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Petrarca e i pazzi di Grégoire
di Luigi Spina
L’autore, Valerio Petrarca, è professore di Antropologia culturale all’Università Federico II, la collana in cui il volume è inserito si chiama Nuovo Prisma ed è diretta da Antonino Buttitta. Si parla, nel volume, della Costa d’Avorio e di Grégoire Ahongbonon, inventore e instancabile protagonista di un’esperienza di assistenza medico-sociale basata sui centri di ricovero della “Associazione San Camillo de Lellis di Bouaké. Casa di accoglienza dei malati senza famiglia”. Eppure sarebbe difficile definire il genere cui appartiene questo prezioso libro. Saggio, diario di viaggio, autobiografia? Nulla di tutto questo soltanto. Motivo per cui la recensione che mi appresto a scrivere forse non sarà una normale recensione, cioè il giudizio su un libro. Innanzitutto, potrebbe limitarsi a un invito preciso: leggere il libro per fare un’esperienza abbastanza unica, che consiste non solo nell’accompagnare un viaggiatore antropologo all’interno di un mondo in gran parte sconosciuto, ma essere costretti anche a fare i conti con il viaggio interiore dell’antropologo stesso. Insomma, questo libro si pone come paradigma, come modello onesto, spontaneo e limpido, a mio parere, di quello che dovrebbero essere una ricerca e la comunicazione dei suoi risultati all’interno di una comunità non solo scientifica. Siamo abituati, in molti campi del sapere, a resoconti ‘oggettivi’ in terza persona, a volte anche quando i pronomi e le forme verbali di prima persona abbondano, resoconti nei quali l’oggetto della ricerca, sia esso una formula con cui definire un fenomeno fisico o un testo da interpretare, o una vicenda da ricostruire e raccontare, o una sindrome di cui rintracciare le sequenze, viene trattato come se l’occhio, lo sguardo, la mente, l’ansia del ricercatore fossero elementi estranei all’argomento, come se fosse importante solo fissare nella forma più neutra e ‘conclusiva’ possibile un percorso che è stato invece accidentato, complesso, aperto in ogni momento a più soluzioni. Insomma, tenere separati autobiografia del ricercatore e saggio scientifico come appartenenti a due generi assolutamente incompatibili si rivela sempre più una convenzione frutto di vecchie accademie.
Colpisce, nella struttura del libro, la divisione in capitoli come annunziata dall’indice posto all’inizio: quattro capitoli i cui titoli scandiscono un percorso prima geografico (1. Abidjan; 2. Abidjan – Yamoussoukro – Korhogo), poi esperienziale (3. I pazzi di Grégoire), infine individuale (4. Grégoire Ahongbonon). Con questo non voglio affermare che le connotazioni del percorso narrativo che ho appena definite esauriscano e limitino, ciascuna separata dalle altre, il tema dei singoli capitoli: voglio sostenere, invece, che dall’inizio alla fine Valerio Petrarca percorre spazi, incontra uomini, donne ed esperienze singolari accompagnandoci in questo viaggio con, in sottofondo, il suo monologo interiore.
D’altra parte, nell’indice non vengono registrate le prime tre pagine (9-11), senza titolo e siglate V.P. (una sigla che d’ora in poi adotteremo), una sorta di curriculum vitae stampato tutto in corsivo, dove vitae non sta per ‘attività scientifica e didattica’ ma davvero per ‘vita’: coscienza, affetti, famiglia, professione, con le connesse deontologie. Una confessione incipitaria, una lettera aperta al lettore, una premessa, un’avvertenza, lo spazio dedicato ai tradizionali ringraziamenti (che pure non mancano: a Walter Siti, per l’intuizione della scrittura necessaria, ad Antonino Buttitta, per l’ospitalità nella collana)? Anche in questo caso sarebbe difficile definire il carattere prevalente di queste pagine. Posso solo dire che senza di esse il libro sarebbe monco, perché preparano il lettore all’esperienza che lo aspetta.
