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Religione e cittadinanza: un progetto formativo per l’uomo e per il cittadino
di Vittoria Fiorelli
Alla fine del 2007 l’OCSE (Organization for Security and Co-operation in Europe), in collaborazione con l’ODIHR (Office of Democratic Institution and Human Rights), ha pubblicato i Toledo Guiding Principles on Teaching about Religions and Beliefs in Public Schools1. Quel lavoro nasceva con l’intenzione di fornire le linee guida per l’inserimento dello studio delle religioni nei programmi scolastici, nella convinzione che spiegare alle nuove generazioni le caratteristiche fondamentali per distinguere modi diversi di credere e di comportarsi avrebbe, di fatto, agevolato il rispetto per le diversità e ridotto il rischio del dilagare di stereotipi nocivi e pericolose incomprensioni sociali. Si trattava, insomma, di offrire strumenti operativi a quegli Stati che avessero scelto di intraprendere la strada dell’integrazione anche attraverso la progettazione di un sistema formativo attento alle differenze.
Questa iniziativa è solo una delle risposte possibili alla crescente presenza delle religioni nella sfera pubblica delle società occidentali. Dopo un lungo percorso di laicizzazione della vita e del pensiero, il bisogno di sacro e la riscoperta delle appartenenze religiose, sempre più vissute nei termini del riconoscimento identitario, fanno oggi da contraltare a una realtà storica oramai globalizzata, caratterizzata da un’elevata mobilità di persone provenienti da tradizioni etniche, spirituali e culturali molto distanti tra loro. Senza indulgere sulla sfera dottrinale, l’approccio educativo che traspare da quella sollecitazione ad aprire le scuole pubbliche allo studio delle religioni era piuttosto orientato a costruire una competenza di etica e cultura religiosa. Una prospettiva in sintonia con la crescita dell’attenzione alla dimensione confessionale delle connotazioni culturali che si affaccia con insistenza nella riflessione intellettuale e nelle esigenze di pianificazione normativa e sociale del mondo contemporaneo2.
Può essere perfino banale rilevare quanto la società europea sia costretta oggi a ripensare se stessa non solo in rapporto a una nuova modernità, ma anche rispetto all’esigenza di interloquire con gruppi etnici dai contorni spesso indefiniti, la cui presenza si mantiene fluida e instabile all’interno di assetti sociali che vanno perdendo il radicamento a stabili quadri di riferimento storico-culturale. Meno scontato, invece, è riflettere sul fatto che, in un panorama sociologico così poco consolidato, la provvisorietà di dinamiche collettive in fieri rende difficoltosa la disponibilità a produrre una condizione di meticciato culturale che i gruppi radicati sul territorio riconoscano come effettiva possibilità di sviluppo innovativo nel sistema di riferimenti al quale sono abituati.
Anche per questo motivo, il piano del confronto e della conoscenza delle credenze religiose offre un terreno di incontro e un canale di comunicazione del quale sarebbe dannoso trascurare l’importanza, lasciando piuttosto la strada aperta al pregiudizio e all’incomprensione.
Non è un caso che il documento prodotto dal gruppo di lavoro di Toledo fosse esplicitamente indirizzato ad analizzare le possibilità offerte dall’insegnamento “about religions and beliefs”, cioè “a proposito” delle religioni e delle credenze.
Si tratta di un approccio volutamente vago che delimita però con chiarezza ciò che non intendeva essere preso in considerazione. Riflettere “attorno” alla spiritualità e alla cultura religiosa dei gruppi sociali, infatti, apre la strada a una molteplicità di possibilità e di applicazioni, declinabili secondo le esigenze e il contesto, ma lascia da parte qualsiasi intento di indottrinamento e di catechesi.
L’idea di includere la diversità religiosa tra gli elementi necessari a un’educazione compiutamente interculturale trova non poche difficoltà applicative nella realtà della scuola italiana. L’annosa questione dell’insegnamento della religione cattolica in tutte le classi del percorso formativo, previsto dalla legislazione concordataria, sbarra, di fatto, la strada a un approccio volto alla conoscenza degli orientamenti sociali e intellettuali che si sono sviluppati attorno alle tradizioni spirituali ed è oggi complicata da una riforma del sistema scolastico che stenta a trovare le forme per un ripensamento coerente dell’offerta formativa pubblica.
