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Cultura positivistica e istruzione nella Firenze dell'Ottocento. Dora d'Istria*
di Maurizio Torrini
Nel 1887 uscivano a Firenze Gli eroi della Rumenia di Dora d’Istria. Si trattava del n. 24 della “Piccola biblioteca del popolo italiano” dell’editore Barbèra, inaugurata l’anno precedente dall’Arte di essere felici di Paolo Mantegazza, insieme a Ruggero Bonghi e Anton Giulio Barrili direttore della collana, ma in verità ispiratore e artefice maggiore: in un anno e mezzo vi aveva pubblicato tre volumetti oltre quello ricordato, La mia mamma e il fortunato Il secolo nevrosico. La “Piccola biblioteca” si proponeva di «offrire al popolo italiano tutto ciò che può intendere e godere di buono e di bello, tutto ciò che può rifargli il carattere, ingentilirgli il costume, allargarne la cultura, esplorando le miniere della scienza, i giardini dell’arte, gli archivi della storia». Tutto nel «rispetto» di ogni religione «dell’ideale» e soprattutto per la gloria della nazione.
La prefazione di Paolo Mantegazza agli Eroi della Rumenia rappresenta il più caloroso, non so se più aderente, ritratto ‘fiorentino’ di Dora d’Istria. Un po’ enfatico, forse, come quasi tutta la prosa di Mantegazza, ma che testimonia il fascino e il ruolo esercitato dalla principessa. «Un corpo tutto venustà, un cuore tutto grazia e nobiltà, una mente d’artista e di pensatore». Alla soglia dei sessant’anni Dora d’Istria appariva al professore di antropologia una «bella matrona», dopo esser stata «giovinetta insuperabile e donna sfolgorante». Subito ne veniva sottolineato il carattere cosmopolita: «essa è perspicua, chiara, limpida, elegante come gli scrittori francesi […] ha calda la fantasia e maestoso lo stile come donna d’Oriente e come un’italiana; analizza i fatti della storia colla pazienza d’un tedesco e ha il senso pratico dell’inglese». Questo, proseguiva Mantegazza, era il frutto di un’educazione che non era né francese, né rumena, né russa, né tedesca, ma che «assorbì il meglio di ogni scuola, il profumo di ogni giardino», ma che soprattutto, «alternando le lezioni del maestro», si formò a «quell’altra scuola principe che è il viaggiare, il vedere cogli occhi, il toccare con le mani la società vivente». E lui poteva ben dirlo, che dei viaggi e degli incontri aveva fatto la sua «filosofia della vita». Dopo il ritratto fisico e morale, i contenuti: «essa – Dora d’Istria – vuole la libertà in ogni paese, in ogni tempo, la vuole per tutti […] Vuole l’eguaglianza, vuole la democrazia, la democrazia sana e logica, che vuole innalzare chi è in terra e non portare nel fango chi è in alto». Ha «fede sicura nel progresso, un’avversione costante per l’oscurantismo dovunque lo trovi, sia poi dispotismo orientale o tirannia gesuitica». Infine il tasto patriottico, con la citazione della lettera di Garibaldi del 1861 con cui il generale invitava la principessa a convincere i rumeni ad attaccare gli austriaci, «più italiana di molti italiani combatteva la tirannia austriaca nei suoi scritti e poco sperava delle velleità patriottiche di un papa, più prete che cittadino d’Italia».
