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Il fascino di Löwith
di Biagio de Giovanni
Mi è capitato, dopo tanto tempo, di riprender fra le mani uno dei volumi più affascinanti di Karl Lowith: La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, scritto nel 1940 e pubblicato in traduzione italiana nel 1988 (Milano, Il Saggiatore,), con una Prefazione di Reinhardt Koselleck e una Postfazione di Ada Lowith. Il fascino, intanto, è quello tipico dei libri di Lowith, «la naturalezza della sua mano inconfondibile», come commenta Koselleck, il carattere saldo delle connessioni che scopre, e che qui portano impresse le tracce dell’esperienza diretta. Ma la cosa che a me più colpì quando lo lessi tanti anni fa, e che mi ha spinto a ritornare sul testo per qualche breve commento, sta nella rappresentazione, che non ha facili confronti con altre analoghe ricostruzioni, del clima filosofico e intellettuale che si respirò in Germania tra la fine degli anni Milano Venti e l’irrompere del nazionalsocialismo. Sullo sfondo, Nietsche, che Lowith non esita a mettere, senza ambiguità e magari richiesta di scuse, all’origine di eventi fatali, tagliando corto con distinzioni accademiche destinate a salvare la pretesa di incontaminata purezza del pensiero.
«Chi conosce il significato che Nietsche ha avuto per la Germania, non ha difficoltà ad individuare il ponte che attraversa il fossato posto tra il “prima” e il “poi”. Senza questo che è l’ultimo filosofo tedesco, non si può capire l’evoluzione della Germania. La sua influenza è stata ed è sconfinata all’interno dei confini tedeschi […]. Come Lutero, egli è un fenomeno specificamente tedesco, radicale e fatale» (p. 25). Fenomeno tedesco, dunque, e fatale, cui si aggiungerà un’altra “fatale” presenza, quella di Martin Heidegger, di cui Lowith fu intensamente e criticamente scolaro.

Perché Lowith usa questa terminologia? A che cosa allude e che cosa fa scoprire? Fa scoprire il fatto che la Germania, dopo Nietsche, ha “vissuto” eventi filosofici, gonfiando a dismisura il significato del “significato”, nel rigetto di ogni possibile filosofia della storia progressiva (lungo l’asse Burckhardt-Nietsche), per vivere, mescolato al presente, come presente, l’Evento della filosofia, con un corto circuito drammatico tra la finitezza e fatticità dell’esistenza, la compattezza e quasi necessità di un destino affermato, il carattere totale dell’evento politico che ne costituì la sostanza. Un corto circuito che mise in relazione in un modo tragico, ovvero senza mediazioni, il destino della fatticità e quello della verità, e si potrebbe dire, con lemmi più tradizionali, del finito e dell’infinito. La Germania di Lowith negli anni trenta è quella che ha vissuto, nel cuore del primo Novecento, il dramma di una esperienza totalitaria come evento di verità, in cui sembrava immerso lo stesso destino di un popolo, e fu questa la ragione della immensa partecipazione, della plebiscitaria identificazione, che ridicolizzò, e immaginò di gettare nell’archivio delle cose morte, ogni principio di rappresentanza. Il destino si volle fare, nientemeno, direttamente vita pratica e totale, sembrò comparire nel mondo come una figura decisiva e la questione era saper cogliere quell’istante: fortunato chi lo viveva!. La follia omicida dei capi e di tanti gregari fu insomma, se così si può dire, una follia metafisica. In questo senso, il nazionalsocialismo fu evento assai più “filosofico” del comunismo russo, non foss’altro perché il teatro dove si realizzò la sua rappresentazione fu la Germania, per eccellenza continente della filosofia, e l’impressione che Lowith restituisce è quella di una nazione intera che credeva, come nazione, nella necessità del proprio destino, della propria salvezza, che solo una lotta mondiale poteva garantire, vivendo il messaggio politico direttamente come presente filosofico, e quest’ultimo come segnato da un destino. In Russia, la durezza del divisionismo classista creò tutt’altro percorso.

