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Ricordi di Francesco Cossiga
di Cristina Minicelli
L’implosione dei paesi del blocco socialista, uno dopo l’altro come le tessere del domino, colse indubbiamente di sorpresa l’opinione pubblica dei paesi occidentali ma anche i governi stessi. Si dovrà ammettere che la prima appare giustificata: obbligata nei quarant’anni del dopoguerra a una segregazione – culturale, economica, relazionale – quasi totale dagli altri europei e indotta a una raffigurazione del sistema socialista come un Moloch tanto efficiente nel suo apparato oppressivo quanto temibile nel suo braccio militare, una costante minaccia faticosamente contenibile ma certamente invincibile (addirittura con gli USA costretti a una geopolitica difensiva prima dell’elezione di Ronald Reagan), non possedeva le informazioni adeguate per valutare lo stato reale dei paesi del Patto di Varsavia. Era tuttavia emersa qualche crepa nell’immagine ideologica, la cui fascinazione aveva perso notevole appeal in Occidente dove la galassia marxista, trovando qualche difficoltà ad entusiasmarsi per Breznev, preferiva ballare la salsa cubana con Che Guevara. Dominava, però, un senso di rassegnazione verso una divisione dell’Europa considerata oramai quasi immodificabile.
L’imbarazzo dei governi europei di fronte al progressivo crollo dei regimi socialisti, invece, sembra oggi molto meno giustificabile. I segni c’erano tutti e – con il senno del poi – sono stati ampiamente descritti: l’eccezione polacca, la disfatta militare in Afghanistan con la montante protesta dell’opinione pubblica sovietica (ma in Occidente non si credeva che non avesse possibilità di esprimersi?), la totale decomposizione del sistema economico socialista in paesi dove, a parte l’industria militare, oramai non funzionava quasi più niente, il conseguente tracollo finanziario tamponato dai sempre crescenti prestiti occidentali (e questo doveva essere ben chiaro alla dirigenza della Germania Occidentale, nella cui generosità era riposto il destino della sopravvivenza della DDR), nel ritardo tecnologico, da tempo incolmabile, rispetto all’Occidente. Ma soprattutto l’evoluzione delle tecnologie dei mezzi d’informazione stava informando di tutto ciò i cittadini dell’Europa dell’Est che cominciavano a rendersi conto che l’Occidente non era quello descritto dalla propaganda. Per quei cittadini la fine del comunismo era solo una questione di tempo. Per i servizi segreti occidentali, per le loro ambasciate, per i loro sofisticati centri studi dove cremlinologi e sovietologi discettavano finemente sull’interpretazione ermeneutica delle varie dichiarazioni dei membri del Politburo del PCUS, invece no. Forse l’abbaglio si può spiegare con il ricordo delle repressioni violente di tutte le primavere precedenti, che si ipotizzava quindi non potessero realisticamente avere qualsiasi concreta speranza di successo: un eccesso di realpolitik, un apprezzamento della solidità del regime di gran lunga maggiore di quello nutrito dai suoi stessi cittadini. Anche la politica del braccio di ferro di Reagan si aspettava solo un ridimensionamento strategico della superpotenza sovietica. È forse vero che le cause sommariamente summenzionate non sarebbero bastate a far cadere il comunismo senza gli atti rivoluzionari delle popolazioni, tuttavia si rimane perplessi di fronte a una così vasta miopia dei sistemi informativi e delle cancellerie occidentali.
L’intervista a Francesco Cossiga, benché circoscritta agli eventi di Berlino e alla riunificazione tedesca, solleva anche una seconda questione. La caduta del Muro, per quanto infine attesa, ebbe una grande valenza simbolica ma soprattutto mise bruscamente i governi occidentali di fronte alla questione della riunificazione tedesca: non ci si poteva più nascondere, come per tanti anni si era fatto, dietro auspici formali di qualcosa che si reputava comunque impossibile a verificarsi. Fu evidente che i governi francese e britannico erano imbarazzati dall’ipotesi di una veloce riunificazione della Germania, e stavolta era un desiderio, non un errore di valutazione. Il Governo italiano, al pari di quello statunitense, invece fu subito favorevole, come racconta Cossiga, cercando con lungimiranza di evitare che la Germania fosse tentata dalla strada della neutralizzazione, al contrario cercando di cogliere l’occasione di coinvolgerla ancor più nella costruzione dell’Europa unita.