Insistere sulla opportunità di sostituire l’ora di insegnamento della religione cattolica con un percorso di storia delle religioni non tiene in conto i limiti costituiti dagli accordi che lo Stato italiano ha firmato con la Santa Sede. L’istruzione religiosa inclusa nella programmazione scolastica non contempla, infatti, uno spazio destinato a costruire le competenze per comprendere storia e spiritualità della tradizione occidentale del quale la Chiesa si è impropriamente appropriata. Essa è stata, fin dall’inizio, esplicitamente destinata a confermare una presenza non episodica della tradizione ecclesiastica romana nel progetto educativo nazionale.
La legge di revisione dei Patti Lateranensi, promulgata nel 1985, stabilisce esplicitamente che «la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado»3.
La responsabilità dei contenuti e delle forme didattiche di questo percorso formativo, dunque, è appannaggio delle gerarchie ecclesiastiche. Secondo quegli accordi, i docenti erano scelti dalla curia e confermati nelle loro funzioni dal vescovo a ogni inizio di anno, mentre allo Stato italiano toccava pagare lo stipendio a un personale per il quale non aveva alcuna possibilità di determinare forme e criteri della scelta. Il 15 luglio 2003, però, la Camera dei deputati ha definitivamente approvato la legge sull’immissione in ruolo degli insegnanti di religione, sanando così una situazione di fatto paradossale e ponendo le basi per una diversa e più legittima inclusione dei nuovi professori nel corpo docente statale.
Detto questo, senza entrare nel merito della delicata questione dei rapporti tra Stato e Chiesa e tralasciando il problema del finanziamento delle scuole confessionali, qualche considerazione va fatta al margine della difficile definizione di disciplina facoltativa che attiene alla presenza della religione cattolica nel panorama scolastico italiano.
Certamente non è secondaria la polemica riguardante lo statuto della materia e la valutazione di fine anno che essa produce. La questione centrale, però, resta l’effettiva possibilità di offrire opzioni differenti a quelle famiglie che scelgano di non avvalersi di questo insegnamento. La penuria di risorse che mortifica la programmazione formativa di ogni pubblico istituto italiano, infatti, spesso impedisce ai dirigenti scolastici la possibilità di proporre percorsi alternativi credibili. Lo sviluppo di progetti sperimentali da parte di alcuni di essi costituisce un’occasione rara, discontinua, in alcuni casi orientata allo studio della storia delle religioni e alla problematizzazione degli aspetti esistenziali e spirituali connessi alle credenze di uomini e gruppi sociali4.
Senza approfondire la riflessione sul panorama delle offerte di scuole che purtroppo non rappresentano la norma nel panorama educativo nazionale, mi sembra che la questione non vada affrontata in questi termini. Fintanto che l’iniziativa resta demandata alle singole realtà didattiche, infatti, il loro operato va letto nel contesto nel quale esse vivono e lavorano. Il multiculturalismo delle classi condiziona l’offerta pedagogica dei docenti, modulandola secondo parametri non univoci, valutabili dal punto di vista delle ricadute culturali sul loro ambiente di riferimento.
L’idea di inserire lo studio delle tradizioni religiose nei percorsi istituzionali della pubblica istruzione, invece, dovrebbe essere integrata nell’ambito di un intervento strutturale sui contenuti dell’educazione scolastica. O l’ora di religione viene sostituita in modo trasversale da una materia i cui contenuti disciplinari si aprano alla conoscenza delle tradizioni religiose e spirituali che hanno storicamente fatto parte del processo di costruzione delle identità culturali e sociali che caratterizzano la tradizione del Paese nel quale la scuola opera, o essa resta affidata alla capacità organizzativa dei singoli istituti, alla libera scelta dei genitori e alla responsabilità dello Stato di garantire un’alternativa laica a una formazione dottrinale, vigilando sulla qualità dell’offerta didattica. In entrambi i casi, però, si tratta di accordi e valutazioni che trascendono le realtà locali e sono dunque affidate a una visione politica e strategica della formazione pubblica che si faccia carico della necessità del confronto e del dialogo con dimensioni spirituali diverse da quelle cresciute e sviluppate nell’alveo della tradizione dell’Occidente.
