Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno X - n. 3 > Documenti > Pag. 263
 
 
Sicurezza del lavoro: diritto del lavoratore e interesse dell’impresa*
di Mario Rusciano
1. – Non occorrono molte parole per sottolineare la grande importanza di questa Giornata: che, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, vede fortemente impegnati gli enti locali (e, primo fra tutti, il Comune di Napoli) sui problemi della sicurezza nei luoghi di lavoro. Questi problemi, purtroppo, da tempo sono quotidianamente e prepotentemente sotto i nostri occhi, perché non c’è giorno in cui giornali e telegiornali non sono costretti a riportare la notizia di infortuni mortali sul lavoro; e a farlo con il clamore proporzionato alla gravità dei fatti.
Una volta questi infortuni venivano chiamati “omicidi bianchi”. Si voleva, con tale formula, sottolineare la “colpevole” responsabilità di quanti sono per legge tenuti a garantire l’integrità fisica di chi lavora e non adempiono a questo loro dovere: in primo luogo il datore di lavoro (specie se imprenditore) nell’accezione più ampia possibile, comprensiva cioè di tutti quelli che, nella struttura produttiva, hanno un potere sull’organizzazione del lavoro e sulla prestazione dei lavoratori.
La legge impone a costoro – e non da ora, se si ricorda la formula dell’art. 2087 del codice civile del 1942 – di adottare, in via preventiva, le appropriate misure di salvaguardia della integrità fisica (e altresì della personalità morale) del lavoratore. Sicché, se si verifica un infortunio mortale a causa dell’assenza di tali misure, forse non si può parlare di omicidio doloso in senso tecnico, ma certamente deve presumersi dolosa la mancata prevenzione e, dunque, l’esposizione del lavoratore a maggiori rischi. Chissà perché, da qualche tempo, non si parla più di “omicidi bianchi”, ma solo di “morti bianche”. Sostituendo “morte” a “omicidio”, forse ci si illude, riducendo la brutalità del termine, di ridurre il grado di responsabilità di quanti sono chiamati ad operare affinché chi lavora non perisca del proprio lavoro. Tuttavia, a ben vedere, il minore impatto mediatico, sull’opinione pubblica, della formula verbale non vale ad attenuare la responsabilità davanti alla legge di chi versa in un inadempimento così grave.
Per la verità, è difficile dire se il rinnovato clamore di questi ultimi tempi su quelli che io continuo a chiamare “omicidi bianchi”, sia dovuto ad una maggiore attenzione al problema – ripetutamente raccomandata, e fin dal suo insediamento alla Presidenza della Repubblica, da Giorgio Napolitano – oppure al fatto che davvero questi infortuni vanno moltiplicandosi.

2. – Del fenomeno c’è chi dà una versione leggera e semplificata e chi dà, invece, una versione più cruda e inquietante. Per la versione leggera, la spiegazione sarebbe da ricercare nel fatto che, anche sulla sicurezza del lavoro, si è avuto un aumento di comunicazione (che, beninteso, è cosa diversa dall’aumento di attenzione) e, quindi, di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
In questa spiegazione c’è una parte di verità. E posso aggiungere che, senza dubbio, la maggiore e più diffusa sensibilizzazione dell’opinione pubblica contribuisce ad aumentare, appunto, quella cultura della sicurezza del lavoro: che, come dirò più avanti, è fondamentale a ridurre il numero e la gravità degli infortuni.
E però, come si dice, ogni medaglia ha il suo rovescio. Ecco allora che l’aumento di comunicazione può comportare anche il rischio di abituarsi alla ineluttabilità di quello che si potrebbe ormai chiamare l’«omicidio bianco di giornata» e a quella sorta di vera e propria «retorica dell’infortunio», che sempre l’accompagna (se non altro perché viviamo in un’epoca in cui è difficile sottrarsi alla moda della “retorica degli avvenimenti”). Un atteggiamento del genere, in effetti, rischia di pregiudicare l’attenzione ed il reale approfondimento dei problemi in discussione.