La testimonianza del presidente Cossiga comincia descrivendo la sorpresa che colse gli occidentali alla notizia della repentina costruzione del Muro la notte del 13 agosto 1961, tanto più che solo il 15 giugno il presidente del consiglio di stato della DDR Walter Ulbricht aveva dichiarato: «Nessuno ha intenzione di costruire un muro».
Nel 1961 fui mandato insieme con un altro deputato, Adolfo Sarti, a seguire la Wahl Karowane di Konrad Adenauer. Proprio in quel periodo venne costruito il Muro di Berlino. Ci trovavamo vicino a Bonn in quella che era la Politische Akademie, la scuola dei giovani politici della CDU, quando da Roma fummo esortati a rivolgerci alle autorità della Germania Occidentale, che purtroppo potevano mettere a disposizione un posto solo: Adolfo Sarti aveva paura dell’aereo e così andai io. Viaggiai su un aereo passeggeri britannico e giunto a Berlino fui invitato a pranzo da Willi Brandt, ricordo persino il menù: una piccola teglia con una cotoletta di maiale impanata e fritta che galleggiava nel burro nero. Ho così avuto l’occasione di vedere costruire il Muro e murare le finestre. Anzi, a un piccolo gruppo della delegazione internazionale permisero di andare nella zona che i primi giorni della costruzione era stata interdetta a chi non ci abitava perché avevano paura che la popolazione della Berlino occidentale si scagliasse contro il muro. Ho visto le prime pozze di sangue di chi scappava saltando dalle finestre. Approfittando del fatto che l’accesso a Berlino Est era vietato ai tedeschi di Berlino occidentale ma consentito con il passaporto sia agli stranieri sia ai tedeschi della Bundesrepublik, mi recai con una automobile del corpo diplomatico italiano (l’ambasciata aveva una piccola rappresentanza non ufficiale) anche nella Germania Orientale e mi ricordo ancora dell'enorme potere di acquisto del marco occidentale.
Mi ricordo perfino che davanti al nostro pulmino c’era un’autoblindata britannica con un soldato che fumava la pipa, fronteggiata non da carri armati sovietici bensì della Volksarmee e autoblindate della polizia. Da una parte del Check Point Charlie c’era un carro armato americano mentre dall'altra parte un grande carro armato tedesco il cui equipaggio aveva steso una tendina: per sfregio, fumavano, leggevano il giornale e bevevano birra distesi su sedie a sdraio.


Altrettanto sorpreso fu il mondo occidentale dagli avvenimenti di un’altra notte di 28 anni dopo, fra l’8 e il 9 novembre 1989. Questa volta Francesco Cossiga era Presidente della Repubblica Italiana e così ricorda.
«Quando cadde il muro mi trovavo in casa a seguire la CNN, possibilità di cui godevo come Presidente della Repubblica, che annunciò che a Berlino stava accadendo qualcosa. Chiamai la sala informazioni del Ministero degli Affari Esteri, oggi si direbbe l’Unità di crisi, ma non sapevano nulla, la sala operativa dello Stato Maggiore della Difesa, dove pure non sapevano nulla, e poi la sala operativa del Quirinale, dove ovviamente non seppero darmi informazioni perché non è altro che una filiale dello Stato Maggiore della Difesa; allora chiamai la Batteria, il sistema di collegamento del Governo, e chiesi di parlare con l’Ambasciatore italiano nella DDR, stato riconosciuto dalle potenze occidentali al pari della BRD. All’ambasciatore Indelicato chiesi cosa stesse succedendo e mi rispose: “C’è qualcosa che si muove a Berlino. Ho mandato il mio ministro consigliere e l’addetto militare italiano in divisa così che non facciano scherzi”. Dopo mezz’ora mi telefonò e mi annunciò: “È tutto finito”. “In che senso?” chiesi io. “È tutto finito, nel senso che i cittadini di Berlino ovest hanno passato il muro e viceversa”. “Ma come?” ribattei io, “così improvvisamente?”. “Ma veramente,” precisò, “non proprio improvvisamente”. Era infatti accaduto, come poi venimmo a sapere, che in una conferenza stampa il portavoce della SED, Günter Schabowski, alla domanda del corrispondente dell’agenzia Ansa da Berlino Est, Riccardo Ehrman, “Ma quand’è che si potrà passare da una parte all’altra del muro?” rispose “Si potrà passare”, “Ma da quando?”. Senza informazioni rispose: “Da adesso!”.
Sentito questo annuncio a Berlino est travolsero il muro.
Poi avvenne la riunificazione.
Come Presidente della Repubblica parlai due volte a favore della riunificazione.
