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La fine del liberismo di sinistra
di Luigi Vergallo
Luca Michelini nel suo saggio La fine del liberismo di sinistra 1998-2008 (Firenze, Il Ponte Editore, 2008) – con l’obiettivo, richiamato in quarta di copertina, di «contribuire alla ricostruzione di un’identità culturale» delle forze che ancora si riconoscono nella Carta costituzionale – affronta il difficile compito di analizzare la cultura economica del centrosinistra dell’ultimo decennio. Si tratta di un tentativo senza precedenti, dunque importante pur presentandosi come un “contributo di natura etico-civile” e quindi non propriamente storiografica. In particolare vengono individuati e analizzati due filoni culturali riconducibili al Partito Democratico, quello cosiddetto liberal o liberale di sinistra e quello che secondo l’autore i liberal stessi definirebbero “statalista”. Il primo, seguendo una definizione di Messori [p. 11] potrebbe essere definito come una corrente di pensiero che «perora la lotta alla rendita e alle corporazioni, invoca le pari opportunità e il riconoscimento del merito individuale, auspica la protezione delle fasce penalizzate da una liberalizzazione dei mercati che va sostenuta con decisione, anche con le privatizzazioni». Il secondo filone culturale, che nel libro viene volutamente approfondito di meno poiché l’oggetto di studio è appunto “la fine del liberismo di sinistra”, è quello “De Cecco-Fassina-Ruffolo-Pisauro”, rispetto al quale Michelini si chiede se «vorrà e saprà e sarà messo nelle condizioni di dar vita a una nuova egemonia» [p. 77]. Ruffolo è per una pianificazione strategica della spesa pubblica sul modello anglosassone, Fassina (in passato al Fondo monetario internazionale) enfatizza «come l’identità e l’autonomia culturale del Pd, e quindi di una classe dirigente, sia un processo storico che invoca precise egemonie sociali». De Cecco si sofferma sulle cause del declino, riconducibili anche alla crisi della grande impresa e infine Pisauro sostiene che le riforme di stampo liberista hanno fatto lievitare le retribuzioni e la spesa pubblica senza aumentare la produttività. Nell’analisi di Pisauro il neo-liberismo del Pd si è dimostrato una «chiave ermeneutica e di governo semplicistica e inadatta a modernizzare il paese» [p. 18]. Se gli intellettuali riconducibili invece alla prima corrente di pensiero – tra i quali Toniolo, Reichlin, Visco e Sapelli – sembrano secondo Michelini aver dimostrato di essere consapevoli della «sostanziale contraddittorietà che ha caratterizzato l’azione di governo e la strategia culturale delle forze confluite nel Pd», questi stessi sembrano essere invece meno consapevoli della storica e pesante sconfitta subita dal progetto “liberale di sinistra”. Si pensi solo all’ampiezza dei consensi elettorali riservati al blocco sociale e politico egemonizzato da Silvio Berlusconi, un blocco sociale improntato a una «borghesia tutt’altro che innovativa, tutt’altro che dedita ad alimentare il processo di distruzione creatrice». La borghesia italiana non sembrerebbe cioè disposta a fondare la sua identità politica ed economica «sulla distinzione tra rendita e profitto e tra politica ed economia», né su «un quadro istituzionale votato al mantenimento di standard europei di legalità» e di pari opportunità [p. 22]. Tuttavia a parere dell’autore non è certo (o almeno andrà verificato) che il blocco sociale e politico delle destre possa «essere analizzato all’insegna della contrapposizione tra rendita e profitto e tra politica ed economia» [p. 77]. Inoltre, secondo Michelini, è da spiegare lo scarto tra il piano utopico dei liberal e i concreti risultati ottenuti: «se il lettore pone uno di fianco all’altra le analisi contenute nei testi fondanti della sinistra liberale […] viene colpito dalla constatazione del fallimento delle privatizzazioni, poiché nelle analisi dei loro teorici esse sono state lo strumento per sostituire al monopolio pubblico il monopolio privato» [p. 86]. In particolare la rendita notoriamente affligge «i grandi servizi pubblici a rete (comunicazioni, energia, trasporti), i servizi pubblici locali (trasporti, energia, acqua, rifiuti), oltre che le professioni» [p. 89]. Su tali aspetti si gioca uno dei problemi fondamentali del presente. Se lo Stato italiano, sostiene infatti Luca Michelini, si confermerà elemento determinante per «far rimanere il paese nel solco della crescita» o al limite per governare la decrescita, i cittadini dovranno fare i conti con un sistema politico-istituzionale decisamente antidemocratico anche «in virtù dell’azione di governo dispiegata dal neoliberismo di sinistra” e “funzionale al mantenimento di rendite economiche private» [p. 96]. È dunque «doveroso e saggio spiegare le logiche storiche che dall’utopia egualitaria dei liberal» hanno «condotto alle concrete politiche economiche antiegualitarie degli anni novanta e del nuovo millennio» [p. 118].
