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La parabola della prima crisi finanziaria globale. Cause e conseguenze degli errori delle banche e delle illusioni degli Stati1
di Massimo Lo Cicero
Introduzione e sommario

Le analogie tra la crisi che sta attraversando l’economia mondiale e quella che si scatenò nel 1929, ed allungò la propria ombra recessiva fino agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, si sono sprecate. Come si è sprecata la metafora della tempesta perfetta sulle origini e le cause della crisi stessa.
Se i fatti vengono osservati in maniera puntuale si scoprono alcune differenze ed alcune analogie con la crisi del 1929. Inoltre si può notare che la metafora più appropriata per descrivere la crisi in maniera provocatoria sia piuttosto quella del disastro del Titanic: una combinazione di imperizia ed opportunismo, le cui cause derivano da comportamenti umani e non sono la conseguenza di un destino cinico e baro2.
In questo articolo si cerca di offrire una diagnosi degli antefatti e delle cause della crisi che tenga conto della esigenza di comparare la crisi con quella del secolo scorso, iscritta nel periodo che separava le due guerre mondiali. La comparazione è utile per capire quanto abbiamo imparato dall’esperienza del 1929 e come abbiamo utilizzato efficacemente quello che avevamo imparato, in materia di politica economica e di ingegneria dei mercati finanziari. Faticosamente si afferma, con crescente intensità, l’idea che moneta, reddito e finanza internazionale debbano procedere secondo una logica condivisa di cooperazione internazionale: nell’interesse dell’intera economia mondiale e nel solco tracciato dalle politiche economiche, che gli Stati nazionali, ciascuno secondo la propria capacità di influenza e tutti secondo il tasso di coordinamento condiviso che si manifesta, riescano a sviluppare.
Consultando i siti web della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale si ritrovano tracce di moderato ottimismo sugli esiti di un complesso di politiche che stanno progressivamente dando un orizzonte finito alla crisi ed una ragionevole aspettativa di ripresa per l’economia mondiale tra la seconda metà del 2010 ed il 20113.
Anche le autorità, monetarie e fiscali, del nostro paese ci offrono documenti interessanti. Si tratta del Bollettino numero 56 della Banca d’Italia, pubblicato nell’aprile del 20094 e della audizione resa dal Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in Parlamento nella seduta delle Commissioni Congiunte, Affari esteri ed emigrazione del Senato della Repubblica ed Affari esteri e comunitari della Camera dei Deputati, in ordine alla Indagine Conoscitiva Sulla Presidenza Italiana Del G8 e le Prospettive della Governance Mondiale, che si è tenuta giovedì 26 febbraio 2009. Ma anche, ed infine, della Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza Pubblica, presentata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze nell’aprile del 20095.
Il testo che segue è articolato in quattro paragrafi.
Nel primo si ricostruiscono, sommariamente, l’antefatto della crisi ed i suoi sviluppi. Nel secondo paragrafo si formula una sorta di glossario elementare sulla natura delle economie monetarie di produzione. Nel terzo si propone un tratto singolare della crisi italiana, relativo al razionamento del credito denunciato dalla banca centrale ed alla chiara manifestazione di una relazione, più volte osservata e descritta dalla cultura economica, che lega l’innovazione finanziaria a forme di opportunismo morale. Una relazione patologica che nasce dallo scarto che si viene a determinare tra le informazioni disponibili per i risparmiatori e gli investitori, in ordine agli strumenti finanziari, e quelle disponibili per gli attori ed i protagonisti dei mercati finanziari6.
Nel quarto, ed ultimo paragrafo, si cerca di individuare gli sviluppi relativi al superamento della crisi e le analogie tra le soluzioni adottate e quelle sperimentate, con successo, nella crisi del 1929.
Al centro della riflessione esposta in queste pagine si collocano due ordini di problemi. L’interrogativo sull’alternativa relativa alla individuazione della causa scatenante della crisi: un eccesso di debito ovvero la natura degli investimenti effettuati grazie al credito che rappresenta la contropartita del debito. Ed un secondo interrogativo, che si collega alla percezione di una prima, ed ancora incompiuta svolta verso una possibile fuoriuscita dalla crisi: ridurre le dimensioni del debito sui mercati finanziari o fare ogni sforzo per evitare che questa eventuale contrazione del debito si traduca in un razionamento del credito che impedisca alla futura, ed auspicata, ripresa economica di materializzarsi ed affermarsi.


1. L’antefatto

Le prime avvisaglie della crisi, economica e finanziaria, dell’economia globale prendono forma nel 2006 e diventano sempre più evidenti, progressivamente ed assai rapidamente, negli anni che ci separano da quella data. I primi sintomi indicavano chiaramente il rischio di una crescente instabilità finanziaria che avrebbe potuto compromettere banche ed intermediari alla scala del mercato mondiale7.
Questa crescente e latente instabilità finanziaria si affiancava, nel medesimo arco di tempo, ad una impennata dei prezzi – dovuta anche alle pressioni ed agli squilibri alimentati dalla rapida e molto asimmetrica crescita dell’economia mondiale – che si ribaltava, solo a partire dal secondo semestre del 2008, in un profilo dichiaratamente recessivo delle economie reali: essendosi trasformata la stessa crisi finanziaria in una vera e propria crisi sistemica, in seguito al fallimento di alcune tra le primarie banche dei mercati internazionali.
«Per mantenere le aspettative d’inflazione a medio e a lungo termine in linea con l’obiettivo di stabilità dei prezzi ed evitare che il rialzo dell’inflazione corrente si ripercuota sul processo di determinazione di salari e prezzi, all’inizio di luglio (2008) il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha aumentato di 25 punti base il tasso minimo di offerta sulle operazioni di rifinanziamento principali, al 4,25 per cento»8.
Nasceva da questo aumento del tasso di interesse, realizzato dalla BCE, una ulteriore asimmetria tra l’economia del vecchio continente e quella degli Stati Uniti. L’economia americana, in quel momento, scontava un rallentamento della crescita ed un aumento del tasso di disoccupazione, che superava il 5%, mentre i tassi di interesse rimanevano al 2%.
L’inflazione al consumo ha raggiunto – negli Stati Uniti – il 4,2 per cento in maggio, riflettendo principalmente il continuo rialzo dei prezzi dei prodotti energetici e alimentari. Le attese di inflazione a cinque anni rilevate nell’inchiesta della University of Michigan presso i consumatori hanno mostrato un notevole rialzo tra marzo e giugno; anche quelle su un orizzonte decennale desumibili dai differenziali di rendimento tra i titoli nominali e quelli indicizzati all’inflazione hanno manifestato una, seppur più lieve, tendenza al rialzo. In un contesto caratterizzato, da una parte, dal rialzo delle aspettative d’inflazione e, dall’altra, dal protrarsi della crisi del mercato immobiliare e delle tensioni finanziarie, la Riserva Federale a fine giugno ha lasciato invariato al 2,0 per cento il tasso obiettivo sui federal funds, interrompendo la sequenza di consistenti ribassi iniziata lo scorso settembre. Le quotazioni dei contratti futures incorporano attese di rialzo per circa un quarto di punto entro la fine dell’anno9.