Ma anche la versione, che ho definito cruda ed inquietante, del fenomeno, ha la sua parte di verità. In un periodo storico di grave crisi economica mondiale – che nel nostro Mezzogiorno assume caratteristiche drammatiche – la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro è destinata, nella sostanza, a passare in secondo piano, pur restando in primo piano nella forma. Vale a dire: con tanta retorica proclamazione di principi, condita da una buona dose di fatalismo.
Del resto, è diffusa l’idea che – sempre con particolare drammaticità nel Mezzogiorno – l’aumento dei disoccupati e dei cassintegrati, in un contesto già devastato da alti tassi di disoccupazione e di lavoro nero, oltre che dalla forte pressione della criminalità organizzata, metta a dura prova persino la tenuta del diritto del lavoro in quanto tale, cioè dell’intero complesso delle regole che mirano a tutelare le persone che lavorano alle dipendenze di altri.
Figuriamoci se, in un momento del genere, i lavoratori possono pretendere che sull’impresa vengano caricati i costi della sicurezza, senza dubbio spesso molto alti. Proprio in questo periodo, anzi, gli stessi lavoratori, pur di non perdere il lavoro, sono disposti a reputare più naturale che mai l’inclinazione dell’impresa ad abbattere i costi di produzione. E così, a cadere sotto la mannaia dell’abbattimento dei costi sono, di solito, la sicurezza, la manutenzione e la formazione.
Per altro verso, quando non ricorre tout court alla delocalizzazione – trasferendo l’attività produttiva in paesi a basso costo di manodopera e con meno vincoli sulla sicurezza del lavoro – l’impresa è portata, quanto meno, ad esternalizzare segmenti produttivi, a trasferire i c. d. “rami d’impresa”, a ricorrere a subappalti ecc.. Man mano che aumenta questa sorta di flessibilità organizzativa, si affievolisce l’attenzione, la sensibilità e il rispetto delle norme e delle misure di sicurezza. Il lavoro, disperso in tanti rivoli, prima diventa per così dire “grigio” e poi sfocia nel lavoro “nero”: perché la convenienza della catena di esternalizzazioni, trasferimenti e subappalti sta proprio nella graduale scomparsa dei vincoli di tutela dei lavoratori.
Difficilmente i lavoratori sono in grado di resistere a questi cambiamenti organizzativi. Per loro, che il più delle volte sono lavoratori “a tempo determinato”, “a tempo parziale”, “somministrati” o “a progetto” (in una parola: per la maggior parte precari), la priorità – ripeto – è la conservazione di un’occasione di lavoro, purché sia; seguita, se mai, dalla difesa del potere d’acquisto del salario. Insomma, per forza di cose, essi, sulla sicurezza, finiscono con il non andare troppo per il sottile.

3. – Il quadro, come si vede, è abbastanza sconfortante. Rispetto ad esso, lo stesso sindacato rivela tutta la sua debolezza rappresentativa: sia perchè l’abbassamento dell’indice di sindacalizzazione nelle c. d. società postindustriali, è generale, sia perchè i precari, in particolare, come può intuirsi, non si iscrivono al sindacato. Occorre allora capovolgere la prospettiva e fare un balzo in avanti nel discorso di fondo sulla sicurezza del lavoro: osservare cioè quanto una maggiore sicurezza non sia soltanto interesse dei lavoratori, ma faccia parte integrante dell’interesse dell’impresa. Ovviamente, sempre che, dell’interesse dell’impresa, si abbia un concetto appropriato: cioè che si tratti di un interesse da identificare con l’interesse alla migliore produzione (per la quale è indispensabile la piena e costruttiva collaborazione dei lavoratori) originato dal loro benessere aziendale.
A tal fine, uno spunto importante – a mio parere, da valorizzare al massimo – viene offerto dallo stretto collegamento, ormai incontestato, che esiste tra “infortuni” e “perdita economica” (tanto delle aziende, quanto del sistema complessivo) e, ancora di più, dal collegamento, altrettanto accertato, tra “stress da lavoro” e “inefficienza produttiva”.