V.P. è un antropologo che vuole continuamente ridefinire il suo lavoro, non contento di tradizionali e consolanti quadrature del cerchio. Vi torna più volte: «il mio lavoro consiste nel viaggiare, vedere, capire, tornare e riferire» (p. 9); «so spiegare ai miei studenti anche cose che non ho capito» (ivi); «studioso di esorcismi altrui» (p. 10); «la disciplina che insegno ha un senso se riesce a estrarre dall’io di chi narra un “noi” e dall’io di chi è narrato un “loro”, almeno così pensavo» (ivi); «il mio lavoro è fatto di parole e di ricordi» (p. 45); «le dico che sono una specie di mercante di parole: le prendo dove ce ne sono in abbondanza e non hanno valore e le porto dove sono merce più rara» (p. 57). Da soggetto osservante a soggetto osservato (anche da se stesso), l’antropologo è così pronto a leggere meglio l’alterità e a comunicarla in modo molto semplice, come anche una bambina (una figlia) può capire. Con molta più modestia di quella presente in tante ‘lettere’ indirizzate ai figli da famosi scrittori o opinionisti per spiegare come va o dovrebbe andare il mondo, V.P. risponde così a Sofia, sua figlia, che per telefono, dalla lontana Napoli, gli chiede: «Papà, stai in cielo?» - «No, a papà, non sto in cielo, sto lontano lontano, ma sono vivo, sempre qui sulla terra dove state anche voi» (p. 20). V.P. aveva scritto, nelle indefinibili tre pagine iniziali: «so sorridere, almeno alle mie figlie, mentre un pensiero mi divora l’anima». Bambini occidentali, europei, che vedono anche cartoni ‘impegnati’, pensando ai quali, però, dal luogo che essi vorrebbero rappresentare, l’antropologo non sa trattenere un’idea di ribellione: «La mitologia sénoufo ha ispirato perfino un film per l’infanzia, in Italia è uscito col titolo Kirikù e la strega Karabà; l’ho fatto vedere pure alle mie figlie, ma appena torno a casa prendo la cassetta e la butto a mare» (p. 97); del resto, fra i bambini che incontra V.P., bambini soldati, non c’è davvero spazio per cartoni animati (pp. 79-83).
Incontri sconvolgenti e incontri pacificatori, capaci di ridare una dimensione di futuro alla drammatica situazione della Costa d’Avorio: V.P. incontra donne indimenticabili, ad esempio Giulia e Janine, due suore che «non hanno più legami col posto in cui sono nate e cresciute e viaggiano leggere perché hanno consegnato anima e corpo a Gesù Cristo, va bene sia se arrivano vive sia se arrivano morte» (p.57), ma anche Salimata Soro, la pazza col pullover che però scruta con attenzione e curiosità V.P. «come se il pazzo fossi io e lei una dottoressa» (p. 96).
L’incontro più duro e controverso è quello con Denis il Sorbonnard, durante i primi giorni alla Missione di Abidjan: la Sorbonne è una piazza alberata e recintata, un grande teatro in cui durante il giorno i giovani sostenitori di Gbagbo recitano la loro ribellione contro il mondo intero, e contro la Francia in particolare, per lo stato in cui versa la Costa d’Avorio. Una sorta di Hyde Park africano in cui trovano posto, come in un festival della parola, tutte le forme del discorso: preghiera, profezia, dibattito politico ecc. (p. 27 ss.). Sorbonne, dunque, non per ironia, ma per ristabilire una trasformazione positiva di una tradizione forzata. È proprio Denis che dà un saluto a suo modo a V.P. che sta per lasciare Abidjan (p. 57). Una vera e propria lezione di antropologia, così la vive V.P, e così la fa vivere al lettore, tutta da rileggere e meditare.
E, per finire, Grégoire, i cui ‘pazzi’ danno il titolo al volume. Il capitolo a lui esplicitamente dedicato è l’ultimo, ma il suo nome appare già all’inizio del primo, in uno di quei ritratti nei quali l’anima di V.P. sembra scrivere, come dire, senza mediazioni: «Grégoire Ahongbonon è un africano che si prende cura degli africani, di quelli che stanno peggio di Gesù Cristo sulla croce: uomini, donne e bambini della Costa d’Avorio incatenati a vita alle radici di un albero, che mangiano gli avanzi gettati loro per terra dove vanno di corpo. Si crede che queste creature siano possedute da una forza sacra negativa; vengono perciò riconsegnate al disordine della natura, espulse dalla famiglia e dal villaggio. Aspettano la fine della loro agonia nel fondo del pozzo della dimenticanza umana, nascoste dalla vegetazione o da un muro. Grégoire cerca queste creature, le riscatta dalla famiglia e dal villaggio, le libera dalle catene, le lava, le veste e le porta con sé nei suoi centri di accoglienza per gli ammalati di mente, nella speranza di resuscitare in ognuna di loro una reliquia di umanità».
All’inizio e alla fine del libro di V.P., Grégoire: in fondo alla p. 173, l’ultima, si legge: «Per aiutare Grégoire: http://www.dumaonlus.it », e poi di nuovo la sigla V.P., a suggellare con una soggettività attiva, non nascosta, non limitata alla certificazione autoriale di copertina, un’esperienza non solo di studio, non solo di ricerca: un appello, come quello ad aiutare Grégoire, a vivere testardamente la propria socialità con tutti i rischi che ciò comporta in questo mondo complicato, in questa terra dove stiamo davvero tutti.
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