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I partiti di destra italiani nel dibattito sull’adesione ai Trattati di Roma*.
di Eugenio Capozzi
1. Lo stereotipo della destra “antieuropeista”.

Non è raro che un luogo comune diffuso eserciti un condizionamento decisivo sull’interpretazione storiografica, anche a dispetto di una realtà incontestabilmente documentata.
Ne è un esempio istruttivo il modo in cui è stata spesso riportata la posizione dei partiti di destra italiani nel dibattito sui Trattati di Roma e sulla nascita delle istituzioni ad essi connesse.
Si tratta di un tema già, in genere, trascurato dagli storici a vantaggio di altre questioni, come la tematica europeista nel mondo cattolico-democristiano, o la rottura a sinistra tra comunisti e socialisti che proprio in quell’occasione si consumò1. Non a caso, persino in un testo accurato come il XV volume della Storia del parlamento italiano, a cura di Domenico Novacco, a proposito del dibattito parlamentare sui Trattati si cita la contrapposizione tra socialisti e comunisti, ma non si fa parola della posizione e del voto di missini e monarchici2.
Ma anche tra i rari riferimenti storiografici alle posizioni di Msi e monarchici si trovano sorprendenti inesattezze, che hanno in comune l’assunzione quasi scontata che quelle formazioni politiche avessero, nei confronti del processo comunitario, un atteggiamento ostile. È il caso del saggio di Marcello Dell’Omodarme I Trattati di Roma: la Cee e l’Euratom, contenuto nella monumentale Storia dell’integrazione europea a cura di Roman H. Rainero, in cui l’autore afferma che la ratifica dei Trattati alla Camera avvenne, il 30 luglio 1957, con il voto favorevole dei partiti di centro (Dc, Psdi, Pri, Pli) e l’astensione del Partito socialista italiano e l’opposizione del Pci: dimenticando completamente il “sì” di missini e monarchici3 . E in un simile lapsus incorrono, più di recente, anche Nicolò Conti e Luca Verzichelli nel loro saggio La dimensione europea del discorso politico in Italia. Gli autori sostengono infatti che «nel dopoguerra vi è stata una chiara contrapposizione tra un fronte europeista rappresentato dalle élites di governo (da De Gasperi a La Malfa, ai liberali, e più tardi ai socialisti) e un’opposizione pienamente euroscettica che include gli eredi del fascismo (l’estrema destra del Msi) e i leader del più grande partito comunista dell’intero occidente»4 . Un’asserzione che non soltanto proietta indebitamente all’indietro il termine “euroscettico”, elaborato molto più tardi ed in un contesto storico-politico ben diverso da quello dei primi decenni del dopoguerra, ma soprattutto cancella disinvoltamente un tratto della storia politica dell’Italia repubblicana.
La realtà di fatto, come dovrebbe essere noto, è che la stipula e la ratifica degli accordi di Roma vennero sostenute in Italia da un fronte costituito dai partiti liberaldemocratici centristi e dalle destre, a fronte di una decisa opposizione del Partito comunista e di una sofferta astensione dei socialisti.
Naturalmente, va anche specificato che quell’atteggiamento favorevole del Msi e dei due gruppi monarchici non era certo il frutto di un europeismo ideologico e assiomatico. Esso va certamente ricostruito nel contesto politico in cui esso nacque, e nei diversi fattori che lo influenzarono. Ma, per essere compreso fino in fondo, esso non può essere considerato soltanto come il risultato di un puro calcolo politico contingente: si trattava, piuttosto, del risultato di una convergenza tra una linea politica contingente ed una più lunga sedimentazione di tipo politico-culturale5.
Il contesto politico in questione era, innanzitutto, quello di una fase in cui i partiti di destra si erano attestati su una strategia moderata di dialogo con le formazioni centriste, e tentavano di legittimarsi come possibile elemento di rafforzamento di coalizioni anticomuniste in un periodo di difficile coesione e stabilità delle maggioranze di governo.
Se questa linea rappresentava un’evoluzione naturale per i monarchici – in cui confluivano quadri politici di ascendenza schiettamente moderata-conservatrice6 – essa non era altrettanto scontata per i neofascisti del Msi: e si affermò infatti attraverso un dibattito serrato tra le anime del partito, rafforzandosi a partire dall’avvento alla segreteria di Arturo Michelini nel 1954, con un’ulteriore consolidamento dopo la risicata vittoria di Michelini al congresso di Milano del 19567. Nel corso degli anni missini e monarchici manifestarono la loro tendenza a convergere con le maggioranze centriste appoggiando in alcune occasioni i governi Pella (1953, sulla fiducia al quale entrambi i gruppi si astennero) e Segni (1955-1957, soprattutto nell’ultima fase di vita del governo), contribuendo nel 1955 all’elezione al Quirinale di Giovanni Gronchi, e infine, nel maggio 1957, dando il loro determinante apporto alla maggioranza dell’esecutivo monocolore Dc presieduto da Adone Zoli, con Pella ministro degli Esteri8 . Era questo, appunto, il governo in carica durante il dibattito sulla ratifica dei Trattati europei che erano stati siglati dall’Italia nel marzo precedente sotto l’esecutivo Segni9.
D’altra parte, almeno due fattori storico-politici di non poco conto avevano giocato, in quegli anni, a favore dell’avvicinamento tra centro e destre sui temi concernenti la politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia: da un lato, il risentimento nazionalistico nato sulla questione di Trieste, dall’altro il massimo grado di tensione toccato nel corso degli anni Cinquanta dalla contrapposizione ideologica e militare Est-Ovest.
Sia i neofascisti che i monarchici, con tonalità diverse, avevano imperniato la loro visione della politica estera sulla priorità degli interessi nazionali: di qui, come è noto, una posizione inizialmente negativa, oscillante tra diffidenza e assoluta ostilità, nei confronti delle potenze vincitrici e poi dell’alleanza occidentale-atlantica. La quale ultima, tuttavia, era stata da entrambi sostanzialmente assimilata – in maniera più indolore dai monarchici, più sofferta per i missini – innanzitutto come difesa contro la minaccia comunista sovietica.
Il Movimento sociale italiano aveva ereditato dall’elaborazione ideologica dell’epoca fascista la formula dell’“Europa-Nazione”: l’ideale, cioè, di un sistema imperiale-gerarchico su scala continentale in cui l’Italia giocasse un ruolo fondamentale, ma soprattutto di uno spazio di potenza contrapposto tanto al comunismo sovietico quanto all’Occidente liberaldemocratico-capitalista, ed incentrato sui valori spirituali tradizionali propri del vecchio continente.
Nel corso degli anni, in modo sovente contraddittorio, questo ideale si era evoluto in quello di un’Europa formata da nazioni unite da profondi vincoli comuni di civiltà, schierata contro la barbarie “asiatica” del comunismo, ma insieme all’indispensabile alleato americano10.
Un momento cruciale nel processo di correzione strategica della destra neofascista fu costituito dall’invasione sovietica in Ungheria del 1956. Essa offrì ai missini l’occasione propagandistica di dipingere come un pericolo effettivo ed inequivocabile l’incombente minaccia sovietica sull’Europa; e, per la prima volta dalla fine della guerra, di attaccare la sinistra da una posizione di forza, accreditandosi come forza in difesa dell’indipendenza nazionale a pari titolo che i partiti liberaldemocratici11.