Per capire appieno tutto questo, torna utile seguire la nuova impostazione, che pare farsi largo nell’Unione Europea: non soltanto ad opera della Commissione, ma anche ad opera delle parti sociali. E così, se la precedente strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006 si proponeva di «adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società», ovvero di conseguire il benessere sul luogo di lavoro attraverso il rafforzamento della cultura della prevenzione, il miglioramento dell’applicazione della giurisprudenza (già esistente in materia), la costituzione di partenariati tra gli attori sociali (istituzioni, parti sociali, imprese ecc.) e lo sviluppo della cooperazione internazionale – giacché il problema è più grave nei paesi economicamente più deboli – la strategia attuale (2007-2012) mira a «migliorare la qualità e la produttività sul luogo di lavoro» ed ha, tra gli obiettivi, quelli di garantire l’attuazione della legislazione europea nei vari ambiti nazionali, di sostenere le piccole e medie imprese nell’applicazione delle leggi vigenti, di favorire attuazione e sviluppo delle strategie nazionali, di mettere a punto metodi per l’identificazione e valutazione dei nuovi rischi potenziali.
Ancora maggiore interesse suscita l’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004, tra la Confederazione Europea dei sindacati e le organizzazioni europee degli imprenditori, sullo stress da lavoro: ove si esprime il convincimento che «considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme». Insomma, è sempre meno paradossale fuori del mondo pensare che sia sostanziale l’interesse dell’impresa a soddisfare il diritto dei lavoratori alla sicurezza nei luoghi di lavoro.

4. – Ciò non vuol dire, logicamente, che non si debba continuare a ragionare anche in termini di garanzia legale del diritto alla sicurezza e, quindi, si debba pensare che l’ormai enorme apparato normativo, riguardante la prevenzione dei rischi e degli infortuni sul lavoro, vada messo da parte. Tutt’altro. Il nostro ordinamento non lo consentirebbe, poiché è un apparato che – come sappiamo e non ci stancheremo mai di ripetere – si radica fortemente nella costituzionalizzazione del diritto dei lavoratori alla salute ed alla sicurezza (sancito agli artt. 32 e 41 della Carta).
Partendo da questo dato elementare, la nuova prospettiva si afferma se la normativa si presenta solida e senza ambiguità. Ciò, a dire il vero, al momento non appare, stando all’assetto dato alla materia dal d. lgs. 81 del 2008: che, sulla base della legge delega 123 del 2007, ha (finalmente) introdotto il c. d. «Testo unico in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro», un provvedimento legislativo atteso da quasi 30 anni, che però non sembra rispondere ancora a tutte le esigenze emerse nella realtà sociale.
Così, ad esempio, nel Testo unico si alternano – con risultati non entusiasmanti sul piano della coerenza sistematica – norme di principio, mera trasposizione di vecchie regole, nuove regole; queste ultime spesso frutto di un’enfasi emotiva, non sempre calibrata sull’esperienza di tanti anni di applicazione del d. lgs. n. 626 del 1994, che contiene, si può dire, la europeizzazione della normativa italiana.
In particolare, ancora incerti rimangono due aspetti importanti, sui quali occorre riflettere: la ripartizione degli ambiti legislativi tra lo Stato e le Regioni, in primo luogo. E, in secondo luogo, le normative di adattamento – ad oggi ancora assenti – della disciplina generale a particolari contesti, non certo ultimo quello delle pubbliche amministrazioni.
Basti qui rammentare – per comprendere quanto possa essere nociva l’assenza di una specifica disposizione su tali ambiti – l’annosa questione di una precisa individuazione del “datore di lavoro” negli enti pubblici, proprio ai fini della corretta imputazione degli obblighi e, dunque, degli adempimenti connessi alla salute ed alla sicurezza.
Sul punto, a dire il vero, la tecnica legislativa adoperata dal legislatore non è certo immune da critiche: per un verso infatti, (v. art. 3, comma 2, d. lgs. 81/08), si è prevista la necessità (come già per il d. lgs. 626/94), di emanare regolamenti di applicazione/adeguamento della normativa generale a specifici settori della pubblica amministrazione (Forze armate, strutture giudiziarie, università, scuole, ecc.), evidentemente nella consapevolezza della difficoltà di applicazione tout court della nuova normativa a tali settori; per altro verso, si stabilisce un termine (12 mesi, di recente prorogati a 241 ), decorso inutilmente il quale trovano applicazione le disposizioni di cui al presente decreto (così il comma 3 dell’art. 3).