C’è un altro ritratto ‘fiorentino’ di Dora d’Istria, meno intellettualistico, legato al filo dei ricordi, come si conviene non alla presentazione di un testo, ma al bilancio della memoria. È quello di Angelo De Gubernatis nelle pagine autobiografiche di Fibra, dedicato a colei che «tra le donne straniere illustri» teneva «il primo posto, come amica». Non è luogo qui di illustrare i rapporti tra il brillante poligrafo, professore di sanscrito, indologo e quant’altro, e la principessa rumena. Farlo significherebbe esaurire quasi completamente i rapporti di Dora d’Istria con l’ambiente italiano e fiorentino. Un rapporto non solo intellettuale, ma financo pratico, di vita. A cominciare da quella villa d’Istria che era stata fino al 1870 la dimora di De Gubernatis, da questi venduta alla principessa per un’incauta previsione di trasferimento a Roma, per finire con le nozze del giovane e inquieto professore con Sofia Besobrasoff, cugina di Bakunin, che lo legava vieppiù alle amicizie russe della principessa. Un rapporto duraturo che segna, almeno per il De Gubernatis, quasi tutta la sua vita, dalla giovinezza alla maturità – «l’avevo appena intraveduta, come una visione fantastica, ne’ miei vent’anni a Torino» – testimoniato dall’intrecciarsi di vicende da feuilleton persino, dal cospicuo elegantissimo carteggio conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e, non ultimo, dall’inclusione di alcune lettere della principessa nelle Étincelles. Pensées d’un maître (Roma, 1900), accanto e insieme a quelle autorevoli di Renan, Taine e Wagner. Di quell’amica De Gubernatis, che pure nel darwinismo, cui aderiva, non si sentiva di escludere «la presenza vigile di un misteriosa provvidenza divine, che dirige nel creato l’evoluzione di ogni nuova energia creativa», rimproverava solo di non veder «niente al di là della vita». «Ella non comprendeva alcun sentimento religioso; ella prendeva brutalmente in giro tutto ciò che è sacro: così ha osato dare al suo amato cane il nome di Brahama, la divinità più spirituale dell’India».
Un lombardo, Mantegazza, un torinese, De Gubernatis, un personaggio ‘internazionale’ in ogni senso, come Bakunin – il cui incontro, prima di favorirne le fauste nozze, costerà al De Gubernatis le dimissioni dall’incarico d’insegnamento e mesi di turbamento morale e pratico –, infine Dora d’Istria. Forse niente come questi intrecci di personalità, di idee, di esperienze multiformi di vita e di studi può restituire quel singolare milieu che fu Firenze tra la riacquistata indipendenza, l’unità e il ruolo provvisorio di capitale d’Italia.
In primo piano, l’Istituto di studi pratici e di perfezionamento, di cui il De Gubernatis e il Mantegazza erano appunto membri, nel quale si incontravano e si rifondevano la tradizione toscana moderata, ma non codina e fortemente unitaria, e l’esigenza di un largo rinnovamento che le nuove condizioni politiche richiedevano. Non a caso quell’Istituto, nato «per l’insegnamento pratico e per lo scientifico perfezionamento», fu promosso e voluto all’indomani, in senso letterale, della fuga dell’ultimo granduca, quando ancora incerto, e molto, era il futuro della Toscana e dell’impresa piemontese, eppur proiettato subito al di sopra e al di fuori dell’orizzonte meramente locale, presumendo, sulla soglia di cambiamenti di cui non si conoscevano gli esiti, ma si intravedevano i compiti futuri, la necessità di avviare uno strumento che ne accompagnasse i fini sul piano dell’alta istruzione. Si venne così a dar vita a un esperimento pressoché unico all’alba della vita del nuovo Stato, che non è il caso di ripercorrere qui nelle vicende, le speranze, le velleità anche, i fallimenti, fino all’esito tutto sommato deludente che lo ricondusse, ormai nel nuovo secolo, allo stato di quelle università che aveva voluto, e in certi casi saputo, superare per essere altro.
Certo, quell’esperimento si muoveva in un’ottica che comprendeva la situazione concreta della Toscana, con le due università, Siena e Pisa, dislocate in due centri minori e di diversa tradizione e peso, nei cui confronti Firenze, con i suoi musei, biblioteche, archivi, accademie e istituzioni culturali, complessi ospedalieri, nonché case editrici, giornali e riviste, teatri, con la vita sociale insomma, appariva davvero in grado di offrire praticità e perfezionamento. «Grandi scienziati e grandi letterati non si formano d’ordinario in piccole città», avrebbe ricordato Maurizio Bufalini, uno degli ispiratori di quel progetto. Il dato offerto dalla situazione locale si proiettava in quello superiore della «civiltà nazionale», nella quale l’Istituto doveva garantire il «vero primato che dipende dal sapere, come dal sapere dipendono in generale tutti i beni della vita, tutti i vantaggi sociali», diceva il Ridolfi nell’inaugurarlo.