Nietsche fu la condizione generale che influenzò radicalmente ciò che avvenne dopo, ma è impressionante ascoltare la trasposizione lowithiana della testimonianza di Heidegger, attivo partecipe e costruttore di questo clima. Del filosofo, va ricordato, che sostituì alle essenze platonico-geometriche di Husserl un’altra proiezione della metafisica, per cui, come Heidegger scrive, «non il pigro theorein o il guardare, ma la prassi attiva dell’esistenza che si prende cura delle cose dischiude l’essere di questo mondo […]. Il lavoro concettuale deve essere dunque duro e aspro come questo pericoloso mondo della montagna, e la filosofia non si distingue sostanzialmente dal lavoro del contadino» (p.55). Di fronte al nulla, bisogna insistere su se stessi, volere il proprio destino, giacchè ogni essenza si dischiude soltanto al coraggio, non alla contemplazione, «e la verità si lascia riconoscere soltanto se la si pretende» (p. 59). «Il ‘servizio del lavoro’ e il ‘servizio militare’ diventano tutt’uno con il ‘servizio del sapere’, sicchè alla fine uno non sa bene se deve mettere mano ai Vorsokratiker di Diels o marciare con le SA» (p. 57), è il commento ironico e amaro di Lowith. Il quale ricorda pure come Heidegger in quegli anni concludesse le sue lettere, anche private, con “Heil Hitler!” (pp. 59, 65). «All’autoaffermazione dell’esistere sempre proprio di ciascuno corrisponde l’autoaffermazione dell’esistenza politica, e alla libertà per la morte il sacrificio della vita nell’emergenza politica della guerra» (p. 55). Commento di Lowith che invita a riflettere sul significato di quell’“essere per la morte” di Essere e tempo che fece flettere la finitezza e la fatticità proprio verso un’immagine di forza e di libertà legate al sacrificio supremo. Di Lowith, apprezzo la straordinaria capacità di cogliere le connessioni. Non è osservazione metodologica, ma di merito: quante volte e in quanti modi il pensiero frigido o l’accademia filosofica hanno cercato di staccare la vicenda filosofica da quella politica, Nietsche e Heidegger dal destino della Germania, come se pensieri così tesi e drammatici potessero esser pensati solo all’interno rigoroso dei propri confini. Lowith, rispettando l’autonomia che appartiene alla connessione dei pensieri, che non è messa in discussione dal suo metodo, e dunque non lavorando nella direzione di una passiva contestualizzazione, riesce a cogliere i fili interiori che legano vicende diverse; a pesare la capacità del pensiero di contribuire a definire il clima intellettuale di un’epoca, in una serie stringente di rimandi che restituiscono il significato complessivo di una vicenda. Questi squarci di una biografia sono perciò preziosi, e anche un po’ dimenticati.