Affrontare un tema così vasto e complesso avrebbe bisogno di ben altri spazi di riflessione e di confronto che non le considerazioni raccolte in queste pagine. Qualche commento si può azzardare da una più circoscritta prospettiva, ritagliando uno spazio di analisi limitato a una religiosità che potremmo definire “occidentale”, attenta cioè alla presenza del “discorso religioso” coerente con la società nella quale viviamo.
Per quanto condizionata dalla proiezione globale e dalla superficiale conoscenza di tradizioni e di culture “altre” con cui le dinamiche di comunicazione e di popolamento contemporaneo ci costringono a fare i conti, anche la presenza nel nostro orizzonte quotidiano di forme del vivere e del credere tradizionalmente distanti dalla nostra si collocano, come si è detto, in un panorama sociale e culturale ancora condizionato in modo prevalente dalla radice identitaria della nostra storia. Una realtà che pone l’incontro tra culture in una proiezione di estraneazione, rilevando una differenza netta tra ciò che è assunto come riconoscibile, e dunque proprio, e ciò che si accoglie, ma pur sempre come diverso. L’appartenenza religiosa diventa, in questa prospettiva, un fattore identificante a patto che essa sia percepita nella sua proiezione storica. Il contributo dato dai suoi principi e dai suoi rituali allo sviluppo degli stili di vita ha fornito la struttura sintattica che sottende la semantica della religiosità pubblica e della memoria condivisa che si è radicata nei comportamenti collettivi della tradizione europea.
Più che da scelte di spiritualità individuale, la presenza delle appartenenze religiose nello svolgimento della vita collettiva si lega dunque all’adesione di individui e comunità agli elementi esteriori e storicizzati che la spiritualità ha fatto sedimentare nel tessuto connettivo dei gruppi sociali. Le procedure di riconoscimento esteriore che dominano le reti di connessione di ogni genere di appartenenza spirituale comportano la necessità di identificare formule di rispetto e di tolleranza che passano per la conoscenza, premessa inevitabile del riconoscimento.
Un percorso di questo tipo può essere sviluppato attraverso la comprensione della dimensione storicizzata di ogni credo e, dunque, attraverso la definizione delle radici del condizionamento dei comportamenti sociali e culturali degli individui e dei gruppi dei quali essi sentono di far parte. Conoscere e riconoscere la presenza istituzionale delle organizzazioni religiose nel processo storico della loro diffusione spirituale costituisce un passaggio basilare per ogni prospettiva di integrazione. Solo la “competenza sociale” può contribuire ad aprire la strada al superamento della cristallizzazione dei processi identitari, responsabili di innescare quelle dinamiche contrappositive frequenti durante la edificazione del processo di riconoscimento di appartenenze decontestualizzate dall’adesione a contenuti e convincimenti spirituali.
Se tale assunto è generalmente condivisibile, esso risulta irrinunciabile per ipotizzare qualsiasi percorso di avvicinamento alla religione cattolica, uno dei tratti distintivi di maggiore spessore nella tradizione culturale europea. Il sentimento di inclusione e la spiritualità condivisa che ne hanno caratterizzato la storia, infatti, si sono identificati con la Chiesa di Roma, punto di riferimento unico e insostituibile, anche nei termini di una feroce contrapposizione, per ogni presenza religiosa che si sia affacciata nello svolgimento delle vicende dell’Europa moderna. Per questo, non è immaginabile alcuna identità cattolica indipendente dalla storicizzazione dei principi cristiani operata dal papato e dall’apparato ecclesiastico, né un progetto di integrazione sociale e culturale allocato nell’orizzonte culturale determinato da quelle radici che si intenda improntato a una deistituzionalizzazione integrale dei meccanismi sociali di appartenenza di quel credo.
Una riforma degli spazi destinati all’educazione religiosa che voglia intraprendere un percorso di costruzione di competenze trasversali “about religions” dovrebbe ben guardarsi dalla prospettiva ideologica di proporre uno studio di storia delle religioni senza misurare spazi e tempi di una didattica praticabile all’interno delle scuole.