Ha ragione Eugenio Garin a parlare, in quella che rimane, a quasi 50 anni di distanza, la miglior ricostruzione di quell’Istituto, di equivoco, di ambiguità, in quel proposito di legare la preparazione pratica alle professioni e l’addestramento alla ricerca. Riprova fu che gli studi legali se ne trassero subito fuori, mentre quelli medici si trasformarono negli ultimi due anni di corso per gli studenti di Siena e Pisa. E tuttavia andrà pur tenuto di conto che si trattò di un esperimento, del varo in un mare ignoto, agitato fin da subito da difficoltà finanziarie e normative, nel mentre tutto il comparto dell’istruzione, nel quale confluivano tradizioni e usi diversi, era chiamato a inglobare, adattare, uniformare nel nuovo Stato. Quell’equivoco e ambiguo connubio testimoniava la consapevolezza della crisi del modello universitario, com’era giunto, non solo in Italia, alla metà dell’Ottocento, e il tentativo, battendo altre vie, anche nella didattica – attraverso seminari e esercitazioni in archivi e in laboratorio – di superarlo. Rievocherà alla fine del secolo Pasquale Villari: «si dovette sostenere un’aspra lotta. Tutte le università ci erano avversissime, per la pretesa già prima avuta in Firenze di far qualcosa di superiore ad esse».
Tentativo unico, si è detto, che metteva in contatto, in confronto, talora in contrasto, la parte più aperta di una tradizione di grande dignità non solo politica, ma un po’ estenuata – quella che Giovanni Gentile definirà con un certo disprezzo «piagnona» – con quanti si ebbe il coraggio di chiamare a dargli corpo, anche rischiando, offrendo a un giovane poco più che promettente come De Gubernatis di tenere addirittura corsi di sanscrito, oppure chiamando una personalità discussa e scomoda come Paolo Mantegazza a insegnare una disciplina tutta nuova come antropologia e etnologia. E da quegli insegnamenti rampollavano subito nuovi laboratori, si fondavano nuovi musei, nuove collezioni, prendevano vita riviste, collane editoriali, si animavano relazioni, si attiravano nuovi interlocutori. Come ha scritto Eugenio Garin, in quel saggio sopra ricordato,
fu un fatto culturale di rilievo non solo italiano. Fu, nell’insegnamento superiore, come un pungolo: un problema aperto non facile ad eludere […] e la quasi totalità di quei maestri non era né fiorentina, né toscana. Mentre la grande cultura del primo Ottocento rimaneva qui presente all’Istituto con i Capponi e i Lambruschini, con i Bufalini e i Puccinotti, dalla Sicilia e da Napoli venivano i rivoluzionari, gli artefici dell’unità, gli allievi di De Sanctis, i compagni di Spaventa, gli uomini cui l’esilio aveva dato cittadinanza europea e l’amicizia dei dotti d’ogni paese, rompendone ogni chiusura e facendoli, prima che teorici, espressione vivente della circolazione delle idee.

Si è detto, e lo si disse anche allora, che la prolusione di Pasquale Villari all’anno accademico 1865-1866, La filosofia positiva e il metodo storico fu il manifesto del positivismo italiano. «Il positivismo – diceva Villari – si riduce all’applicazione del metodo storico alle scienze morali, dando ad esso l’importanza medesima che ha il metodo sperimentale nelle scienze naturali. Il positivismo è quindi un nuovo metodo, non già un nuovo sistema». Dove andrà sottolineata non solo la distinzione tra metodo e sistema, su cui anche la storiografia ha più volte insistito, ma piuttosto il fatto che tra i due metodi, quello storico e quello sperimentale, così come tra i due rispettivi campi di applicazione, scienze morali e scienze naturali, si viene instaurando una relazione di analogia, non di identità. Si tratta insomma di costituire relazioni, interazioni, analogie, non trasferimenti e tanto meno riunificazioni in nome di una presunta unità, porta d’entrata del monismo, di qualunque segno. E non sarà sempre così nel prosieguo del positivismo italiano e europeo. Scriveva Gaetano Trezza, uno dei protagonisti di quella stagione fiorentina:
nessuno ormai che intellettualmente partecipi della vita moderna, si mette a discoprire le leggi storiche d’un idioma, d’una mitologia, d’una letteratura, in se stesse, come se fossero un organismo independente e senza congiunture col prima e col poi. Anzi, non v’è più nessuno che volendo comprendere lo svolgimento della vita di un popolo si fermi unicamente alla lingua, alla religione, alla filosofia, alla letteratura ed all’arte, ma ne investiga in ciascuna la relazione che tiene con le altre.