Nel 1936, Lowith, già esule, incontrò Heidegger a Roma. Egli ricorda la sua conferenza su Holderlin tenuta a Roma all’Istituto italo-germanico alla quale poté partecipare, e fa menzione dell’altra, pronunciata alla Biblioteca Hertziana l’8 aprile dello stesso anno (alla quale gli fu impedito di partecipare), pubblicata in italiano con il titolo L’Europa e la filosofia tedesca (Venezia, Marsilio, 1999). L’Acropoli (….) ha già dedicato attenzione a questa conferenza heideggeriana con il saggio sul Nichilismo europeo di Giuseppe Galasso, che accenna a quella conferenza in relazione a una ricostruzione più generale e critica del rapporto fra Heidegger e la sua lettura della ragione occidentale. In questo quadro, il testo di Heidegger è di straordinaria importanza, per comprendere la sua lettura della congiuntura, e disegna una strategia per la salvezza dell’Europa, per «la preservazione dell’Europa dall’influsso asiatico» (p. 21). La domanda è intorno alla seguente questione: come si supera lo sradicamento e la frammentazione? Bisogna realizzare, dice Heidegger, una nuova foggia dell’esistenza. «Quando poniamo nuovamente la domanda fondamentale della filosofia occidentale in base a un inizio più originario, siamo al servizio di quel compito che abbiamo definito come salvezza dell’Occidente. Esso può compiersi soltanto come riconquista dei rapporti originari con l’ente stesso, e come una nuova fondazione di tutto l’agire essenziale dei popoli rispetto a questi rapporti» (p. 35). I toni non sono molto differenti da quelli che il filosofo tedesco aveva tenuto nel celebre discorso tenuto all’università di Friburgo per il rettorato, che allora – 1933 – si rivolgeva alla gioventù universitaria tedesca affinché radicasse la sua intelligenza sulla solida appartenenza alla terra e al sangue, e così si mostrasse risoluta all’essenza dell’essere. La filosofia, insomma, non è produzione di cultura, bensì riconquista dell’Essere, domanda sull’Essere, e tornano, in un clima di ben differente drammaticità, i temi elaborati nel dibattito con Ernst Cassirer, nel 1929, a Davos. Ma, secondo Lowith, Heidegger, fra 1933 e 1936, aveva anche trovato chi sapeva incarnare l’Essere, e la cosa viene affermata con una nettezza che a qualcuno potrà apparire perfino urtante, oggi che – come avviene fondatamente per un vero filosofo quale Heidegger fu – i collegamenti si sono dispersi, e il tema sempre aperto diventa quello dell’interno significato teorico del suo pensiero. Ascoltiamo questo passaggio: Heidegger «era e rimane un nazionalsocialista – un po’ come lo è anche Ernst Junger – al margine e in una posizione di isolamento che però non è affatto sterile. Egli è nazionalsocialista già per quel radicalismo col quale fonda la libertà dell’esistenza propria di ciascuno, ovvero esistenza tedesca, sullo stato di rivelazione del nulla» (p. 66). Si può certo mettere nel conto il tempo in cui questa biografia fu scritta, 1940, la durezza di una vicenda che allora prendeva la sua strada più tragica, e si possono aver presenti sicuramente i successivi radicali ripensamenti operati dal filosofo tedesco. Ma che il primo e forse più grande allievo di Heidegger, verso il quale questi ebbe delle attenzioni umane che non gli erano normalmente consuete, restituisca questa immagine del suo maestro, è cosa che non andrebbe dimenticata da chi intende penetrare il clima di quegli anni in Germania, e anche, in generale, la potenza pratica della filosofia. Del resto, il tema, nella sua consistenza teorica e nei suoi riflessi, si potrebbe dire, geofilosofici, è stato esplorato da Lowith nei suoi saggi sul nichilismo europeo (si veda Il nichilismo europeo, Roma-Bari, Laterza, 1999).

Nella biografia di Lowith, c’è anche un riferimento all’Italia fascista, che egli, abitando a Roma in quegli anni Trenta, poteva vivere in presa diretta. Non si tratta, come si può immaginare, di una analisi approfondita, ma la cosa interessante e meno consueta di altre è il contrappunto serio-ironico Italia-Germania, fascismo-nazionalsocialismo, che si trova nelle sue pagine. In Germania, si è visto, quella vicenda è vissuta come un destino. In Italia, l’atmosfera fascista gli appare in una luce diversa: più esteriore rispetto alla vita reale della società, più leggera, più ironica, e la citazione un po’ lunga che segue mi sembra adeguata per comprendere questa linea di lettura, che non ha nessuna pretesa di alta storiografia, ma che coglie tratti e differenze sicuramente sintomatiche.
In entrambi i paesi predominava una borghesia che si era uniformata e ripeteva zelantemente tutto ciò che le si diceva, ma dalla bocca di Hitler non sarebbe mai uscita un’espressione così priva di illusioni come quella che si è udita da Mussolini, il quale una volta giustificò la propria dittatura dicendo che gli uomini sono “stanchi della libertà” e perciò sono contenti se qualcuno ordina loro che cosa devono fare. In Germania i professori e i giornalisti hanno scoperto, invece, che la “vera” libertà è la coercizione. E che differenza nel carattere dei due popoli! Per il tedesco, il nazionalsocialismo è dottrina, e ne fa una faccenda terribilmente seria. L’italiano invece considera il suo fascismo un mezzo rispetto allo scopo e come individuo non si lascia impressionare da nulla. Il tedesco è pedante e intollerante, giacché prende le cose sempre in linea di principio, separandole dall’uomo; l’italiano, anche in camicia nera, è sempre umano perchè ha un senso naturale delle debolezze degli uomini (p.114).

Che mi pare qualcosa di più di un insieme di notazioni psicologiche, soprattutto in quel passaggio sulla libertà, che mette a nudo la “metafisica” tedesca contro il più realistico “adagiarsi” italiano, segno di un opportunismo di persone varie che esse stesse non si prendevano troppo sul serio, come l’Autore annota qualche pagina dopo (p.117). Il problema, naturalmente, non è sdrammatizzare il fascismo, ma segnare delle differenze che possono aiutare ad articolare la storia del secolo.