Così descrivevano la situazione gli analisti della Banca d’Italia nel luglio del 2008.
L’economia europea e quella degli Stati Uniti, insomma, presentavano entrambe due sintomi paralleli: un profilo recessivo sul piano reale; una inflazione superiore al 4% su base annua. Ma, ecco anche una asimmetria singolare, si poteva leggere uno scarto nell’ordine di oltre due punti percentuali nella dimensione dei tassi di interesse alla base dei rispettivi mercati finanziari, subito prima dell’estate del 2008. In effetti le economie degli Stati Uniti, e dei paesi che utilizzavano come moneta il dollaro americano, presentavano un tasso di interesse reale, al netto dell’inflazione misurata, prossimo allo zero mentre l’economia europea, o meglio i paesi che utilizzavano in modo diffuso l’euro come valuta, dopo l’ultimo incremento della BCE, presentavano un tasso di interesse reale sicuramente positivo. Nel medesimo tempo, e nonostante la diversa dimensione del tasso di interesse, in entrambe le economie si leggeva la presenza di una liquidità abbondante, derivante da una certa crescita della massa monetaria e da un profilo ridotto degli investimenti, in presenza di un chiaro trend recessivo dei consumi interni.
L’aumento dei tassi di interesse, utilizzato dalla BCE, per contenere le pressioni inflative, era davvero la migliore soluzione dei problemi economici del vecchio continente? E che effetto avrebbe avuto sull’economia italiana, molto fiacca, in termini di capacità di competere e di crescere anche indipendentemente dalla deflagrazione della crisi globale? Anche nelle opinioni dei dirigenti della BCE, in una intervista pubblicata da «Il Riformista» il 4 luglio 2008, ad aumentare i tassi di interesse in Europa era stata una scelta necessaria ma non ancora sufficiente per garantire la soluzione agli squilibri in atto10.
Insomma, l’economia europea appariva come stretta da tre ordini di problemi, che, subito dopo la pausa estiva, verranno ulteriormente complicati dalla piena manifestazione di una grande crisi sistemica, la prima del mercato globale, dei mercati e degli intermediari finanziari, la cui deflagrazione può essere convenzionalmente indicata nel momento del fallimento dichiarato della banca Lehman11.
I problemi dell’economia nel vecchio continente si possono descrivere in questi termini: l’euro è uno scudo, difende l’economia europea dalla instabilità, ma il dollaro è una leva, ed aiuta i paesi, che se ne servono come moneta, ad allargare il proprio mercato ed aumentare, di conseguenza, la velocità della propria crescita produttiva. I sistemi economici che utilizzano l’euro, insomma, dispongono di uno strumento protettivo ma non possono usare il debito per dilatare le opportunità della crescita, create dalla diffusa utilizzazione della propria valuta anche in paesi diversi da quello di emissione. In queste condizioni, una politica monetaria fatta di ampia liquidità e di bassi tassi di interesse – che abbiamo appena detto essere la fenomenologia diffusa sul mercato americano nel primo semestre del 2008 – sollecitava e sosteneva i propri consumi domestici. Ma la medesima fenomenologia sussisteva anche nell’economia cinese che, in questo caso, sosteneva, grazie a quella manovra espansiva ed alla propria integrazione monetaria con l’area del dollaro, le proprie esportazioni.
In entrambi i casi le valute di queste due economie, Cina e Stati Uniti, accusavano un eccesso di svalutazione, rispetto all’euro. Ecco la base operativa della leva di cui potevano godere i mercati dei paesi legati al dollaro, fino a quando il cambio con l’euro lo avrebbe consentito12.
Alle origini dello scarto tra i tassi di interesse denominati in dollari e quelli denominati in euro si collocava una percezione deformata delle cause che avevano generato la crescita dei prezzi nei paesi europei.
Una crescita che, in maniera poco puntuale, o comunque discutibile, veniva definita inflazione da parte della BCE13. Proviamo a descrivere meglio la dinamica dei prezzi internazionali che si andava manifestando.
Sia gli Stati Uniti, che l’Unione Europea, avevano subito, nel corso degli anni precedenti al 2008, un prelievo di risorse reali, una “tassa”, da parte dei paesi che producono petrolio e materie prime, legate al ciclo agroalimentare, in ragione dello straordinario aumento dei prezzi praticati dai venditori anche grazie alla dilatazione della domanda aggregata che accompagnava la crescita, asimmetrica ma intensa, dell’economia mondiale. Il motore primario della crescita internazionale – in quel momento come per i prossimi anni – si collocava al di fuori sia della economia americana che di quella europea: entrambe, infatti, accusavano, un deficit di produttività reale e richiedevano, allora come richiedono ancora oggi, una politica economica adeguata per garantire loro un riposizionamento competitivo.
Gli Stati Uniti cercavano di raggiungere questo risultato, nel breve periodo, attraverso un cambio debole e contavano di recuperarlo, nel medio termine, grazie alla propria dote tecnologica ed alla capacità di combinare quelle tecnologie con le dinamiche di consumo che si vanno diffondendo nel mercato globale.
L’Europa non è omogeneamente dotata, al suo interno, di equivalenti risorse tecnologiche14. Nel medio e lungo termine, dunque, sarebbe stata utile, al netto dei cambiamenti indotti dall’esplosione della crisi sistemica, e dei suoi prevedibili effetti recessivi successivi, una politica economica globale capace di riportare sul mercato le risorse sottratte dalla tassa petrolifera: per alimentare, con questa espansione della domanda effettiva mondiale, una successiva espansione della produzione, nei paesi tradizionalmente sviluppati come in quelli che si presentano solo ora sulla scena. Una simile opzione di politica economica avrebbe alimentato la crescita, in un regime di prezzi stabili, ed avrebbe finito con il prevalere sulle tendenze ad una stagnazione, accompagnata da pressioni anche, ma non solo, inflattive: lo scenario, questo di una inflazione come aumento generalizzato dei prezzi, che preoccupava eccessivamente la BCE e la spingeva a sostenere, per contenimento, un livello eccessivo dei tassi di interesse. Questa percezione deformata, ed il timore che ne conseguiva di una instabilità monetaria, produceva l’aumento dei tassi in Europa nella primavera del 2008. Le conseguenze recessive della crisi finanziaria, subito dopo, ribaltavano la scena in una generalizzata prospettiva di basso profilo congiunturale in Europa, come negli Stati Uniti, ed in larga parte dell’economia mondiale.