Evidente la contraddizione: da un lato si sostiene, giustamente, che le disposizioni del decreto richiedono di essere plasmate sulle specifiche esigenze delle diverse realtà organizzative di alcune amministrazioni pubbliche, e dunque non sarebbero efficacemente applicabili così come sono; dall’altro lato, invece, si sconfessa quell’impostazione con la previsione del meccanismo dell’applicazione “automatica” di quelle stesse disposizioni alla scadenza del previsto termine per l’adeguamento. Delle due l’una: o quegli adeguamenti non sono effettivamente necessari, e allora non si capisce perché prevedere il rinvio ai regolamenti ministeriali; o invece sono necessari, e allora un’eventuale mancata emanazione delle norme secondarie previste, con l’automatica applicazione del nuovo Codice, produrrebbe conseguenze imprevedibili, ma sicuramente negative, anche per la concomitante “disapplicazione” delle disposizioni regolamentari che, per le amministrazioni in questione, attualmente provvedono all’applicazione “adeguatrice” delle norme del d. lgs. 626/94. Se poi si pensa che il settore delle pubbliche amministrazioni non è neanche l’unico settore, allo stato, ancora estraneo all’opera di “unificazione testuale”, c’è motivo di dubitare che si possa davvero parlare di testo unico! E questo non giova alla chiarezza del sistema di regole.
Certo, a tale chiarezza non ha giovato neppure la scarsa linearità della politica del diritto, che ha ispirato un provvedimento così importante: scarsa linearità dovuta al cambiamento del governo. Infatti, il nuovo Governo, appena insediato – nella primavera del 2008 – ha subito dichiarato che il decreto 81 sarebbe stato oggetto di qualche ulteriore perfezionamento correttivo e forse anche di qualche revisione più sostanziale. Nulla da obiettare: nuovo governo, nuova maggioranza parlamentare, differente visione di alcune problematiche, nuovi interventi conformi a tale differente visione.
Sta di fatto, però, che, fino ad ora, non si é visto alcun intervento e che, nel frattempo, si è solo ripetutamente rinviata la positiva vigenza di alcuni obblighi previsti dal decreto. Dopo un primo rinvio, che può considerarsi tecnico, perché avvenuto proprio al cambio di Governo, i nuovi rinvii non possono che considerarsi politici.
Eppure andrebbe dato per scontato che nessun Governo – di destra o di sinistra che sia – possa, non dico trascurare il costo sociale ed umano degli infortuni sul lavoro, ma semplicemente disconoscere la validità e la condivisibilità della ratio del Testo unico: che è quella di tentare di far fronte alla scarsa effettività del quadro normativo preesistente. Scarsa effettività, insita purtroppo nelle disposizioni antinfortunistiche, e oggi accresciuta, come ho ricordato all’inizio, dal cambiamento in peggio del quadro economico e sociale (crescita dei lavori atipici; diffusione delle tecniche di scomposizione del lavoro attraverso catene di appalti e subappalti ecc.).

5. – Oggi come ieri, infatti, il vero problema della normativa in materia di sicurezza del lavoro resta quello dell’effettiva applicazione della legge, che non può prescindere dalla diffusione e dalla condivisione di un’autentica cultura della sicurezza. Traguardo primario da raggiungere, perché l’effettiva applicazione della legge non può che discendere da una nuova mentalità del lavoro sicuro: che deve essere acquisita, ovviamente, tanto dagli imprenditori quanto dagli stessi lavoratori.
Non è un caso che anche il massiccio complesso di regole tende, sempre e manifestamente, ad incidere, anzitutto, sul piano culturale. Perciò io, da giurista, sono solito affermare che, al di là delle singole disposizioni normative, occorre diffondere una nuova “filosofia dell’ambiente di lavoro”: avendo presente, ad esempio, quella “filosofia delle relazioni umane nei luoghi di lavoro” – di cui l’ambiente è parte essenziale – portata avanti negli anni ‘50 e ‘60 da personaggi come Adriano Olivetti, antesignano di un filone, che rimane un sicuro e importante riferimento, da valorizzare al massimo proprio nel momento in cui occorre incrementare la cultura della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.
