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La fase aurorale del craxismo
di Biagio de Giovanni
In questo anniversario – nonostante l’asse Borrelli-Di Pietro, dio ne scampi!, ricostituitosi sulla toponomastica di Milano – si è riaperto il dibattito su Craxi, favorito forse da una congiuntura politica destinata a mettere in evidenza i molti elementi anticipatori che erano nella sua visione politica, che fu “sua” e che di certo fallì anche per sue responsabilità, e che andò anche, in parte, allora, contro “il principio di realtà”, intrisa come fu fin dall’inizio di giacobinismo. Certo, bisognerebbe ripercorrere con calma date e situazioni, periodizzazioni stringenti e motivate. Insomma, sarebbe necessario, credo, un vero e proprio studio non solo su di lui, ma su quel “nuovo” Psi – il Psi di Martelli, e di tanti altri – che nel 1976 sembrò aprire una nuova stagione politica dell’Italia e poi finì nel nulla, dopo quindici anni circa di più o meno convulse vicende.
Bisognerebbe far questo, in un momento in cui si dibatte sul se la “seconda repubblica” sia ancora viva o piuttosto moribonda (e su questo ho già espresso la mia opinione: propendo per il “viva”), giacché personalmente non ho dubbi che l’asse strategico intorno al quale nacque il craxismo fu proprio la messa in discussione di un tratto decisivo della storia repubblicana, della sua “ideologia”, dei suoi tabù, delle sue idiosincrasie, del suo senso comune, e insomma di quello che si può chiamare il suo sistema egemonico, che comprendeva troppe cose contro le quali si rischiava di cozzare e contro le quali ci si andò effettivamente a urtare. La strategia di Craxi nacque anzitutto per rigettare il “compromesso storico”, che di quella storia intendeva essere “conclusione”: è lì che va ricercato il punto d’origine. Craxi è insomma l’antiMoro e l’antiBerlinguer, e va ancor di più apprezzato il suo comportamento in occasione della tragedia che colpì il grande dirigente della Dc.
Le date, come si usa dire, sono decisive. E che il Midas arrivi nel 1976, qualche anno solo dopo l’opa del “compromesso storico” la dice lunga sulla sua origine. Senza i celebri articoli di Enrico Berlinguer su «Rinascita» che annunciavano la svolta, o meglio che dichiaravano esplicitamente di volere ciò che già in parte era nelle cose, Craxi non avrebbe avuto la forza di emergere come la vera novità italiana. Questo costituisce, secondo me, un punto di partenza fermo, intorno al quale avviare ragionamenti che possono avere esiti e traiettorie diverse. E questo spiega perché l’attacco fu anche alla cultura del Pci, e mi riferisco naturalmente all’azione del «Mondoperaio» di Federico Coen, senza il cui lavoro molte cose sarebbero rimaste implicite, pura politica, e con lui divennero invece embrione di nuova cultura politica.
Si trattava di smuovere un monolite dalla sua tana. Di mettere in discussione, a sinistra, certezze che non erano mai state messe in discussione e che nessuno chiedeva che lo fossero. L’appuntamento del compromesso storico fu proposto dal Pci come elemento di una continuità che veniva da lontano, i cui embrioni erano addirittura nella costituzione originaria del Pci – al di là di affermazioni del tipo “fine della spinta propulsiva dell’Urss” che apparvero più importanti di quanto non fossero in realtà, trattandosi di cosa come tale già acquisita – e ne rivendicavano un continuismo politico-culturale che serviva a confermare la costituzione storico-materiale del paese e un vecchio, ambiguo, ma anche complesso ragionamento sulla questione cattolica. Il compromesso storico voleva insomma sanzionare che il consociativismo di fatto, più o meno strisciante, diventasse governo comune del paese, e dovesse trovare quindi motivazioni più solide e di lungo periodo. Non era tanto preparatorio di una alternanza di governo, come pure venne da qualcuno interpretato, ma come consolidamento definitivo di equilibri di una storia allora quasi quarantennale.
Craxi nacque in opposizione a questo disegno, e per far ciò dovette reinterpretare l’autonomismo socialista in una chiave inedita. Dovette battere il conservatorismo di Francesco De Martino senza potersi semplicemente riagganciare a motivazioni da primo centro-sinistra. Si trovò in una situazione scoperta e assai difficile, anche perché il compromesso storico veniva mostrato come esito necessario della storia della prima repubblica, ed aveva in sé una sua immanente forza e quasi necessità, stante gli equilibri politici italiani e stante la pericolosa china inaugurata da Piazza Fontana, 1969, e poi esplosa in forme variopinte negli anni Settanta. Incrinare la sua logica interna era lavoro difficilissimo, con sicure venature “giacobine”. Bisognava disegnarne il potenziale carattere di “regime” per risvegliare qualche pezzo di coscienze liberal-socialiste e postazioniste, e su questa base lavorare a un nuovo Psi e a una nuova sinistra. Il Psi era l’unico cuneo che si poteva inserire in quel disegno per buttarlo giù. E questo implicava l’apertura di un doppio fronte, verso il Pci facendo intravvedere una alternativa di sinistra, e verso la Dc riproponendo in forma nuova la capacità di governo del Psi. Anche questo, un equilibrio difficile e non privo certo di ambiguità.
