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Quel "terzo cesto" di Helsinki
di Luigi Compagna
Anatolij Borisovic Sharansky può ben dirsi il maggior protagonista di quel che fu, sotto il profilo dei diritti umani, il percorso dalla CSCE all'OSCE, dal “terzo cesto” della Conferenza di Helsinki del 1975 ad un organismo internazionale a garanzia di human rights. Politico, scrittore, matematico, si era visto negare nel 1973 il visto d’espatrio per Israele dall’URSS per ragioni di sicurezza nazionale. Lavorò poi come interprete per l’inglese di Andreij Sacharov e fu tra i fondatori prima ed il portavoce poi dell’Helsinki Watch group di Mosca, un movimento in favore dei diritti umani costituito da ebrei e “Refusenik”, noto anche come gruppo di Yuri Orlov.
Nel marzo del 1977 fu arrestato e nel luglio del 1978 condannato a 13 anni di lavori forzati per tradimento e spionaggio a favore degli Stati Uniti. Dopo una detenzione di 16 mesi nella prigione di Lefortovo, fu trasferito nel gulag siberiano Perm 35 dove sarebbe rimasto 9 anni. Natan Sharansky nel 1983 stava, quindi, scontando una condanna a tredici anni di detenzione, quando visse un «momento meraviglioso»
Fu il giorno in cui da un giornale che in qualche modo era riuscito a procurarsi nonostante fosse rinchiuso in una rigorosa prigione sovietica – non ricordava se fosse la Pravda o l’Izvestia – apprese che Ronald Reagan aveva definito l’Unione Sovietica “l’Impero del male”. La stampa del Cremlino naturalmente non aveva pubblicato il resoconto del discorso del presidente americano, ma ne aveva propagandisticamente esaltato le reazioni negative.
Sharansky, molto tempo dopo, raccontò l’episodio rivelandone il valore che ebbe per un dissidente: «Una lunga schiera di capi occidentali si era ritrovata allineata nella condanna del malvagio Reagan; e questo elenco veniva messo in prima pagina, proprio accanto alla storia di quest’uomo terribilmente pericoloso che voleva riportare il mondo ai giorni bui della guerra fredda».
Per lui e i suoi compagni fu motivo di un’esplosione di giubilo.
Fu la giornata più luminosa, la più gloriosa: finalmente era stato detto pane al pane e vino al vino, e la orwelliana neolingua era definitivamente morta. Da quel momento in poi, il presidente Reagan aveva reso impossibile, a chiunque vivesse in Occidente poter continuare a tenere gli occhi chiusi, ignorare, la reale natura dell’URSS. È stata una delle più importanti dichiarazioni di difesa della libertà, e noi tutti lo capimmo all’istante.

Poi, dopo il suo rilascio, avvenuto con uno scambio di prigionieri fra Washington e Mosca, Sharansky ebbe occasione di parlare direttamente al presidente americano, durante un incontro alla Casa Bianca.
La sua faccia si rischiarò e divenne raggiante. Saltò giù dalla sedia come uno schioppo e iniziò ad agitare le braccia in maniera selvaggia e a chiamare tutti affinché venissero ad ascoltare la storia di quest’uomo. Solo allora iniziai a rendermi conto realmente che il presidente Reagan doveva aver sofferto terribili offese per il suo grandioso discorso, non solo in Unione Sovietica, ma che egli era stato ferito anche in patria. Sembrava folle, come se il nostro attimo di gioia fosse la sua migliore rivincita: ne era valsa la pena, aver sopportato grandi offese per aver fatto quel discorso.

Questo, raccontato da Sharansky è un piccolo grande episodio della storia letta, se non proprio sotto il “cielo stellato” dell’Atto di Helsinki, certamente dalla parte del dissenso. Dove per dissenso non s’intende un concetto astratto o una formula, ma si intendono uomini in carne e ossa, perseguitati per le loro idee e per i loro scritti, condannati sotto false accuse, rinchiusi in celle di isolamento o di punizione, messi a tacere. Erano per lo più importanti intellettuali, capaci di sfidare non solo la morsa del totalitarismo, ma anche la debordante ostilità del conformismo.