A questo proposito, un interessante accostamento si potrebbe azzardare tra l’intenzione di avvicinare i giovani in età scolare alla storia delle religioni e un analogo tentativo, teso a scontornare prassi consolidate e tracciati inflessibili, finalizzato a rivedere i contenuti dei programmi di storia per la scuola primaria. La presenza sempre più diffusa di bambini provenienti da stirpi e culture diverse aveva posto il problema dei limiti di una storia eurocentrica, che poteva segnare negativamente il processo di integrazione dei piccoli stranieri5. L’urgenza del mutato contesto sociale apriva dunque la strada all’acquisizione di alcuni elementi del dibattito teorico e metodologico sulla World History. L’insegnamento di una storia globale era sembrato l’occasione per superare, almeno in parte, i tradizionali confini disciplinari, aprendo le aule scolastiche ad una consapevole rielaborazione progettuale delle complesse dinamiche del mondo contemporaneo6.
Nella rimodulazione dell’attività didattica, però, il racconto della storia occidentale rischiava di trasferirsi in una dimensione fiabesca a causa del vuoto iconico e semantico attraverso il quale esso veniva trasferito. Rincorrendo una formale tensione all’inclusione, insomma, la conoscenza del passato si trasformava in un superficiale e confuso viaggio attraverso un tempo mitico, privo del necessario ancoraggio ad ambienti di volta in volta chiari e definiti. Così, quella che aveva inteso essere una apertura a tradizioni culturali “altre”, diventava la potenziale responsabile di una distanza probabilmente più profonda, difficilmente colmabile.
Dopo essersi a lungo interrogati su quale storia si dovesse insegnare, i docenti hanno superato la sfida teorica servendosi della pratica quotidiana. L’esigenza di trasmettere un universo coerente di valori, simboli, tradizioni e narrazioni ha così sgomberato il campo dall’ipotesi di una prospettiva mondiale, riportando la didattica a un ripensamento metodologico ancorato a contenuti consolidati dalla prassi pedagogica.
L’impraticabilità di una proiezione totalizzante nell’insegnamento della storia preconizza, se pure ce ne fosse bisogno, le difficoltà di programmare qualsiasi percorso formativo di storia delle religioni che volesse confrontarsi con la complessità delle sfide poste dalla fluidità composita delle società contemporanee. Una difficoltà oggettiva, di fronte alla quale la risposta più verosimile per la principale agenzia formativa di uno Stato laico, la scuola pubblica appunto, dovrebbe essere quella di ispirare ogni settore disciplinare incluso nel suo progetto educativo a un principio di laicità positiva e non oppositiva, tesa alla costruzione di spazi dedicati al confronto e alla conoscenza, senza però dismettere la rilevanza della presenza cattolica nella costruzione storica dell’Occidente.
Il contributo dato dalla religione alla fondazione dell’identità europea è stato al centro del dibattito sviluppatosi attorno alla definizione delle radici dell’Europa che sarebbe riduttivo ripercorrere in questo contesto. Accanto ai temi di quel confronto, però, non va dimenticato che, in una posizione niente affatto subalterna, va posto il contributo al disciplinamento sociale e all’educazione civile che la Chiesa storica si è sforzata di dare alle comunità che ne riconoscevano il magistero. L’impegno per realizzare una omologazione dei comportamenti pubblici e privati e per diffondere una cultura del vivere e dell’agire condivisa da individui e gruppi sociali ha costruito una struttura di riconoscibilità che ha profondamente influenzato la storia occidentale, proprio a partire dalla svolta di centralizzazione temporale cha ha distinto l’età moderna.
L’esasperata tendenza alla secolarizzazione e il relativismo culturale che hanno contraddistinto gli ultimi decenni tendono invece a rinnegare proprio quell’aspetto delle radici identitarie dell’Occidente. Per contro, il ritorno alla dimensione del sacro che attraversa molti aspetti del vivere contemporaneo, senza recuperare il tratto sociale e comunitario che aveva contraddistinto la presenza delle istituzioni religiose nelle epoche passate, coincide piuttosto con la dilatazione degli spazi riservati all’individualismo e alla preminenza dei bisogni dei singoli, anche al di sopra e a discapito delle esigenze di molti, e non sembrano offrire gli strumenti per progettare percorsi di integrazione utilizzabili nelle aule scolastiche.
