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Historia exemplum e rivolta di Masaniello
di Marco D’Urbano
La pubblicazione del volume Mondo antico in rivolta (Napoli 1647-48), a cura di Aurelio Musi e Saverio Di Franco, apparso nella collana Europa Mediterranea del Dottorato di Ricerca in Storia dell’Europa Mediterranea dall’Antichità all’età Contemporanea dell’Università degli Studi della Basilicata, si inserisce a pieno titolo nell’ottica della valorizzazione della ricerca storica relativa appunto ad aspetti e problemi della storia dell’Europa mediterranea non ancora adeguatamente approfonditi, perseguita con notevole impegno già da alcuni anni dal coordinatore e dai docenti del succitato Dottorato.
Il volume è il frutto di un’accurata selezione della documentazione manoscritta coeva o successiva agli eventi del 1647-48, rinvenuta grazie ad una meritoria opera di scandaglio condotta in alcune biblioteche napoletane (Biblioteca Nazionale, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Biblioteca dell’Archivio di Stato, Biblioteca dei Girolamini e Biblioteca della Facoltà Teologica S. Tommaso d’Aquino). I curatori si sono proposti di riferirsi «ai contesti e alle procedure di uso e reinvenzione dell’antico» per risalire non solo agli eventi, ma anche al linguaggio politico adottato durante la rivolta. Le cronache, i resoconti privati e i “discorsi politici” infatti non solo consentono di riflettere sulle varie fasi del moto rivoluzionario, ma permettono anche di individuare la particolare tensione che spinse gli autori dei testi selezionati ad utilizzare «l’antichità per commentare i tumulti del Regno» (p. 25). Nell’Introduzione al volume Aurelio Musi ha messo in evidenza che «il lettore non riconoscerà né il modo di trattare gli antichi da parte di Niccolò Machiavelli, né le procedure di Francesco Guicciardini» (p.11), ma piuttosto che si troverà di fronte ad un «uso strumentale» degli autori classici.
Il volume si divide in tre sezioni: la prima relativa alla Historia exemplum, alla auctoritas cioè alla funzione pedagogica dei classici; la seconda relativa alle forme politiche e la terza relativa al linguaggio della rivolta. Rivolta, nella quale Musi qualche anno fa, nel suo volume La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, individuò tre fasi distinte: a) quella propriamente masanielliana durata dal 7 al 16 luglio 1647; b) quella che coincise con «l’esplosione corporativa della Capitale e lo sviluppo della rivolta antifeudale in provincia», c) quella che si protrasse dall’ottobre del 1647 ai primi di aprile del 1648 e che vide concretarsi l’esperienza della “Real Repubblica Napoletana”. I curatori sulla scorta di tale divisione hanno proceduto alla scelta dei brani, privilegiando accanto al criterio tematico quello cronologico. Nel primo caso i testi contengono richiami e rinvii a fatti e personaggi dell’antichità, che vengono inseriti nel contesto del Mezzogiorno del XVII secolo, stabilendo così una forte connessione tra mondo antico e mondo moderno. Nel secondo caso i curatori hanno cercato di coordinare nella corretta dimensione temporale i temi agli eventi della rivolta.
Dall’analisi dei documenti emerge che nella prima fase della rivolta la causa principale fu di carattere essenzialmente fiscale. «Scassate le case delle gabelle, et riuniti in maggior numero nella medesima Piazza del Mercato deliberarono i sollevati venir giontamente a Palazzo a far istanza al signor viceré, che levasse le gabelle predette» (p. 32). Sulla scorta di Livio, Carlo Calà nell’undicesimo libro delle Historie ammoniva i governanti che «non bisogna metter subbito le mani al ferro, quando le cose possono superarsi col tempo, et con la piacevolezza […]» (p. 33).
A sua volta, facendo un uso pedagogico dei personaggi dell’antichità, Tarquinio Simonetta ricordava come esempio l’episodio di Archelao, il figlio di Erode, che succeduto sul trono al padre, decise nell’intento di ringraziare il popolo per gli onori tributati al genitore defunto di alleggerire le gabelle alle quali era assoggettata la popolazione, ma la plebe non si accontentò e chiese a gran voce nuove riforme, come la richiesta di insediare nei posti di comando persone diverse da quelle indicate dal re. Di modo che, quelle che dovevano essere concessioni reali si trasformarono in motivo di tumulto, provocando la feroce reazione del sovrano, che represse nel sangue la rivolta. In un altro suo scritto Carlo Calà rifletteva come il tiranno sia solito nel momento delle sedizioni approfittare delle discordie, sollevando il popolo contro la nobiltà, in nome della libertà, salvo poi a convertirla «in una miserabile servitù, essendo cosa molto certa, che levando i potenti, et restando deboli le forze della Repubblica, li suoi capi immediatamente l’assaltano, occupandone il dominio» (p. 47).