Del resto, una cultura della sicurezza, in generale, per forza di cose deve essere ormai acquisita da tutti i cittadini, dal momento che la sicurezza costituisce un vincolo legale ineludibile di tutti i luoghi pubblici: uffici, scuole, università, cinematografi, ristoranti, musei ecc.. Non dovrebbe essere tanto difficile, dunque, capire quanto ancora più importante sia, in particolare, una cultura della sicurezza dei luoghi di lavoro. Non a caso, da un po’ di tempo a questa parte, esiste un interessante filone di studi organizzativi, che tende a fare della sicurezza del lavoro un elemento intrinseco e coessenziale alla modellistica dell’organizzazione.
La cultura di un’organizzazione del lavoro sicura riguarda, anzitutto, i datori di lavoro (specie se imprenditori). Ma, allo stesso tempo, riguarda la magistratura (tanto inquirente, quanto giudicante), i nuclei di polizia, amministrativa e giudiziaria, e – non saprei dire se per primi o per ultimi – riguarda appunto gli stessi lavoratori. Poiché non è pensabile realizzare un sistema, che preveda un vigilante accanto ad ogni lavoratore da controllare, è ovvio che occorra sviluppare, prima di ogni altra cosa, l’«istinto di conservazione» dei lavoratori!
Spesso, ad esempio, il lavoratore dell’edilizia – un settore, si sa, tra i più esposti al rischio di infortuni – non indossa il casco protettivo o la cintura di sicurezza: perché, tra la certezza (immediata) del fastidio del casco o della cintura e l’ipotetico rischio di incidenti, tende a privilegiare la prima. Circostanza che, purtroppo, si rivela, più di frequente di quanto si pensi, un inutile e pericoloso azzardo sulla propria salute; un azzardo talora irreparabile. Dunque, è forte l’esigenza di convincere il lavoratore ad avere un istinto di conservazione assai più spiccato: specie in quei settori, dove si manifestano maggiori defaillances.
Bisognerebbe tentare di sostituire, in materia, il circolo virtuoso, fatto di cultura, regole, controlli, e naturalmente anche sanzioni, a quel circolo vizioso, fatto di ignoranza, superficialità, fatalismo, improvvisazione, illegalità ecc.. Certo, la sola repressione non porta a grandi risultati. C’è bisogno soprattutto di educazione, formazione e convinzione: ripeto, solo attraverso un “circolo virtuoso” tra questi elementi, è possibile ridurre il rischio dell’infortunio e della malattia professionale.

6. – Ma in attesa che questa cultura si formi e si diffonda, il problema della “effettività delle regole” va comunque affrontato: si possono scrivere disposizioni normative adatte alle esigenze, per quantità e qualità, ma se non si risolve anzitutto il problema della reale applicazione di esse, sarà come se queste stesse disposizioni fossero state scritte sulla sabbia.
In via prioritaria, però, va denunciato il paradosso di ritenere fondata la competenza regionale a dettare regole in questa materia. A mio modo di vedere, la formula “tutela e sicurezza del lavoro”, di cui all’art. 117 Cost., ha una portata molto limitata. Essa sembra buttata lì per caso, in una improvvisata elencazione. La sua genericità induce a ritenere che essa alluda soltanto all’adozione di alcuni strumenti di tutela della sicurezza, specie riguardanti i controlli, più adatti ad essere gestiti territorialmente.
Non è possibile pensare, infatti, che la materia della sicurezza sul lavoro, caratterizzata da una struttura così complessa, fatta di istituzioni ad hoc, disposizioni normative, controlli, sanzioni ecc., possa essere attribuita alle Regioni o addirittura essere ad esse riservata.
Sarebbe una grave contraddizione, da un lato, considerare la sicurezza del lavoro un limite all’iniziativa economica privata – ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost. – in quanto tocca diritti fondamentali della persona e, da un altro lato, tollerare eventuali possibili disparità regionali di trattamento dei lavoratori. E, per giunta, farlo in un’epoca in cui le direttive comunitarie tendono, giustamente, ad imprimere maggiore omogeneità, in questa materia.