Il recupero di una spiritualità individuale, anche quando essa si colloca all’interno di una ritualità condivisa o di un associazionismo dalla marcata proiezione pubblica, tende comunque a ignorare, o a porre in secondo piano, la dimensione istituzionale dell’appartenenza spirituale, fondamentale elemento di storicizzazione per ogni credo e parte irrinunciabile della definizione identitaria realizzata dalla religione nella storia7.
La consapevolezza di doversi confrontare con questa realtà emerge nei documenti elaborati dalla Chiesa per rinnovare forme e finalità dell’insegnamento religioso nella scuola italiana8. L’insistenza sull’importanza della scuola per «la formazione integrale della persona umana» e sulla necessità di prevedere un insegnamento religioso utile a favorire «lo sviluppo della responsabilità personale e sociale e le altre virtù civiche» in vista di «un rilevante contributo al bene comune della società» proietta l’educazione cattolica alla base della costruzione sociale.
Rispetto alle sfide aperte dal multiculturalismo, la Chiesa cerca di mantenere un approccio coerente e sistemico, sempre evidente nelle indicazioni di indirizzo per i docenti che insegnano l’ora di religione. Le direttive, certamente, nascono da un humus dottrinario e confessionale ben definito che, senza considerare le differenze di contesto scolastico, traccia il quadro di riferimento per la programmazione della formazione cattolica in una proiezione unitaria e trasversale, fattore di aggregazione educativa e collettiva per le nuove generazioni. Nonostante questa intima compattezza, però, non è facile incontrare insegnanti capaci di trasformare in buone pratiche indicazioni così lucidamente consapevoli delle sfide di una società pluralista e plurale.
La difficoltà di rendere didatticamente fruibili, a prescindere dagli esempi virtuosi che arricchiscono il panorama scolastico nazionale, principi di comunità e di tolleranza avulsi da un quadro normativo o sociologico ben definito, avrebbe dovuto sconsigliare l’apertura di un fronte laico, impegnato sulle emergenze della civile convivenza in una prospettiva metodologicamente affine, benché derivata da presupposti di matrice differente.
Non è questo il luogo per affrontare il delicato tema della pianificazione organizzativa e gestionale dell’istruzione pubblica sul quale molto ci sarebbe da discutere. Anche da questo punto di vista, comunque, la pressione di una società multiculturale, continuamente chiamata a confrontarsi con realtà diverse e contesti in continua evoluzione, non poteva non influenzare i tentativi ministeriali di aggiornare le procedure della pianificazione pedagogica. Oltre ai singoli provvedimenti e alle scelte operate in settori specifici della programmazione scolastica, però, nella progettazione dei nuovi percorsi formativi sembra da tempo prevalere l’orientamento a invocare un generico rinnovamento delle competenze e dei modelli teorici indifferente ai metodi e ai contenuti disciplinari che, nella scuola dei saperi, avevano costituito l’ossatura del sistema educativo nazionale e il canale di crescita dell’innovazione didattica.
In questo quadro istituzionale, nel quale il dovere di una politica dell’educazione si allontana sempre di più dalla motivazione culturale, separando l’educazione dalla formazione, emerge con forza l’obbligo sociale di costruire i presupposti di una civile convivenza e di un’etica della vita comune adeguati alle necessità di apertura e di accoglienza che vengono dal mondo che ci circonda.
La scuola italiana ha dato risposte diverse a queste sollecitazioni, sperimentando spazi nuovi da dedicare a temi non certo inaspettati. Progetti e proposte frammentarie, lasciate alla libera iniziativa di docenti sempre fortemente condizionati dalle realtà scolastiche nelle quali si trovano a operare.
Il tentativo di dare un segnale forte e univoco ha invece spinto il governo ad annunciare un radicale cambiamento dell’offerta formativa finalizzata a rafforzare l’impegno per l’educazione dell’uomo e del cittadino. Con le Disposizioni urgenti in materia di istruzione, università e ricerca approvate dal Consiglio dei Ministri dell’1 agosto 2008, successivamente convertito nella legge n. 169 del 30 ottobre 2008, è stata introdotta nelle scuole italiane di ogni ordine e grado una nuova materia denominata “Cittadinanza e Costituzione”.
Non si tratta della vecchia “Educazione civica” che generazioni di studenti erano abituate a pensare come un percorso non sempre tracciato all’interno delle ore di insegnamento della storia. L’iniziativa del ministro Gelmini prevedeva una materia a sé stante, completa di valutazione utile a determinare l’esito finale dell’anno scolastico. Per un’ora la settimana, gli allievi erano chiamati a imparare a esercitare diritti, a riconoscere l’importanza delle regole e dei doveri, a rispettare l’ambiente, il codice stradale, l’educazione alla salute, i valori della competizione sportiva e del volontariato. Un ambizioso programma di costruzione dell’individuo, sospeso tra etica e morale, nel quale la Costituzione italiana era proposta come matrice di riferimento di una “mappa di virtù” assolute e decontestualizzate, strumento di conoscenza e di declinazione di principi che si immaginavano automaticamente traducibili in comportamenti consapevoli. Un’ottica di indottrinamento nella quale non trovava alcuna accoglienza la riflessione concettuale, imprescindibile per ogni disegno intellettuale che voglia tradursi in programmazione culturale e sociale, sul necessario rapporto tra progetto politico, comportamenti individuali e costume collettivo.
Il sistema di valori civili e democratici, confusamente indicato come finalità formativa della nuova disciplina, è difficilmente non condivisibile. Tali assunti teorici, però, non si prestano facilmente alla trasposizione finalizzata alla prassi didattica e all’effettivo inserimento di una nuova materia nella programmazione scolastica ordinaria.
Così, anche in conseguenza delle difficoltà a convertire la generica aspirazione a formare un “cittadino per bene” in un percorso pedagogico integrato nel sistema formativo, il Documento di indirizzo, emanato dal Ministero il 4 marzo 2009, ha ricondotto l’iniziativa nel quadro di una sperimentazione «nell’ambito del monte ore delle aree storico-geografica e storico-sociale delle scuole di ogni ordine e grado e con iniziative analoghe nella scuola dell’infanzia»9. Una riconversione che ha il sapore dell’impossibilità attuativa, comunque mascherata da prosecuzione operativa del progetto iniziale.
L’approccio al problema evidenziato dalla normativa ministeriale e l’incapacità a tradurre vaghe asserzioni valoriali in buona pratica educativa hanno scatenato dissensi profondi e motivati tra i professionisti della scuola. I docenti hanno stigmatizzato il tentativo di trasformare quello che avrebbe dovuto essere un intervento formativo in un percorso moralistico più organico all’intento dell’indottrinamento, che non alla crescita di una consapevole capacità di scelta, critica e attiva, all’interno di schemi di vita comuni.
Il risultato ultimo della riforma, infatti, appare omologo agli obiettivi propri degli insegnamenti confessionali, nei quali la scelta delle indicazioni di principio proposte dall’insegnante non è conseguente a una crescita individuale dei discenti. La prescrizione di modelli a priori, indipendenti da ogni confronto storico con le tradizioni sociali e le leggi positive che hanno caratterizzato la vita dello Stato, trasforma l’impegno per la costruzione di un’etica civile in una lezione di pubblica morale, benché la Costituzione sia esplicitamente indicata come punto di riferimento prioritario per l’educazione del cittadino.
Tra nuove supponenze e concessioni a vecchi retaggi, insomma, a perdere è, come sempre, il sistema dell’istruzione pubblica, penalizzata dalla diffusione di percorsi pedagogici sganciati dagli obiettivi scolastici e avulsi dalle applicazioni didattiche, incapaci di rispondere alle sfide che il mondo contemporaneo rivolge all’istruzione.