2. Un europeismo moderato, fondato sull’anticomunismo.

La posizione dei partiti di destra nel dibattito parlamentare sulla ratifica dei Trattati di Roma assumeva, dunque, un rilevante significato politico. Essa rappresentava infatti il momento culminante di una “marcia di avvicinamento” di missini e monarchici all’area governativa, e di un loro tentativo di legittimarsi in chiave democratica sulla base del collante anticomunista. Per questo motivo, essa doveva essere argomentata necessariamente facendo appello ad un quadro di princìpi che potevano essere pensati come condivisibili, al di là dei confini di partito, da una vasta area politica moderata.
Non casualmente, negli interventi di deputati e senatori del Msi, del Pnm e del Pmp il tratto comune più appariscente sta nella motivazione del voto favorevole ai Trattati in base alla considerazione che non si era di fronte semplicemente ad un accordo economico, ma piuttosto alla genesi di un’unità culturale e spirituale di fondo tra i paesi europei occidentali. All’idea, insomma, che la Cee e il Mec rappresentassero un complemento logico ed un rafforzamento dell’alleanza politico-militare tra Europa liberaldemocratica e Stati Uniti. Argomentazione, questa, specularmente identica a quella usata dai comunisti per motivare il loro voto contrario. Ma, al tempo stesso, argomentazione che non escludeva la persistenza di un’idea di Europa come “terza forza”, e l’auspicio che l’integrazione europea favorisse un riequilibrio di potere tanto nei confronti dell’Unione sovietica, quanto degli Stati Uniti.
Significativo, da tale punto di vista, quanto dichiarato già nelle prime fasi del dibattito a Montecitorio da Antonio Daniele, del Pnm:
Gli accordi internazionali, alla cui ratifica il Parlamento italiano è invitato, in base alle norme della Costituzione, a dare l’autorizzazione, potranno forse costituire l’inizio di un periodo nuovo nella storia dell’Europa, della vecchia Europa, che, dopo avere raccolta l’eredità delle antiche genti asiatiche ed aver dominato il mondo negli ultimi millenni [...] si trova ora di fronte a nuove concezioni di vita ed a nuove organizzazioni di Stati, che ad oriente, dalla Russia sovietica alla Cina comunista, e ad occidente, nelle giovani Americhe, hanno formato delle gigantesche barriere che comprimono la sua vitalità e a lungo andare minacciano di sconvolgere la sua stessa esistenza, almeno nelle sue forme attuali.
Di fronte a questa situazione [...] appare ormai esaurita la funzione storica che gli stessi contrasti dei popoli europei hanno avuta per il progresso e l’incivilimento e all’Europa non resta ormai altra alternativa per poter sopravvivere che quella di riunire le sue energie e i suoi sforzi12.