7. – Mi avvio a concludere, con alcune brevi osservazioni su aspetti giuridici non secondari.
a) Mentre non vi sono dubbi per l’applicazione delle regole di sicurezza nel caso dei lavoratori parasubordinati “a progetto”, sul lavoro autonomo qualche dubbio permane, in quanto l’autonomia consiste proprio nell’autonomia dell’organizzazione e che la sicurezza è da ricondurre proprio all’organizzazione. Ma l’accertamento dell’autonomia organizzativa deve essere sempre molto attenta e scrupolosa: sia da parte degli organi di controllo, sia da parte del giudice.
b) Per quanto riguarda la tutela collettiva e sindacale della sicurezza sul lavoro, va ricordato che il bene “sicurezza nel luogo di lavoro”, di per sé, non è negoziabile, non può quindi essere oggetto di contrattazione. Dunque, se è fuori dubbio (oltre che ovvio) che, per l’adozione di serie misure di sicurezza, sia da preferire un clima di collaborazione a un clima di conflitto, occorre però diffidare, in materia, di tutto ciò che è contrattazione, anche a livello aziendale. Qui davvero si può distinguere un contratto collettivo da un accordo sindacale, essendo il primo più adatto a comporre un conflitto e il secondo ad assumere avvisi comuni tra imprenditore e sindacato.
Se è perfettamente logico che i rapporti tra rappresentanze della sicurezza e rappresentanze sindacali debbano essere improntati a collaborazione e comunicazione, non vi devono essere però sovrapposizioni di compiti e confusioni di mentalità. Il rappresentante della sicurezza, dopo la nomina, deve avere una sua autonomia, proprio perché la sicurezza non è un bene negoziabile e non la si può, quindi, giocare sul tavolo della politica sindacale. Non dimentichiamo che anche l’art. 2087 del cod. civ., quando impone all’imprenditore l’adozione di determinate misure, che – in rapporto alla qualità del lavoro, all’esperienza e alla tecnica – siano in grado di salvaguardare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, lo fa individuando la “tutela delle condizioni di lavoro” come una caratteristica intrinseca alla figura dell’imprenditore, ancor prima di farne un obbligo contrattuale dello stesso imprenditore, a fronte di un diritto individuale del lavoratore.
Se si lasciasse la gestione della sicurezza alle rappresentanze sindacali, e priva del rigore della legge, potrebbe anche accadere, ad esempio, che imprenditore e sindacato scambino, su un tavolo di trattative, meno sicurezza con più salario! Uno scambio del genere è avvenuto in passato, quando talvolta le commissioni interne preferivano la corresponsione dell’“indennità di rischio” all’adozione delle misure di garanzia della sicurezza del lavoro, rivendicata invece dalle grandi confederazioni sindacali. Non mi pare il caso di agevolare il ripetersi di simili scambi: che sono disumani e, perciò stesso, illeciti. La contrattazione collettiva, se mai, può al massimo migliorare le misure inderogabili stabilite dalla legge.
Logicamente, il rappresentante della sicurezza deve anche essere esperto e provveduto dal punto di vista tecnico: più simile ad una sorta di “autorità indipendente” che a un rappresentante di interessi. Una volta creata, la rappresentanza della sicurezza deve avere una sua direttrice di marcia, autonoma e non condizionata da esigenze diverse da quelle di natura tecnica per la riduzione dei rischi. Anzi, è molto importante che, oltre ad essere tecnicamente serio, il rappresentante della sicurezza sia anche autorevole, perché l’autorevolezza del tecnico è in grado di bloccare ogni possibilità e ogni cedimento sul piano negoziale. Insomma, l’imparzialità e l’autorevolezza del rappresentante della sicurezza si coniugano perfettamente con la indisponibilità del diritto alla sicurezza.
c) Un’osservazione finale non può non riguardare l’apparato sanzionatorio in caso di violazione delle regole di prevenzione. Qui vorrei sgombrare il campo dall’idea che il diritto penale possa risolvere, quasi magicamente, tutti i problemi della sicurezza del lavoro. Certo, dopo che l’infortunio si è verificato, la via penale è una via obbligata. E invece, l’idea di sanzioni diversificate e mirate, nella fase della prevenzione, con buona probabilità assicurerebbe assai più il rispetto della legalità.