Fra Roma e Napoli, Lowith conobbe sia Giovanni Gentile sia Benedetto Croce. Di Gentile si sbarazza velocemente con fastidio, ricordandolo come laudatore dell’impresa abissina, e sul filosofo tace, anche se rileva l’appoggio che dette a qualche professore ebreo tedesco rifugiato a Roma. Su Croce, i riferimenti sono quelli di chi è stato completamente preso dal suo fascino e dalla straordinaria valutazione del suo ruolo antifascista. Con la sorpresa (anche qui in implicito confronto con la Germania) che egli potesse continuare a manifestare il suo pensiero attraverso «la Critica», e ricorda il drastico rigetto dello Stato etico gentiliano, svolto con terribili strali critico-ironici nel 1939.

Perché mi è sembrato interessante tornare su quel testo di Lowith? Oltre che per ricordare gli spunti che ho annotato? Un’altra ragione è questa: conviene, quando se ne dà l’occasione, riportare alla memoria il tema della responsabilità della filosofia, di quanta realtà entri nei sistemi del pensiero, di quanto il pensiero sia vera realtà, e l’intreccio delle cose sia tale che fatti e idee si mescolano al di fuori di ogni regola scolastica sulle varie priorità, al di là di ogni gerarchia delle priorità. Sulla questione della responsabilità voglio aggiungere qualche breve riflessione. Non ho né intenzioni né attitudini moralistiche, ma è evidente che il tema della responsabilità non si riduce affatto a questo, chiamando magari qualcuno davanti al sempre troppo affollato tribunale della storia. Si può ricordare qui un altro pensatore tedesco che ha delineato un aspetto del problema, Max Weber, anch’egli uno dei “maestri” di Lowith, pure se in un senso assai diverso da come lo fu Heidegger. Lowith ne ricorda, nella stessa biografia, il pathos sofferente degli ultimi anni, l’altezza quasi profetica con la quale pronunciò le sue celebri conferenze del 1918, sul lavoro intellettuale e sulla politica come professione, fra i testi, a mio avviso, più alti del ’900. All’etica incondizionata della convinzione si aggiungeva, determinante, l’etica della responsabilità, capace di misurare gli effetti concreti dell’agire umano nel loro realizzarsi – ma questa etica riesce ad accompagnare l’illimitata forza del pensiero? E bisogna attendersi questo? Ad ascoltare Weber, tanta parte di quella che sarebbe stata l’élite intellettuale e politica tedesca degli anni di Weimar. La Germania si avviava a vivere e a determinare la più grande tragedia collettiva della storia umana, l’ultimo atto del suo tragico rapporto con l’Europa. Un grande protagonista del secolo come Thomas Mann andava ripensando la critica radicale che egli aveva rivolto, da giovane, all’idea di democrazia, motivata dal prepotere della germanica Kultur, e proprio dal senso – come dire? – della superiorità metafisica di un popolo, convinto di avere un destino. Poi, il mutamento di scena, la convinzione, più modesta e meno eroica, che la secolarizzata democrazia meglio rispondesse alle ragioni dell’umanità. Questa visione infine prevalse: fra le macerie della guerra, la Germania decise di legare il proprio destino a quello dell’Europa pacificata, di essere addirittura l’avanguardia trainante del suo nuovo, sia pur problematico, equilibrio integrato. Una storia durata secoli si era chiusa, se ne era faticosamente aperta un’altra.