Nella logica di un’Europa culturalmente e politicamente autonoma, Daniele insisteva soprattutto nel confutare la tesi, veicolata dall’opposizione comunista, che i Trattati rappresentassero degli “strumenti di reazione e di conservazione”. E a tal fine egli sosteneva che lo spazio economico prefigurato dai Trattati superava la contrapposizione tra modello capitalista occidentale e modello collettivista:
Come si possono considerare conservatori e reazionari i due trattati del mercato comune e dell’Euratom, in cui viene attuata una sintesi nuova e funzionale dei due sistemi contrastanti del liberismo e del socialismo teoretico, che sono oramai già invecchiati ed hanno già esaurita la loro funzione [...]?13.

Il valore dei Trattati come strumento di rafforzamento della difesa europea contro l’espansione del comunismo, ma più ampiamente come strumento per la salvaguardia della civiltà europea, prima ancora che come mezzo di sviluppo economico, veniva affermato anche da Agilulfo Caramia, sempre del Pnm:
Attraverso questa legge si acutizza quell’urto insanabile che esiste tra la civiltà europea e quella asiatica della Russia, che noi mai abbiamo pensato di iniettare nella nostra, che è sempre rimasta incontaminata [...]. La Russia vuole la sottomissione dei deboli ai suoi voleri e perciò spinge nei singoli paesi i suoi accoliti ad una propaganda serrata, accaparratrice di nuovi neofiti. La nostra vita, però, è intonata al ritmo ideale della libertà, alla quale ascendiamo nella luminosità della nostra tradizione.
Sì, è vero che il trattato non ha semplicemente contenuto economico, ma anche militare. È inutile nascondercelo. [...] Tutto l’insieme di questi elementi ci fa designare in alto le linee di un grande blocco difensivo, per cui tutte le nostre passioni, l’amore di patria e di libertà, l’industria e la scienza si tramutano in armi di difesa, mentre la religione e la persecuzione contro di essa diventano lo stimolo più potente per fare unire tutti i popoli liberi ed organizzarsi per resistere14.

La sottolineatura del valore prettamente politico dei Trattati sembra, a prima vista, in contraddizione con un approccio apparentemente opposto, che pure si ritrovava nelle adesioni espresse dagli esponenti dei partiti di destra: quello in base al quale veniva giudicato con favore il fatto che non si era di fronte ad un processo di tipo federale, in cui le sovranità degli Stati nazionali si avviavano ad essere superate, bensì ad un accordo che rimaneva in una prospettiva intergovernativa.
In realtà proprio nel prevalere di questa logica, favorito dal fallimento dell’approccio più direttamente federalista della Ced, sia missini che monarchici indicavano un equilibrio apprezzabile tra interessi nazionali ed istanze sovranazionali. Ai loro occhi, la fondazione del Mec e della Cee rappresentava un passo avanti in direzione di un europeismo moderato, responsabile, in cui al massimo possibile di coesione culturale e di alleanza politico-militare corrispondeva il minimo indispensabile di integrazione economica: laddove, viceversa, una prospettiva federale avrebbe comportato inevitabilmente la prevalenza degli interessi delle nazioni politicamente ed economicamente più potenti.
Un punto di vista adottato, ad esempio, dall’ex-segretario del Msi Augusto De Marsanich nella dichiarazione di voto per il suo gruppo, in cui egli teneva a sottolineare come nei Trattati la necessità di un’unità non soltanto economica, ma anche politica tra gli Stati contraenti si abbinasse, appunto, al rifiuto di una prospettiva federalista, e rimanesse invece strettamente legata all’idea di un accordo stabile tra nazioni sovrane:
La nostra interpretazione politica desunta dall’esame dei principi e degli istituti su cui si fondano i due trattati, è questa: essi non creano un ente di natura sovranazionale, autonomo e indipendente dalla sovranità degli Stati partecipanti. [...] Non crediamo che sia possibile, come qualcuno ritiene, sostituire al sentimento nazionale un sordido patriottismo economico di cittadinanza europeistica. Le nazioni europee si accordano per attuare l’integrazione europea: questo è per noi il valore storico di questi trattati15.

Nello stesso senso, il monarchico Francesco Sciaudone aveva ricordato che il giudizio positivo del suo gruppo non era dovuto ad un astratto entusiasmo ideologico per l’unificazione europea:
Noi, com’è noto, siamo molto lontani da certo europeismo oltranzista o addirittura fanatico. Tuttavia non possiamo non rilevare l’importanza di questo nuovo fattore che appare nel mondo economico moderno. L’Europa pare che si sia resa conto finalmente, al di là di ogni mistica politica, che, per potere utilizzare al massimo le possibilità della tecnica moderna e raggiungere una effettiva concreta elevazione del livello di vita delle sue popolazioni, ha bisogno di disporre di un vasto mercato di consumo, capace di assorbire una produzione di massa16.