Perché l’impegno per la crescita e lo sviluppo delle giovani generazioni sia utile a far progredire una società plurale non bisogna dimenticare che la maturità sociale e culturale di un sistema formativo e la sua capacità di favorire l’integrazione non possono prescindere dalle dinamiche dei rapporti con la sfera pubblica che caratterizzano i comportamenti dei suoi membri. Per questo, l’apertura alla conoscenza e alla legittimazione costituisce il presupposto per ogni progetto di educazione che abbia come obiettivo la persona. Essa deve riguardare tanto la religione, quanto il senso civico, nella consapevolezza che, in democrazia, la scuola deve essere, più di ogni altro, il luogo delle “pari opportunità” e l’ambiente del riconoscimento e dell’accoglienza.
Solo una tolleranza ancorata a basi solide e consapevoli, infatti, può davvero garantire tanto l’etica civile quanto la moralità individuale, nel rispetto delle radici storiche, politiche e valoriali di una comunità.

Note
1 Il testo è integralmente on line all’indirizzo http://www.ocse.org/publications/odihr/2007/11/28314_993_en.pdf. Una discussione nel merito si trova in S. Santoro, Toledo Guiding Principles on Teaching about Religions and Beliefs in Public Schools: Executive Summary, in «Intercultural Education», v. 19 n. 1 (2/2008), pp. 83-87.Top
2 Sui temi della laicità e dell’integrazione è intervenuto E. Mazzarella, Identità e integrazione tra religione e democrazia, in Religione e democrazia, Atti dell’International summer school di filosofia politica, Marina di Camerota 23-25 maggio 2008, a cura di M. Adinolfi e A. D’Attorre, pubblicati l’anno successivo dalla rivista «Italianieuropei». Nello stesso volume si vedano L. Ferrajoli, Sulla laicità del diritto e la laicità della morale, pp. 72-82, e S. Natoli, Occidente, religione e processi di globalizzazione, pp. 115-127.Top
3 Legge 5 marzo 1985, n. 121, comma 9.2.Top
4 Si veda a questo proposito l’analisi di alcune di queste esperienze effettuata da M. Giorda nella relazione dal titolo La Storia delle religioni nella scuola italiana. Strumenti e metodi di educazione alla cittadinanza, presentata al convegno “I saperi pubblici della/sulla religione” i cui interventi sono stati pubblicati in «Ricerche di pedagogia e didattica», 2 (2009), vol. 4. Della stessa si veda anche Religioni, società e politica: pluralismi e cittadinanza, in «L’Acropoli», 2/2009, pp. 166-173.Top
5 È dell’8 gennaio la nota inviata alle scuole dal Ministero dell’Istruzione con la quale si stabilisce il limite del 30% alla presenza degli stranieri nelle classi della scuola pubblica. L’applicazione graduale dell’iniziativa è orientata a evitare la formazione di classi-ghetto e a favorire l’integrazione proprio puntando sulla forza del riferimento identitario costituito dalla lingua e dalla storia culturale italiana.Top
6 A mero titolo di esempio ricordo W.H. Mc Neill, The Rise of the West. A History of the Human Community, Chicago, University Press, 1963; R. Guha, La storia ai limiti della storia del mondo, trad. it. Firenze, Sansoni, 2003; D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, trad. it. Roma, Meltemi, 2004. Le ricadute sulla didattica sono discusse in: C. Grazioli, Le rilevanze storiografiche e la programmazione del curricolo, in Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, a cura di P. Bernardi, Torino, UTET, 2006, pp. 58-76.Top
7 Proprio queste considerazioni hanno suggerito la codificazione di una condizione di “credere senza appartenere” che rende molto complesso affrontare il tema della presenza organica della dimensione religiosa nella strutturazione della società moderna. La formula era stata proposta da G. Davie, Religion in Britain since 1945. Believing without belonging, Oxford, Blakwell, 1994. Si vedano a questo proposito le risposte date da intellettuali del livello di G. Baget Bozzo, D. Cofrancesco o G. Filoramo alle domande formulate dalla redazione di «Quaderni di scienza politica» e pubblicate nel fascicolo 2, anno XVI, terza serie (agosto 2009), pp. 201-245, con il titolo Sopra alcuni aspetti del rapporto tra politica e religione: un simposio.Top
8 Si veda, a mero titolo di esempio, la Lettera circolare 520/2009 indirizzata dalla Congregazione per l’educazione cattolica ai presidenti delle Conferenze episcopali il 5 maggio 2009.Top
9 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, 4 marzo 2009.Top
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