Il 10 dicembre, ovviamente, giornata mondiale dei diritti umani, evoca tuttora la Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata a New York sessantuno anni fa. Ed è giusto che sia così. Ma non per questo ci si può esimere da una considerazione amara eppur obbligata.
Chi mai avrebbe potuto prevedere 61 anni fa che proprio alle Nazioni Unite l’antisemitismo si sarebbe un giorno riproposto come antisionismo? (Torna utile qui il lessico efficacissimo del Presidente Napolitano in una sua nitida dichiarazione di tre anni fa). Il 10 novembre del 1975 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (con settanta voti favorevoli contro ventinove, ventisette astensioni e sedici assenze) avrebbe, infatti, approvato una risoluzione che condannava il sionismo come forma di razzismo. Se non proprio un’autorizzazione, quella risoluzione forniva una qualche legittimazione dell’antisemitismo e, per quanto cancellata dieci anni dopo, avrebbe ferito a morte l’idea di ONU del mondo libero.
Il delegato israeliano Chaim Herzog fece notare che la votazione si svolgeva nel giorno del trentasettesimo anniversario della “notte dei cristalli” nazista contro gli ebrei, mentre il delegato americano, Daniel Patrick Moniyhan, annunciò con gelido disprezzo: «Gli Stati Uniti insorgono e ci tengono a dichiarare davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e davanti al mondo, che non riconoscono, non rispetteranno e non accetteranno mai questo atto infame». Passiva, o comunque molto opaca, invece, la reazione dei paesi europei, sostenitori di fatto di Arafat, o in procinto di diventarlo, quanto bastava per archiviare una parte di se stessi e inchinarsi all’ONU senza particolare disagio.
Un po’ come sarebbe accaduto nel 2001 alla Conferenza di Durban in Sud Africa, quando, sotto l’egida dell’ONU, verranno distribuiti alle varie delegazioni I Protocolli dei Savi Anziani di Sion ed i rappresentanti dei paesi europei, a differenza degli Stati Uniti e di pochi altri, non riterranno doveroso abbandonare il consesso. A differenza di quanto accaduto a Ginevra quest’anno dopo il discorso di Ahmadinejad.
Ma torniamo alla metà degli anni ’70. Il muro di Berlino era ancora alto, la guerra fredda accanita, l’antisemitismo fortissimo (in nome dell’Islam, dell’URSS, di entrambi). Ma c’era già un “terzo cesto” di Helsinki, per opporre all’ortodossia del totalitarismo l’eresia della libertà, quasi a voler delineare in prospettiva, proprio in tema di “human rights”, quel che dalla CSCE condurrà all’OSCE.
Nel novembre di quest’anno Joachim Gauck, il primo tedesco orientale ad occuparsi come responsabile dell’immenso ed inquietante archivio della Stasi – la polizia segreta della Germania Est – è venuto a Roma all’Istituto Luigi Sturzo. Lì ha raccontato a giovani studenti universitari la sua esperienza. Lo ha fatto con parole semplici, immediate – le stesse che ha adoperato nei suoi scritti e nei suoi discorsi – e proprio per questo più efficaci. «I ricordi – ha detto tra le altre cose Gauck – sono la cura giusta rispetto alla paura».
Un regime che non ti consente di manifestare le tue opinioni ti priva della libertà, ti tortura, non può accettare alcun confronto sul tema dei diritti umani. Gauck ha raccontato della deportazione del padre, quando lui era un ragazzo e del suo ritorno quattro anni dopo, e di come già allora lo colpì il silenzio dei suoi genitori su quella drammatica esperienza. Il silenzio è l’altra faccia della paura, quella paura cui Gauck si riferiva e che è linfa vitale di ogni totalitarismo.