Ma dopo questa premessa, che sembrava circoscrivere il processo comunitario nel puro spazio di un’esigenza economica, anche Sciaudone spostava il discorso sulla politica internazionale, e sulla collocazione dell’Europa nello scenario della guerra fredda, aggiungendo:
Cosicché oggi è veramente possibile affermare che l’Europa, dopo tante esperienze, dopo tante incertezze, dopo tante disavventure, non ultima delle quali quella clamorosa del canale di Suez, da concreti segni di non restare una comparsa sulla scena politica mondiale e intende invece portarsi sul piano di una realtà storica e politica nuova, di una realtà rivoluzionaria alla quale non solo è legato il miglioramento della produttività e del tenore di vita europeo, ma che riguarda direttamente tutti i popoli liberi17.

Infatti, egli concludeva,
che questi due trattati del mercato comune e dell’Euratom vadano senz’altro riferiti e inquadrati nella più fedele interpretazione del patto atlantico e che essi portino un importante contributo alla efficienza difensiva della stessa N.A.T.O. è assolutamente fuori di dubbio, [...] perché ovviamente la comunità atlantica non ha che giovarsi del rafforzamento del potenziale economico dei suoi membri18.

Un altro esponente missino, Filippo Anfuso – tra i più direttamente legati all’esperienza del regime mussoliniano e di Salò – aveva polemizzato in quella sede con gli europeisti dichiarati e “storici” dei partiti centristi: ma dal punto di vista di chi si considerava più genuinamente europeista di loro.
Egli sosteneva infatti che il torto della Cee, come quello della Ced, era di cominciare “dal tetto” e non “dalle fondamenta”, e che sarebbe stato invece opportuno assegnare la precedenza, nel processo di integrazione, alla Comunità politica e alla condivisione di princìpi etico-politici di fondo:
Il mercato comune non è e non deve essere [...] una integrazione limitata solo agli scambi commerciali. Esso investe una integrazione strutturale delle singole economie. [...] Ciò comporterebbe [...] una proclamata sovranità sopranazionale, una unitaria politica fiscale, salariale e creditizia19.

Ciò, aggiungeva Anfuso,
perché la situazione politica italiana è tale da esigere rimedi estremi: esige una Comunità sopranazionale e in essa una rappresentanza completa di tutti i cittadini.
Pertanto, faccio mio l’appello alla integrazione economica, ma soprattutto alla integrazione morale, non vi dico contro il comunismo. Questo sarebbe il solito luogo comune. Qui bisogna intanto integrare l’Europa per farla vivere20.

Era diffusa, quindi, nelle varie componenti della destra la convinzione che l’approccio economico e intergovernativo all’integrazione avesse come obiettivo ed effetto proprio una maggiore, effettiva coesione politica tra gli Stati europei, e conseguentemente rafforzasse maggiormente l’Occidente nello scenario internazionale. E che per questo motivo esso fosse preferibile ad una prospettiva di tipo specificamente federale.
Il legame tra integrazione economica ed esigenze della difesa politico-militare contro l’Unione sovietica veniva affermato, in particolare, dal monarchico (ma ex-esponente e segretario del Partito liberale italiano) Roberto Lucifero21.
Il quale sottolineava come la via giusta al rafforzamento dell’alleanza occidentale passasse proprio per la strategia scelta a partire dalla conferenza di Messina:
Il mercato comune non è un trattato economico, ma, semmai, è una via economica per giungere a delle conclusioni politiche. Quando si discusse al Senato la ratifica della nostra adesione al patto atlantico, io [...] ebbi occasione di dire, in appoggio alla ratifica, che tutte le vie che si sarebbero tentate per giungere ad una intesa europea sarebbero fallite fuorché quella economica. I fatti mi hanno dato ragione. Noi abbiamo visto infatti fallire il tentativo politico-militare della C.E.D. ed io aggiungo che credo sia stata una fortuna tale fallimento, perché quel trattato, se ratificato, ci avrebbe impedito di giungere alle conclusioni di oggi.

D’altra parte, echeggiando ancora un certo malessere di origine nazionalista diffuso a destra per gli automatismi dello schieramento atlantista, Lucifero propugnava la tesi secondo cui proprio attraverso una maggiore integrazione economica i paesi europei democratici avrebbero potuto acquisire una posizione di maggiore parità e dignità nell’alleanza con gli Stati Uniti, piuttosto che rimanere in una posizione di sudditanza rispetto ad essi:
L’Europa deve essere una entità tale da poter essere la compagna, non la suddita, dell’alleato. Sottolineando questo concetto [...] intendiamo riconfermare la lealtà e la fedeltà a questo alleato, ma su una base di eguaglianza reciproca, non consacrata soltanto da documenti, ma soprattutto dalla realtà di una effettiva capacità politica, economica e militare22.

In tal senso si esprimeva, con accenti particolarmente netti, anche un esponente autorevole dell’ala “moderata” del Movimento sociale italiano, Pino Romualdi23. Egli rivendicava quelle che erano state le ragioni della contrarietà del suo partito al progetto di Comunità europea di difesa, in quanto a suo avviso quest’ultima avrebbe mortificato le nazioni, «cioè l’elemento fondamentale e basilare per la realizzazione di una politica comune in Europa», «non rispondeva alle esigenze storiche e morali e anche pratiche dell’Europa» ed «era, non l’espressione della mentalità e delle esigenze delle nazioni in Europa» ma della «politica americana in Europa»24. L’intesa sul mercato comune, viceversa, non andava nella stessa logica, e proprio per questo si poteva considerare «una iniziativa destinata a dare corso ad una grande speranza». Infatti, egli proseguiva,
essa non offende e non offenderà mai i principî delle nazioni, perché è ancora soltanto nelle nazioni che i cittadini d’Europa possono ritrovarsi, riconoscersi, qualificarsi e porsi in grado di essere veramente protagonisti di questa nuova fase della storia dell’Occidente25.