Per chi ama le fasi aurorali del movimenti (anche di idee) è quello indicato l’aspetto del craxismo che più affascina, anche perché è quello veramente anticipatore di una crisi di sistema che si verificò molto dopo, in tutt’altra forma e coinvolgendo lo stesso Psi. Craxi aveva capito in anticipo alcune cose: che il consolidamento dell’asse Dc-Pci costituiva un destino di conservazione per l’Italia, e che questo consolidamento coincideva con un rafforzamento “sine die” della storia della prima repubblica, ovvero di un sistema egemonico in via di esaurimento; che era venuto il momento di una riforma della costituzione (la “grande riforma”) per mettere in discussione i tratti conservativi di un sistema idealmente e politicamente assembleare; che si dovevano mettere in discussione i blocchi sindacalizzati; che le matrici culturali del Psi andavano profondamente rivisitate liberandosi dallo straordinario impoverimento che esse stavano attraversando a favore del suo compagno maggiore; che queste matrici da riconquistare riportavano verso altri pensieri, e anche verso tradizioni che soprattutto la critica del Pci aveva violentemente rimosso, a cominciare da quella liberalsocialista; che, insomma, quel nano politico che era allora il Psi, ancora abbacinato da una vecchia interpretazione dell’unità d’azione, doveva riconquistare la capacità di pensare. Si può aggiungere, e non sempre è stato detto, data anche la profonda diversità delle situazioni, che più di ogni altro Craxi ha anticipato il socialismo immaginato da Tony Blair, il che costituisce osservazione di non poco interesse storico-politico per una precisa ragione: Blair aveva alle spalle la rivoluzione degli anni Ottanta, e poté fondarsi almeno in parte su di essa e sul lavoro “sporco” fatto dalla Thatcher. Craxi no, ed egli dovette leggere fra le righe della storia del mondo per vedere in anticipo ciò che solo gli anni successivi squaderneranno davanti a tutti.
Ma non mi posso infilare in un discorso troppo complesso e dalle troppe facce, e voglio piuttosto interrogarmi assai brevemente sulle ragioni del fallimento del disegno che ho cercato di rappresentare, e sulle ragioni del disastro finale. C’è stato probabilmente uno squilibrio iniziale fra questo complesso di idee e i rapporti di forza effettivi in campo, quello che ho chiamato strisciante giacobinismo. In politica, quando questo squilibrio è eccessivo, tende a prevalere l’effettività dei rapporti di forza, dentro i quali la strategia innovativa si continua a scorgere solo per vie indirette e in qualche caso emblematico: la scala mobile, ad esempio, possibile anche perché la Cisl di Carniti fu d’accordo. Che la stagione “ideale” craxiana tenda ad esaurirsi nei primi anni Ottanta, è segno di questo. L’idea generale rimane, ma per ora viene accantonata, e accantonare una grande idea significa in varia misura rinunciarvi.
Puro velleiterismo, allora, quello del primo Craxi? Non credo; se così fosse, dovrei rimangiarmi tutto ciò che ho detto, e peraltro non ogni strategia che fallisce è semplicemente velleitaria. Le idee erano molto forti e coglievano aspetti profondi della situazione italiana, esprimevano una diagnosi che allora nessuno faceva, ma che poi si sarebbe dimostrata, in tutt’altra situazione, fondata e anticipatrice. Furono peraltro, quelle idee, l’asse intorno a cui si formò il nuovo gruppo dirigente del Psi che senza di esse non sarebbe esistito.
Il primo vero ostacolo si chiamò Enrico Berlinguer, il politico che riuscì a mettere insieme compromesso storico e diversità comunista, due realtà reciprocamente escludentisi, e rinunciò a entrare in quella terza possibilità aperta da Craxi, alla quale il Pci avrebbe potuto dare un contributo decisivo per una alternativa. Era possibile immaginare un diverso atteggiamento del Pci? Tutto in politica può avvenire, anche se per le ragioni indicate all’inizio non era certo cosa facile. Quel partito in realtà si era infilato in un vicolo cieco distruttivo, e prender sul serio Craxi (e non dico affatto accoglierlo “in toto”) avrebbe potuto costituire qualcosa che avrebbe potuto cambiare la storia della sinistra italiana e dunque di tutto il sistema politico. Così non fu, e venne meno una dialettica decisiva. Craxi anzi diventò il principale nemico da battere a sinistra, come il nemico mortale da distruggere. E Craxi rispose a sua volta per le rime, con altri eccessi, senza accorgersi, forse, che senza quella sponda il suo progetto era destinato a fallire, o comunque a mutare completamente natura.
Craxi entrò così in un sistema di cui alla fine rimase vittima, anche perché, una volta entratovi, contribuì a ridefinirlo a immagine di quelli che gli sembrarono interessi di potere del suo partito. Quando l’asse ideale e strategico viene meno, tutto diviene possibile soprattutto per chi su quell’asse strategico, contrariamente a ciò che normalmente si pensa, ha giocato parte essenziale della sua identità. Ma qui incomincerebbe un altro discorso sulle modalità di fine del sistema italiano nei primi anni Novanta, un capitolo che rinuncio evidentemente ad aprire. Non senza però un piccolo appello al fatto che, di là dal merito delle scelte politiche, Craxi va oggi pensato come parte essenziale della storia italiana, con la buona pace di chi ha costruito le sue fortune sulla sua distruzione umana e politica.
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