Abbiamo da pochi giorni dato l’ultimo saluto a Victor Zaslavky, un intellettuale russo, storico, sociologo, letterato, che ha dato un contributo molto importante alla comprensione del regime totalitario sovietico. Egli aveva individuato nella presenza di una ideologia forte e fortemente aggressiva uno dei caratteri del sistema sovietico («un'ideologia messianica che deve trasformare il mondo e che divide quel mondo tra chi la pensa come noi e tutti gli altri»).
Il pensiero corre subito a quella “pulizia di classe”, per usare una felice espressione di Zaslavsky, attuata dai sovietici a Katyn: falcidie della classe dirigente polacca, l’eccidio di Katyn avrebbe rappresentato il dramma di tutta la vita di Gustavo Herling Grudzinski, patriota polacco che si era avvicinato durante la guerra a Benedetto Croce e alla sua religione della libertà. Nel 1974 Herling a Parigi aveva aderito all’invito a far parte del comitato editoriale della rivista «Kontinent», fondata da Vladimir Maximov per dar voce alla dissidenza dalla politica dell’URSS e dei suoi satelliti. Erano al suo fianco, come collaboratori di «Kontinent», Raymond Aron, George Bailey, Saul Bellow, Józef Czapski, Robert Conquest, Milovan Gilas, Alexander Galich, Jerzy Giedroyc, Eugène Ionesco, Arthur Koestler, Naum Korzhavin, Mihajlo Mihajlov, Ludek Pachman, Alexander Sakharov, Alexander Schmemann, Zinaida Schakovskoy, Wolf Siedler, Ignazio Silone e Carl-Gustav Strohm.
Intanto, in Italia la voce di Sacharov si era già fatta udire: grazie soprattutto a Ugo La Malfa, che alla riflessione di Sacharov (Progresso, coesistenza, libertà intellettuale, Torino, Etas-Kompass, 1968) aveva ispirato il suo discorso al congresso del PRI (Milano, novembre 1968), e poi a Aldo e Irene Garosci, Lia Wainstein, Ennio Ceccarini, lo stesso Victor Zaslawsky (di cui l’editore Armando Armando aveva fatto tradurre un libro nel 1974). Ma accanto a quella di Sacharov, anche la parola di Solzhenitsyn, tramite libri del tipo di Una giornata di Ivan Denissovic, Primo cerchio, Divisione cancro, aveva in Italia una sua eco.
Dialogo su Solzhenitsyn fra Nicola Chiaromonte e Gustavo Herling risale alla primavera del 1970. Lo pubblicherà prima la rivista «Settanta» (Roma, maggio-giugno 1970) e poi in polacco anche la rivista «Kultura» (Parigi, aprile 1971).
Le pagine di Solzhenitsyn per Chiaromonte erano la rivelazione di un mondo sociale e di un universo morale. L’universo sociale era la società sovietica descritta dal basso in alto: dal mondo dei lager, delle prigioni, di un ospedale per cancerosi, a quello della squallida classe media burocratica, fino agli alti e altissimi personaggi del regime. Ma, unita a questo, e come suscitata dalla descrizione ferma e minuziosa di questo mondo, una visione pacata e severa dell’esistenza umana. In tale visione, lettori giovani ed adulti trovavano non una risposta a questioni astratte, ma la conferma di un fatto elementare, tremendamente oscurato: il fatto che la dignità dell’uomo – la via vera della liberazione – sta, secondo l’antica parola, nella capacità di “soffrire e capire”, non in quella di godere e gonfiare all’estremo il proprio Ego.
Quei lettori si sentivano dire dal prigioniero Gherassimovic di Primo cerchio che ciò che si usa chiamare “un’anima immortale” non si ha, ma si conquista; e che solo i reietti, quelli che – per violenza, ma anche per propria scelta – si trovano esclusi dal mondo degli «avidi e goffi utenti della razione della libertà loro concessa», sono in grado di compiere una tale conquista. «Nessuna sorte poteva essere peggiore della loro. Eppure, erano in pace con se stessi. Era in loro l'intrepidità degli uomini che hanno perduto tutto, una
intrepidità difficile da raggiungere, ma che una volta raggiunta, resiste». Questo, alla fine di Primo cerchio, è il commento di Solzhenitsyn alla partenza dei detenuti che lasciano la prigione per essere di nuovo deportati nei lager.
