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Riflessione a margine delle celebrazioni di Paolo di Tarso
di Franco Signoracci
I due lavori di insegnante di letteratura e di autore di narrativa (soprattutto di racconti “storici”) mi spingono a sfiorare la storia come disciplina di ricerca e studio; talvolta compio anche piccole incursioni in questo territorio immenso, con il tremore e le incertezze del visitatore curioso ma di passaggio, che si pone spesso – forse troppo spesso – una domanda che non ho ancora capito se agli storici sia frequente o lecito porsi oppure no: la domanda sul senso della storia umana, sulla sua direzione, immanente o trascendente che sia. Non solo il come e il perché, ma il “dove” vada la storia.
Solo a partire da questo limitato, eccentrico punto di vista mi permetto di proporre una breve riflessione “metastorica”, che nasce dall’attualità.
Lo spunto di partenza proviene dalla proclamazione, da parte della Chiesa Cattolica, dell’Anno Paolino (29 giugno 2008 – 29 giugno 2009), fortemente voluto dal pontefice Benedetto XVI nel bimillenario di Paolo di Tarso, apostolo delle genti e figura chiave per la diffusione del cristianesimo delle origini. Il ruolo fondamentale di Paolo nello sviluppo del pensiero e della storia successiva (occidentale e orientale) dovrebbe già di per sé essere stimolo per una sua attenta ripresa e analisi, anche da parte del mondo laico, magari a livello più approfondito di quanto faccia una certa narrativa scandalistica e un certo giornalismo tuttologo e saccente, che tende a ripetere sulla storia della Chiesa delle origini – e di Paolo in particolare – una serie di luoghi comuni ampiamente superati dagli studi storici e biblici. L’aspetto su cui vorrei focalizzare l’attenzione è limitato, un ritaglio solo dell’ampia problematica paolina, altrimenti impari alle mie forze, e può essere così sintetizzato: quale visione ha Paolo della storia umana?
Per iniziare a rispondere - “tentativamente”, come dice un amico libraio gran creatore di avverbi! – mi sembra che sia indispensabile partire da un dato ineludibile e incrollabile nella teologia paolina: la storia umana (ma più in generale la storia del cosmo) ha un suo centro, un cuore dove tutto è riassunto e realizzato secondo il disegno di Dio. Questo cuore è Gesù di Nazareth, che è già venuto nella storia, è già morto ed è già risorto. “Cristo Gesù è il Signore”: questo è il simbolo – tra i più antichi presenti nel Nuovo Testamento – che riduce alla sua essenza la visione di Paolo. Signore di cosa? Dell’uomo, appunto, e della sua storia. Nella Lettera ai Colossesi – attribuita alla tradizione paolina, ma quasi certamente scritta nel suo entourage poco dopo il 60, su ispirazione dell’apostolo stesso – in un passaggio strutturato come un vero e proprio inno così si trova scritto riguardo alla figura di Gesù:
Egli è immagine del Dio invisibile, // primogenito di tutta la creazione, // perché in lui furono create tutte le cose // nei cieli e sulla terra, // quelle visibili e quelle invisibili: // Troni, Dominazioni, // Principati e Potenze. // Tutte le cose sono state create // per mezzo di lui e in vista di lui. // Egli è prima di tutte le cose // e tutte in lui sussistono. (Col. 1, 15-17)

Parole simili si trovano anche nella Lettera agli Efesini, strettamente legata alla precedente come composizione e tematiche affrontate: in Ef. 1, 20-22 e soprattutto in Ef. 1, 8-10, dove appare l’espressione tipicamente paolina di pienezza dei tempi, che indica il compimento del disegno di Dio sulla storia.
Se fisso è dunque il punto di riferimento di questa visione finalistica, non così si può dire delle conseguenze che Paolo deduce da questa verità di fede: esse infatti sembrano mutare nel corso della sua vita, come testimonia la sua predicazione. In un primo tempo, infatti, la conclusione entusiastica e bruciante che l’apostolo ne trae è quella di un repentino e vicinissimo ritorno del Cristo vincitore, con la conseguente conclusione del tempo e della storia umana. Nella prima Lettera ai Tessalonicesi – la prima scritta da Paolo negli anni 50/51 e il più antico testo del Nuovo Testamento – egli esprime con queste parole la prossimità di tale ritorno, che avverrà quando la sua generazione sarà ancora in vita:
Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole. (1 Tess. 4,15-18)