Post-scriptum. Il saggio di Lowith spinge a una ulteriore riflessione, giacché mi pare che un problema generale resti aperto, con qualche tratto sul quale soffermarsi: l’etica della responsabilità può essere un vincolo per il filosofo, e in che modo? O i due punti di vista non sono destinati a incontrarsi facilmente, seguendo il pensiero una sua logica interiore, una spinta la cui unica legge è appunto questa logica, che anela a toccare lo strato ultimo delle sue potenzialità, liberandole da tutto ciò che può fare ad esse da ostacolo? L’etica interna del pensiero non è questa tensione verso la propria assoluta libertà? Sembra che il pensiero sia qualcosa di responsabile solo verso l’esercizio di questa libertà, e, proprio perciò, non è adatto a imbrigliare la propria potenza, a distillare le “conseguenze”: libero, perciò, rispetto ad esse. Nessun filosofo, nell’atto della sua creazione, è in grado di prevedere che cosa significherà, per il mondo, la comparsa di quelle invenzioni logiche, di quelle connessioni ontologiche, di quelle meditazioni politiche, di quella idea di uomo e di vita gettate nell’agone del confronto. Argomenti di Hegel servono a immettere, come si è detto, il seme del cupo Stato di potenza nella storia tedesca, o ad argomentare, e contribuire a produrre, gli effetti liberatori della rivoluzione francese? Sembra si debba pensare che l’unica responsabilità del filosofo sia quella di riuscire a seguire, con il massimo della libertà di cui è capace, il demone del suo pensiero, di sottoporre ogni pre-giudizio alla lama affilata della sua critica. Di dare il massimo di sé stesso nell’opera che insegue. La sua responsabilità è semplicemente nel pensare al meglio le cose che pensa, nel seguire fino in fondo la logica del proprio oggetto. Ma qual è la sua responsabilità di uomo pratico, che sta nelle connessioni empiriche della vita e delle scelte? Per rimanere sul terreno dei problemi aperti da Lowith, ci si potrebbe anzitutto chiedere: che cosa deve sapere, il filosofo, di quello che succede “dopo”, di un pensiero che poi significherà magari tante cose, opposte fra loro, inconciliabili, capaci di germogliare nei terreni più diversi e magari radicalmente contrastanti fra loro? Ci si può domandare se si devono attribuire, alla logica interna del pensiero di Marx, le stragi del comunismo reale o la liberazione anzitutto mentale di milioni di uomini dall’assunzione del loro stato come stato naturale e immutabile. Se si devono attribuire a Nietsche gli effetti del nazionalsocialismo o la liberazione della vita finita dai miti delle filosofie della storia. Ma forse il pensiero ha un suo spazio, in cui tutte queste cose sono compossibili, e ciò complica le linee della sua responsabilità etica.

Naturalmente ci si può limitare a dire che le scelte pratiche, politiche, di Heidegger e di Gentile (i filosofi a cui ci siamo riferiti) furono radicalmente sbagliate, ma poi ci si incaglia – e Lowith per Heidegger lo fa in maniera netta – nel nesso organico che sembra stringere quelle filosofie, per un lato niente affatto marginale, a quelle stesse scelte pratiche. Galasso, nel saggio che ho prima ricordato, sottolinea le modifiche intervenute, in Heidegger, nel rapporto fra il suo pensiero e il corso delle contemporanee esperienze politiche, fin forse a ridurne lo spessore specifico in vista di una più generale lettura, che il filosofo tedesco svolge, della crisi della ragione occidentale-europea. E allora, che cosa concludere? Ci si può limitare semplicemente a criticare quelle scelte, prendendosela magari con “l’ingenuità” o le cattive “coerenze” dei filosofi, o a separarle il più possibile dalla logica interna del loro pensiero (come fa, in modo forse troppo netto, Gennaro Sasso per Gentile), o ancora a criticare e “condannare” quel pensiero come organico a quelle scelte, o condannare le scelte e salvare il pensiero. Nessuna di queste ipotesi, mi pare, risponde appieno agli interrogativi proposti, che rimangono aperti, credo, e che forse non hanno risposta, nel senso di una formula conclusiva che tutti li racchiuda. Giacché la storia si presenta come un inestricabile intreccio di fatti, di idee, accadimenti, eterogenesi di fini, astuzie della provvidenza, in un gioco di azioni e reazioni che non elimina le responsabilità, ma le immette in un circuito dove la coscienza d’ognuno, e qui parlo soprattutto di chi ha fra le mani gli ingranaggi del pensiero, produce qualcosa che si immette nelle infinite connessioni della vita, nelle innumerevoli varianti che le sono connaturate. Bisogna, credo, avere un atteggiamento di comprensione verso gli effetti illimitati del pensiero, verso le sue compossibilità, e di gratitudine, infine, per chi ha comunque saputo esercitare la libera vocazione di pensare, e così arricchire la storia degli uomini, anche se nessun limite potrà esser posto per rilevare effetti, connessioni, conseguenze, come Lowith insegna. È un territorio di impossibile delimitazione proprio perché è quello dove si crea la storia.
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