Egli non “rappresenta”, non “immagina”, ma riesce a far esistere nella coscienza del lettore la realtà di cui parla. Nei suoi libri si intravede quindi una risposta – o meglio, l'indicazione chiara di una risposta – al tormento infernale che, anche se non imposto dal regime autocratico, lacera ogni individuo cosciente: il tormento di vivere giorno per giorno una vita priva di senso, nella quale l’individuo sente di perdere giorno per giorno la propria anima.
Se l’opera di Solzhenitsyn – argomenta Herling – fosse limitata alla Giornata di Ivàn Denissovic, se ne potrebbe parlare soltanto come di un carmen horrendum del regime sovietico, richiamandosi alla celebre definizione che Herzen usò per la Casa dei morti di Dostojevski nei riguardi dello zarismo. Ma nella Casa di Matriona, nella Divisione Cancro, e perfino nel Primo cerchio, Solzhenitsyn si eleva al di sopra della realtà sovietica ed entra nelle regioni universali. Il giusto senza il quale non può vivere nessuno villaggio né nessuna città; di che cosa vive e come muore l’uomo; la libertà interiore, che lancia la sfida vittoriosa alla forza e all’arbitrio.

Chiaromonte, dal canto suo, non poteva esimersi dal ricordare come un eminente intellettuale francese, Michel Foucault, chiamato ai fastigi del Collège de France, avesse tenuto in quell’austera accademia una prolusione nella quale la volontà di vero era considerata «forma repressiva della libertà del discorso». Il che prospettava allora a Chiaromonte e ad Herling la vera cortina di ferro che separava l’intellighenzia dell’Europa occidentale da quella dell’Europa orientale. Entrambi sceglieranno per quella loro conversazione un punto di riferimento in Carlo Bo, uno dei pochissimi critici italiani che abbiano valutato con equilibrio, senza pregiudizi, l’opera di Solzhenitsyn.
    Il quale Bo, sul «Corriere della Sera» del 10 dicembre 1969, scrisse:
Certo è che per la libertà, oggi si combatte molto più seriamente nel paese di Solzhenitsyn che non altrove; diciamolo pure: che non da noi; e questo ci spiega anche come quella letteratura sia più autentica, più nobile, più vera di tutte le nostre soluzioni di ambiguità.

Appunto, «le nostre soluzioni di ambiguità» si sarebbero riproposte tutte quante nel 1977, contro la Biennale del dissenso di Carlo Ripa di Meana. Helsinki non fu allora evocata dal governo italiano alla luce di una maggior diffusione dei diritti umani. Ma al contrario Helsinki venne buona per diffidare di una manifestazione troppo esplicitamente antisovietica. E meno male che il ministro degli esteri Forlani, differenziandosi con eleganza dall’opinione del presidente del consiglio Andreotti, in Parlamento rilevò come l’esecutivo non disponesse e non dovesse disporre di strumenti “istituzionali” idonei a sradicare l'indipendenza della Biennale.
Invano Mosca fece di tutto per bloccare la Biennale del Dissenso che si svolse nel 1977 a Venezia e che rappresentò il primo vero atto di sostegno politico e culturale, compiuto in Italia, nei confronti di coloro che resistevano in URSS e nei paesi comunisti. Ci fu un braccio di ferro politico e diplomatico intensissimo.
Da un lato il Cremino – come provato da documenti sovietici, americani e tedeschi – esercitò ogni forma di pressione e di ricatto sul governo di Roma, sulle forze politiche e sul PCI, che cambiò il suo atteggiamento iniziale: prima disse sì alla manifestazione, poi sotto l'incalzare di Mosca la osteggiò duramente. Dall’altro lato soprattutto Bettino Craxi e il suo partito, Jiri Pelikan e «Mondo-operaio», Don Giussani e i giovani di Comunione e Liberazione.