Anche in questo caso, dunque, l’integrazione economica veniva vista da destra (e significativamente non soltanto dalla destra liberal-conservatrice, ma anche da quella neofascista e post-saloina) come il presupposto per un rafforzamento politico e militare dei paesi europei occidentali in grado di metterli in condizione di un rapporto paritario di alleanza con gli Stati Uniti.
A partire da un’impostazione non dissimile, una particolare insistenza sulla salvaguardia della dimensione nazionale nelle nuove istituzioni europee si ritrovava nella dichiarazione di voto favorevole pronunciata dal vicepresidente del gruppo del Pnm, Roberto Cantalupo. Il quale pure ricordava come il suo gruppo fosse stato, all’epoca, contrario al trattato istitutivo della Ced in quanto aveva scorto in esso «un tentativo di unificare o integrare [...] l’Europa su un piano militare, prima che l’unificazione e la integrazione fossero intervenute sul piano politico e su quello economico»; e come invece esso fosse favorevole ad una integrazione che avvenisse «sul piano economico, cioè degli interessi reali».
Ora, nel mercato comune e nell’Euratom i monarchici riconoscevano processi in cui i “valori nazionali” non sarebbero stati “né sommersi, né sopraffatti”, ma, partendo appunto dal piano economico, avrebbero potuto essere rafforzati anche dal punto di vista politico e morale:
È, in definitiva, anche attraverso l’abbassamento e quindi l’abbattimento, sia pure graduale, delle frontiere doganali che si potrà arrivare al risultato più vasto, quello di dare unità anche tecnica, economica, sociale, morale e politica agli Stati contraenti, affinché possano più liberamente determinare il complesso dei loro rapporti non soltanto all’interno, ma anche all’esterno del mercato comune26.

Nel dibattito al Senato, poi, l’esponente del Msi Lando Ferretti insisté, in polemica frontale con i comunisti, nell’evidenziare i risvolti di politica internazionale dei Trattati rispetto alla situazione della guerra fredda, sostenendo che l’opposizione del Pci era rivolta «al costituirsi [...] nel mondo di un nuovo ordine, che non è vero comprima l’indipendenza, l’individualità dei singoli Stati occidentali, attenuandone i sentimenti nazionali, come purtroppo invece avviene, almeno per quanto ne sappiamo noi, al di là della cortina, ma che ha invece il compito di potenziare queste individualità nazionali, mettendole in nobile gara tra di loro». La Cee e l’Euratom costituivano allora, per il senatore missino, la «prima tappa compiuta sulla via che deve riportare le Nazioni dell’Occidente europeo [...] alla loro insostituibile funzione di elemento determinante di una sempre più progredita civiltà»27.
Infine Alfredo De Marsico, senatore del Pnm, motivava il voto favorevole del suo gruppo con il fatto che i Trattati configuravano una forma parziale, confederale e non federale, di “super-Stato”, che non si poteva aprioristicamente rifiutare, per «la forza storica degli avvenimenti, la storia in una parola, madre del diritto». In virtù di nuove, impellenti esigenze economiche e politiche incompatibili con «l’isolamento dello Stato», proseguiva il senatore monarchico, «questa forza storica ci trascina a riconoscere in via di svolgimento il transito da un diritto pubblico dominato dal principio della piena sovranità statuale ad un’epoca nuova»28.


3. L’“inevitabile” integrazione europea e gli interessi economici nazionali.

Direttamente connessa ad una visione del processo di integrazione che ne sottolineava soprattutto l’aspetto pragmatico, intergovernativo, e politico solo in quanto fondato su solide basi di convergenza economica tra gli Stati nazionali, è un’altra argomentazione ricorrente nei discorsi dei parlamentari di destra, e che temperava in parte il loro atteggiamento favorevole al Mec e all’Euratom: la preoccupazione che determinate clausole dei Trattati potessero essere interpretate a vantaggio di determinati paesi e a svantaggio degli interessi economici italiani, e il richiamo insistente alla necessità che il governo italiano esercitasse una attenta vigilanza sulla loro attuazione, ed un attivo intervento per la salvaguardia dei produttori, delle imprese, dei lavoratori italiani nel nuovo spazio comunitario che prendeva forma, in particolare per quanto riguardava il settore agricolo.
Una preoccupazione che veniva espressa dal monarchico Daniele in questi termini:
Ancor prima che i trattati entrino in funzione [...] si rende evidente che persistono gelosie, egoismi, possibilità di aspirazioni egemoniche, [...] e ciò non può non essere motivo di rammarico e di fondata perplessità, perché se l’Euratom e il Mercato comune dovessero costituire soltanto una nuova palestra su cui dovessero trovare sfogo le antiche rivalità ciò non sarebbe certamente di buon auspicio per la pace dell’Europa e del mondo29.