Il ragionamento è chiaro: in Cristo la storia umana si è compiuta, in lui è finita (nel senso che egli è il fine e la fine della storia), il giudizio sugli uomini e sul loro tempo non può tardare. Da questa convinzione scaturisce una pagina suggestiva sul tema della vigilanza, che merita di essere letta a documentazione del linguaggio caldo e immaginifico di Paolo:
Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda e siate di grande aiuto gli uni agli altri, come già fate. (1 Tess. 5, 1-11)

La convinzione che il tempo si è fatto breve e che alla venuta di Cristo giungerà la fine appare anche nella straordinaria prima Lettera ai Corinzi, scritta a Efeso nel 55/56; per esempio:
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! (1 Cor. 7, 29-31; ma anche 1 Cor. 15, 20-34)

Questa stessa lettera si conclude con un’invocazione sorprendente: Maràna tha!, acclamazione liturgica in lingua aramaica che significa “Vieni o Signore!” e che chiude anche l’ultimo libro della Bibbia cristiana, l’Apocalisse (22, 20). Non solo il giudice della storia verrà presto, ma si invoca perché venga presto.
In un secondo tempo però, man mano che la missione di Paolo e la cura delle comunità da lui fondate si articolano e si stratificano nel tempo, mentre egli si lancia verso arditi progetti futuri (predicare a Roma, dove effettivamente egli giungerà prigioniero, e da lì balzare fino all’estremo occidente: la penisola iberica!), insomma, man mano che il ritorno del Signore pare allontanarsi sull’asse del tempo terreno, anche la visione finalistica di Paolo riguardo alla storia umana si fa più complessa e distesa. Nella Lettera ai Romani, matura sintesi della teologia paolina, composta probabilmente a Corinto nel 58 e finalizzata alla missione verso l’Urbe (dove già era radicata una comunità cristiana), il tempo dell’attesa pare prolungarsi e la speranza del presente poggia sulla certezza di una gloria futura: nel frattempo il creato attende “la rivelazione dei figli di Dio”. Si legga in particolare Rom. 8, 18-25, dove l’accento batte prevalentemente sul termine “speranza”:
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.

Questo prolungarsi dell’attesa non deve condurre però a nascondimento e timore, bensì ad uno svelamento, ad una presa di posizione aperta e chiara, responsabile, testimoniata nella storia che il cristiano si trova a vivere:
E questo voi farete, cosapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere di desideri della carne. (Rom. 13, 11-15)

La Lettera ai Filippesi, probabilmente scritta dal carcere, a Roma, negli anni 60/61 (anche se qualche storico la fa risalire alla prigionia di Efeso, a metà degli anni 50), presenta una proiezione della fede sulla storia dell’uomo che ha raggiunto una dimensione escatologica:
Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci ha chiamato a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà ache su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati, insieme procediamo. (Fil. 3, 12-16)

Nello sviluppo del pensiero paolino, dunque, la storia, da sgocciolio degli ultimi tempi, si trasforma in un cammino, una strada lungo la quale il credente avanza cercando di giungere alla “perfezione”, cioè alla maturità della fede e alla realizzazione della sua missione sulla Terra. E il cristiano non cammina da solo, ma assieme ad una comunità di uomini, dentro questa comunità (intanto, dal punto a cui siamo arrivati, insieme procediamo). Il premio, la meta da raggiungere, attende l’uomo lassù, in Cristo Gesù. La storia insomma deve ancora procedere: altre generazioni verranno; dentro il tempo altri uomini devono vivere, credere, lottare. Ma un centro della storia c’è, ed è fisso; una meta c’è, e attende tutti.
Questa riflessione sulla storia – implicita certo, ma riemergente come fiume carsico lungo tutto l’epistolario paolino – appare come la radice profonda di quella rilettura della storia umana tipica della tarda antichità e degli albori del Medioevo, anzitutto nella versione ingenuamente finalistica, che è ben testimoniata dalle Historia adversus paganos di Paolo Orosio (IV-V sec.): egli infatti, su commissione di sant’Agostino, rilegge tutti gli eventi storici alla luce dell’incarnazione di Cristo, individuando un progressivo passaggio dalla barbarie all’incivilimento proprio a partire da tale evento. Ma la stessa visione finalistica e cristocentrica sta anche alla base di quella straordinaria cattedrale del pensiero teologico e filosofico – ben più complessa, articolata e profetica del lavoro di Orosio – che è il De civitate Dei di sant’Agostino: opera che porta a compimento quella “teologia della storia” sgorgata proprio dai più antichi scritti del Nuovo Testamento, le lettere di Paolo di Tarso.
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