Alla prolusione del 1865 di Villari fece eco, dieci anni più tardi, Maurizio Schiff in un’identica occasione, facendoci, per così dire, toccare con mano il significato di quella relazione nella vita concreta dell’Istituto. Si tratta di La fisica nella filosofia, pubblicata nel 1875 nella «Rivista europea» di De Gubernatis.
Abbiamo in Firenze, nell’Istituto, una scuola di scienze storiche e filologiche che da poco tempo si è acquistata una influenza, la quale da molti anni avea cercato invano; abbiamo pure una sezione di scienze fisiche e di storia naturale. Mi pare che segua da ciò che ho cercato di esporre, che si deve stringere di più il legame che esiste fra queste due scuole, e che per le scienze morali e storiche la scienza naturale non deve soltanto servire come un utile complemento (questo non avrebbe bisogno di essere provato), ma come una condizione indispensabile del progresso. Questa verità si fa già sentire in tutta la letteratura, e l’allievo di una scienza storica o filosofica, a cui fossero oggi negate le conoscenze fisiche, sarebbe escluso dalla parte attiva del progresso e sarebbe paralitico quando si trattasse di seguirlo o di accompagnarlo col proprio giudizio. Un tale allievo, se sentisse il bisogno di contribuire con la propria attività all’edifizio della scienza, sarebbe forzato di tenersi alle piccole questioni di fatti particolari, ma lungi dal potere occuparsi delle grandi questioni fondamentali, non sarebbe neanche capace di giudicare i lavori che ne trattano sopra una nuova base scientifica.

Lo Schiff era stato chiamato a Firenze da Carlo Matteucci, il fisico romagnolo divenuto ministro. «Una delle migliori cose fatte dal suo ministero» per «dare splendore all’insegnamento dell’alta fisiologia sperimentale nel Museo fiorentino», proprio quel museo, quello di fisica e storia naturale – che il medesimo Matteucci considerava «la più bella eredità che abbiamo conservato dai tempi di Galileo e del Cimento». Di nuovo il richiamo a una tradizione secolare non si sclerotizzava, come pure era avvenuto e avveniva, ma diveniva la volontà di legare tradizione e innovazione, un modo straordinario di vivificare vecchi e nobili istituti. E che non si trattasse di un gesto formale, ma di rapporti reali, concreti, lo dimostra la lettera che l’anziano Maurizio Bufalini indirizzava proprio a Schiff per rivendicare a se stesso l’‘invenzione’ del metodo sperimentale.
