniera mirabile quanto ho affermato:
Capo della Carboneria si rese Vincenzo Federici di Altilia, Casale di Cosenza, di civile condizione, di poveri studi, ma sagacissimo nel dire e di una persuasiva fuori del comune. A tempo della Repubblica partenopea, fu repubblicano; Capitano della sezione del Circondario al quale apparteneva sotto Gioacchino. Si pose egli in corrispondenza co’ carbonari di Sicilia, coltivava le relazioni con le vendite di altre Provincie, e per organo dell’alta vendita napoletana con quelle del nord d’Italia (cit., pp.163-164).
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