Si sarebbe registrato anche un serio tentativo di spostare verso il centro il baricentro della cultura economica del centrosinistra, sulla scorta dell’idea principe degli autori di Il liberismo è di sinistra, Alesina e Giavazzi, vale a dire costituire un blocco liberista trasversale ai due partiti maggiori. Secondo Luca Michelini il compito di traghettare verso il centro la cultura economica del Pd sarebbe stato affidato dal «Corriere della Sera» a Michele Salvati. A parere di Salvati gli avversari da sconfiggere sarebbero in ultima analisi le “tradizioni socialdemocratiche” e “cattoliche sociali” confluite nel Pd. Nella visione dell’economista milanese, per il Pd non esisterebbe più un blocco sociale di riferimento poiché diventerebbe centrale il “mercato”, l’analisi degli ambiti in cui i mercati possono espandersi e l’analisi delle zone di rendita che il capitalismo sempre produce [pp. 29-34]. Per quanto riguarda il mondo del lavoro, secondo le posizioni di Salvati, se il contratto di ingresso deve essere a tempo indeterminato, la rescissione del contratto non deve essere troppo difficile ed onerosa e le garanzie così sottratte andrebbero compensate con «ammortizzatori sociali generosi, agenzie di riqualificazione serie, misure di sostegno alle famiglie». E così, sostiene Michelini, Salvati finisce con l’aderire pienamente alle tesi di Alesina e di Giavazzi. Il «Manifesto del Partito democratico» dimostrerebbe dunque «di essere maturato in un milieu culturale indirizzato in modo non secondario dalle due storiche testate della borghesia italiana, il “Corriere della sera” e il “Sole-24ore”» [p. 34].
Alla base della durissima sconfitta politica e sociale del centrosinistra nelle ultime elezioni si troverebbero proprio il tentativo liberal di rinunciare ad avere come referenti sociali i “gruppi organizzati” e la ostinata volontà di fare “tabula rasa” di ogni elemento della tradizione socialista. Il distacco tra il mondo del lavoro e i suoi classici referenti politici rappresenta un po’ il cuore teorico del volume, come testimonia anche il paragrafo di chiusura: «In queste pagine ho provato a indicare alcuni, solo alcuni, dei motivi che possono spiegare il motivo per il quale il mondo del lavoro ha abbandonato i suoi classici referenti politici. La speranza è che le soggettività politico-sociali del futuro, sappiano innovare cultura e proposta politica e sociale riallacciandosi in modo criticamente fondato alle proprie radici, per offrire analisi e proposte all’altezza dei tempi e delle aspettative morali, economiche e politiche di milioni di lavoratori e di lavoratrici».
Si distacca parzialmente dalle analisi dei liberal la posizione di Sapelli, grazie all’estrema attenzione dedicata al mondo dell’impresa. Il suo ideale resterebbe quello della liberalizzazione dei mercati di stampo anglosassone, un modello ritenuto ben ancorato al binomio privatizzazioni-liberalizzazioni [p. 106]. L’analisi del blocco sociale delle destre porta Sapelli a ritenere che destra significa «ritorno al neoprotezionismo e all’economia sociale di mercato». In generale però la borghesia europea, che ha sempre avuto bisogno della mediazione statale, tenterà «nuovamente di utilizzare lo Stato e la politica […] per perpetuare l’ascrizione dei diritti di proprietà, anziché la loro allocazione di mercato» [p. 107]. In questo modo si giunge a esporre la concezione dell’impresa delineata da Sapelli, nella evidente scia del pensiero di Adriano Olivetti, una concezione all’insegna di una “responsabilità” che «sappia farne il luogo di creazione di una comunità, certamente fondata sulla divisione del lavoro e quindi sulla gerarchia, ma al tempo stesso votata alla valorizzazione» del patrimonio cognitivo e morale della persona attraverso un processo istituzionale capace di responsabilizzare proprietà e management. È l’etica dell’impresa [p. 108]. Ma ancora una volta l’autore sembra ritenere che esista un non trascurabile scarto tra il piano utopico e quello della proposta politica concreta.
Quello di Michelini non è un libro semplice. Vi si affrontano pezzi della contemporaneità così articolati e difficili che sino ad ora non erano mai stati analizzati in maniera così sistematica. Si tratta dunque di un piano denso e complesso che forse avrebbe meritato un’analisi più distesa e discorsiva, capace di esaltare la funzione “etico-civile” del volume, che certamente mira a sottolineare le conseguenze negative derivate e derivanti dalla puntuale quanto rapida rimozione, avvenuta negli ultimi tempi, di ogni elemento socialista dalla e nella tradizione della sinistra italiana. Non si tratta di banali “vuoti di memoria”, perché, come scrive, «la cultura liberal conosce benissimo la storia d’Italia. Questa conoscenza, tuttavia, deliberatamente non diventa parte organica e integrante della proposta culturale di cui i liberal si fanno promotori. Un conto è affermare, come affermava Benedetto Croce, che la storia è sempre storia contemporanea […]; un altro conto, invece, è invocare il revisionismo storico inteso come intenzionale espulsione dalla memoria di una parte consistente della storia stessa» (p. 119). E in uno dei capitoli del libro l’analisi della presentazione di Padoa Schioppa all’edizione Mondadori del Manifesto di Ventotene diventa l’occasione per spiegare i motivi di queste rimozioni e per avanzare alcuni dei contenuti di una possibile proposta politica a venire. A parere di Michelini tale presentazione semplifica notevolmente il quadro teorico del manifesto, soprattutto per quanto riguarda i suoi elementi più attuali in quanto potenzialmente capaci, oggi, di ridare impulso “al processo di unificazione europea” e di spiegare le ragioni del fallimento dei recenti tentativi costituenti, ma soprattutto per «tentare di realizzare un nuovo ordine mondiale non più caratterizzato dalla guerra e dalla ragion di Stato» [p. 121]. Scrive Michelini che la cifra del federalismo di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi è del tutto evidente, perché il loro europeismo è all’insegna del socialismo in quanto affermano che «la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita» [p. 122]. In altre parole il federalismo non può che avere un contenuto socialista perché guerra, ragione di stato e totalitarismo militaristico sono «frutto di una struttura sociale ben precisa» [p. 124]. Anche per quanto riguarda quella parte della tradizione socialista che le forze riformiste oggi dicono di apprezzare maggiormente, si osserva insomma una sistematica rimozione di alcuni elementi fondamentali: «Sorge il dubbio – scrive Michelini – che non si voglia affrontare il tema del socialismo di Spinelli perché altrimenti si dovrebbe affrontare la complessa questione della proposta sociale portata avanti, nel corso dell’intera vita repubblicana, dal Pci: che si rischi di scoprire che si trattava di una proposta socialista autenticamente riformatrice fatta in nome della dottrina di Marx?» [p. 127]. Si tratta insomma di un volume di notevole interesse perché contiene una critica originale, e compiuta dall’esterno dell’apparato di un partito, di un movimento politico, quello Democratico, che anche sul piano della cultura economica stenta a trovare una sua coerente e incisiva capacità progettuale.
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