Alla fine si riuscirono a superare gli ostacoli eretti dal mondo culturale e dalle grandi imprese (automobilistiche, tessili, petrolifere, elettroniche) operanti nella sterminata URSS. Una brutta pagina quella scritta nel 1977 da molti italiani, con significative eccezioni. Ma per la prima volta il sostegno al dissenso non venne sacrificato sull'altare della coesistenza con l’Est. Il “terzo cesto” di Helsinki aveva tenuto e alla grande!
Fino al bel libro di Gabriella Marcucci Foa, apparso nel novembre del 2007, si trattava di “una storia mai raccontata”. L’ordine di Mosca: fermate la biennale del dissenso (Roma, Liberal, 2007) l’ha saputa ricostruire in tutti i suoi aspetti. Per testimoniare come anche in Italia una “resistenza civica” ci fosse stata e quanto essa debba al socialismo liberale di Craxi.
Democratico del socialismo Bettino Craxi lo è sempre stato. Da giovane qualcuno a Milano lo aveva chiamato il “tedesco”, perché nel PSI di allora Craxi era fra quanti bazzicavano con interesse gli ambienti della SPD. Eppure da quando nel 1976 era diventato segretario del partito, il suo più che socialismo democratico si sarebbe sforzato di essere e di apparire socialismo liberale.
Non tanto per ragioni italiane. Turati gli era più caro di Rosselli, Nenni di Salvemini, Saragat di Calogero. Ma a Craxi quel che premeva era che il socialismo fosse sempre capace di contrapporre liberalismo al totalitarismo. Di qui, negli anni in cui le socialdemocrazie europee, in primis quella tedesca (con Brandt assai più che con Schmidt) gli parvero essersi assoggettate agli schematismi dell’Ostpolitik, la sua scelta di campo in favore degli avversari del comunismo, senza cercare appeasement con Mosca, senza tradire né Helsinki ed il suo terzo cesto di human rights, né Venezia e la Biennale del dissenso, né quel che per la sua generazione avevano significato i cari armati a Budapest e a Praga.
Il suo predecessore De Martino aveva per lo più giustificato la sordina socialista al dissenso dell’Europa dell’Est con una specie di malinteso realismo, teso alla politica di coesistenza pacifica fra i due blocchi. Del resto, De Martino apparteneva a una generazione di socialisti europei (Mitterand, Wilson, Brandt, Foot, Palme) che reputava immodificabile, in tempi e modi politici, la sistemazione di Yalta. La distensione prima di tutto e, quindi, massima disattenzione al dissenso. Ecco perché, lo avrebbe ricordato con amara ironia lo stesso Jiri Pelikan, al congresso del PSI di Genova nel 1972 non venne accolta la proposta di Federico Coen di farlo sedere al tavolo della presidenza.
Il quale Pelikan, allora presidente dell’Unione Internazionale Studenti ed astro nascente del comunismo cecoslovacco, nei primi anni cinquanta con Carlo Ripa di Meana a Praga aveva messo Craxi in contatto con i comitati cecoslovacchi della fronda giovanile, i Majales. A Varsavia Craxi aveva poi conosciuto Jerzy Urban, brillante giornalista anticonformista, che gli aveva spiegato ruolo e finalità della prima rivista dissenziente: «Pro Posta». Sempre a Varsavia Craxi aveva avuto occasione di incontrare anche Anna Bratkovska, segretaria della ZMP (Unione della gioventù polacca) rimossa poi dall’incarico dal maresciallo Konstantin Rokossovskij, voluto dall’URSS a capo dell’esercito di Varsavia.
A fargli frequentare gli incontri infuocati del circolo Petöfi a Budapest, nell’estate del 1956, sarà Jonas Pataki, prudentissimo comunista ungherese, dissidente e insieme dissimulatore del Dissenso. Mente il grande storico ungherese François Fejto, bandiera di revisionismo ed a suo modo di socialismo liberale, del quale aveva letto alcuni saggi, Craxi andrà a conoscerlo a Parigi per dare inizio ad un’amicizia che durerà tutta la vita.
Quelli dal 1954 al 1968 erano stati per Craxi anni di studio e di approfondimento. L’Impero intercontinentale sovietico gli sembrava destinato a venir eroso dall’eresia di un Dissenso, non facilmente definibile ma più che percepibile, nato all’interno dei partiti comunisti per sradicarne continuità leninista. Suoi interlocutori principali Pelikan e la rivista «Listy» in Cecolslovacchia e, ovviamente, in seguito Va’clav Havel e Charta ’77; Adam Michnik e Jacek Kuron con il Kor, oltre a Lech Walesa con il movimento Solidarnosc, in Polonia; Andreij Sacharov ed il suo manifesto Progresso, coesistenza e libertà intellettuale del 1967 in URSS.
Proprio le speranze riformatrici di Sacharov incentrate sulla modernizzazione e sulla ricerca parvero a Craxi irrimediabilmente ferite a morte la notte del 21-22 agosto del 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia invasero Praga e deposero Dubcek. Ormai bisognava schierarsi, senza riserve e senza condizioni, con il Dissenso, orientarlo attivamente, promuovendo forme di vera e propria resistenza civile. Tale sarebbe stata nel ’77, fra gli accordi di Helsinki e la verifica di Belgrado, la Biennale di Venezia: un’occasione della quale Sacharov volle «approfittare per attivare la massima attenzione sulla sorta di quei dissidenti che per le loro aspirazioni, benefiche e importanti per l'umanità, pagano il prezzo del carcere». Insomma, Sacharov aveva nella mente e nel cuore Solgenitsin a Venezia.
Radicata e diffusa era l’indifferenza dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, con l’eccezione forse dei portoghesi di Soares e degli spagnoli di Gonzalez, nei confronti dei dissidenti. Dalla repressione in Ungheria nel 1956 e ancor più dopo l’invasione in Cecoslovacchia nel 1968, la SPD aveva mostrato in materia timidezze e reticenze (abbastanza analoghe all’ostilità successiva di Brandt e Lafontaine agli euromissili nel 1979).
La tendenza naturale – avrebbe spiegato Pelikan – dopo il 1968 dei partiti e della diplomazia occidentale portava verso l’accettazione del fatto compiuto e il ripristino delle normali relazioni con il blocco sovietico. Noi dissidenti apparivamo quasi un ostacolo alla distensione che tutti auspicavano.

Craxi conosceva benissimo il torpore dei “partiti fratelli”, mai o quasi mai disponibili a iniziative di politica internazionale con i rappresentanti dei regimi comunisti che prevedessero qualche clausola condizionale aggravata alla condotta interna in tema di human rights. Di qui il suo entusiastico appoggio alla Biennale di Carlo Ripa di Meana nel 1977. Di qui il suo disagio quando, qualche anno prima, la SPD di Brandt e Lafontaine arrivò addirittura a varare un documento politico comune con Husak, il “duro” che i carri armati del Patto di Varsavia avevano imposto al posto di Dubecek.
Testimonianza critica di tanta incertezza dei socialisti e dei socialdemocratici europei occidentali avrebbe dato Barbara Spinelli (Il sonno della memoria. L'Europa dei totalitarismi, Milano, 2001). «Riemergevano – a suo dire – le molte compromissioni cui la SPD aveva consentito al pari di altri partiti socialisti d'Europa, non tutti, perché il P.S.I. di Bettino Craxi e Carlo Ripa di Meana aveva aiutato attivamente il Dissenso».
Liberale del socialismo, Craxi volle diradare le ombre che tanti democratici del socialismo avevano contribuito a collocare in Occidente. A tutela della distensione, forse, ma anche a scapito delle garanzie della libertà. Era un atteggiamento, quello di Craxi, che a suo modo anticipava e spiegava le sue ragioni in favore degli euromissili schmidtiani e reaganiani. Non a caso, nel rievocare le vicende del dissenso, anche a Craxi veniva in mente come vero “eroe positivo” di quella stagione la figura di Sharansky.
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