Assistente di Schiff era Alessandro Herzen, il vivace figlio del grande rivoluzionario, protagonista tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta di aspre polemiche sul darwinismo, anzi sulla parentela tra l’uomo e la scimmia, sul libero arbitrio, sulla vivisezione, pubblicate spesso sulla rivista di De Gubernatis. Il giovane Herzen, che il padre aveva seguito a Firenze, intesseva con l’anziano rivoluzionario appassionate discussioni sui rapporti tra scienza e filosofia. Schiff, il giovane Herzen, e attraverso loro Jacob Moleschott, il materialista olandese chiamato da De Sanctis a Torino a insegnare anch’egli fisiologia, futuro senatore del Regno, che gli amici fiorentini non riuscirono a far venire all’Istituto. La scienza, la filosofia, ma anche la politica ovviamente, da Garibaldi a Marx, a Bakunin, solo per indicarne le tonalità. Nel 1880 Alfred Espinas, tratteggiando per l’autorevole “Bibliothèque de philosophie contemporaine” dell’editore parigino Baillière un profilo de La philosophie expérimentale en Italie non mancava di rilevare il carattere speciale dell’esperienza fiorentina. Fin qui, scriveva, abbiamo parlato di «savants plus o moins isolés». Ora abbiamo di fronte un gruppo assai omogeneo, «une véritable école». E subito, «une chose assez remarquable» l’Espinas ne sottolineava il carattere internazionale: Moleschott, che da Torino ne seguiva e ispirava i propositi, Schiff, Herzen, Mantegazza, preparato dai soggiorni americani allo studio dell’antropologia. Tutta questa scuola, concludeva, «est jeune, vivante et pleine d’avenir».
E insieme a questo, donne straordinarie come la nostra Dora d’Istria, vere donne inspiratrici – dal titolo di un libro fortunato di Eduard Schuré. Come Malwida von Meysenburg, educatrice di figli di Herzen, che nel 1864 si trasferiva a Firenze con Olga e Alessandro Herzen il giovane.
Intorno a lei e alla famiglia Schiff si era formato un circolo animatissimo di dotti, di musicisti e di letterati italiani e stranieri, fra i quali noi citeremo solo Villari, Tommasi, Crudeli […], Cannizzaro, Blaserna, S. Sonnino […], i due Alessandri Herzen. Si faceva musica, si discutevano con passione questioni filosofiche e scientifiche. Ognuno dei membri di questo circolo comunicava agli amici, nelle conversazioni familiari, i risultati dei propri lavori.
Così nella prefazione di Gabriel Monod alla traduzione italiana dei Ricordi di una idealista (1903) della von Meysenburg.
«Ho ricordato Schuré e le sue Donne inspiratrici. Se si apre il IV capitolo vi si legge: «nel dicembre del 1871 fui presentato a Margherita Albana Mignaty – la ‘musa’, sappiamo noi, di Pasquale Villari – nel suo salotto di Firenze da Malwida di Meysenburg, amica di Alessandro Herzen, di Mazzini, di Riccardo Wagner […] Viveva in un cerchio eletto di amici […] Vi si incontravano tra gli altri Villari, Dall’Ongaro, Trezza, Angelo De Gubernatis» e ancora «scienziati come Bufalini, il marchese Strozzi e il fisiologo Giannuzzi».
Si potrebbe dunque parlare di una Firenze dove si venivano componendo antiche tradizioni e teorie all’avanguardia, dove i rappresentanti di un robusto e pugnace spiritualismo s’incontravano con atei e materialisti, dove mazziniani, monarchici, conservatori e cattolici discutevano con anarchici e socialisti, oppure con coraggiosi riformatori, spesso nelle aule e nei laboratori dell’Istituto, e più spesso nei salotti di grandi dame, Dora d’Istria, Margherita Albana, Malwida von Meysenburg, parlando francese ovviamente, dove poteva primeggiare e animare l’ambiente un personaggio come De Gubernatis che – lo ricorda Schuré – «colla sua instancabile attività ha più di ogni altro contribuito a volgere l’intelligenza dei suoi concittadini verso le correnti spirituali dell’Europa, dell’Oriente e dell’America». Nient’affato, e sotto nessun riguardo. Non su quello politico, dove l’anarchico Bakunin apriva ai massoni, con l’opposizione ferma di Herzen e lo stupore di De Gubernatis che, neofita, si vide esaminare da un «pezzo grosso» della massoneria toscana. Tantomeno su quello del pensiero. Nel 1869 il giovane Herzen scandalizzò l’ambiente colto fiorentino con la nota lettura Sulla parentela fra l’uomo e la scimmia, provocando le reazioni di Lambruschini e di Tommaseo, vicende che le magistrali ricostruzioni di Garin e gli studi di Giovanni Landucci ci consentono di tralasciare da ulteriori approfondimenti.
Lo stesso Herzen, ancora nella rivista di De Gubernatis, due anni dopo chiariva lo stato della questione.
Non ho parlato della questione dell’origine dell’uomo […], per la ragione che essa non ha nulla che fare colla controversia fra il materialismo e lo spiritualismo; vi sono materialisti contrari alla teoria darwiniana; vi sono spiritualisti favorevoli ad essa; Darwin stesso è deista; De Filippi era anzi cattolico; parecchi scienziati che non sono né l’uno né l’altro, non credono la teoria darwiniana abbastanza provata per ammetterla. Tutta la questione dell’origine scimiesca o non scimiesca dell’uomo, è, per così dire, una lite di famiglia fra gli zoologi; e non credo che altri possano, coi più bei ragionamenti del mondo, né promuovere né arrestare lo sviluppo ulteriore del problema, quale deve scaturire dalle pazienti indagini dei naturalisti – e meno ancora pregiudicarne la soluzione definitiva.

Pure in quel medesimo scritto – Polemica contro lo spiritualismo del 1871 – discutendo di un altro punto centrale di quel dibattito, quello «della libertà o della necessità delle azioni umane» si richiamava allo scritto di Schopenhauer Sulla libertà dell’umano volere, che si riprometteva di tradurre in collaborazione con Giacomo Barzellotti. Barzellotti si era laureato cinque anni prima a Pisa e si era avviato agli studi filosofici sotto la guida di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, il fronte opposto insomma a quello di Herzen e di Villari. Eppure è con lui che Herzen si propone di tradurre il testo di Schopenhauer, e sarà proprio Barzellotti, anni più tardi, ad attirare su Schopenhauer l’attenzione dei lettori della «Rassegna settimanale», la rivista di Sonnino, di Franchetti, di Villari, che nasceva a Firenze nel 1878.
Abbiamo ricordato questo episodio, poco più di un aneddoto, per sottolineare ancora il singolare clima che si crea a Firenze intorno all’Istituto. Il materialista Herzen si rivolge a Schopenhauer e s’incontra con un giovane studioso che proviene e offre le sue prime prove nel fronte, chiamiamolo opposto, avverso, qual’era quello di Conti, Mamiani, Lambruschini. Poi sarà lo stesso Barzellotti a far conoscere Schopenhauer ai lettori su una rivista dei suoi avversari di ieri. Non si trattò, insomma, parlando di Michele Amari, di De Gubernatis, di Villari, di Schiff, di Herzen, di Mantegazza, di un trapianto in plaghe deserte o sterili, ma piuttosto di un innesto che trovava un humus pronto a dare nuovi e sconosciuti frutti. Quasi a simboleggiare questo incontro ci rimane l’immagine – anzi le carte – del vecchio Bufalini, ispiratore e promotore tra i primi dell’Istituto, il padre della medicina sperimentale della metà del secolo, che muore annotando l’autobiografia di John Stuart Mill, quel Mill che era un autore, se non addirittura l’autore, di Pasquale Villari, il capo riconosciuto del nuovo movimento e dell’Istituto. Come aveva scritto il Villari, «il problema che ci occupa tutti» è quello di «trovare le leggi secondo cui i fenomeni della natura e quelle secondo cui i fatti dello spirito si succedono nel tempo».



NOTE
* Dora d’Istria, nom de plume della principessa Elena Ghica Koltzoff-Massalski (Bucarest 1828 – Firenze 1888), fu una delle grandi donne della seconda metà del sec. XIX. Sostenitrice del riscatto nazionale, sociale, culturale dei popoli del Sud-est europeo, trascorse i suoi ultimi anni a Firenze, diventandone una protagonista della vita sociale e culturale. Sulla sua figura cfr. ora A. D’Alessandri, Il pensiero e l’opera di Dora d’Istria fra Oriente europeo e Italia, Roma, Gangemi, 2007. Il testo riproduce quanto fu detto nel corso del seminario Dora d’Istria intellettuale europea (1828-1888), Firenze, Gabinetto G.P. Vieusseux, 30 maggio 2008.^
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