Masaniello, che fu il vero protagonista della prima fase della rivolta, appare come un uomo di umile condizione sociale, che riesce ad ascendere al potere, ma che «in un istante cade, perché a cader va chi troppo in alto sale» (p. 50).
Nell’intento di individuare personaggi storici che potevano essere paragonati a Masaniello, gli autori dell’epoca si richiamarono a Seiano, che durante la dimora di Tiberio a Capri «trattò se stesso a guisa di imperatore» tanto da essere ben presto privato degli onori, ristretto in prigione e condannato a morte. Il caso di Seiano fu considerato come esempio tipico dell’instabilità delle cose umane, «accioché la persona impari a non essere nelle prosperità superbo» (p. 51). In numerose cronache del tempo Masaniello, inoltre, fu rappresentato come un lazzaro, che asceso al potere, ebbe una triste fine a causa della sua sfrenata ambizione e della sua incapacità ad affrontare le difficoltà della sua «impresa». All’immagine di Masaniello tiranno e pazzo, si opponevano gli epitaffi che invece esaltavano la forza da lui dimostrata nel difendere gli interessi della patria e la libertà del popolo napoletano contro il dispotismo dei ministri spagnoli, ritenuti i veri responsabili della pesante politica fiscale. In numerose epigrafi il pescivendolo Masaniello era poi paragonato ad Ettore, l’eroe omerico che si era battuto strenuamente per difendere la patria.
Accanto ai diversi ritratti di Masaniello, emergeva quello di Giulio Genoinio, che Francesco Carusi riteneva l’eminenza grigia del pescivendolo, il vero sobillatore del popolo, la vera mente della rivolta antispagnola, anche se, al momento opportuno, «colui che sotto il manto della malizia, aveva sempre covato le fiere passioni delle discordie», si alleò col viceré, favorendo l’uccisione di Masaniello in cambio della presidenza della Regia Camera della Sommaria.
Nelle osservazioni sulle prime fasi del tumulto Bernardo Ricca notava che l’errore più grave che un sovrano possa commettere sia quello di vessare i suoi sudditi, perché «il popolo, comparato da Tiberio alle pecore, contentase essere tosato dal principe, ch’è suo pastore, ma non già scorticato, finché il peso è temperato, che lo sopporti, ma se di soverchio viene aggravato, a guisa di camelo getta ogni cosa a terra, machina violenze, ed esercita congiure» (p. 67). Ricca ricordava i sovrani (Teodosio e Giustiniano) che nel passato avevano contrastato le sollevazioni popolari suscitate da una gravosa politica fiscale e metteva in evidenza come taluni principi erano invece riusciti a prevenire quelle ribellioni, procurando al popolo abbondanti vettovaglie. Infatti – osservava ancora il Ricca – la storia del passato insegna che la «carestia fa abbondevoli le città di sedizioni, congiure, ribellioni. […] onde si dice [che il principe deve assicurare] il pane in Piazza, e la giustizia in Palazzo» (p. 69). Ricca sottolineava che nella rivolta masanelliana erano stati coinvolti tutti i ceti sociali, e che al viceré, duca d’Arcos, era mancata la virtù che impone ai governati di temporeggiare, di evitare lo scontro con gli oppositori.
Nella seconda sezione del volume i manoscritti selezionati si prestano all’uso analogico della storia. Nella sua Historia delle rivoluzioni di Napoli dell’anno 1647 Tizio della Monica si proponeva, infatti, di rinvenire negli avvenimenti e nelle istituzioni del Regno di Napoli echi della storia del passato soprattutto a quella romana. Napoli, che secondo la mitologia era stata fondata dalla sirena Partenope nipote di Romolo, era stata «sempre amica et confederata con Romani, governandosi del istesso modo come anche essa un tempo fu Repubblica» (p. 109).
Nel tentativo di individuare nella storia di Napoli e in quella di Roma momenti comuni, il della Monica instaurava una stretta connessione storica tra i viceré spagnoli e i Prefetti Pretorii dell’antica Roma. Come questi ultimi anche i viceré fruivano del potere delegato dal sovrano ed erano definiti con il termine di «Eccellenza». Il della Monica, inoltre, rimarcava «come il Prefetto Pretorio havea il sommo imperio, e la pienissima giurisdizione di far leggi e costituzioni, così l’Ecc.a del viceré del Regno have l’omnimo da potestà, sommo imperio, e pienissima giurisdizione dispositiva in fare leggi e prammatiche sotto il nome della Maestà, et la giudiziaria nel eseguire, et la graziosa nel dispensare, rimettere, e far gratie» (p. 111).
Né le analogie tra la storia di Napoli e quella dell’antica Roma si limitavano all’istituto viceregnale; altri organismi amministrativi e politici napoletani evidenziavano una chiara derivazione romana.
L’idea della continuità tra le istituzioni della Napoli del passato e quella della città moderna o del Regno non fu però condivisa da tutti. Nel manoscritto Risposta delle Province del Regno al Popolo di Napoli l’autore, probabilmente il notaio Nicola Evangelista, infatti chiedeva «con quale vano concetto, o città alterata di Napoli ti assicuri il titolo di reina di tante qualificate Provincie, che formano l’ammirabile recinto di questo potente Reame?» (p. 135) ed osservava polemicamente che le città di provincia non si erano mai assoggettate a Roma. «Non ti rammenti no Popolo di Napoli, che nel recinto di questo Reame vi sono disposte l’insuperabili e chiare cittadinanze de’ Sanniti, de’ Frentani, degli Hirpini, de’ Picentini, de’ Marsi, de’ Vellini, de’ Peligni, de’ Marucini, dell’Apulia, della Lugania, et altre tante parti, come parimenti della Campania felice, dove in un recesso di mare hai tu avuto volgarmente i primieri natali?» (p. 136). In questa polemica che opponeva la capitale alle “provincie” Napoli fu definita la «magione de’ piaceri licenziosi di cesari corrotti».
In nome della dignità che dovrebbero avere tutti i popoli, nelle Raggioni persuasive a’ Prencipi Napolitani concernenti i loro interessi circa l’unione col Popolo l’anonimo autore invitava i nobili del Regno ad unirsi al popolo, per dar vita ad un governo libero dal dominio spagnolo; ricordava come Napoli fosse stata una «Republica temuta dai Romani e ben conosciuta da Anibale» e sollecitava le famiglie nobiliari del Regno a porre fine alla «tirannia» spagnola.
Nel blocco di manoscritti che fanno parte della terza sezione viene analizzato il linguaggio della rivolta. Il latino e il napoletano diventano così espedienti satirici, che servono a contestualizzare il moto insurrezionale.
Nella composizione La Sirena Giuseppe Castaldo, ad esempio, utilizzava l’artificio retorico di far parlare la sirena Napoli, figlia di Partenope che, secondo la tradizione, era stata la fondatrice della città. La sirena ricordava che aveva dovuto sopportare il peso di una gravosa fiscalità, per rendere ancora più forte la Corona di Spagna, che aveva però ecceduto negli abusi, provocando la ribellione del popolo. Castaldo paragonava il popolo di Napoli agli agricoltori che, pur faticando duramente, a causa della ingordigia degli uomini di governo, non godono dei frutti del loro lavoro.
Masaniello invece era paragonato dal Castaldo ad alcuni tiranni del passato, che dopo un breve periodo di potere erano finiti miseramente. «Costui spirto plebeo nato alla pesca avezzo all’hamo, alla cannuccia, all’esca se fa cenno, è temuto comanda e s’ubidisce […] troppo fiero divenne, altro Nerone scherzò nel sangue, incrudelì nell’ossa, misero, e volle Dio, tra’ suoi furori vaneggiar si compiacque e nuovo Xerse infellonì tra l’acque» (p. 226). Il Castaldo faceva rivolgere dalla sirena un invito al sovrano affinché, conclusasi la vicenda rivoluzionaria, fosse magnanimo con i suoi sudditi come lo erano stati i suoi augusti progenitori.
Nel manoscritto Struscioli, e vituperii della Retrubeca de saponare […], che i curatori hanno proposto in versione volgarizzata a conclusione del volume, c’è una amara riflessione sulle vicende della rivolta. I burocrati, gli avvocati, i togati, gli scrivani, gli ufficiali e i magistrati danno libero sfogo al loro malumore, ridicolizzando con un pesante linguaggio gli eventi della rivolta e il vile comportamento del popolo. La composizione che non ha il tono di una riflessione politica, è piuttosto l’espressione dello sdegno dei ceti sociali che furono maggiormente colpiti dal popolo minuto. I ribelli saliti al potere non erano altro furfanti che si atteggiavano a signori; i rappresentanti presenti nel Senato erano definiti personaggi poco raccomandabili. L’autore si chiedeva chi aveva accettato «questo Senato che aveva titolo di ladro» e commentava, con tono sarcastico misto ad un senso di amarezza, che la rivolta aveva concesso il privilegio di assumere il potere a dei «pescivendoli».
La Repubblica si era trasformata in una esperienza politica gestita da poveracci e perturbatori del vivere civile. Egli pertanto salutava con gioia la fine della rivolta e così commentava: «or ch’è finita la frittata si può andare giù al Mercato senza timore di andare in prigione o nel fondo del Torrione. Crepi il Lazzaro malandrino che non può portare l’uncino. E a quei quattro che son restati gli sian date cannonate» (p. 249).
La lettura del volume conferma come nella rivolta del 1647-48 interagissero piani diversi: l’intreccio fra politica, economia e società, il quadro politico internazionale, il rapporto città-campagna, la Capitale e le «provincie», ma ciò che più conta è che negli scritti e nei resoconti del tempo, nelle cronache coeve è possibile rintracciare – come ha acutamente rilevato Giuseppe Galasso – gli indirizzi critici della storiografia contemporanea su Masaniello e sulla rivolta del 1647-48.
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