D’altra parte, questo discorso di nuovi e più adeguati tipi di sanzione, a seconda delle violazioni della legge, riguarda il sistema sanzionatorio in generale. Se, infatti, una sanzione, diversa da quella penale, è più capace di colpire là dove effettivamente il soggetto da punire (persona fisica o giuridica) ha forza e potere, può risultare più efficace della sanzione penale. E’ paradossale che, ancora oggi, si assegni al diritto penale la singolare funzione di tranquillizzare le coscienze di tutti noi, al di là della reale efficacia della sanzione.
d) Il problema vero, se mai, rimane quello dei controlli. Dai quali, come si può intuire, dipende la effettività reale: sia delle norme, sia delle sanzioni. Ma questo è un problema di organizzazione delle strutture pubbliche e, proprio per questo, è un problema di difficile soluzione. Se i controlli da fare sono molti e le risorse sono poche, è evidente che l’obiettivo della sicurezza è irraggiungibile. Come pure, molto dipende dalla professionalità e dalla cultura dei controllori. Una mentalità eccessivamente burocratica, che pensa alla pedissequa osservanza solo formale delle regole, senza la capacità e la flessibilità di cogliere la sostanza dei problemi, non giova all’efficacia della normativa.
Insomma, occorre fare ancora molta strada per rendere effettivamente applicabili le normative sulla sicurezza del lavoro e per evitare di dare ragione a Umberto Romagnoli, celebre giuslavorista italiano, che, circa quindici anni fa, poco dopo l’emanazione del d. lgs. 19 settembre 1994 n. 626, affermava che “il monumentale apparato di norme, che ha fatto compiere passi da gigante al diritto alla sicurezza sul lavoro, intimidisce quanto il ruggito di un topo”2.



NOTE
* Relazione alla Giornata della sicurezza del lavoro, promossa dalla Giunta e dal Consiglio del Comune di Napoli, il 5 marzo 2009 a Città della Scienza.^
1 V. art. 32, commi 2-bis e 2-ter, D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14.^
2 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 184.^


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI
Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1989, II ed.
Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, in «Giornale diritto del lavoro e relazioni industriali», 2007, 799 ss.
G. Natullo – R. Santucci, Ambiente e sicurezza sul lavoro. Quali tutele in vista del testo unico? Atti del convegno di Benevento – 9 novembre 2007, Milano, Franco Angeli, 2008.
P. Pasucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro. Atti del convegno di studi giuridici sul disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007 (Urbino, 4 maggio 2007), Roma, Ministero della salute/Ispesl, 2007.
U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, Bologna, il Mulino, 1995
M. Rusciano, 2007 b), “Retorica”, “cultura” ed “effettività” della sicurezza del lavoro, in PASCUCCI (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro. Atti del convegno di studi giuridici sul disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007 (Urbino, 4 maggio 2007), Roma, Ministero della salute/Ispesl, 2007.
G. Natullo - M. Rusciano (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, F. Carinci (dir.), Diritto del lavoro, Commentario, VIII, Torino, Giapichelli, 2007
G. Natullo - M. Rusciano (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in F. Carinci (dir.), Diritto del lavoro, Commentario, VIII, Torino, Giapichelli, 2008.
G. Santoro Passarelli, La nuova sicurezza in azienda. Commentario al titolo I D.lgs. 81/08, Milano, IPSOA, 2008.
C. Smuraglia, Quadro normativo ed esperienze attuative in tema di sicurezza e igiene del lavoro: nuove prospettive di coordinamento e di interventi urgenti, in «Rivista giuridica del lavoro», 2007, n. 2, suppl., 5 ss.
M. Tiraboschi, Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Commentario al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Milano, Giuffrè, 2008.
L. Zoppoli-P. Pascucci-G. Natullo (a cura di), Le nuove regole per la salute e la sicurezza del lavoro. Commentario al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, Milano, Ipsoa, 2008.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft