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America-Europa: quale prospettiva in un mondo in crisi?
di Francesca Ferraro
Una premessa*
    
L’Occidente diviso1, fu il lessico comune che utilizzarono, dopo il 2003, Robert Kagan e Jürgen Habermas per due rappresentazioni opposte dei modelli teorici da utilizzare per cogliere le divergenze politico-intellettuali sulla relazione America-Europa in occasione della guerra in Irak. La crisi transatlantica del 2003 fu, e rimane una crisi strutturale che enfatizzò le differenze nelle visioni della politica mondiale e nella definizione dell’ordine globale in America e in Europa, all’interno della stessa categoria di Occidente. La disputa intellettuale è sulla costruzione di categorie che ruotano intorno al concetto di “potere”, per rispondere a questioni chiave quali: come imporre un nomos in questo mondo globalizzato? Come realizzare un ordine nel disordinato spazio globale? Teorie differenti delle relazioni internazionali talvolta coesistono in uno stesso approccio che si trova a riflettere aspetti diversi della realtà complessa della politica mondiale: il potere e la sicurezza, le istituzioni, le norme e gli ideali. Il focus è:
I) sull’inadeguatezza dell’apparato teorico di Kagan, un modello che ha difetti speculari e opposti rispetto a quello habermasiano;
II) sull’insufficienza dell’apparato teorico di uno tra i maggiori interpreti della costruzione europea, Habermas, che rappresentando il modello europeo alla luce del progetto kantiano della pace perpetua, enfatizza una visione del mondo di kelseniana memoria, che non riesce a cogliere la complessità della realtà della globalizzazione di cui parlavo.
Ambedue quei modelli, guardati dal punto di vista delle conseguenze politiche, conducevano ad argomentare la profonda divisione America-Europa, una divisione insostenibile, oggi più di ieri, alla luce dell’irrompere sempre più problematico della globalizzazione e della sua crisi.



1. Il confronto tra Kagan e Habermas

Kagan-Habermas: un contrasto fra differenti letture della scena globale, distinti modelli teorici, discrepanti ricostruzioni del significato di “Occidente"2, opposte risposte che si devono apprestare per affrontare le grandi contraddizioni che ambedue gli autori scorgono nella globalizzazione3 a partire, soprattutto per Kagan, dal post-11 settembre. Kagan è un intellettuale particolarmente rappresentativo della posizione dei teorici neoconservatori americani4; egli argomenta5 che il sistema globale ha la tendenza all’hobbesiano “bellum omnium contra omnes”. Il modello kaganiano è intrinsecamente realistico6, con una componente di “idealismo wilsoniano”7. Habermas, che rappresenta il modello filosofico-intellettuale europeo, afferma8 che l’arena globale ha una potenzialità cosmopolita delineando l’ipotesi di una giuridificazione della comunità internazionale governata dai diritti umani. Il dibattito tra Kagan e Habermas, essenziale per aver individuato due prospettive all’interno di un dibattito critico tra diversi approcci alle relazioni internazionali e ai temi della guerra e della pace. Si tratta di un confronto ancora carico di attualità. Habermas9 affianca alle categorie delineate da Kagan10, di un’Europa “kantiana” e di un’America “hobbesiana”, bellicosa11, la dicotomia Kant-Schmitt come esemplificazione delle posizioni teorico-politiche delle due sponde dell’Atlantico. Il filosofo tedesco scrive tra l’aprile 2003 e il settembre 2004 sette saggi contenuti nel volume “L’Occidente diviso”12, in polemica con la dottrina coniata dall’amministrazione Bush13. Nel rilanciare “il progetto kantiano di una pace perpetua”, Habermas intende sottolineare la divisione “su una delle più grandiose iniziative civilizzatrici del genere umano”. Egli propone una versione avanzata del modello kantiano della “Lega tra i popoli”, progetto di un ordine cosmopolitico che “incontra l’obiezione tradizionale dei realisti che affermano il primato ontologico-sociale del potere sul diritto”.
La disputa fra idealisti kantiani e realisti alla Carl Schmitt14 sui limiti della legalizzazione delle relazioni internazionali si sovrappone alla questione se la legalizzazione delle relazioni internazionali debba sostituirsi ad una eticizzazione della politica mondiale da parte dell’iperpotenza, che promuove “il progetto perseguito dagli ideologi15 della Presidenza di G.W. Bush, quello di un nuovo ordine mondiale liberale sotto l’egida della pax americana”. Robert Kagan16 dibatte, in uno dei suoi più recenti contributi alle analisi delle relazioni transatlantiche17, che “nell’Occidente si è prodotto un grande scisma filosofico (…) Tale scisma, giunto in un momento storico in cui nuovi pericoli e nuove crisi stanno proliferando rapidamente, potrebbe avere serie conseguenze. Dividersi dal punto di vista strategico si è già rivelato abbastanza deleterio per l’Europa e gli Stati Uniti. Ma cosa accadrà se il disaccordo sul concetto di ordine mondiale dovesse influenzare le basi di ciò che consideriamo l’Occidente liberale? L’Occidente resterà l’Occidente? (…)La questione della legittimità è il nodo della discussione fra americani ed europei, (…) la maggioranza degli europei ha messo in dubbio la legittimità del potere americano e della supremazia mondiale degli Stati Uniti”18.



2. Kant- Kelsen vs. Hobbes-Schmitt

Se si volesse approfondire il tema delle fonti teoriche classiche, le argomentazioni di Kagan verrebbero a richiamare spesso quelle risalenti ad Hobbes, che descrisse un mondo fatto di poteri e di forze, dove il conflitto era alla base di tutto e appariva legato alla natura profonda dell’uomo, con al centro il problema della sicurezza19. Kagan contrappone il mondo di Hobbes al mondo di Kant, il mondo del conflitto e della guerra al mondo della ”pace perpetua”. Secondo Habermas, l’ostentato corto circuito con cui Kagan collega le tradizioni filosofiche di Kant ed Hobbes “con le mentalità e le politiche nazionali, faremo meglio a lasciarlo da parte. Nelle differenze di mentalità che si possono individuare (…) si rispecchiano esperienze storiche di lunga durata; io non vedo alcun nesso con strategie politiche a breve termine(…). Quel che io trovo del tutto errato in Kagan è la sua visione unilaterale e stilizzata della politica americana nel corso del secolo passato. La lotta tra realismo ed idealismo in politica estera e in politica della sicurezza si è svolta non già tra i continenti, bensì all’interno della stessa politica americana”20. “L’Occidente è stato diviso non dal pericolo del terrorismo internazionale, bensì dalla politica dell’attuale governo statunitense, che ignora il diritto internazionale (…). In gioco è il progetto kantiano della abolizione dello stato di natura fra gli Stati. Le menti si dividono non su fini politici superficiali, ma su una delle più grandiose iniziative tendenti a civilizzare il genere umano”21. Habermas pone l’accento soprattutto sull’identità europea nello scacchiere diviso dell’Occidente, riformulando il progetto kantiano di una “giuridificazione delle relazioni internazionali”22. Quest’ultimo, avviato con la rinuncia degli Stati allo jus ad bellum, il potenziamento delle Nazioni Unite e la positivizzazione dei diritti umani, è messo in crisi dalla “pretesa imperiale”23 dell’amministrazione statunitense.
Innescando la crisi del pacifismo giuridico, tale pretesa ha potuto dividere l’Occidente anche perché la via della pace attraverso il diritto non è univoca, e come tale necessita di autocritica. Il progetto cosmopolitico potrà realizzarsi solo sottoforma di una costituzionalizzazione liberale e pluralistica del diritto internazionale, di cui l’Europa si faccia carico anche “contro progetti concorrenti” di ordine mondiale. “Perché l’Europa (…) non potrebbe raccogliere l’ulteriore sfida di difendere e portare avanti, contro progetti concorrenti, un ordine cosmopolitico sulla base del diritto internazionale?”24.
La prospettiva neo-schmittiana non crede alla possibilità di un cosmopolitismo critico: restando scettica sulla “possibilità di un’intesa interculturale circa interpretazioni dei diritti umani e della democrazia capaci di un’adesione universale”25, essa individua piuttosto in un ordinamento per “grandi spazi” l’unico antidoto alla “moralizzazione della guerra” promossa dalla potenza statunitense. In un mondo interdipendente il fattore legittimità26 riveste un’importanza pari a quello economico e militare, ma da questo punto di vista, scrive Kagan, “nell’Occidente si è prodotto (…) un grande scisma filosofico: al posto dell’indifferenza reciproca, fra America ed Europa si è instaurato un forte antagonismo che minaccia di indebolire entrambi i partner della comunità atlantica (…). Gli americani dovranno prima o poi rendersi conto di non poter più ignorare tale problema. In questa nuova era, la lotta per definire e ottenere la legittimità internazionale potrebbe rivelarsi una delle sfide più ardue del nostro tempo; per certi aspetti, tanto importante nel determinare il futuro assetto mondiale, e la conseguente posizione dell’America al suo interno, quanto lo sono il potere e l’influenza puramente materiali”27.
Legittimità e legalità dell’ordine spaziale mondiale sembrano delineare orizzonti alternativi che individuano posizioni distinte e separate, come se un ordine potesse crearsi al di là dell’interconnessione stringente tra politica e diritto! Questo è uno dei nodi su cui ritengo necessario argomentare una critica ai due modelli. In tal senso val la pena richiamare il lavoro di Kelsen28 come esemplificativo di una prospettiva normativo-costituzionale che sembrerebbe rispecchiare il progetto europeo. Perché questo richiamo? Kelsen ci introduce in una prospettiva in cui l’elemento della legittimità sovrana passa dalla volontà alla norma, annullando in essa il senso della propria esistenza, perché “potere -o forza- e diritto si escludono l’un l’altro” e “il potere giuridico è solo un potere conferito dal diritto (…) e una forza giuridicamente regolata cessa di essere una forza, presentandosi piuttosto solo come contenuto di un ordinamento”29. Dunque, si potrebbe dire che il progetto europeo si va ad identificare con un tentativo di costruire una comunità retta dal diritto e dai diritti, con una vocazione alla pace e alla civilizzazione dei rapporti in un mondo cosmopolita: un modello in grado di ridelineare la morfologia della politica anzitutto in quello spazio del mondo che attende un ordine, realizzabile attraverso un “pluralismo ordinato”. Un esperimento guidato da una sorta di visione filosofica razionalistica che esalta la ragione e le forme, e dunque in forte antagonismo con la visione schmittiana30. Quest’ultima, in modo alternativo, rappresenterebbe un approccio tendente alla difesa dell’autonomia politica della decisione, attraverso un esistenzialismo politico che enfatizza la durezza di una visione concentrata a farsi valere nello “stato d’eccezione”, nella situazione in cui guerra e politica sono connesse.



3. Il modello americano-kaganiano in crisi

Il modello rappresentato da Kagan ha perso la sua attualità? Perché entra in crisi il modello hobbesiano-schmittiano di quell’ormai lontano 2003? Si è conclusa la logica dello stato di eccezione? Chiediamoci dunque se l’unilateralismo può essere il miglior rimedio per affrontare l’accelerazione dei fenomeni globali, del loro inasprirsi che può condurre finanche alla crisi. Ben lungi dal vivere in un’età caratterizzata dall’incremento delle democrazie e dall’estensione dell’area del mercato, da una maggior sicurezza internazionale e da un aumentato rispetto per i diritti umani fondamentali, abbiamo invece sempre più la percezione di essere entrati in una nuova “età dell’incertezza”. Dall’euforia per la fine della Guerra fredda che accompagnò l’inizio del decennio siamo arrivati oggi, attraverso una serie di guerre, a fronteggiare un nuovo più terribile nemico. In maniera davvero un po’ beffarda, la storia che Fukuyama
31
aveva previsto avviarsi alla sua conclusione dialettica non è “finita”, perché mercato e democrazia non sono riusciti ad unificare il mondo; perché ritornano i processi identitari; perché irrompe il fondamentalismo islamico32: tutti fenomeni che nel complesso risultano sottovalutati dallo studioso americano, così come il ritorno di fenomeni di duro nazionalismo. La caduta del muro di Berlino è stata seguita da una stagione, in cui, nei processi politici, ha cominciato a giocare in modo crescente la questione della definizione e ridefinizione delle appartenenze33: un fenomeno cruciale che va ricondotto al riaccendersi delle rivendicazioni assolute di identità. Il globalismo irruppe con una nuova accelerazione: sembrò non dover avere resistenze, muoversi come il fluire libero di una corrente, ma in molti avvertirono che sul lato opposto, in punti interni allo sviluppo e soprattutto fuori, nelle aree marginali, si andavano concentrando identità e frammenti di identità, localismi fisiologici e identità fondamentali e integraliste34. L’osservazione appare, in questo contesto, assai utile per la comprensione del nuovo disordine che a partire dall’11 settembre si è impadronito del mondo, riproponendo scenari di guerra in cui sembrerebbe non intravedersi la possibilità di una mediazione politica. La guerra torna a diventare attuale, per la prima volta globale in quanto priva di confini.
Il conflitto si inserisce in forme nuove “nel vocabolario della politica (…). Il ritorno della tragicità della storia. Il suo peso sulle nostre società secolarizzate. Il ritorno delle categorie forti per analizzare il mondo (…). La ricomparsa del nemico e dunque della forza immanente della dimensione politica”35. In questo quadro, quali sono le risposte efficaci che l’Occidente vuole mettere in campo? La durezza oppositiva della categoria schmittiana amico-nemico è la via maestra per la loro comprensione? Kagan replica disegnando l’immagine di un’Europa “paradiso kantiano”, con una ipostatizzazione della legalità e dei diritti, e di un’America costretta a vivere dentro “l’inferno hobbesiano”, dove solo le regole della forza hanno rilevanza. Tale distinzione non permette di escludere, dalle previsioni dell’intellettuale americano, la tendenza verso una maggiore cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico qualora esse riusciranno a “concordare sulla natura della minaccia comune”, ricreando quello stesso “clima mantenuto negli anni della Guerra fredda”36.
Si tratta di una prospettiva unilaterale che interpreta la stabilità internazionale come il risultato di una politica militare consapevole da parte delle potenze più grandi, in primo luogo dell’America. L’interesse nazionale degli Stati Uniti a garantirsi la sicurezza e l’approvvigionamento di risorse economiche strategiche deve essere considerato prioritario rispetto a qualsiasi altra considerazione. Dunque, l’America non deve farsi più imbrigliare dalle istituzioni multilaterali, che essa stessa aveva contribuito a costituire. Tale visione politico-culturale considera la conclusione della Guerra fredda come il passaggio dall’immagine di un’America capace di esercitare il proprio potere all’interno del blocco anti-sovietico ad un’America capace di esercitare un ruolo di sicurezza su scala globale. Secondo la definizione di Charles Krauthammer la prospettiva di “unilateralismo non significa tentare di agire da soli. Se possibile, si agisce di concerto con altri. Unilateralismo significa semplicemente non permettere ad altri di prenderci in ostaggio. La vera questione che distingue l’unilateralismo dal multilateralismo -e che mette alla prova i “realisti pragmatici”- è la seguente: cosa si fa se, alla fine, il Consiglio di sicurezza rifiuta di darci il suo appoggio? Si lascia che altri ci dettino legge su questioni vitali di sicurezza nazionale e internazionale?”37. La forma della comunità internazionale non ha mai potuto sostituire le volontà politiche e le dissimmetrie dei poteri. Mai, e tanto meno oggi, l’Onu o il Consiglio di Sicurezza38 hanno potuto dettar legge agli Stati e decidere per essi sui loro interessi vitali. Kagan non manca di ricordare che anche l’intervento dell’Unione europea in Kosovo, nel 1999, non fu legalizzato da una decisione dell’Onu. Tanto meno ciò può avvenire oggi, quando l’accennata dissimmetria nelle potenze conduce a una sovra-rappresentazione della visione americana del mondo e ad una sua interpretazione molto diretta della scala dei propri interessi vitali, che comunque, secondo Kagan, tendono a coincidere con quelli dell’umanità39.
Robert Kagan ritorna sulla questione Stati Uniti-Europa nell’aprile 2008, confermando la permanente attualità di quel dibattito transatlantico che si era avviato dialetticamente sin dalla guerra in Iraq. La sua visione, pur lasciando sullo sfondo quello stesso schema interpretativo, si va articolando più problematicamente, con delle aperture verso un necessario asse democratico. Infatti, egli afferma40 che: “La speciale versione del nazionalismo e dell’ambizione americana, caratterizzati dalla convinzione di essere investiti di una missione universale e dalla fiducia nella giustezza della propria forza”41 non è meno viva oggi. Osserva che nel solco delle tradizioni dell’attività americana all’estero42, la politica degli Stati Uniti è stata sempre “espansiva e persino aggressiva”43 perché legata al “significato storico globale della loro nazione. Ispirati da tale visione del mondo e di se stessi, hanno accumulato potere e influenza”44 avendo preferito come principio guida di strategia globale “la preponderanza del potere” piuttosto che “l’equilibrio tra nazioni”45. “Hanno provato ad effettuare cambi di regime quando lo hanno ritenuto utile per promuovere gli ideali o gli interessi americani. Hanno ignorato le Nazioni Unite, i loro alleati e il diritto internazionale ogni volta che tali organismi hanno ostacolato il perseguimento dei loro obiettivi”46. “La propensione all’unilateralismo, la diffidenza nei confronti delle istituzioni internazionali, il geloso attaccamento alla sovranità nazionale, la tendenza a usare la forza per risolvere i problemi internazionali, così come la nobile generosità di spirito e l’acuta e illuminata percezione dei propri interessi che spinge gli Stati Uniti a lanciarsi nel mondo per soccorrere gli altri: queste caratteristiche pressoché costanti della politica estera americana non sono state inventate dall’amministrazione Bush e non scompariranno con la sua uscita di scena”47. Non è possibile immaginare che ci sia una sottovalutazione, da parte europea, di ritorni fondamentalisti che interessano aree importanti del mondo e delle irriducibili asprezze del processo globale?
La visione schmittiana si rivela, comunque, una risposta molto dura a sostegno di una visione di esistenzialismo politico concentrato a farsi valere nelle situazioni dove guerra, sovranità e decisione coincidono, senza però considerare anche il potere della norma, nella sua capacità di produrre consenso e condivisione. La durezza del “fatto” dell’esistenza politica necessita di un “autodisciplinamento”, di una mediazione in cui anche l’elemento normativo possa arricchire di efficacia l’azione congiunta dell’Occidente. Lo scenario globale non rich48iede sempre più un intreccio stringente tra legalità e legittimità, diritto e forza? E soprattutto in presenza della drammatica crisi che lo attraversa?
Interpretare l’esistenzialismo schmittiano in chiave di un destino della politica forte produce, e ha prodotto, uno svuotamento di quel soft power, che è oggi al centro del crollo di fiducia globale che ha innescato la grande crisi. Insomma, la filosofia “della vita concreta” può raggiungere la sua più alta efficacia esistenziale nel momento in cui riesce anche a realizzare delle forme razionali entro cui collocare la propria esistenza. Quest’ultima enfatizza una volontà di potenza che rischia di essere travolta se non riesce ad autolimitarsi attraverso una forma normativa, in grado di controllarla, evitando di degenerare verso eccessi di potenza. Quali e quanti rischi per un destino della politica tutta in chiave di potenza decisionista? Potrebbe una morfologia della politica tutta basata su un modello realistico, tendente a schiacciare il logos sulla potenza, essere la risposta vincente all’inasprirsi della globalizzazione?



4. Critica al modello europeo-habermasiano

L’Occidente “diviso” era l’immagine che si affermava come reazione a quell’elemento profondo di rottura della comunità internazionale, introdotto dalla lettura americana della globalizzazione e dalla guerra in Irak. Infatti, la globalizzazione per Habermas ha più facce e più potenzialità. Può costituire la premessa di una decadenza della politica, in qualche modo già in atto, di una irruzione di poteri finanziari senza controllo, del prevalere di un pensiero tutto legato al nesso potere-denaro, e sul fronte opposto, dell’esplosione di fondamentalismi che intendono reagire alla omologazione globale49, oppure può contenere l’avvio di un processo cosmopolita, in cui il sistema delle interdipendenze mondiali può tendere verso l’idea di una comunità mondiale governata dal diritto, secondo la classica tesi di Kelsen. Quest’ultima trae linfa vitale dall’opera anticipatrice di Kant capace di grandi previsioni sulla storia, che permette ad Habermas di pensare l’Europa di oggi e di domani. Proprio quel Kant che emblematicamente, e non senza qualche vena di ironia, viene collocato da Kagan (e non solo da lui) nell’immaginazione del mondo idealtipico della “pace perpetua”. Il Kant di Habermas è il Kant che compie il passo decisivo, oltre il diritto internazionale, affermando la possibilità di una condizione cosmopolita50; è il Kant che contro Hobbes afferma il nesso concettuale fra diritto e tutela della pace51; è il Kant che immagina, oltre il diritto internazionale, “la costituzione di una comunità di Stati”52; è il Kant che aveva già afferrato che si stava avviando una interdipendenza mondiale53 e che proprio da essa ricavava la necessità di un superamento della guerra come condizione normale dell’umanità: e solo la condizione cosmopolita può essere “la condizione di pace a lungo termine”; è il Kant che trasforma il diritto degli stati in “diritto cosmopolitico” “in quanto diritto di individui: ora questi sono soggetti giuridici non più soltanto come cittadini dei loro rispettivi stati, ma egualmente come membri di una comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano”54. E’ il Kant, infine, che sa che “la reciproca compenetrazione del diritto positivo e del potere politico non mira al dominio legale puro e semplice, bensì a un dominio costituito nei termini dello Stato di diritto e della democrazia” 55.
Dunque, se il modello di Habermas in primo luogo si costituisce intorno alle fonti kantiane, che sono il centro di una costruzione teorica che si va arricchendo con l’analisi intellettuale di Kelsen, quali sono le difficoltà con cui esso si scontra? Le grandi questioni che girano intorno al modello Kant-Kelsen-Habermas sono legate alla crisi generata da uno spostamento eccessivo verso l’asse normativo-legalistico della tormentata dissimmetria dialettica tra politica e diritto56. Come se la legittimazione potesse nascere e crescere solo su un presupposto puramente normativo, giungendo fino all’estrema ratio di normativizzazione del potere, negando l’esistenza vitale dei rapporti di forza globali; giungendo alla critica più severa del potere, che si scioglie dalle sue immagini più edulcorate, oltre che dalla sua fondamentale funzione di produttore della libertà57.
La visione habermasiana si inserisce in un filone di continuità verso una elaborazione del modello europeo legata al contesto storico-politico della seconda metà del XX secolo, quando ci fu una forte reazione di cesura alle torsioni distruttrici della potenza sovrana degli Stati europei, che da allora lasciarono un’impronta nella forma mentis della costruzione comunitaria58. Per Habermas, il nuovo scenario globale stimola l’idea (e la sua concretizzazione nella realtà) di una Europa che, esaltando la propria capacità di potenza normativa, già messa alla prova all’interno dei propri confini, può parlare al mondo il linguaggio del diritto, della cittadinanza, della “inclusione dell’altro” e della possibilità di risolvere i conflitti con l’ampliamento delle regole e la formazione di una comunità internazionale tendenzialmente cosmopolita, capace di autocontrollo. L’interdipendenza mondiale ha in sé una grande potenzialità costruttiva di rapporti nuovi, governati dal diritto. Essa ha una doppia faccia, ma la responsabilità delle classi dirigenti è provare a far prevalere la dimensione umana del globalismo. L’Europa può diventare elemento essenziale in una scena globale dove si lotti per la globalizzazione del diritto e dei diritti perché essa ha già modificato, all’interno dei propri confini, la forma della politica, spostandola verso la cooperazione e l’espansione pacifica della democrazia e dei diritti umani. L’unificazione del continente, successiva al 1989, è l’esempio di una grande politica in questa direzione. “L’Unione europea potrebbe addirittura fungere da modello per forme di governo transnazionale”59.
Tuttavia, ci si potrebbe chiedere dove si va ad innervare il vecchio corpo della politica in grado di conferire potenza all’azione concreta di una unione normativa. Dove finisce la forza vitale della dimensione politica, anch’essa necessaria per rispondere allo stagliarsi del lato più violento della fenomenologia globale? Potrebbe esserci il rischio che tutta la formulazione habermasiana si trasformi in un modello ideale per un destino nobile non in grado di leggere nella realtà le connessioni e mediazioni tra il logos e la potenza, tra la volontà ordinatrice razionalizzante e quella della potenza conflittuale. Una missione civilizzatrice, che è insita nell’essenza creatrice originaria, potrebbe essere in grado di influenzare la definizione degli spazi mondiali, ma non può neutralizzare le contraddizioni poste da una forte accelerazione del globalismo e dall’imprevedibilità della sua crisi. Dunque, il dilemma centrale su cui ci spinge a riflettere Habermas è: si può pensare un mondo globale solo pluralistico e “normativo”, senza rischiare di evidenziare un difetto fondamentale di assenza di politica e di governo politico in presenza di una forte crisi della globalizzazione? La giuridificazione, senza residui della politica, non è la condizione della sua scomparsa?



5. Un pregiudizio culturale? Anti-americanismo e modello anti-egemonico europeo

Una osservazione ulteriore va svolta sul pensiero di Habermas, per la sua centralità nel quadro delle riflessioni sull’Europa e sul suo modello di integrazione. Habermas ha un pregiudizio fondamentale verso il liberismo americano in economia, che giunge da lontano (almeno dagli anni settanta, dalla crisi di Bretton Woods), e che gli ha fatto sperare – in accordo con le politiche dell’Spd- in una possibile riforma democratica del comunismo sovietico, come vero contrappeso storico all’esplodere della potenza americana nel mondo. La delusione del filosofo tedesco di fronte al fallimento del gorbaciovismo fu grande. La preoccupazione di fronte al ruolo dell’America, da allora, ugualmente grande, lascia carpire come i riconoscimenti –che pur ci sono- all’America potenza democratica siano piuttosto di maniera. L’attacco al capitalismo anglosassone, ossia alla forma dura del capitalismo, è costante nel pensiero di Habermas, ed è quella la forma di capitalismo, per lui, all’origine del mondo globalizzato. Dunque, il suo diventa un attacco alla globalizzazione stessa, schierando il suo pensiero su questo fronte. Tutto il suo saggio su “La costellazione post-nazionale”60 è percorso da una critica radicale al mercatismo e al dissolvimento della politica in un mondo volatile dove il potere si lega alle leggi del denaro e si dissolve e si inasprisce entro di esse. Un mondo che dissolve la potenza dei mondi vitali e li annulla nel ritmo della grande finanziarizzazione dell’economia. A questo modello, Habermas contrappone quello europeo, antiegemonico e sociale, per sua stessa natura. Tuttavia, in uno dei suoi ultimi interventi61, ritrovo aggravate le sue preoccupazioni sui limiti di questo modello, sulla sua incapacità ad “integrarsi”, e i suoi ottimismi costituzionali, di non molto tempo fa, appaiono archiviati, il che non è cosa da poco. Il modello europeo, malgrado ciò, resta al centro della sua elaborazione e della sua speranza futura. Non torno qui su un tema che ho già approfondito, sulle matrici kantiane che danno sostanza speculativa alla sua idea di Europa e che rappresentano la radice teorica dei suoi diversi lavori, fino a giungere a pagine decisive comprese nella “Inclusione dell’altro”62. Quello che mi interessa mettere in luce, nel percorso del mio ragionamento, sono alcuni elementi critici:
a) il suo pregiudizio sull’America viene da lontano, non nasce negli anni dell’Irak e nella polemica con i neo-conservatori. Quegli anni semplicemente esaltano e rimotivano un atteggiamento di lunga ascendenza, che lo ha sempre reso attento al rapporto Europa-Urss, e ad una Unione sovietica democratica come possibile contrappeso mondiale. Si può dire, insomma, che il 1989 abbia spiazzato il pensiero politico habermasiano.
b) ribadisco che Habermas ha un atteggiamento ambivalente nei confronti della globalizzazione: da un lato, ne critica aspramente i tratti dominanti, e la crisi di oggi gli fornisce ulteriori e magari anche validi argomenti63; dall’altro, da buon “cosmopolita”, non può non apprezzare la necessità di una dimensione globale, da lui vista (in consonanza con la tradizione kantiano-kelseniana) come normativizzazione del mondo delle potenze e degli Stati, quella che prima ho chiamato, anche con spunti critici, giuridificazione della politica. Il filosofo, mi pare si trovi su un difficile crinale, fra una globalizzazione di mercato rifiutata e una globalizzazione giuridico-politica auspicata. Non c’è, in questo nodo, una sostanziale contraddizione che impedisce alle due cose di tenersi insieme, o che almeno lo rende problematico? Salvo a non pensare a una politica capace di “pianificare” il mercato: non è che per caso sia proprio questa l’idea di fondo di Habermas, schiettamente antiliberista e antiliberale?
c) Habermas esalta il modello europeo, lo critica come non sufficientemente integrato64, ma lo vede come base embrionale di un nuovo ordine globale, l’unico tentativo, in parte riuscito, di mettere insieme sovranità esclusive. Questo è un punto pienamente condivisibile sul quale continuerò a ragionare, ma, a mio parere, queste ragioni vengono attutite dalla tentazione eurocentrica che vi si annida. Esse possono essere base di discussione sui modelli globali, a condizione di escludere questa tentazione, e di non immaginare una velleitaria “europeizzazione” dell’America come risultato di tutto il processo. Bisogna piuttosto ricercare il nuovo punto di equilibrio, dopo la discussione su modelli alternativi che ho rivisitato nel confronto Habermas-Kagan, e che chiaramente non conduce in nessun luogo: un punto di equilibrio in cui le idee europee possano contare, ma con giudizio e sano realismo. Questo anche per altre ragioni, che si trovano presenti in lavori di autori diversi, da Angelo Panebianco a Mario Monti, per giungere alle riflessioni più attuali. Da un lato, la crisi mondiale dà nuovo spazio alla riflessione europea, alla sua idea di mercato regolato e sociale; dall’altro, l’Europa si mostra, proprio nella crisi, assai poco unita e assai poco convergente nelle ipotesi di risposta. Ciò non indica una intrinseca debolezza del modello e una sua velleitarietà? E ancora: sì, il modello europeo oggi sembra aver funzionato meglio di altri, ma piuttosto come modello conservativo che capace di innovazione. Per cui torna la domanda generale: senza l’ultimo ventennio, sarebbero entrati nel mercato mondiale centinaia di milioni di uomini? Senza l’indebitamento americano sarebbe stato possibile il più grande processo di innovazione della storia umana? E come influiscono queste domande sui problemi che abbiamo davanti? Sicuramente Habermas non basta.



6. Crisi della globalizzazione è antitesi tra i due modelli? Quali rapporti di forza?

“La crisi finanziaria che ha investito l’economia mondiale non è particolarmente americana, come da alcune parti si è sostenuto, né tanto meno europea. E’per giudizio largamente comune una crisi globale (…). Per navigare dentro la crisi, e per uscirne, gli indirizzi da perseguire non possono non essere multilaterali, ovvero basati su intese fra nazioni o fra aree”65. “Per cui solo il dialogo euro atlantico è destinato a dare qualche risultato sul piano economico e finanziario, dal momento che esistono questioni strutturali che influenzano e influenzeranno direttamente i rapporti tra le due sponde”66. “E allora il soft power, o presunto tale, dell’Unione europea può essere esercitato solo se combinato e supportato con l’ hard power degli Stati Uniti: con i quali, quindi è necessario raccordarsi. Non solo. Proprio perché drammatici sono i problemi da affrontare e profonde le crisi che possono derivarne è indispensabile un’intesa strategica”67.
Domandiamoci: sussiste una chiara consapevolezza di questa necessità tra le élites politiche americane ed europee? Come interpreterà la nuova Amministrazione americana il rapporto fra globalizzazione e crisi? “Nel corso delle audizioni al Senato per la conferma dell' incarico a segretario di Stato, Hillary Clinton ha dichiarato: «L' America non può risolvere da sola le questioni più pressanti, e il mondo non può risolverle senza l'America. Dobbiamo ricorrere a quello che è stato definito il potere intelligente, vale a dire l'intera gamma di strumenti a nostra disposizione». Il potere intelligente rappresenta la combinazione di potere duro e potere morbido”68. Quest’ultima definizione, tutt’altro che scontata e nient’affatto retorica, ha in sé posto connessioni e rapporti tra due visioni che enfatizzano due volti speculari del globalismo, tendenti ad interagire per creare quell’intreccio tra forza e consenso, necessario ad affrontare, tra politica e diritto, i fenomeni in fieri di crisi globale: lungi dal farsi plagiare da un eccesso di entusiasmo acritico atlantista, che immagina il trionfo di Obama come vittoria dell’Europa.
Fra gli altri69, Franco Venturini ha scritto di recente che: “ L’America continuerà a tutelare prima di tutto i suoi interessi, continuerà a ragionare da superpotenza, continuerà a sollecitare la collaborazione talvolta scomoda dei suoi alleati. Non ci sarà una improvvisa europeizzazione degli USA”70. Condivido quest’analisi in quanto ritengo che il nodo della questione non sia questo, di europeizzare o americanizzare; di una prevaricazione di un modello sull’altro. La globalizzazione si presenta, sempre più in modo evidente, con una molteplicità di volti che vengono di volta in volta esaltati nelle diverse interpretazioni degli analisti, che carpiscono e sviluppano tutta la complessità di atteggiamenti configgenti tra loro. Ma il problema da affrontare è piuttosto: quali equilibri e rapporti di forza vanno a delinearsi? E quali necessari spazi bisogna ideare per ridurre il rischio di derive autoritarie insite nella crisi stessa?
Per cominciare a dare un abbozzo di risposta a queste questioni, mi pare opportuno richiamare la recente analisi della crisi svolta da Alesina e Giavazzi. I due studiosi argomentano71 come il protezionismo nazionalista -di cui si avvertono segni diffusi- non sia la risposta adatta a superare la crisi, e che la discesa in campo della volontà politica degli Stati per fronteggiare ‘i mali della globalizzazione’ può ulteriormente aggravare la loro entità. Negare quest’analisi denoterebbe “scarsa conoscenza della storia”72: “sono gli errori della politica a portare al collasso”73. Ecco un primo ostacolo da superare: che la crisi produca protezionismo sulle due sponde dell’Atlantico. Sarebbe un ostacolo duro per una rappresentazione comune degli spazi globali, e potrebbe rappresentare l’avvio di una crisi della globalizzazione dagli effetti imprevedibili. Né basta esorcizzarlo per evitare che si verifichi: in realtà esso sta nelle possibilità effettive degli sviluppi anti-crisi, e rimane il convitato di pietra al quale rivolgere ogni attenzione e da monitorare in tutte le latitudini. La sua influenza sul mondo delle relazioni internazionali potrebbe essere essenziale. Farebbe nascere la possibilità di tendenze verso sovranismi in conflitto tra loro, contro la valorizzazione dell’interdipendenza delle economie, in un dialogo fra economia e mercati.
Rifiutare il protezionismo non coincide, però, con un rifiuto integrale della possibilità di un ritorno del ruolo degli Stati, che non deve avere una valenza necessariamente di difesa protezionista, ma può restituire quegli elementi di politica capaci di scongiurare che la mera tecnica di poteri diffusi si impadronisca del bisogno di una maggiore legittimazione74. E su questo è opportuno prendere qualche distanza dalle posizioni espresse da Alesina e Giavazzi, troppo letteralmente fedeli al liberismo. Per quanto concerne il ruolo degli Stati75, il tema resta aperto e tocca direttamente il nodo di una rappresentazione degli spazi globali nel tempo della crisi.
La questione sarà concentrata sul dilemma del destino di un mondo in cui poli sovrani si affermano con potenze economico-politiche in piena crescita, da Cina e Russia, ad esempio, che sono accompagnate da sistemi interni dispotici e autoritari. Quale ruolo storico e politico-culturale si delinea per l’Occidente? Non potrà avere un valore decisivo quell’equilibrio di civiltà che l’alleanza euro-americana è in grado di presentare sulla scena globale? Un equilibrio che può essere arricchito e definito proprio dal fatto che America ed Europa abbiano ritrovato fra loro le ragioni profonde della loro “inevitabile alleanza”. La forza di un simile equilibrio di civiltà potrà essere l’elemento capace di impedire uno spostamento eccessivo dell’attenzione privilegiata dell’America verso il Pacifico che in Europa si paventa. E qui si misurano due parole, equilibrio e civiltà, dalle molte risonanze nel pensiero europeo.



7. L’alleanza necessaria tra le democrazie occidentali

L’entità della crisi in atto è tale da determinare uno sconvolgimento nella morfologia degli spazi globali: una grave crisi sistemica non solo economico-finanziaria, ma anche politica, che pervade la struttura spaziale del mondo. Stiamo assistendo, da vari anni, a profonde trasformazioni degli equilibri mondiali, ma l’attuale crisi li rende sempre più evidenti, sottolineando la necessità di impostare una governabilità globale che tenga conto dei nuovi rapporti di forza.
La crisi, dunque, rende evidentemente improbabile l’unilateralismo, sostenuto dagli ideologi neoconservatori in lotta con la visione europea, come una politica in grado di plasmare il mondo ad immagine dell’America, e secondo le sue preferenze. Tuttavia, rende ancor più improbabile il narcisismo europeo di Habermas e le sue propaggini pacifiste. Assistiamo ad un ritorno della geopolitica di grandi potenze sovrane, con sistemi politici interni autoritari. Questo immette degli elementi di conflittualità potenzialmente elevati nella geopolitica mondiale nel passaggio alla fase successiva a quella dell’ unilateralismo americano. Il nodo fondamentale sarà comprendere in che modo si articolerà il ridimensionamento della leadership americana in questo coacervo di potenziali leader dotati di sovranità, capaci di decisione in un mondo nel quale un ritorno al protezionismo potrebbe significare oltre un certo limite perfino preludio di guerra76.
In questo frangente si va ad innestare il tema della necessaria “alleanza transatlantica”, superando quelle analisi che delineano un Occidente ineluttabilmente diviso. Influenzare la struttura degli spazi globali in senso democratico può essere quel punto iniziale da cui partire per riuscire ad impostare una pacifica coesistenza77, ma si insinua sempre un dubbio iper-realistico che vede la democrazia come una interferenza che avviluppa invece di semplificare la logica dei rapporti internazionali. Di certo, la democrazia è –e deve essere, pena il proprio declino- anche forza, decisione, consapevolezza della durezza della storia, e deve introdurre gli elementi di un potere culturale e politico in grado di legittimare lo stato d’eccezione. Nessuna visione di vacuo cosmopolitismo può adeguare questo stato di cose. Lo spazio post-crisi sarà segmentato, anche se l’interdipendenza non potrà scomparire.
Non ci sono certezze o inevitabili conseguenze logiche sulla base delle quali la conflittualità debba diventare guerra, ma la competizione globale fra governi democratici e autocratici sarà probabilmente uno dei fattori dominanti del XXI secolo. Infatti come osserva Kagan: “Le grandi potenze stanno schierandosi in modo sempre più netto in un campo o nell’altro. L’India, che durante la guerra fredda era stata orgogliosamente neutrale o addirittura filosovietica, ha cominciato a identificarsi con l’Occidente democratico. Negli ultimi anni anche il Giappone ha fatto grandi sforzi per essere riconosciuto come una grande potenza democratica, unita da valori comuni ad altre democrazie asiatiche e non asiatiche. Il desiderio dell’India e del Giappone di diventare parte integrante del mondo democratico è sincero, ma si inquadra allo stesso tempo in un preciso progetto geopolitico, quale strumento per cementare con altre grandi potenze una solidarietà che potrebbe rivelarsi di estrema utilità nella loro competizione strategica con l’autocratica Cina”78. Lo spazio economico sarà presumibilmente incrinato dai conflitti politici e interstatali, un ritorno delle sovranità riproporrà il tema del rapporto tra forza e consenso, con un punto di mediazione fra il modello della potenza e quello del riconoscimento.
Su questa base, diventa possibile pensare ad un modello politico-culturale di Occidente, che possa fungere da sottosistema internazionale79 fondato sul nesso tra democrazia e mercato, con un forte impegno congiunto tra Stati Uniti ed Europa, tra hard power e soft power. Insomma, da questo punto di vista, Kagan e Habermas andrebbero ambedue in archivio nel loro unilateralismo esattamente simmetrico. Quel rinnovato modello rappresenterebbe anche una sorta di comunità di sicurezza80, in cui i diversi membri condividono l’interesse a cooperare per fronteggiare i lati oscuri della interdipendenza globale destinati ad aumentare anche a causa del ridotto potere dell’America.
La democrazia liberale è la forma di governo più impegnata a sostenere la pace, americani ad europei condividono ampiamente le stesse aspirazioni democratiche e liberali per le loro società e per il resto del mondo, hanno lo stesso interesse comune per un sistema commerciale e di comunicazione aperto, per la non proliferazione di armi di distruzione di massa, nella prevenzione delle catastrofi umanitarie e nel contenimento di quegli Stati che non rispettano i diritti umani e sono ostili a questi valori comuni all’Occidente. Anche se, spesso, si è assistito a lunghi contrasti sulle metodologie attraverso le quali realizzare i comuni valori, un’alleanza81, per una comune agenda transatlantica, non potrebbe che giovare ad una più efficace azione risolutiva a livello globale: l’alleanza è dunque inevitabile?82 Quanti e quali ostacoli potrebbe incontrare? Come può l’unione transatlantica diventare nucleo di un più esteso equilibrio mondiale?



1. 7. Equilibrio di civiltà

E’ necessario ragionare se l’alleanza sia davvero realizzabile, o sia soltanto una sorta di frenesia anti-spengleriana83 tendente ad una ipostasi del sistema politico-culturale di un Occidente nuovamente unito.
In un gioco di specchi e prospettive prendono corpo le riflessioni sul multilateralismo84 che tra le due sponde dell’Atlantico si incontrano e scontrano nei loro capisaldi. Ci si può chiedere se basti il tessuto comune dei principi democratici per garantire l’interpretazione univoca del multilateralismo, o se bisogna immettere altri elementi nella riflessione. E’ probabile che sia proprio così. Faccio un solo esempio, per indicare quanto può diventare complicato rispondere a questo interrogativo. Si va delineando un contrasto America-Europa sulle priorità da dare per rispondere alla grande crisi in atto: al primato che l’Europa vorrebbe attribuire al rilancio di nuove regole per i mercati finanziari, l’America sembra rispondere con una strategia assai più attenta al rilancio dell’espansione dei consumi, il che corrisponde, peraltro, a due atteggiamenti tipici, risalenti nel tempo. Se veramente questo contrasto strategico dovesse approfondirsi, si potrebbero avere riflessi sulla collocazione globale dei partner occidentali, e potrebbe prender forma soprattutto il privilegiamento, per l’America, del rapporto con la Cina, che comunque fa parte delle cose reali che potranno (e forse dovranno) avvenire. Tuttavia, l’ipotesi che regge questo saggio è che ci possono essere ragioni ancor più decisive di quelle ora indicate che permettono di continuare a privilegiare il senso della “alleanza necessaria”; che insomma ci può essere una gerarchia di ragioni fra le quali orientarsi e che lo stesso esempio, a cui ho fatto riferimento, pecca di economicismo.
Intanto, nella logica multilaterale, si deve avere presente una distinzione essenziale fra il multilateralismo istituzionale85 dell’Europa e il multilateralismo a’ la carte degli Stati Uniti. Il primo deve impedire la deriva del cosmopolitismo giuridico (habermasiano-kelseniano86) e assumere forme istituzionali87 condizionate dagli interessi e valori delle potenze. Il multilateralismo a’ la carte degli Stati Uniti risponde, a sua volta, alla logica che ha come principio guida la preferenza della “preponderanza del potere” piuttosto che “l’equilibrio tra nazioni”88. E qui si apre un problema sulla forma dell’alleanza inevitabile, legata a quell’insieme che vogliamo tornare a chiamare “Occidente”, dopo gli anni dell’Occidente diviso.
In questo quadro complicato vorrei provare a utilizzare quell’idea di “equilibrio” fra nazioni maturato nella storia europea e che si può rivisitare nella lettura che ne fece Federico Chabod89, per immaginarne una rappresentazione aggiornata alla situazione presente. La sua attualità sta proprio nel fatto che la tendenza futura potrebbe essere non verso un improbabile globalismo cosmopolita, quanto verso una relazione (un equilibrio, appunto) fra potenze, Stati e non-Stati. La linea di tendenza, insomma, sembra che vada verso elementi di “de-globalizzazione” ormai già quantificabili, e una simile eventualità, nell’immediato molto realistica, spinge a rivalutare piuttosto l’idea di equilibrio che quella di cosmopolitismo, comunque intesa.
Che l’idea di equilibrio possa essere recuperata, lo indica anzitutto il ritorno degli “Stati-nazione”90, dopo la lunga fase della loro svalutazione, insieme al persistere della loro interdipendenza91. Chabod, quella idea, l’aveva rappresentata in chiave politica, e si potrebbe dire –ironicamente- in preveggente chiave “anti-Habermas”, laddove lo storico ricorda l’illusione -oggi, appunto, ritornante- dei giuristi settecenteschi di “legalizzare la vita politica, trasformare in una sorta di statuto fisso e rigido quel che era stato sin allora principio politico sempre vivo, sì, ma sempre mutevole e fluido”92. Una illusione che rinnovava quel “drammatico conflitto tra politica e diritto (…) conflitto di importanza base nella storia europea moderna”93. Contro “l’astrattezza” del principio giuridico, Chabod pone “l’elasticità dello strumento diplomatico, il cui fondamento resta pur sempre il principio dell’equilibrio”94, ma in Europa questo principio venne vissuto come intessuto da una relazione fra Stati, legati da comuni principi, e si potrebbe dire dal senso di un’unica civiltà, “sulla base di comuni principi politici, (fra) questioni internazionali e vita interna dei paesi costituenti il corpo politico europeo”95. Equilibrio e civiltà comune, politica e principi che si richiamavano a vicenda. Equilibrio, insieme dinamico e regolato, e rafforzato dalla comunanza di civiltà96. Non ci allontana, radicalmente, questa descrizione delle cose, dalla situazione di oggi?
Intanto, per abbozzare una prima risposta a questo dubbio, si può osservare che “equilibrio” fu, anzitutto, legato alla “caduta” dell’unilateralismo dell’impero, il che tende ancora a far curioso corto-circuito con la situazione presente che germina dalla fine dell’unilateralismo americano, anche se quest’ultimo non lo si voglia definire “imperiale”. Scrive Chabod: “Affinché possa sorgere una dottrina basata sul concetto di equilibrio, devono sostituirsi all’unità dell’impero, gli stati nazionali, ben differenziati, ben consci della loro pienezza di sovranità”97 e insieme consapevoli della loro interdipendenza, che era, a un tempo, politica e di principio. Il ritorno dei sovranismi statali – e della loro interdipendenza- oggi può riattualizzare l’idea di un equilibrio dinamico, e, in questo senso, riportare al presente un pensiero costitutivo dell’Europa moderna, senza nessuna pretesa eurocentrica che già nell’Ottocento si andava esaurendo, ma riarticolandone la possibilità, e rinnovandone l’idea, come una sorta di principio guida dell’orizzonte chiamato “Occidente” e della sua proposta globale.
Proverò a portare qualche altro argomento a favore di questa ipotesi, non prima di aver ribadito che, dal canto suo, la politica estera statunitense è poco sensibile alla - non conosce la - tradizione dell'equilibrio tra le potenze: sente ancora, da un lato, le originarie tentazioni isolazioniste, mentre, dall'altro, si ispira alla tradizione wilsoniana della missione universale di un' America sempre pronta a intervenire negli affari mondiali, a costo di qualsiasi sacrificio, diceva Kennedy, per promuovere ovunque la libertà, la democrazia, e anche il mercato. Tuttavia, anche se l'America resta la sola superpotenza economico-politica, il vero fatto nuovo oggi è che essa non può più ne' dominare il mondo, ne' ritirarsi dal mondo. Deve impegnarsi nel nuovo sistema dell'equilibrio delle potenze e della realpolitik, al quale è mal preparata98. E’ possibile perciò che aggiornare al presente l’idea di “equilibrio” possa aiutare ad arricchire una forma più allargata di multilateralismo, e dar forma, insieme realistica e ideale, all’alleanza dell’Occidente. Sempre che l’America non intenda liberare la propria politica estera da ogni vincolo valoriale, disegnando un nuovo “bipolarismo delle reciprocità”, con una Cina che diventa condizione-condizionata dello sviluppo americano. Tuttavia, credo abbia ragione chi dice che, in tal modo, l’Occidente rinuncerebbe a se stesso, indebolirebbe la propria stessa ragion d’essere. E’ dunque una ipotesi che può avere un suo parziale realismo, ma che lascio ai margini del mio ragionamento. Peraltro, la quantità di realismo che contiene, sarà anche legato al ruolo che si riuscirà a dare l’Europa, ma questo dubbio meriterebbe una riflessione a parte.
Bisogna allora vedere se e come il tema dell’equilibrio può tornare a incontrare quello della civiltà; come il tema di un nuovo equilibrio, fra le due sponde dell’Atlantico e fra esse e il mondo globale, può essere influenzato e definito dal riconoscimento di una civiltà comune, e più in generale dall’essere, l’Occidente, elemento di una civiltà disposta a “riconoscere”, pronta ad essere, insieme una civiltà forte e una civiltà aperta. Ci possiamo domandare: una civiltà condivisa di sistemi politici liberaldemocratici potrà essere fonte di accordi e non di conflitti mortali come quelli preconizzati da Samuel Huntington99? Potrà influenzare altri sistemi di identità e costruire tessuti cooperativi? Potrà, il rafforzamento di Occidente, costringere “gli altri” a non chiudersi in bloccati recinti identitari?
In un sistema multiplo (o multipolare), l’organizzazione spaziale è caratterizzata da un pluralismo di poteri, che possono assumere la forma di poli cooperativi, oppure anche duramente competitivi. Seguendo una visione americana, riflessa nelle analisi di Samuel Huntington, quello che manca, a favore della trasposizione del concetto di equilibrio europeo al sistema globale, è l’impossibilità di riproporre l’idea di una comunanza culturale e di eguaglianza giuridica delle varie sovranità degli stati-nazioni che si trovano ora a fronteggiare relazioni ordinate gerarchicamente. “La politica globale si è evoluta verso la “multi-civilizzazione”. Francia, Russia e Cina potrebbero avere interessi comuni nella sfida all’egemonia degli Stati Uniti, ma i loro differenti sistemi culturali gli rendono difficile poter organizzare una coalizione efficace”100. Questa interpretazione sembra porre al centro la categoria del conflitto culturale –scontro fra civiltà, secondo la formulazione canonica- che non riesce a trovare alcuna mediazione giuridico-politica, in un mondo multipolare che caratterizzerà il XXI secolo, in cui le maggiori potenze saranno inclini allo scontro e alla competizione l’una contro l’altra, e gli Stati Uniti disporranno del maggior potere all’interno di un sistema multipolare.
In questo modo si insinuano ulteriori dubbi: ha possibilità di radicarsi nell’organizzazione dello spazio globale, il riconoscimento di civiltà, muovendo dalla forza di un Occidente unito, come condizione di un mondo multipolare o multilaterale? Il riconoscimento di civiltà implica una ricerca di parità effettiva nell’orizzonte dell’equilibrio, oppure è una rappresentazione allargata dell’equilibrio occidentale?
Sembrerebbe esserci un punto, in cui la connessione fra equilibrio e civiltà, collocata all’interno di Occidente, possa guardare oltre di sé, e svolgere un ruolo che supera l’essenziale e più canonico (ma non poco importante, s’intende) livello diplomatico. Il sistema delle diseguaglianze mondiali è un ostacolo serio al tentativo di equilibrare il mondo, anche Adolfo Battaglia101 lo ricorda. Esso poggia, per un aspetto di non poco conto, sulla debole costituzionalizzazione degli spazi nazionali e dunque globali, su economie dispotiche, su sovranismi retti da un tessuto ridotto di cittadinanza. Un equilibrio, che nasca avendo come punto di riferimento il comune sentire di una civiltà liberal-democratica, può favorire l’addolcimento costituzionale degli spazi, la presa di coscienza di una “interdipendenza civile” che rafforza il senso di un mondo, da vivere in comune anche se si deve muovere dal realismo delle sue separazioni. Lo stesso tema dei diritti umani –la Cina detiene ancora il primato della loro negazione- non può essere trascurato, come un flatus vocis umanitario, perché può divenire uno dei focus delle relazioni internazionali, in un mondo in cui comunque sarà impossibile negare l’interconnessione. Democrazia e diritti umani sono stati il fondamento delle istituzioni del dopo-guerra, e l’Occidente vi ha avuto un ruolo decisivo: che cosa avverrà se questo ruolo si diluisse nella logica di un rigido realismo?
In questo caso c’è solo da immaginare la sfida possibile dell’Occidente, in un mondo tendente a una fase di “de-globalizzazione” e che, dunque, si allontanerà, per quanto riguarda il rapporto Europa-America, dal quadro disegnato, solo pochi anni fa, nel dibattito Kagan-Habermas. Il loro confronto aveva per base due letture della globalizzazione in espansione, con le sue diverse prospettive: unilateralismo globale o cosmopolitismo, ugualmente per sua natura, globalizzato. E’ proprio questo dato assai verosimile della de-globalizzazione, e comunque del ritorno degli Stati -già in atto secondo le analisi degli economisti02 - a spingere a ragionare verso espressioni come “equilibrio multilaterale”, che non prevedono una crescita esponenziale dei criteri di sovra-nazionalità e di regolazioni universali, ma che comunque non potranno prescindere dall’interdipendenza.
La sfida dell’Occidente è di riuscire a collocarsi in quell’equilibrio, per poterlo influenzare, non solo nel campo strettamente economico-finanziario, ma anche in quello della tendenza verso la costituzionalizzazione103 delle relazioni internazionali, dove potrebbe giocare un ruolo l’idea, che ho argomentato, di un equilibrio legato strettamente ad una lettura in chiave di civiltà. Un pezzo della vecchia storia d’Europa eventualmente capace di ridar vita al mondo d’oggi e che contribuisce a ricostruire l’idea stessa di Occidente incontrando la forza ideale e politica di una America che comunque porterà sulla scena del mondo la forza del suo universalismo democratico e della sua capacità di difenderlo.




NOTE
*Vorrei ringraziare l'IISSF per avere in parte contribuito a sostenere il mio lavoro di ricerca su questi temi all'estero.*
1 Ispirata alle riflessioni dei saggi di A. Battaglia e I. Santoro su «L’Acropoli» 9 (2008), oltre che dall’editoriale di G. Galasso, sullo stesso numero, vorrei contribuire all’approfondimento del tema delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. L’Occidente diviso non è categoria teorica appropriata, anche alla luce della crisi globale che dimostra l’importanza determinante della convergenza di quell’insieme politico-culturale che si chiama “Occidente”. G. Galasso, Stati Uniti e il loro nuovo presidente; A. Battaglia, La fine del ciclo europeo e la crisi finanziaria mondiale: un Atlantico più stretto; I. Santoro, L’instabilità globale e i nuovi scenari in «L’Acropoli». Peraltro, l’interesse de «L’Acropoli» per i temi dell’Europa, della storia dell’Occidente e dei rapporti transatlantici è costante nella storia della rivista. Ricordo negli ultimi anni, fra gli interventi e saggi più significativi: G. Galasso, Europa – luglio 2004, in «L’Acropoli», 5 (2004), pp. 349-352; Id., Bush, l’America, l’Europa, in «L’Acropoli», 5 (2004), pp. 605-610; Id., Europa: la via dei trattati, in «L’Acropoli», 8 (2007), pp. 657-661. I saggi di E. Capozzi: Relativismo, verità, libertà. Un dibattito sulla “civiltà occidentale”, in «L’Acropoli», 5 (2004), pp. 486-503; Id., Occidente: identità culturale, modelli politici, stereotipi ideologici, in «L’Acropoli», 6 (2005), pp. 513-547. E ancora: A. Battaglia, Il bipolarismo del Duemila e il ruolo dell’Europa, in «L’Acropoli», 6 (2005), pp. 9-17; A. Levi, L’Europa tra due ere, in «L’Acropoli», 8 (2007), pp. 311- 319.^
2 Esemplare la lettura data da G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004.^
3 Per andare alle radici del confronto-scontro sulla diversa interpretazione della congiuntura globale ho tenuto conto dell’analisi dei documenti: Laeken Declaration on the future of the European Union (15 December, 2001) and The National Security Strategy of the United States of America (17 September, 2002).^
4 Si possono delineare almeno due diverse filosofie di fondo che ispirarono la visione politica dell’Amministrazione Bush (2001- 2008) riconducibili, da un lato ai sostenitori della tradizione realista, liberista e talora isolazionista del partito repubblicano, e dall’altro al gruppo dei neocons, promotori di un nuovo conservatorismo che mirava a preservare il ruolo guida degli USA attraverso la promozione del modello americano di democrazia e libertà. I neoconservatori americani sembrerebbero, secondo un’analisi approssimativa, sostenitori di un realismo ortodosso. La loro concezione del mondo trae origine da una vera e propria teoria politica. Bisogna risalire a connessioni storiche dei tempi della Guerra fredda, in particolare alla Convenzione nazionale del Partito repubblicano del 1976, quando la sfida lanciata da Ronald W. Reagan a Gerald Ford per la nomina presidenziale da parte del Grand Old Party sembrò sul punto di fallire. Le forze reaganiane si coagularono contro il segretario di Stato dell’amministrazione Ford, Henry Kissinger, e contro la sua politica estera “realistica” di détente, riuscendo a far inserire nella piattaforma programmatica repubblicana il proprio progetto di politica estera al posto di quello preferito dall’amministrazione in carica. La piattaforma programmatica di Reagan s’intitolava Morality in Foreign Policy, la morale in politica estera. Nel 1976 George W. Bush jr. appoggiava Ford allo stesso modo di suo padre. Richard Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz erano membri dell’amministrazione Ford e Cheney che era a capo dello staff della Casa Bianca, dirigeva le operazioni miranti ad estromettere completamente Reagan, mentre Condoleeza Rice studiava per il dottorato, elaborando quei lavori sull’Unione Sovietica e sull’Europa orientale molto apprezzati dal vice di Kissinger, Brent Scowcroft. Tutti questi autorevoli rappresentanti della politica estera del primo mandato dell’amministrazione Bush si definiranno reaganiani. La svolta è avvenuta nel momento in cui Reagan ha vinto le elezioni alla presidenza, poi la rielezione, infine la Guerra fredda. La Dottrina Reagan, come il principale strumento per “esportare la Rivoluzione americana”, ha rappresentato uno strumento per garantire nel miglior modo possibile la sicurezza nazionale, e si è rivelato il più efficace tra gli strumenti a disposizione in quel momento storico, in quanto mezzo per diffondere la democrazia nel mondo. «Perché la rivoluzione è stata “merito” di Reagan? Innanzi tutto perché Reagan l’ha suggerita, promossa, con la forza della retorica […]. In effetti la più discussa espressione del presidente Reagan, la sua definizione dell’URSS quale “impero del male”, è ancora considerata in molti circoli democratici dell’Europa centro-orientale null’altro che un’attestazione dell’ovvio […]. Ma poiché la politica delle nazioni non è mossa soltanto dalla retorica, non mancano altri, più concreti gesti del governo americano che rendono credibile la versione del “merito di Reagan”. Uno di questi fu l’installazione nell’Europa occidentale dei missili a medio raggio Pershing II e dei missili Cruise, in adempimento dell’impegno che l’amministrazione Carter aveva preso con la NATO alla fine degli anni Settanta»; G. Weigel, L’ultima rivoluzione. La chiesa della resistenza e il crollo del comunismo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 27-28.^
5 Per una più ampia visuale sul dibattito dei neoconservatori americani, si consulti: J. Lobe e A. Oliveri, I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Milano, Feltrinelli, 2003; P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari, Laterza, 2003; G. Borgone, La destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons, Roma-Bari, Laterza, 2004; C. Rocca, Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori, Milano, I Libri del Foglio, 2004; F. Rampini, Tutti gli uomini del presidente Gorge W. Bush e la nuova destra americana, Roma, Carocci, 2004; W.R. Mead, Potere, terrore, pace e guerra. La strategia degli USA in un mondo instabile, Milano, Garzanti, 2004,(pp. 85-106); G. Mammarella, Liberal e conservatori. L’america da Nixon a Bush, Roma-Bari, Laterza, 2004; A. Simoni, G.W. Bush e i falchi della democrazia. Viaggio nel mondo dei neoconservatori, Reggio Calabria, Falzea, 2004; F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, Lindau, 2005; F. Felice, Prospettiva “neocon”. Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005.^
6 Per una discussione e elaborazione del ‘modello realistico’ nella teoria delle relazioni internazionali, si veda K.N. Waltz (1979) Theory of International Politics, Addison-Wesley, Reading.; J.J. Mearsheimer (2001) The tragedy of Great Power Politics, New York: W.W.Norton; H. J. Morgenthau (1973) Politics among nations. The struggle for power and peace, NewYork: Knopf; R. Aron(1962) Paix et Guerre entre les nations, Calmann-Lévy, Paris; E. H. Carr (1962) The Twenty Years’ Crisis, 1919-1939: An Introduction to the Study of International Relations, London, Macmillan; R. Gilpin (1975) War and Change on World Politics, Cambridge University Press, Cambridge.^
7 Kagan ha un’idea molto alta della storia americana e sottolinea particolarmente il ruolo di Wilson in quella storia. La sovraesposizione dell’America non costituisce un rischio per il mondo. Anzi, è la garanzia che un ordine liberale mondiale si affermerà sempre più in un intreccio di realismo e di idealismo, che sarebbe a suo giudizio l’intreccio vincente da sempre, e con rare eccezioni, nella storia americana. Si consulti: W. R. Mead (2002) Special Providence: American Foreign Policy and How it Changed the World, New York: Routledge.
8 J. Habermas, L’Occidente diviso, Roma-Bari, Laterza, 2005.^
9 Jürgen Habermas ha contribuito maggiormente all’elaborazione di una nuova idea di Europa. Soprattutto dagli anni ottanta, il suo lavoro è dedicato quasi esclusivamente a questo tema. Nella prima fase del suo pensiero le sue fonti di ispirazione sono state prevalentemente Hegel e Marx, nell’interpretazione data dalla scuola di Francoforte. Tra i suoi più importanti lavori vorrei ricordare alcuni testi chiave per la comprensione filosofica su questi temi: L'inclusione dell'Altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998; Morale, Diritto, Politica, Edizioni di Comunità, Milano, 2001; La costellazione postnazionale. Mercato Globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano, 2002; L’Occidente diviso, Laterza, Roma-Bari, 2005.^
10 R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2003.^
11 Ibidem, “Gli Americani provengono da Marte, gli Europei da Venere” afferma Robert Kagan nel noto saggio che destò molta attenzione tra i neoconservatori nell’amministrazione Bush. Kagan distingue gli Americani “hobbesiani” dagli Europei “kantiani”.^
12 J. Habermas, L’Occidente diviso, op. cit.^
13 Si ricorda che tale dottrina è stata oggetto di analisi nel documento strategico-politico della National Security Strategy. The White House, The National Security Strategy of the United States of America, Washington DC, September 17, 2002, www.whitehouse.gov/nsc/nss. E’ interessante ricordare che ‘National Security’ era la parola chiave che gli anni quaranta mettevano al centro della strategia internazionale americana. Si tratta di un concetto sorto tra il 1938 e il 1941, quando l’espansionismo aggressivo delle dittature europee e del militarismo giapponese prospettò non tanto un immediato pericolo per il territorio e la popolazione degli Stati Uniti, quanto una trasformazione drastica e inaccettabile dello scenario mondiale. Nel linguaggio geo-politico che veniva allora emergendo, la minaccia fu individuata nella potenziale dominazione delle risorse della massa continentale euro-asiatica da parte di un raggruppamento di potenze ostili. Nel linguaggio più consolidato delle idee e dei valori politici, nel codice linguistico proprio del wilsonismo, la minaccia era quella del progressivo soffocamento della democrazia da parte delle dittature. Per approfondimenti su tale argomento si veda F. Romero, Il wilsonismo, in Parole chiave n. 29/2003 (in particolare da p. 181).^
14 J. Habermas, Ibidem, (pp. 191-197).^
15 Il neoconservatorismo è un progetto intellettuale che si esprime in una coerente visione economica, politica e culturale, cementata da principi comuni e da una precipua prospettiva culturale. I neoconservatori hanno dato vita ad una forza intellettuale di primissimo piano nella storia dei filoni culturali americani, la cui prospettiva ha rappresentato una ventata di aria fresca nell’angusta casa conservatrice e l’occasione concreta di iniziare una nuova stagione politica, felicemente inaugurata nel 1980 con l’elezione di Ronald Reagan a Presidente. “(…) negli Stati Uniti, il termine “nuova destra” venne coniato intorno al 1980 per indicare la coalizione che sosteneva Ronald Reagan, composta da quattro o cinque differenti famiglie di conservatori. Tutti questi sforzi ad opera dei movimenti conservatori hanno mostrato una nuova vitalità in quegli anni, e la confluenza dei suddetti movimenti all’interno di una nuova maggioranza, dopo anni di divisioni, è stata motivo di nuovi stimoli”; intervista di F. Felice a M. Novak in M. Novak, Spezzare le catene della povertà. Saggi sul personalismo economico, Liberilibri, Macerata 2000, p. 114.^
16 La nuova generazione di neoconservatori è rappresentata da intellettuali come Robert Kagan, William Kristol, Richard Perle, David Früm, Victor Davis Hanson, Joshua Muravchik, Daniel Pipes, solo per richiamare alcuni dei grandi nomi implicati nelle decisioni di politica estera; Myron Magnet, Brian Anderson, Roger Kimball, Charles Murray, solo per citarne alcuni impegnati sul fronte della politica interna.^
17 R. Kagan, “Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità”, Mondadori, Milano, 2004.^
18 Ibidem, pp. 5-6.^
19 Secondo Hobbes è il conflitto di tutti contro tutti, dell’homo homini lupus, che crea il potere. Egli enfatizza l’irrimediabilità del conflitto; la paura; la morte; il potere come unico elemento per poter realizzare quella conservazione della vita che, l’individuo solo, preso nelle maglie di questo conflitto aspro e irrimediabile, chiede al potere stesso. Infatti, Hobbes ritiene che“(…) per ciascuno la speranza della propria sicurezza e conservazione è riposta nella facoltà di assalire per primi, sia apertamente sia nascostamente, il prossimo, o con le proprie forze o con la propria astuzia.(…) finché non riceve una garanzia che lo assicuri delle offese altrui, ciascuno mantiene il diritto primitivo di provvedere alla propria difesa con qualsiasi mezzo, cioè il diritto su tutto, o diritto di guerra”. T. Hobbes (1642) De Cive, a cura di N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1982; pp.93-94.^
20 J. Habermas, L’Occidente diviso, op. cit.;pp. 81- 85.^
21 Ivi, p. V.^
22 Ivi, p. 108.^
23 Ivi, p. 15.^
24 Ivi, p. 24.^
25 Ivi, p. 196-197.^
26 Il tema che oggi più attira l’attenzione di studiosi, intellettuali e dell’opinione pubblica internazionale attiene alle condizioni di legittimità dell’uso della forza militare. Uno dei principali sviluppi del diritto internazionale consuetudinario nel corso della seconda metà del XX secolo ha portato all’affermazione del divieto generale della minaccia e dell’uso della forza armata nei confronti della sovranità territoriale e dell’indipendenza politica degli stati, corrispondente nei suoi contenuti a quello espresso dall’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. La formazione di una norma consuetudinaria sul divieto dell’uso della forza è stata autorevolmente affermata dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza sulle attività militari e paramilitari degli Stati Uniti in Nicaragua e trova conferma in numerosi trattati, rilevanti prese di posizione dei governi, atti di organizzazioni internazionali nonché nell’opinione pressoché unanime della dottrina; vedi: B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2002.^
27 R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004 (p. 5-7).^
28 H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale (1920), Milano, Giuffrè, 1989.^
29 Ivi, pp. 27-28.^
30 Su questo punto si rimanda al paragrafo sulla critica al modello europeo-habermasiano. Su Schmitt, Habermas scrive che “(…) per lui e i suoi compagni di fede fascista la lotta esistenziale per la vita e la morte possedeva una singolare aura vitalistica. Perciò Schmitt ritiene che la sostanza della politica, l’autoaffermazione dell’identità di un popolo o di un movimento, non si lascia domare normativamente, e che ogni tentativo di addomesticamento giuridico non può non imbarbarire moralmente. Anche se il pacifismo legale potesse aver successo, ci priverebbe dello strumento essenziale per il rinnovamento di un’esistenza autentica”. Si veda: J. Habermas, L’Occidente diviso, op. cit.; p. 97.^
31 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. La democrazia liberale è il culmine dell’esperienza politica?, Milano, Rizzoli, 1992.^
32 Ivi, Their Target: The Modern World, in Neewsweek, 13 dicembre 2001.^
33 F. Cerutti, Identità e conflitti. Etnie nazioni federazioni, Milano, Franco Angeli, 2000.^
34 B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002.^
35 Ivi, p. 303.^
36 R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, op. cit.; p. 62.^
37 C. Krauthammer, L’era unipolare e la sua prima crisi, in «Aspenia», n. 20/2003; p. 45.^
38 E’ significativa l’acuta riflessione di Michael Cox, professore alla London School of Economics, che in una conferenza del 17 marzo 2005 alla Maison de la Mediterranee di Napoli, ha affermato che la diffidenza rispetto alle istituzioni di governance globale sia un elemento insito nella naturale propensione di una grande potenza nell’ambito delle relazioni internazionali a rigettare qualsiasi limite al proprio potere. M. Cox utilizza l’esempio storico dell’impero romano che non ha mai cercato di autolimitare il proprio potere (si consulti il sito internet www.euromedi.org per l’accesso alla documentazione della conferenza).^
39 Per un approfondimento sui principi del New American Century Project: www.newamericancentury.org ^
40 R. Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni, Milano, Mondadori, 2008; opera originale: The Return of History and the End of Dreams, Knopf Publishing Group, New York, 2008.^
41 Ivi, p. 64.^
42 L’internazionalismo americano non è una dottrina formalizzata e immobile. Essa si è costituita in un corpo di idee e in robusti assunti culturali nell’arco di un secolo che ha posto di volta in volta sfide contingenti e specifiche agli Stati Uniti, e attraverso quelle successive emergenze è divenuto progetto politico, strategia e, soprattutto cultura radicata e condivisa. Il wilsonismo è infatti un’acquisizione storica incrementale, che parte dalle riflessioni wilsoniane sulla vulnerabilità dell’interdipendenza e sui modi di difenderla per evolvere poi attraverso il continuo confronto con molteplici, mutevoli sfide e possibilità.^
43 Ivi, p. 65.^
44 Ibidem^
45 Ivi, p. 66.^
46 Ibidem.^
47 Ivi, pp. 111-112.
48 Osservazioni interessanti in A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008.^
49 J. Habermas, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Milano, Feltrinelli, 1999; in particolare si veda la parte dedicata alla costellazione nazionale e il futuro della democrazia.^
50 Ivi, L’Occidente diviso, op.cit.; p. 115.^
51 Ivi, p. 121.^
52 Ivi, p. 122.^
53 Si pensi a quel testo di Kant che va a descrivere l’esistenza di “(…) un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere. Nessuno in origine ha maggior diritto di un altro ad una porzione determinata della terra”. I. Kant (1795) Per la pace perpetua, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1965; Sezione seconda, p. 302.^
54 J. Habermas, L'Occidente diviso, cit.; p. 124.^
55 Ivi, p. 125.^
56 Personalmente, intendo muovere dalla tesi di J. Weiler che individua uno squilibrio tra una dimensione forte della sovra-nazionalità normativa (ovvero: legalità, diritto) e una dimensione debole della sovra-nazionalità decisionale (ovvero: legittimità, politica). E’ all’interno dello squilibrio fra diritto e politica che si stabilisce la crisi di legittimità, la difficoltà di un riconoscimento del sistema. Se si pensa all’esperienza che ha costruito gli Stati-nazione europei, si vede che proprio l’equilibrio fra quei due termini ha fatto sì che essi diventassero contenitori della democrazia, sintesi di legittimità e legalità (Max Weber). Ora, pur senza immaginare che le vie dell’Europa debbano ripercorrere quelle stesse vie percorse dagli Stati, mi sembra si possa concludere che la divaricazione fra legalità e legittimità (diritto e politica) è un problema da affrontare analiticamente e risolvere nella costruzione pratica del sistema. J. Weiler (1985) Il sistema comunitario europeo: struttura giuridica e processo politico, Bologna, Il Mulino.^
57 Per fare sempre un riferimento alle fonti classiche, mi richiamo alla interpretazione che ne dà, nella seconda metà del seicento, Spinoza. Si veda in particolare: B. Spinoza (1971) Trattato teologico-politico, a cura di S. Casellato, Firenze, La Nuova Italia; XVIII, p. 327. In breve, vorrei solo ricordare che la risposta teorica di Spinoza fu molto convincente e, allo stesso tempo importante per il percorso della civilizzazione dell’umanità, perché voleva anch’essa dimostrare che tutto un mondo non era rappresentato solo dal conflitto brutale (che mi obbliga ad uccidere per non essere ucciso:una sorta di guerra preventiva continua) ma c’era dentro anche la relazione tra legge, libertà e potere. Il patto, in Spinoza, ha la dimensione del patto sinaitico, non è il contratto tra gli individui: è il patto teologico-politico, perciò emerge il tema della libertà con il suo modo di concepire il rapporto tra legge, libertà e patto.^
58 Mi riferisco all’analisi delle categorie oppositive che si sono create nel Novecento l’una come risposta estrema all’altra, in relazione all’Europa e con riferimento all’Unione europea, come processo di costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici del continente. Le categorie di comprensione sono Stato potenza contro Stato di diritto. Il primo s’identifica con lo Stato totalitario, con una forte componente “decisionista” che rifiuta lo Stato di diritto. Quest’ultimo diviene centrale nell’organizzazione spaziale dell’Unione europea, nella seconda metà del Novecento, e in particolare, diviene il principio ordinatore che segue il disordine degli spazi mondiali del post-89. Nel 1993 al Consiglio europeo di Copenaghen, i Capi di Stato e di Governo dell’U.e. stabilirono formalmente che lo Stato di diritto fa parte dei criteri di appartenenza e di identità dell’unione politica. Dunque, si comprende già la fondamentale importanza attribuita alla parola “diritti”, che entra a far parte di atti politici e dei trattati (si ricordi l’art. 6 T.U.E.) per dare fisionomia a questa identità politico-giuridica, per decidere chi può far parte di essa e a quali condizioni.^
59 J. Habermas, L’Occidente diviso, cit.; p. 54.^
60 Id., La costellazione postnazionale, cit.; pp. 29- 101.^
61 Id., Ordine planetario internazionale. Dopo la bancarotta, in «Die Zeit», del 6 novembre 2008, n. 46; intervista condotta da Thomas Assheuer.^
62 Id., L'inclusione dell'Altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998.^
63 Id., La costellazione postnazionale, op. cit., pp. 67-69.^
64 Id., Ordine planetario internazionale, op. cit.^
65 A. Battaglia, La fine del ciclo europeo e la crisi finanziaria mondiale: un Atlantico più stretto, op. cit., p. 477.^
66 M. Bagella, Forum su: la Cina oltre i Giochi olimpici, «La Voce Repubblicana», 2 agosto 2008: citato da I. Santoro, L’instabilità globale e i nuovi scenari, op. cit., p. 489.^
67 I. Santoro, op. cit., p. 490.^
68 J. Nye, L’era del potere “intelligente”, in «Corriere della sera», 25 gennaio 2009. E’ interessante quando si spiega che: «Per esercitare il potere morbido, un Paese deve far leva sulla sua cultura (in tutti gli aspetti più invitanti); sui suoi valori (se encomiabili e non rinnegati nella pratica); e sulla sua politica (quando appare condivisibile e legittima). Certo, il potere morbido non è la panacea […]. E il potere morbido non è affatto riuscito a convincere i talebani a ritirare il sostegno ad Al Qaeda negli anni Novanta. È stato necessario ricorrere al potere militare nel 2001 per farli desistere. Ma altri obiettivi, come la promozione dei diritti umani, sono più facilmente raggiungibili con l' impiego del potere morbido […]. Non è possibile promuovere la democrazia e lo sviluppo della società civile con la minaccia delle armi. La consuetudine di rivolgersi al Pentagono per risolvere particolari situazioni genera l' immagine di una politica estera eccessivamente militarizzata. Il governo Obama dovrà generare potere morbido». Sembrano interessanti queste riflessioni, anche perché vengono da un intellettuale americano, Joseph Nye, che già aveva scritto in questa direzione, anni fa, ai tempi della prima Amministrazione Bush (2001-2005), si veda: J.S. Nye, Soft Power. Un nuovo futuro dell’America, Torino, Einaudi, 2005; Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Torino, Einaudi, 2002. ^
69 M. Dassù, Gli Usa non faranno sconti alla Ue, in «Corriere della sera», 22 gennaio 2009.^
70 F. Venturini, Le nuove ragioni dell’Occidente, in «Corriere della sera», 7 novembre 2008.^
71 A. Alesina e F. Giavazzi, La crisi. Può la politica salvare il mondo?, Milano, Il Saggiatore, 2008.^
72 Ivi, p. 27.^
73 Ivi, p. 12.^
74 Il modello europeo di economia sociale di mercato sembra essere valorizzato dalla crisi, perché interpreta in modo soft la globalizzazione economica, fornendo delle risposte ai problemi di protezione sociale dovute all’aumento della disoccupazione che potrebbe fomentare tensioni sociali inedite. Il modello economico europeo va comunque visto insieme a quello americano, grazie al quale ha potuto svilupparsi e garantire la crescita globale. Il problema principale dell'economia sociale di mercato è di stabilire un soddisfacente ordine di libertà e di uguaglianza. Nel programma di Ludwig Erhard, il ministro dell'economia e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, l'economia sociale è lo scopo che si consegue tramite il mercato, che opera in qualità di mezzo: il mercato è sempre un mezzo, mai un fine. La concezione di Erhard, ma prima di lui di Eucken, di Röepke, di Grossman-Dörth, di Böm, di Rustov e dello stesso Adenauer, di un'economia sociale di mercato si strutturò su questi tre punti: I) impedire al potere politico di essere sorgente arbitraria del potere; II) sopprimere ogni struttura monopolistica; III) fare prevalere in ogni caso la libertà e la concorrenza.^
75 Il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman riflette, in una lettera al Presidente Obama, sull’esigenza di gestire la crisi attraverso mutamenti coraggiosi per la rinascita del modello economico americano. P. Krugman, Presidente, Roosevelt non basta, in «La Stampa», 20 gennaio 2009.^