E che veniva ribadita nei cauti distinguo pronunciati dal missino Romualdi:
Non vorrei che un eccessivo entusiasmo europeista andasse contro gli interessi del nostro paese, in questo preoccupati, soprattutto, dell’atteggiamento degli altri paesi i quali, al contrario di noi, hanno cercato, non di rompere le trattative, ma di imporre la loro volontà30.

Nelle sue punte di maggiore scetticismo e preoccupazione, questa linea si traduceva in un’argomentazione secondo la quale i Trattati rappresentavano un’evoluzione storica inevitabile, ed era necessario per l’Italia aderirvi perché essa non rimanesse isolata politicamente ed economicamente; ma essi costituivano, al contempo, non tanto un punto d’arrivo quanto un punto di partenza, un canovaccio che poteva essere riempito di contenuti diversi a seconda dell’interpretazione politica che ne sarebbe stata data e delle relazioni tra gli Stati contraenti.
Per questo, secondo i parlamentari delle destre, occorreva che l’Italia propugnasse un’interpretazione dell’integrazione economica tal da non penalizzare i settori più forti dell’economia nazionale, e da favorire al contempo lo sviluppo di quelli più deboli.
Ancora Daniele (Pnm) prendeva posizione in tal senso:
È certo che i due trattati sono densi di incognite e di pericoli e che essi [...] costituiscono non un punto di arrivo, ma soltanto l’inizio di una realtà nuova e che noi ancora non conosciamo. Ma poiché senza i due trattati i pericoli e le incognite si presenterebbero ancora maggiori [...], le incognite ed i pericoli non debbono fare esitare, ma bisognerà invece intraprendere il nuovo cammino con coraggio, con fiducia e, soprattutto, con ferma determinazione di adoperarsi perché le due Comunità raggiungano i loro fini nel miglior modo possibile, non andando dietro alle varie teorie, ma tenendo invece massimo conto delle condizioni effettive che attualmente presentano le sei nazioni che si preparano ad amalgamare ed in parte a confondere le loro economie.

In particolare, il deputato monarchico chiedeva che il governo vigilasse sull’abolizione di dazi e barriere doganali nel campo della produzione agricola, in modo che si evitassero il più possibile sperequazioni e disuguaglianze, «improvvise frane o improvvisi avvallamenti», dato che i settori agricoli dei vari paesi non partivano da condizioni omogenee31.
Due mesi dopo, nel dibattito in Senato, il missino Mario Marina avrebbe espresso concetti analoghi, condensati in un giudizio di cauta approvazione, unito però ad un monito per l’azione futura di governo:
Nonostante i dubbi [...], sono personalmente convinto che l’accettazione sarà benefica purché però, come membri di questa Comunità, sappiamo difendere strenuamente i nostri interessi32.

Anche Olindo Preziosi, deputato del Partito monarchico popolare, a nome del suo gruppo annunciava un voto favorevole motivato con la consapevolezza «della situazione attuale politica ed economica, interna e internazionale», e con la convinzione che i Trattati erano «una necessità del momento»; ma faceva al contempo riferimento a “difficoltà” e “insidie” alle quali essi avrebbero potuto dare luogo.
Più in particolare, Preziosi descriveva i possibili problemi futuri in questi termini:
È certo che l’abolizione delle protezioni doganali e delle restrizioni quantitative produrrà un incremento di rapporti economici, produrrà una espansione della vita economica anche nel campo sociale [...]. Ma è pure certo che il cammino è durissimo per l’Italia, pieno di ostacoli [...], perché non siamo in grado di produrre in maniera economica tale da sopportare la leale concorrenza al confronto con la produzione degli altri cinque Stati membri della comunità33.

Di conseguenza, egli concludeva,
bisognerà rafforzare le strutture economiche del paese, che rappresentano le sorgenti necessarie per inondare e conquistare i mercati degli altri paesi a beneficio della economia italiana. E bisognerà, in coerenza con il mutato indirizzo economico, evitare di affliggere e soffocare l’iniziativa privata con l’oppressione fiscale, in modo che i nostri prodotti possano essere immessi sul mercato europeo a prezzi di concorrenza34.

Accenti simili a quelli del già citato Romualdi, il quale così esortava l’assemblea:
Dobbiamo entrare in questo consesso internazionale con pieno diritto, con la economia in massima fase di espansione, non con l’agricoltura ridimensionata, ma in grande sviluppo, perché sia chiaro anche agli altri il senso della presenza potente e determinante di questa nostra popolosa nazione35.

In merito alle molteplici possibilità di interpretazione dell’integrazione economica aperte dai Trattati, il missino Anfuso offriva poi una definizione a effetto, affermando che «il trattato del mercato comune è appunto lodevole per il suo empirismo, in quanto vi entra tutto e non vi entra niente».
Ma proprio questa constatazione lo spingeva ad una considerazione ulteriore: a suo avviso l’adesione dell’Italia a quella prospettiva presupponeva una profonda opera di allineamento dell’economia nazionale agli standard della concorrenza europea:
Bisogna che in questa area di consumatori, di produttori, ci si metta in testa che qui non si tratta di abbattere il nazionalismo economico, si tratta al contrario di chiedere uno sforzo nazionale intensissimo al paese, [...] per adeguare la nostra economia ma anche il nostro spirito a queste esigenze36.

Il significato di questo richiamo, che echeggia in molti altri interventi dei parlamentari della destra, era un avvertimento esplicito rivolto al governo: quello di arrestare ed invertire la tendenza, che a loro appariva in atto, a politiche dirigiste e stataliste in economia (era proprio di quei giorni una vivissima polemica sull’intenzione dell’esecutivo di procedere ad una riproposizione dei patti agrari). Con il conseguente tentativo di impedire che su quella base si innestasse una deriva inarrestabile verso un’apertura della maggioranza a sinistra.
Un avvertimento espresso in termini inequivocabili dal monarchico Sciaudone:
Non si può pretendere di partecipare con successo al mercato comune, a un sistema basato sulla economia di mercato continuando o insistendo nella marcia verso il socialismo di Stato. Né potremo mai pretendere di portare la nostra produzione industriale a concorrere in un vasto, libero mercato con quella germanica, ad esempio, senza aver prima liberata la nostra industria dagli intralci, dalle esigenze antieconomiche, dall’aria di perenne minaccia che su essa incombe da parte dei demagoghi di turno, senza averla liberata da ogni forma di parassitismo37.



4. Conclusione: una maggioranza moderata “virtuale”.

Considerati nel loro insieme, gli interventi dei parlamentari della destra nella discussione esprimono, al di là delle specificità ideologiche e delle differenze di posizioni rispetto alla situazione politica italiana ed internazionale, notevoli convergenze di fondo. In particolare, si può notare in essi il prevalere di una cultura politica solidamente moderata-conservatrice, in consonanza con una base elettorale comune, soprattutto meridionale.
Da quell’approccio derivava una posizione di adesione pragmatica, cauta ma senza esitazioni, al processo d’integrazione economica, motivata sia con considerazioni di politica internazionale che di politica economica stricto sensu. Un’adesione imperniata, comunque, sulla convinzione che esso rappresentasse un’occasione imprescindibile per la crescita e la modernizzazione del paese.
In base alla stessa impostazione di fondo, ai pericoli da essi pure individuati, con più o meno enfasi, nel processo di integrazione gli esponenti del Msi e dei gruppi monarchici non reagivano con un atteggiamento di chiusura aprioristica o di protezionismo isolazionistico, preferendo piuttosto suggerire soluzioni concrete che rendessero compatibile l’apertura continentale con una politica di consolidamento e sviluppo dell’economia italiana.
Si trattava in realtà di un atteggiamento che abbracciava un segmento di classe politica italiana ben più ampio dei confini partitici della destra. E che si accordava al tentativo, posto in atto da quei gruppi politici, di inserirsi in modo determinante in una nuova e più ampia maggioranza centrista-moderata. Un tentativo destinato però alla sconfitta, perché gli equilibri del sistema politico italiano avevano già cominciato a muoversi in senso opposto, cioè in direzione dell’“apertura a sinistra” che si sarebbe concretizzata tre anni dopo.
In ogni caso, la posizione delle destre nel dibattito sull’adesione ai Trattati di Roma non può evidentemente essere etichettata, a posteriori, come una forma di antieuropeismo o “euroscetticismo”. Laddove l’unica opposizione di principio al processo d’integrazione si trovava, in quel momento, a sinistra nelle file del Partito comunista.




NOTE
* Questo saggio è la rielaborazione della relazione presentata al convegno I partiti, le associazioni di categoria e sindacali e i Trattati di Roma, organizzato dalla Fondazione Alcide De Gasperi e tenutosi a Roma presso il Senato della Repubblica il 27 ottobre 2008.^
1 Si veda, ad esempio, S. Cruciani, La nascita del Mercato Comune Europeo e la ratifica dei trattati di Roma in Francia e in Italia, in «Memoria e ricerca», 23 (2006), fasc., pp. 141-161, ed in part. pp. 154-161.^
2 Storia del parlamento italiano, volume XV: La seconda legislatura della Repubblica, 1953-1958, a cura di D. Novacco, Palermo, Flaccovio, 1978, pp. 132-134. ^
3 M. Dell’Omodarme, I Trattati di Roma: la Cee e l’Euratom, in R. H. Rainero (a cura di), Storia dell’integrazione europea, Milano, Marzorati, 1997, vol. I: L’integrazione europea dalle origini alla nascita della Cee, p. 278.^
4 N. Conti, L. Verzichelli, La dimensione europea del discorso politico: un’analisi diacronica delle preferenze partitiche (1950-2001), in M. Cotta, P. Isernia, L. Verzichelli (a cura di), L’Europa in Italia. Elite, opinione pubblica e decisioni, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 66.^
5 Da questo punto di vista, ricostruzioni storiografiche precise ed affidabili sono i saggi di A. Carioti, I missini e la politica estera tra nazionalismo e anticomunismo dal Patto atlantico ai trattati di Roma (1947-1957), in P. Craveri – G. Quagliariello (a cura di), Atlantismo ed europeismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 435-462, e di R. Chiarini, Atlantismo, Americanismo, europeismo e destra italiana, ivi, pp. 487-520.^
6 Su questo cfr. A. Ungari, In nome del re. I monarchici italiani dal 1943 al 1948, Firenze, Le Lettere, 2004; Id., La marcia verso il centro e la prospettiva di una destra moderata, in «Ventunesimo secolo», 7 (2005), pp. 113-139; Id., I monarchici, in G. Nicolosi (a cura di), I partiti politici nell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 381-429.^
7 Sull’evoluzione moderata del Msi negli anni Cinquanta, la segreteria di Michelini e il dibattito interno al partito, cfr. soprattutto P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo storico del Movimento sociale italiano, Bologna, Il Mulino, 1998 (2° ed.), pp. 83-92; R. Chiarini, Destra italiana: dall’unità d’Italia a Alleanza nazionale, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 107-110; A. Baldoni, La destra in Italia, 1945-1969, Roma, Pantheon, 2000 (2° ed.), pp. 493-494, 511. Sui presupposti di quella linea negli anni Quaranta cfr. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 211-254; Id., Il Movimento sociale italiano, in G. Nicolosi (a cura di), I partiti politici ... cit., pp. 365-379.^
8 Cfr. S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Torino, UTET, 1984, pp. 695, 708-716; P.L. Ballini, A. Varsori, L’Italia e l’Europa, 1947-1979, Soveria Mannelli, Rubbettino, p. 222. Nelle votazioni per la fiducia Zoli insisté nel rimarcare che il consenso del Msi non era determinante (sia pure per un solo voto), ma ciò non servì ad evitare le polemiche che condussero alle sue dimissioni: alle quali fece seguito, come è noto, il rinvio alle Camere dell’esecutivo da parte del Capo dello Stato Gronchi. Su questo cfr. Novacco, Storia del parlamento italiano, cit., Volume XV, pp. 102, 109-110.^
9 Soprattutto all’interno di questa strategia l’atteggiamento delle destre sull’integrazione europea viene letto da F. Perfetti, Verso i Trattati di Roma. L’europeismo di palazzo Chigi, in «La Comunità internazionale», 1 (2007), pp. 23-49, ed in part. p. 25.^
10 P. Neglie, Un secolo di anti-Europa. Classe, nazione e razza: la sfida totalitaria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 93-106. Sulla questione cfr. anche Ignazi, Il polo escluso, cit., pp. 53-56; M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. Intervista di Antonio Carioti, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 44, 64.^
11 Cfr. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 64.^
12 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, II legislatura, Discussioni, seduta pomeridiana del 22 luglio 1957, p. 34256.^
13 Ivi, p. 34257.^
14 Ivi, seduta pomeridiana del 25 luglio 1957, p. 34494.^
15 Ivi, seduta pomeridiana del 30 luglio 1957, p. 34796.^
16 Ivi, seduta pomeridiana del 25 luglio 1957, p. 34542.^
17 Ivi, pp. 34542-34543.^
18 Ivi, p. 34543.^
19 Ivi, pp. 34507-34508.^
20 Ivi, p. 34509.^
21 Sulla vicenda politica e sulla collocazione culturale di Lucifero vedi E. Capozzi, Un conservatore nella “repubblica dei partiti”. Roberto Lucifero e il dibattito politico-istituzionale del dopoguerra: «L’Acropoli», 3 (2006), pp. 302-324 (poi in A. Musi, a cura di, Forma-partito e democrazie dell’Europa mediterranea: origini, sviluppi, prospettive, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 79-104); Id., La destra liberale e la segreteria Lucifero (1947-1948), in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, vol. I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 319-340.^
22 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, II legislatura, Discussioni, Seduta pomeridiana del 26 luglio 1957, p. 34613.^
23 Sul cui ruolo nelle origini e nello sviluppo del Msi v. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 211-254.^
24 Ivi, p. 34627.^
25 Ivi, p. 34628.^
26 Ivi, seduta pomeridiana del 30 luglio 1957, p. 34783.^
27 Senato della Repubblica, Atti parlamentari, Discussioni, seduta del 2 ottobre 1957, p. 23779.^
28 Ivi, seduta dell’8 ottobre 1957, p. 23996.^
29 Camera dei deputati, Atti parlamentari, Discussioni, Seduta pomeridiana del 22 luglio 1957, p. 34258.^
30 Ivi, Seduta pomeridiana del 26 luglio 1957, p. 34624.^
31 Ivi, Seduta pomeridiana del 22 luglio 1957, p. 34259.^
32 Senato della Repubblica, Atti parlamentari, Discussioni, Seduta dell’8 ottobre 1957, p. 23973.^
33 Camera dei deputati, Atti parlamentari, Discussioni, Seduta pomeridiana del 26 luglio 1957, p. 34580.^
34 Ivi, p. 34581.^
35 Ivi, p. 34626.^
36 Ivi, Seduta pomeridiana del 25 luglio 1957, p. 34509.^
37 Ivi, p. 34544.^
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