La prima volta in una conferenza stampa ad Algeri dove un giornalista tedesco occidentale mi chiese se fossi favorevole all’unificazione. Il gruppo dei ‘Quattro più uno’ – Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Germania Occidentale –, che si riunivano a Berna (il presidente USA era Bush padre), ancora non si erano espressi, mentre io dissi di sì. La seconda volta ero negli Stati Uniti dove, parlando davanti a un’associazione di operatori finanziari di New York, un giornalista, questa volta non tedesco, mi fece la stessa domanda cui io risposi di sì spiegando i motivi storici e culturali che si opponevano alla divisione della Germania (si pensi solo che Goethe sarebbe stato cittadino della Germania Orientale!) e la cosa tanto meravigliò l’ambasciatore tedesco a Washington che telefonò al suo omologo italiano, che era a New York, per accertarsi se era corretto quanto era stato riferito dalle agenzie, che cioè io ero a favore dell’unificazione tedesca.
Fui l’unico Capo di Stato ad essere invitato alla prima riunione del Bundestag della Germania riunificata il 4 ottobre del 1990. Ero in tribuna vicino al presidente von Weizsaecker. Come deputato più anziano presiedeva la prima riunione Willi Brandt. E prendendo la parola rivolse il saluto prima al Bundespraesident e poi a me per ringraziarmi riconoscendo che ero stato il primo Capo di Stato che si era pubblicamente espresso a favore della riunificazione.
Ma la Francia di Mitterrand e il Regno Unito della Thatcher non erano assolutamente a favore della riunificazione!
Mitterrand dovette cambiare opinione quando si rese conto che per evitare che la forza del marco occidentale schiacciasse anche il franco l’unica via d’uscita sarebbe stata la moneta comune europea, per realizzare la quale si sarebbe dovuto in qualche modo compiacere il governo tedesco nella sua aspirazione all’unificazione.
E alla Thatcher Mitterrand telefonò chiarendo che continuare a opporsi avrebbe significato indurre la Germania ad abbandonare la costruzione europea e a cercare una sua via autonoma all’unificazione e ai rapporti con i nuovi governi dell’ex blocco orientale. Infatti la prima richiesta sovietica era stata quella che mai e poi mai ci sarebbero state le truppe della Nato nel territorio della vecchia DDR, al confine con la Polonia.
Quando andai alla prima riunione del Bundestag e il Regierende Burgermeister di Berlino mi invitò in un bellissimo castello, Bellevue, capii che la teoria di telecamere di tutti i paesi non potevano essere per me, ma perché per la prima volta si vedeva nella Germania orientale il Comandante in capo delle forze tedesco-occidentali schierate al confine con la DDR.
Ricordo quando vennero ad accomiatarsi da me i membri del corpo diplomatico della DDR a Roma.
Le prime elezioni libere avevano seguito i mesi di dimostrazioni, cominciate a Lipsia e incoraggiate dall’atteggiamento tenuto da Gorbaciov durante la sua visita in occasione dei festeggiamenti ufficiali del 40° anniversario della DDR, quando aveva avvertito chiaramente il Presidente del Consiglio di Stato, Erich Honecker, che i carri armati dell’Armata Rossa non sarebbero usciti dalle loro caserme.
Per arrivare in fretta all’unificazione senza dover attendere l’elaborazione di una nuova costituzione si stipulò un trattato di stato, Vereinigungsvertrag, in seguito al quale non fu la DDR come stato a chiedere l’incorporazione nella BRD, ma fu sfruttata la possibilità che la Grundgesetz occidentale offriva anche ad altri Laender di aderire alla BRD: allora furono ricostituiti i Laender, ognuno dei quali, singolarmente, chiese di aderire alla Repubblica Federale. In questo modo la BRD non diventò erede istituzionale della DDR, tenendosi anche le mani libere per poter processare i funzionari statali (per es. della Stasi e della Volkspolizei) dell’ex DDR. Nella notte del giorno in cui fu proclamata l’unificazione entrarono in Germania Orientale 1200 tra sottufficiali e ufficiali della BRD. La Bundesgrenzschuetz sostituì la Demokratischegrenzschuetz e si schierò ai confini. Agli aerei tedesco orientali fu dato l’ordine di spostarsi ai confini con Belgio, Olanda, Francia e Svizzera. Il comandante che assunse il controllo del Verteidigungsministerium (il ministero della Difesa) della DDR era quello per cui c’erano tanti video a Bellevue e che prima risiedeva nella parte occidentale di Berlino».
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