76 Non dimentichiamo che dopo la crisi del 1929 la depressione esplose per un eccesso di interventismo statale. C’era la crisi finanziaria, poi arrivò la depressione per un eccesso di regolamentazione statale e fu la guerra che risolse la depressione americana. «Protezionismo uguale guerra». «Protezionismo e bellicosità sono sempre andati di pari passo.(…) Quando allo scambio pacifico si sostituisce la chiusura, la protezione del proprio monopolio su certe rotte commerciali, o, ancora, si limitano le importazioni, la storia insegna che presto ci sarà una guerra(…). Anche i sondaggi di opinione rilevano che protezionismo economico, nazionalismo e xenofobia vanno di pari passo. Un recente lavoro di ricerca di Kevin H. O’Rourke e Richard Sinnott, mostra che chi è favorevole al protezionismo tende ad essere nazionalista (anche in senso aggressivo), sciovinista e prova avversione verso gli stranieri […] E’ un risultato importante perché rivela che, al di là degli interessi economici di questo o quel settore dell’economia, le tendenze protezionistiche possiedono forti componenti culturali che nulla hanno a che vedere con l’economia. Schematizzando, questi sondaggi sembrano dirci che esistono due tipi di persone: chi vuole chiudersi nella sua identità nazionale e vede il resto del mondo come un potenziale nemico e chi si sente un cittadino del mondo, aperto allo scambio sia economico sia culturale. La storia del capitalismo e dell’umanità nel suo complesso ci insegna che quando il secondo tipo di atteggiamento prevale, nel mondo ci sono meno guerre e l’economia prospera. Pace e prosperità, come si suol dire»: Come precisano A. Alesina e F. Giavazzi, op. cit., pp. 94-96.^
77 Su questo tema è interessante la riflessione di A. Panebianco, La democrazia e la guerra, in (a cura di Marco Cesa) Le relazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2004; pp. 369-401.^
78 R. Kagan, L’asse della democrazia e l’associazione degli autocrati, in Il ritorno della storia e la fine dei sogni, op. cit., pp. 70-104; in particolare:pp. 94-95.^
79 Accanto al sistema occidentale è possibile individuare altri sottosistemi come quello asiatico, mediorientale e africano. L’Asia è il sottosistema che meglio ricorderebbe l’Europa del XIX secolo, dove la guerra tra rivali strategici (Cina, Giappone, India e Russia) non è un pericolo imminente, anche se non rappresenta un evento inconcepibile. In questo sottosistema, esattamente come avveniva nell’Europa dell’Ottocento e diversamente dall’esperienza della Guerra fredda, l’ideologia sembra ricoprire un ruolo assai marginale nel determinare lo status dei rapporti tra le quattro principali potenze regionali. Si veda l’esaustivo lavoro di F. Mazzei, Capire la Cina. Stato e società in Cina. Dalla geopolitica alla geocultura, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2004.^
80 Uno studioso di relazioni internazionali, Barry Buzan elabora la nozione di “complesso di sicurezza”, che connota “un gruppo di Stati legati strettamente tra loro da preoccupazioni comuni per la sicurezza, al punto che non si può realisticamente considerare la singola sicurezza nazionale separata dalle altre”. Sulla base di questa concettualizzazione, egli sottolinea il processo di maturazione in atto in Europa verso la creazione di una “comunità di sicurezza”(concetto questo proprio della scuola liberale, elaborato da Karl Deutsch). Buzan sostiene che l’Europa, avendo raggiunto una forma di “anarchia matura”, testimonierebbe la creazione di “un complesso di sicurezza” in cui gli Stati sarebbero sempre più consapevoli che le sicurezze nazionali sono tra loro interdipendenti e che le politiche condizionate dal self-help sono in definitiva perdenti, per cui è divenuto possibile che “l’orso tedesco viva in pace con l’agnello francese”. Più in generale, Buzan opera una distinzione tra anarchia “immatura”, in cui lo Stato rispetta solo la propria legittimità e le interazioni tra gli Stati sono caratterizzate dalla lotta per il dominio, e anarchia “matura”, in cui lo Stato tiene conto anche delle richieste legittime delle altre unità. Si veda: B. Buzan, People, States and Fear: An Agenda for International Security Studies in the Post-Cold War Era, Harvester Wheatsheaf, London, 1991; F. Mazzei, La nuova mappa teoretica delle relazioni internazionali. Dalla sintesi neo-neo al costruttivismo sociale, L’Orientale , Napoli, 2001, pp. 42 e ss. ^
81 E’ interessante la riflessione dell’intellettuale Timothy Garton Ash: «In Europa si sta diffondendo una pericolosa tentazione: definire il vecchio continente in contrapposizione agli Stati Uniti. E’ una tentazione alimentata da intellettuali, politici e leader europei». T.G. Ash, Europa e Stati Uniti: l’alleanza inevitabile, in «Italiani europei», n. 3/2002.^
82 Dedicò un intero lavoro su questa questione V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Bocconi, Milano, 2003. Sembra condivisibile l’analisi di Parsi quando afferma che: «E’ francamente intollerabile la retorica saccente degli aedi di un’ “Europa potenza civile”, il cui destino dovrebbe essere quello di “bilanciare” la potenza degli Stati Uniti, per riprendere le infelici considerazioni lette, ascoltate e smentite nei mesi scorsi. E’ singolare che chi contesta l’idea di “primato” tanto presente nella cultura politica americana si affanni poi così instancabilmente nel tentativo di opporvi una forma di “eccezionalismo” europeo. Sembra talvolta di assistere all’edificazione di un colossale autoinganno, con il quale una parte consistente della classe dirigente europea cerca di nascondere la propria irrilevanza sulle scelte decisive in politica internazionale».^
83 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone e F. Jesi, Milano, Longanesi, 1957.^
84 Il multilateralismo può essere definito in due modi. Il primo come azione collettiva istituzionalizzata di una inclusiva determinata serie di stati indipendenti. Concretamente le organizzazioni multilaterali sono aperte a tutti gli stati che rispondono a specifici criteri. Le regole delle organizzazioni sono pubblicamente conosciute e persistono in un periodo sostanziale di tempo. Un’altra definizione dovuta principalmente a John Ruggie, limita il multilateralismo all’azione tra tre o più stati “sulle basi di principi di condotta generalizzati”, come diffondere la reciprocità. La definizione di Ruggie è la più preziosa per studiare possibili trasformazioni nella politica globale. Il multilateralismo è stato accompagnato dalla discriminazione tra stati, per quanto concerne il potere, lo status, la ricchezza o altre caratteristiche. Così : R.O. Keohane, The contingent legitimacy of multilateralism, in Multilateralism Under Challenge? Power, International Order, and Structural Change (edited by E. Newman, R. Thakur and J. Tirman), New York, United Nations University , 2006; pp. 56-76.^
85 I realisti rifiutano le istituzioni internazionali e le reputano marginali nel gioco della politica di potenza. Gli istituzionalisti liberali valorizzano principalmente il ruolo funzionale delle istituzioni nella diminuzione dei costi di transazione, nel fornire informazione, aumentare la trasparenza, e nel monitorare e prevenire l’inganno. I costruttivisti argomentano che le istituzioni possono avere un impatto più profondo; essi non regolano semplicemente il comportamento dello stato, ma aiutano anche a sviluppare identità collettive che possono migliorare il dilemma della sicurezza. Si veda A. Acharya, Multilateralism, sovereignty and normative change in world politics, in Multilateralism Under Challenge? op. cit., pp. 95-118.^
86 Ritorna l’Europa che interpreta la propria storia dalle macerie del Novecento, attraverso una sua peculiare versione dell’universalismo che si ripropone attraverso una diversa morfologia della politica. Il mutamento morfologico enfatizza l’asse di giuridificazione della natura propria della politica con una vocazione normativa e universalistica. In questo senso, Habermas è il più autorevole interprete di questa prospettiva di universalismo europeo in forma neocosmopolitica. Ma come può, l’irrompere dei sovranismi e degli autoritarismi, che non conciliano capitalismo e crescita economica con la democrazia liberale, riuscire ad armonizzarsi con l’idea europea di “fine della storia”? Questo modello di fine del conflitto si presenta velleitario se si presenta come una sorta di vocazione neo-eurocentrica, nel momento in cui la realizzazione di un piano normativo non è capace di estendersi a cerchi concentrici tra soggetti politico-culturali che non hanno gli strumenti culturali interni in grado di plasmare normativamente il globalismo o la globalizzazione dei diritti. Quali prospettive dunque per questa visione neocosmopolitica? Ce ne possono essere?^
87 La definizione di che cosa costituisce una istituzione è complessa e rappresenta un esercizio alquanto contestato dagli studiosi. Ma negli anni recenti, sia la teoria che la pratica degli affari globali hanno largamente concentrato l’attenzione sul multilateralismo, seguendo John Ruggie (1993), come una forma istituzionale. Come nota Higgott: «[…] Theory and practice, when they intersect, does focus on the role and behavior of international institutions. The definition of what constitutes an institution is a complex, illusive and contested scholarly exercise. But in recent years, both scholar and practitioner of global affairs have largely focused on multilateralism, following John Ruggie, as an ‘institutional form’ and the prevailing assumption, across a wide political spectrum is that, for a range of reasons, contemporary multilateralism is in crisis». R. Higgott (2004) Multilateralism and Limits of Global Governance, CSGR Working Paper, no.134/04, www.csgr.org ^
88 Infatti come spiega Kagan: «Sappiamo(…) che la tendenza globale verso la democrazia ha coinciso con uno spostamento storico dell’equilibrio del potere a favore delle nazioni e delle popolazioni che sostengono i principi della democrazia liberale…» e «[…] significativo è il ritorno del nazionalismo delle grandi potenze […] i loro interessi e le loro aspirazioni contrastanti stanno di nuovo dando vita a un complicato balletto di alleanze e contro alleanze». R. Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni, op. cit., p. 15 e p. 135.^
89 Bisogna guardare allo spirito che da secoli si è forgiato in Europa, soprattutto nel XIX secolo: l’equilibrio di potenza tra un numero limitato di Stati dalle caratteristiche simili, ha permesso lo sviluppo di una società europea degli Stati, con la tendenza allo stato di guerra potenziale, verso la teorizzazione di un progetto di stabilità che concilia unità nella diversità. Un principio di civilizzazione europea che affonda le radici nell’Illuminismo, che prende forma in un progetto che lega gli Stati sia in periodo di pace con accordi multilaterali, che in caso di guerra con lo jus in bello, che consente una forte identità internazionale europea attraverso l’unità politica di un principio simbolo del riconoscimento reciproco degli interessi comuni.^
90 Concordo con la lucida analisi di A Musi, Crisi, morte presunta e resurrezione dello Stato-nazione, in «L’Acropoli», 10 (2009).^
91 F. Chabod , Idea di Europa e politica di equilibrio, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 21.^
92 Ivi, p. 44.^
93 Ivi, pp. 51-52. ^
94 L. Azzolini, Introduzione a F. Chabod, in Ivi, p. XLII.^
95 F. Chabod, cit., p. 176.^
96 G. Galasso, Un’Europa più debole o un’Europa più lenta?, in Storia d’Europa, Bari-Laterza, 2001. In particolare è fondamentale l’osservazione che si sviluppa a p. XXIII: la crisi della costruzione europea sta anche nell’esaurimento di quella grande tradizione storiografica che, da Voltaire a Croce, aveva messo al centro la funzione mondiale della civiltà europea. Riprendere il rapporto tra equilibrio e civiltà, nel contesto attuale, offre la possibilità di riattualizzare il significato storico di quella tradizione. ^
97 F. Chabod, Idea di Europa e politica di equilibrio, op. cit., p. 7.^
98 H. Kissinger, Diplomacy, New York, Simon & Schuster, 1994.^
99 S. Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.^
100 Id., The Lonely Superpower, in «Foreign Affairs», March/April 1999. In particolare, Huntington osserva che: «Global politics is now multicivilizational. France, Russia, and China may well have common interests in challenging U.S. hegemony, but their very different cultures are likely to make it difficult for them to organize an effective coalition […]. Similarly, an obstacle to an anti-U.S. coalition between China and Russia now is Russian reluctance to be the junior partner of a much more populous and economically dynamic China».^
101 A. Battaglia, La fine del ciclo europeo e la crisi finanziaria mondiale: un Atlantico più stretto, op. cit.^
102 In questa direzione analitica «The Economist» argomenta «The return of economic nationalism», Il ritorno dei nazionalismi, piuttosto che “protezionismi” (February 5th 2009). ^
103 La crisi globale dell’economia non può prescindere dall’affermazione costruttiva di un nomos che abbia forza legittimante oltre le frontiere territoriali statal-nazionali. La questione della costituzionalizzazione potrebbe essere un laboratorio in grado di verificare e vivificare la forza di un Occidente unito, retto sull’alleanza necessaria tra i due pilastri transatlantici, affinché possa assolvere ad una funzione creatrice, quale sottosistema internazionale in grado di rappresentare e plasmare politicamente e culturalmente gli spazi globali.^
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