A maggior ragione, moneta, occupazione e reddito oggi dovrebbero essere governate effettivamente alla scala del mercato globale.
È questo il significato della ipotesi che si fa strada nella discussione sulla politica economica internazionale e che indica una soluzione opportuna in un accordo mondiale che, come avvenne nel 1944 a Bretton Woods, sia capace di governare cambi, circuiti macroeconomici del reddito e flussi finanziari verso un equilibrio di crescita e di benessere generale.
Una simile prospettiva è oggi complicata dal fatto che questa politica dovrebbe governare contemporaneamente la ricostruzione di un clima di fiducia nei mercati finanziari, ed in quelli reali, ma anche riordinare e riqualificare le politiche di spesa dei singoli stati nazionali. Mentre, nel 1944, il ruolo dei mercati finanziari, alla scala internazionale, era assolutamente marginale ed i flussi finanziari con cui si muovevano i capitali, alla scala del mercato mondiale, erano compiutamente decisi dalle scelte dei governi nazionali, dalle banche centrali e dalle agenzie che vennero istituite a Bretton Woods: la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale.
Qualora fosse realizzabile un equilibrio dinamico ed espansivo dell’economia mondiale si avrebbe certamente una espansione del reddito generalizzata. Ma una distribuzione equa del benessere alimentato dalla ripresa della crescita del reddito – e la coerenza tra equità, coesione sociale e crescita – rimarrebbe nell’agenda nazionale delle singole economie mondiali e dei loro governi. Ovviamente la soluzione di questa catena di incognite dipende oggi, dopo l’esito delle elezioni presidenziali intervenute negli Stati Uniti, dall’impatto che avrà la politica di Obama sull’economia mondiale e dalla capacità dell’Unione Europea – e dei singoli Stati nazionali che aderiscono all’Unione ma che entrano anche direttamente nella formazione dell’equilibrio mondiale, come la Germania od il Regno Unito - di collegarsi a quelle scelte promuovendo una nuova stagione di cooperazione multilaterale da parte dei grandi paesi dell’occidente: nella prospettiva di una soluzione che eviti la formazione di un asse privilegiato tra Stati Uniti, Cina e Far East Asia.
Vista in questa prospettiva la situazione italiana appariva, prima dell’estate, come un caso locale e regionale nell’ambito dell’Europa. Anche se non veniva percepita adeguatamente per quello che era da una larga parte dell’opinione pubblica nazionale. Naturale, dunque, che in queste circostanze il Governo anticipasse la legge finanziaria per mettere sotto tutela la dinamica e l’equilibrio dei conti pubblici. Naturale che fossero allora, in sede di approvazione della legge finanziaria, ragionevolmente convergenti le opinioni del ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, e quelle del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Anche se il secondo veniva descritto come troppo sbilanciato verso la business community internazionale, che traeva profitto dalla speculazione, che impazzava come la peste, diceva il primo. In effetti ed in realtà Draghi si limitava a riconoscere, ed a ribadire nei suoi interventi, che la concorrenza aiuta i mercati ad espandersi ed offre opportunità anche ai deboli. Draghi, inoltre, percepiva e descriveva la riduzione della pressione fiscale come restituzione al cittadino del potere di scegliere la destinazione delle proprie risorse: diffidando di una pubblica amministrazione che, se deve essere trasformata alla radice, come ribadiscono oggi anche gli esponenti del Governo, deve essere considerata incapace di utilizzare le risorse in maniera efficace ed efficiente15.
La terza opinione qualificante del Governatore, infine, è che non si possa, né si debba, pensare di ritornare ad un mondo che rifiuta i vantaggi delle tecnologie e delle ingegnerie finanziarie che ora siamo in grado di controllare meglio di quanto avvenisse nel secolo scorso16.
La finanza, agisce nel mondo contemporaneo prevalentemente sui mercati, e non solo nell’opaco sistema di relazioni interpersonali tra coloro che controllano il governo degli intermediari e delle banche. Regolare i mercati, e non sostituirsi ad essi, è la strada per aiutare crescita e stabilità.
Dall’autunno del 2008 alla primavera del 2009, si apre la stagione più intensa per la ricerca delle soluzioni praticabili. Una ricerca dalla quale sono affiorate prima le convergenze possibili tra gli attori del sistema e, successivamente, la formazione delle politiche varate da Governi e banche centrali. Era naturale che questo percorso non procedesse necessariamente verso l’unanimità: non esiste, allo stato, né una unanimità tra i vari stati né, come era ovvio, una unanimità interna alla struttura politica ed allo schieramento dei gruppi di interesse, e dei loro principali esponenti, nei singoli stati nazionali.
Ma, prima di prendere in esame il merito di tali differenze, per poi arrivare ad un giudizio sulle conseguenze di una reazione che non vede ancora emergere una soluzione davvero globale di questa crisi mondiale, è necessario aprire una parentesi, per fissare, come in un inciso, un vocabolario minimo, una sorta di glossario, che ci permetta di decifrare le tesi che si contrappongono nel dialogo tra coloro che sono, come protagonisti, impegnati nella ricerca e nella realizzazione di una soluzione positiva della crisi.


2. Un glossario per capire la natura della crisi e le sue possibili terapie

Gli attori e gli strumenti

Gli analisti concordano su due circostanze: alle origini della crisi in atto si deve collocare la globalizzazione del sistema economico mondiale.
La scala che dovrebbe avere una politica, capace di riportare sotto controllo la dinamica della sviluppo, dovrebbe essere almeno mondiale.
Tutti sono consapevoli, però, del fatto che non esistano, ad oggi, autorità pubbliche legittimate a governare la politica economica a quella scala.
Gli stati nazionali non hanno titolo per farlo e le agenzie internazionali, l’azione delle quali potrebbe essere orientata in termini cooperativi dagli stati nazionali, hanno una geometria interna, del proprio potere di controllo ed indirizzo, non sempre omogenea. In ogni caso, non hanno, ciascuna di loro, uno spettro di competenze adeguato alla complessità del problema da risolvere. Nasce anche da queste due circostanze l’aspirazione ad una conferenza internazionale, la nuova Bretton Woods, auspicata in forme e modi non sempre convergenti nelle riunioni del G20, il gruppo di lavoro che raccoglie i governi dei primi venti paesi del mondo.
Questo metodo, il concerto mondiale, è necessario per trovare una soluzione ma non è ancora sufficiente per ottenere il risultato.
Inoltre, ed è altrettanto importante, la nuova architettura dell’ordine economico mondiale richiederebbe, per essere raggiunta, una combinazione convergente di politiche fiscali, politiche monetarie e regolamentazione dei mercati e degli intermediari finanziari. Sulla convergenza di politica monetaria e politica fiscale hanno scommesso dal primo momento Stati Uniti e Gran Bretagna; sulla nuova regolamentazione finanziaria insistono i grandi stati nazionali che guidano l’Unione Europea. In particolare i Governi guidati dalla Merkel e da Sarkozy. Gli attori sono divisi sugli strumenti da privilegiare, od almeno sulla rilevanza relativa, l’ordine di importanza da assegnare a ciascuno di quegli strumenti. Gli attori sono anche poco omogenei. Gli stati nazionali agiscono singolarmente, o mediante accordi parziali, nell’ambito dell’Unione Europea, al tavolo del G20. L’Europa, insomma, non è ancora un attore efficace per due motivi.

L’anomalia europea

Esiste un Europa dell’euro, un club monetario, ed una Europa allargata, che è un club commerciale, un grande mercato unificato.
Molte economie europee hanno regimi del mercato del lavoro, della previdenza e delle imposte, del cambio monetario eterogenei rispetto a quelli del club dell’euro. L’economia europea come un tutto, infine, è un paese moderatamente capace di esportare. In effetti solo l’economia tedesca esporta fuori del perimetro europeo. Ma ci riesce perché utilizza come filiera di base, per le proprie produzioni, anche le economie dei paesi esclusi dall’area dell’euro ma inclusi nella grande unione commerciale formatasi in seguito all’ultimo processo allargamento17.
La Germania avrebbe, in conseguenza dei vantaggi tecnologici propri e dei vantaggi normativi e fiscali che le derivano dall’inclusione delle economie degli Stati che hanno aderito all’allargamento appena citato, un surplus commerciale adeguato per farsi carico di una politica fiscale espansiva ma non se la sente di fare questa scommessa.
La Francia non ha la forza economica della Germania ma si pone al suo fianco nella richiesta di cambiare le regole della finanza, marcando la distanza tra la cultura continentale di due grandi attori europei in antitesi alla cultura anglosassone che unisce Gran Bretagna e Stati Uniti. I due paesi che, dal primo momento hanno scelto di porre in primo piano la convergenza espansiva di politiche monetarie e fiscali ed un robusto piano di cartolarizzazione dei titoli opachi, o tossici chi dir si voglia, l’incertezza sul valore dei quali penalizza la percezione del valore economico dei patrimoni del sistema bancario e diffonde ombre sinistre sulle relazioni interbancarie e la liquidità dei mercati finanziari internazionali.

Stato e mercato: economia ed istituzioni

Il mercato esiste da sempre, perché le comunità vivono mediante la combinazione variegata di scambi tra gli individui e di aggregazione, dei comportamenti collettivi, attraverso macchine gerarchiche: le organizzazioni e le istituzioni18. Indipendentemente dalle forme in cui si è presentato questo complesso di circostanze, le comunità hanno risolto il problema della produzione e della distribuzione del valore lungo due strade: l’economia monetaria di produzione, che si fonda sulla moneta e la finanza, cioè il debito. Anche la moneta è un debito, il debito del sovrano prima e, successivamente, il debito della banca che finanzia il sovrano. Nel tempo il banchiere che finanzia il sovrano si ritrova alla guida della banca delle banche, che diventa anche la banca dello Stato: la banca centrale. E le monete, di carta, le banconote, alla lettera obbligazioni delle banche, diventano un legal tender, strumenti legali che rappresentano formalmente il metro ed i media degli scambi ma anche un fondo di valore che, al netto della inflazione, si mantiene più o meno stabile nel tempo.
Le imprese, e gli Stati, sono le gerarchie grazie all’esistenza delle quali l’insieme degli scambi non si risolve in una parcellizzazione caotica della produzione di ricchezza e della distribuzione del benessere.
Le banche, e gli intermediari finanziari, sono le imprese dei mercati in cui si scambiano titoli e moneta. Non esisterebbe la crescita senza il debito ma non esisterebbe la giustizia sociale senza la politica fiscale. Non esisterebbero nemmeno banche ed imprese senza il diritto di proprietà e l’insieme degli strumenti per regolare gli scambi di merci, servizi e titoli. Gli oggetti – merci, titoli o servizi che siano – hanno un valore economico perché sono utili e scarsi, appropriabili e quindi scambiabili, prodotti per lo scambio e non solo per una esigenza di tipo personale, per tutte le ragioni appena esposte.
Questa è la spirale virtuosa lungo la quale è cresciuta l’economia monetaria di produzione. Il socialismo, la democrazia, il capitalismo, l’economia sociale di mercato, la programmazione e la pianificazione, i liberali ed i liberisti, i mercatisti e gli statalisti sono solo categorie mentali, proiezioni e simboli, attraverso la utilizzazione dei quali, culture, diverse tra loro, cercano di dare un senso alla spirale sottostante che, in termini di conoscenza oggettiva, evitando i pericoli derivanti da una interpretazione viziata dalle lenti di una pregiudiziale ideologica, si può indicare come economia monetaria di produzione.

L’armonia perduta: il mondo che vorremmo e la strada per arrivarci

A volte la spirale virtuosa tra il presente ed il futuro – tra il credito, che è l’altra faccia del debito, e la crescita che è generata dal credito e dalle capacità creative dell’imprenditore – si arresta ed implode su se stessa. Questo accade quando al debito non corrisponde un investimento capace di ripagarlo, perché la crescita dei valori in cui investire si gonfia troppo ma non riflette la loro capacità di produrre altro ed ulteriore valore in futuro19.
Anche in queste malaugurate circostanze l’economia monetaria di produzione, l’opportunismo degli attori che la muovono, il rischio che nasce dall’agire in condizioni incerte, la mancanza di conoscenze ed opinioni condivise tra gli individui che animano i mercati, rimangono identici nella loro interazione reciproca.
Bisogna riprogettare il mondo con le categorie ideologiche delle nostre culture (citate alla voce precedente di questo piccolo glossario)? O bisogna riavviare la spirale alimentando la disponibilità di moneta, ricostruendo le ragioni di credito, migliorando controlli e supervisioni sulle gerarchie, allargando lo spazio degli scambi perché le gerarchie sono cresciute troppo su stesse ed il costo del loro controllo supera ormai i vantaggi che la grande dimensione offre? Obama, Bernanke, Paulson e Geithner, Mario Draghi agiscono sul mondo che esiste per ridargli slancio ed intendono riformare le regole solo per governare meglio: non per disegnare il nuovo mondo che hanno intravisto nei propri sogni. Sarkozy e la Merkel sono conservatori che hanno paura del cambiamento ma lo esorcizzano, enfatizzando il valore salvifico delle nuove regole e dimenticando Giovenale, Quis custodiet ipsos custodes? Giulio Tremonti appare oggi piuttosto come un moralista rivoluzionario che non come un riformatore: un uomo dalla grande visione ma condizionato da un eccesso di confidenza nei poteri della legge, rispetto agli effetti dei comportamenti collettivi indotti da incentivi e regole, adeguatamente disegnate, per indurre comportamenti coerenti con le finalità dell’azione collettiva20.

3. Un tratto singolare della crisi italiana denunciato dalla banca centrale: il razionamento creditizio

La Banca d’Italia ed il Governatore della stessa, Mario Draghi, hanno commentato, nel trapasso dal 2008 al 2009, cioè durante la manifestazione più acuta degli effetti della crisi finanziaria, con la dovuta preoccupazione gli effetti di una progressiva contrazione dell’offerta di credito.
Circostanza denunciata anche da Confindustria e da molte altre organizzazioni imprenditoriali.
Le banche, al contrario, insieme con la propria associazione di categoria, hanno tendenzialmente sottovalutato il problema, dimenticando che, tra banche ed imprese, non può non valere la massima del simul stabunt simul cadent. Su questa dimensione della crisi non esiste solo un problema di equilibrio tra volumi di credito concesso e capacità delle imprese di fronteggiare il ridimensionamento dei volumi di ricavo ed il rallentamento delle entrate ad essi correlate. Esiste anche un problema di copertura dei fabbisogni necessari ad investire durante la crisi per cogliere le opportunità che, nel contesto di un cambiamento radicale, si aprono sui mercati. ma esiste anche un ultimo problema legato al costo e non al volume del credito disponibile. Le banche centrali, ciascuna in tempi diversi, hanno ridotto il livello dei tassi di interesse per consentire la formazione d una massa monetaria adeguata ad evitare la diffusione dei fallimenti che la recessione avrebbe potuto indurre. Le banche commerciali e gli intermediari finanziari hanno, parallelamente, aumentato gli spread, i differenziali, che rappresentano il premio per sopportare il rischio specifico generato dal singolo cliente, applicati ai tassi bassi. Perché, ed anche questo è un dato parzialmente oggettivo, la recessione aumenta, per il carattere diffusamente deflattivo che impone all’economia, il rischio, per ogni singola impresa, che nasce dalla contrazione dei ricavi ed, in presenza di una inerzia nei costi fissi, dalla contrazione dei margini di profitto che ne consegue.
Ma questo incremento del premio per il rischio, imposto dalla banca ai singoli clienti, seppure in maniera differenziale e singolare, ha spesso generato una contraddizione. Sul mercato interbancario, a tassi annuali prossimi all’uno per cento, nessuna banca, o poche banche, domandano credito: perché molte banche, avendo aumentato i tassi alla clientela anche oltre il livello del sette per cento su base annua, non accusano domanda di credito o non concedono credito, con un razionamento di quantità e non di prezzo, perché non reputano affidabili imprese, nei bilanci delle quali si legga che i pagamenti ritardano ed i ricavi ristagnano. L’aumento del debito, necessario per tenere l’impresa in vita, sopportando la tensione finanziaria che deriva da queste circostanze, aumenterebbe la leva finanziaria, cioè il rapporto tra debiti bancari e dimensioni del patrimonio netto aziendale. Ed, essendo la leva finanziaria, “l’eccesso di debito”, sotto osservazione perché ritenuto all’origine della crisi, le banche ritengono di non dover perseverare nell’errore. Alle imprese non resta che stressare, se riescono nel tentativo, il debito verso i propri fornitori. ma questa combinazione tra carenza di credito e dilatazione dei debiti intra-aziendali crea le premesse di un possibile fallimento di sistema, come risultante di una catena di singoli fallimenti. Proprio mentre, e questo è davvero un paradosso, la liquidità generata dal regime di bassi tassi di interesse proposto dalle banche centrali rimane abbondante. Vediamo in che termini questo complesso di problemi sia stato descritto dalle autorità monetarie. Partiamo dai giudizi di Mario Draghi21:
I prestiti erogati dal sistema bancario italiano, ancora in vivace espansione nella prima parte del 2008, hanno rallentato nel corso dell’anno; la decelerazione si è fatta brusca negli ultimi mesi. Nel quarto trimestre la crescita del credito al settore privato è scesa al 4,2 per cento su base annua, la metà di quella dei tre mesi precedenti. Nell’anno la consistenza è cresciuta del 7,4 per cento, oltre 3 punti in meno rispetto al 2007. Secondo le informazioni provvisorie relative al campione di banche che fornisce statistiche decadali, in gennaio la consistenza del credito complessivo avrebbe ristagnato; se confermato, tale andamento comporterebbe in un solo mese una flessione dell’ordine di mezzo punto del tasso di crescita sui dodici mesi. Il rallentamento è comune agli altri maggiori paesi europei e ha interessato tutte le aree del nostro paese e tutte le categorie di debitori. Il tasso di crescita è modesto soprattutto per le piccole imprese, l’industria manifatturiera; le costruzioni hanno avuto un rallentamento particolarmente marcato. Il calo della produzione e le prospettive congiunturali incerte hanno depresso la domanda di fondi per investimenti fissi e circolante.
La domanda di prestiti delle famiglie risente della flessione dell’attività nel mercato immobiliare e della caduta dei consumi di beni durevoli. Nel 2008 i prestiti al settore sono cresciuti del 6 per cento, contro incrementi superiori al 10 per cento negli anni precedenti. Rimane vivace la crescita dei prestiti personali. Sull’andamento del credito hanno influito anche politiche di offerta più caute adottate dalle banche in seguito all’aumento del costo della provvista, alla parziale chiusura dei canali di raccolta sui mercati internazionali, al deterioramento del merito di credito della clientela, alla necessità di rafforzare il rapporto tra patrimonio e attivo per far fronte alle pressioni provenienti dai mercati, in una fase di elevata incertezza.
Questo ultimo dato conferma la diagnosi che avevamo proposto, ed è un dato condiviso da molti commentatori22.

Le dinamiche aperte dalla crisi finanziaria globale, nel corso del 2008, hanno generato una marcata caduta della fiducia tra le istituzioni finanziarie e, di conseguenza, hanno alimentato un clima recessivo sul terreno economico. La perdita della fiducia non determina, ovviamente, la scomparsa dei valori reali che rappresentano la base della forza produttiva futura dell’economia – gli impianti delle imprese, le conoscenze e le capacità delle risorse umane, l’utilità delle infrastrutture esistenti, il patrimonio delle famiglie o l’insieme dei loro bisogni – ma determina una diffusa percezione della impossibilità di ripristinare, ai livelli osservabili prima della crisi, le dimensioni del reddito che quella base produttiva sarà in grado di generare nel breve periodo, nell’orizzonte del prossimo futuro. Per certi versi accade un singolare fenomeno, che è proprio l’effetto più insidioso della crisi, della discontinuità nella dimensione dei prezzi sperimentata dal mercato. Si interrompe la relazione che, collegando tra loro consumo e domanda effettiva, alimenta una progressiva espansione della ricchezza, la spirale della crescita, che apre la prospettiva di una iterazione virtuosa tra risparmio ed investimenti, la quale si realizza, diventa un fatto e non rimane una eventualità, grazie alle anticipazioni finanziarie delle banche nei confronti delle imprese.
Lo stallo della crisi finanziaria, per tornare al filo conduttore di questo scritto, non agisce solo sulla interazione tra banche ed imprese.
Le banche, e questa è certamente una delle determinanti di fondo della crisi mondiale, hanno utilizzato l’innovazione disponibile – le tecniche della cartolarizzazione e dell’ingegneria finanziaria combinate con la diffusione dei derivati – guardando piuttosto al mercato degli stock, di titoli e di moneta, che non al circuito del reddito e degli investimenti.
Combinare questa iterazione della finanza con se stessa, e subire gli effetti dell’opportunismo degli attori che agiscono sui mercati finanziari, ha generato le condizioni per una vera e propria “trappola finanziaria” ma non è vero che questa pericolosa trappola non fosse stata avvertita dalla cultura economica23.
Anche Guido Carli aveva denunciato questo rischio, che nasce dall’autosufficienza in cui si rinchiude a volte il mondo della finanza, ma che non è un tratto necessariamente intrinseco dei mercati finanziari, in un testo, quasi profetico, nell’aprile del 1987
La globalizzazione dei mercati finanziari ha arricchito la gamma delle opzioni offerte ai risparmiatori, ha agevolato la ottimizzazione della composizione dei loro portafogli, ha eliminato gli attriti ai trasferimenti di capitale dai paesi nei quali vi è un eccesso di risparmio a quelli nei quali vi è difetto; i vantaggi procurati da questi cambiamenti si distribuiscono difformemente tra paesi al loro interno; i paesi dell’OCSE e massimamente gli Stati Uniti sono i maggiori prenditori di fondi; le imprese transnazionali fanno ampio ricorso ai nuovi strumenti finanziari; in paesi in corso di sviluppo sono relegati la margine mentre il peso del debito estero, che grava su di loro, diventa più opprimente. Sospettoso dei mutamenti, che lì per lì suscitano entusiasmo, mi chiedo se tutti i cambiamenti in atto ed in prospettiva nel sistema della finanza internazionale abbiano condotto e condurranno ad una allocazione di risorse reali all’interno di singoli paesi e fra paesi atta ad eccitare un più intenso sviluppo produttivo.

Arrivando ad un giudizio che sembra quasi relativo alla fenomenologia della crisi che descrive, oggi, il comportamento delle grandi banche americane.
Quanto più il processo di securitisation si estende, tanto più l’attività delle banche si sposta verso quella di assunzione di garanzie: le banche garantiscono la solvibilità degli emittenti i titoli ed il loro collocamento nel caso gli investitori rifiutino di sottoscriverli. La quantità di rischi che le banche assumono non muta, ma diviene più difficile individuarli e diviene più arduo misurarne l’intensità. Quanto più cresce la quantità dei titoli offerti, tanto più cresce il numero degli intermediari che ne curano il collocamento. L’estensione del numero degli intermediari si ripercuote nella contrazione delle commissioni che essi richiedono per i servizi e si attenua la loro capacità di costituire riserve patrimoniali adeguate ai rischi che essi assumono.

Questa trasformazione, Carli lo dice chiaramente, sposta i mercati e gli intermediari finanziari dalla valutazione e dalla concessione del credito ad una battaglia competitiva tra banche ed intermediari non bancari: uno scontro che riduce progressivamente la dimensione delle commissioni di negoziazione sulle transazioni in titoli. «(Questa) concorrenza – egli conclude – comprime la profittabilità delle banche e spinge a ricercare nuove forme di attività, in alcuni casi al di là dei limiti di prudenza»24.
Un cerchio di azzardo ed opportunismo che ritorna attuale molti anni dopo – dato che Carli scrive nel 1988 ricordando un suo discorso dell’anno precedente – in una intervista rilasciata da Isidoro Alberini, il decano di piazza affari a Milano, ad Antonella Olivieri, ed apparsa su«Il Sole 24 ore» del 22 febbraio 2009, nella quale Albertini ammette che «l’ingordigia è alla base di tutto, una spinta che alla fine ha rotto gli argini».
Esiste, insomma, e non è facilmente contestabile, una dimensione di opportunismo e di azzardo morale da parte dei gruppi dirigenti delle banche nelle origini della crisi in atto25.
Come esiste, anche ed ovviamente, un deficit di regole e di vigilanza sul sistema. Ma proprio questa responsabilità soggettiva, che rimane tutta sul sistema delle banche, imporrebbe alle stesse di prender coscienza della esigenza, che oggi viene loro riproposta dalle banche centrali stesse, di tornare alla valutazione ed alla concessione del credito agli investimenti come dimensione principale della propria attività. Anche perché una ripresa degli investimenti da parte delle imprese rappresenta il complemento necessario del sostegno dei redditi e dei consumi, che i governi mondiali stanno proponendo come azione anticiclica per fronteggiare la recessione economica. Se ritornasse la fiducia in una prossima espansione del circuito del reddito, riprenderebbe valore anche la ricchezza finanziaria. Dato che una dilatazione degli investimenti deve essere considerata secondo una duplice prospettiva. Essa non rappresenta solo un aumento della domanda effettiva ma anche un incremento della dotazione esistente di capitale e, dunque, deve essere misurata in relazione al valore atteso che la nuova produttività generale del sistema potrà esprimere grazie alla realizzazione di questo incremento di capitale. Sia quando quel capitale si traducesse in infrastrutture collettive che quando esso diventasse capacità e conoscenze delle risorse umane oppure nuovi impianti, con i quali le imprese esistenti debbano, e possano, sviluppare la propria attività.
Se questa nuova e diversa produttività non dovesse manifestarsi, al contrario, si dovrebbe trarre da questa circostanza il giudizio che quegli investimenti non abbiano avuto un adeguato ritorno, un rendimento capace di sostenere il costo che essi hanno comportato in termini di assorbimento del risparmio che hanno consumato. Ed in questo caso, solo allora, sarebbe davvero maturata una perdita di valore reale per l’intera economia.
Ma la trasformazione di quel risparmio in investimento richiede l’intermediazione di banche ed istituti finanziari, la partecipazione attiva di imprese ed attori, locali o nazionali, della pubblica amministrazione.
Affrontare questo complesso di eventi concatenati tra loro nel corso di una grave crisi di fiducia, che strozza la funzionalità dei mercati reali come di quelli monetari, ovviamente, non è affatto semplice.
In assenza di una espansione dell’offerta aggregata, non esisterebbe alcuna crescita reale ed una, eventuale, espansione della domanda aggregata potrebbe risolversi in un incremento generalizzato dei prezzi monetari od in una espansione delle importazioni, ovvero in una combinazione di entrambe. Senza un tonico congiunturale, che contribuisca a ricostruire il clima di fiducia tra banche, imprese e risparmiatori, è velleitaria qualsiasi pretesa di potere e volere, davvero, riattivare la crescita da parte delle autorità di governo, locali o nazionali che esse siano.
Mario Draghi aveva anticipato da alcuni mesi questa combinazione negativa che si può alimentare grazie alla sovrapposizione tra crisi dei sistemi finanziari e recessione dell’economia mondiale26.
Con il fallimento del gruppo Lehman nel settembre scorso, la crisi iniziata nell’agosto del 2007 diventa sistemica, i suoi effetti si propagano con velocità crescente. Le preoccupazioni sulla solidità delle controparti si fanno acute; l’emissione di strumenti di capitale sul mercato diventa ancora più difficile e costosa; all’aumento della sfiducia si accompagna la rarefazione della liquidità; si assiste a una drammatica discesa delle quotazioni azionarie, anche per l’insorgere di preoccupazioni riguardo agli effetti della crisi sulle economie reali. La reazione dei governi e delle autorità monetarie acquisisce via via forza e capacità di coordinamento internazionale. Cresce la consapevolezza del beneficio di un’azione vigorosa e comune, che tenga conto delle interazioni esistenti tra le politiche nazionali e riconduca i diversi interventi inizialmente adottati dai governi a uno schema coerente […]. Evitare che l’inasprimento delle condizioni creditizie per famiglie e imprese e il deterioramento del ciclo economico si rafforzino a vicenda in una spirale negativa è la sfida che le autorità devono affrontare nell’immediato.

Questo scriveva Mario Draghi nel testo della sua relazione all’ultima Giornata Mondiale del Risparmio, ed aggiungeva che
L’Italia – al pari degli altri grandi paesi dell’area – sta risentendo dell’avversa congiuntura internazionale. Il rallentamento della domanda mondiale frena le nostre esportazioni, che avevano sostenuto l’economia nell’ultima fase espansiva. Vi si associa la debolezza della domanda interna.
La moderata dinamica del reddito disponibile reale delle famiglie, l’incertezza aumentata dall’aggravarsi del clima economico si riflettono sui comportamenti dei consumatori. Si comprimono le spese, soprattutto quelle più facilmente rinviabili. Gli acquisti di beni durevoli, quelli di autoveicoli in particolare, si sono fortemente contratti. Attese di una domanda in flessione, maggiore avversione al rischio, influenzano le decisioni di investimento […]. Azzerare le conseguenze della crisi non è oggi un obiettivo realistico, ma attenuarne il peso e preparare il terreno per un rilancio più rapido e duraturo con appropriate misure di politica economica è possibile. Le politiche economiche nazionali contano. Occorre innanzitutto evitare che la crisi si traduca in una severa contrazione dei flussi di credito all’economia reale; in secondo luogo, è necessario attivare efficaci politiche di sostegno che contrastino le tendenze recessive in atto. […] Non mancano nella nostra economia punti di forza, su cui contare per una risposta efficace alla crisi. Alla ristrutturazione dell’apparato produttivo, osservata negli ultimi anni, si aggiungono l’ancora alto tasso di risparmio e il basso indebitamento delle famiglie.

Purtroppo l’anello debole, della nostra economia, si presenta ancora oggi come una sorta di triangolo delle Bermuda: un perimetro nel quale non si riescono a collegare tra loro, in maniera reciprocamente efficace, politica fiscale, politica monetaria ed una dimensione di mutua cooperazione tra banche ed imprese. La chiave di volta della ripresa della crescita, come ora dovrebbe essere chiaro, è rappresentata invece proprio da quella fiducia reciproca che solo la combinazione tra politica fiscale e politica monetaria, unita alla mutua cooperazione di banche ed imprese, sarebbe in grado di offrire.27

4. Come uscire dalla crisi: Finanza, Crescita e Legal Standard

Il Ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, durante gli incontri del G7, tenuti nell’aprile del 2009 a Roma, ha raccolto un ampio consenso sulla esigenza di creare un legal standard per governare meglio la dinamica del mercato finanziario globale.
In questo modo un tassello importante sembra andare al suo posto per ottenere la soluzione globale di una crisi nata dalla globalizzazione.
Nei giorni immediatamente precedenti la riunione di Roma, il «Corriere della Sera» aveva anticipato il testo di una riflessione – relativa alle origini della crisi in atto nell’economia globale ed alle terapie possibili per aggredirla – proposta da Giulio Tremonti e destinata ad essere pubblicata su Italiani Europei28. Purtroppo il testo, apparso sulle colonne del quotidiano milanese, accusa la mancanza delle prime due pagine dello scritto originale di Tremonti29 . Ma, anche rileggendo il testo nella sua dimensione integrale, si avverte uno scarto tra la robustezza analitica delle spiegazioni offerte per sostenere le ragioni, su cui si fonderebbe la diagnosi delle origini della crisi, e la potenziale utilità della terapia indicata per superare la crisi stessa. In definitiva i dubbi che sollevano nel lettore alcune delle spiegazioni, che supportano le cause individuate come radici della crisi, finiscono per indebolire la fiducia nelle soluzioni offerte che, al contrario di quelle spiegazioni, appaiono molto condivisibili. Ed infatti sono state condivise nella riunione romana dei principali attori politici della scena mondiale in materia di politica economica e di regolamentazione finanziaria. In effetti, Giulio Tremonti, utilizzando una formulazione più apodittica e meno analitica delle proprie terapie, avrebbe ottenuto una prescrizione più robusta ed affidabile rispetto al giudizio che, di fronte ad alcune delle motivazioni esplicative, si viene a formare nel lettore. Essendo questo un potenziale paradosso – essere convincente parlando di meno delle radici analitiche delle proprie ragioni – proviamo a rileggere per parti il testo originale del Ministro Tremonti per capire se, rimosse alcune delle sue analisi preliminari, la terapia risulti comunque fondata ed affidabile.
L’impianto basilare della diagnosi, cioè proprio le due pagine iniziali rimosse dal «Corriere della Sera», è solido: la globalizzazione è l’origine della crisi mondiale perché si è trattato di un cambiamento troppo radicale e troppo rapido, perché ha scontato un deficit di governo nella sua manifestazione – è stata, insomma, troppo liberista e poco liberale, verrebbe voglia di dire – e perché ha avuto il suo motore primo nel campo della finanza e nella logica del debito.
È stato in specie in questi termini che ha avuto inizio la degenerazione del capitalismo come era venuto formandosi nei decenni precedenti e di riflesso e per questa via ha avuto inizio la configurazione delle nostre società in un tipo nuovo di società: la “debt society”, la “leveraged society”, la “società del debito”. La funzione insieme euforica e parossistica del debito ha in specie spinto verso l’uso dello strumento del debito non solo per acquisire quantità crescenti e superflue di beni di consumo privato. Non solo. Lo strumento del debito è stato utilizzato non solo per costruire beni industriali nuovi, ma anche – soprattutto – per acquisire la proprietà di beni industriali già esistenti (debito nuovo per impianti vecchi).

Così scrive Tremonti nell’ultima frase delle pagine non pubblicate dal Corriere ma disponibili nel testo rilasciato dal sito web che abbiamo citato in nota, precedentemente.
E, se Tremonti si fosse fermato a questa diagnosi, avrebbe sinteticamente spiegato la sostanza vera delle origini della crisi: un eccesso di debito che non è troppo in assoluto ma che risulta ridondante, cioè rappresenta una bolla od una sorta di escrescenza sterile, perché non si è risolto nel trasferimento di fondi residui rispetto al consumo – il nuovo risparmio – in nuovi investimenti, capaci di generare ulteriore reddito. La capacità di credito, una volta alimentata dal debito, non ha creato capacità di reddito.
Il debito, in ogni caso, non genera mai direttamente valore; anche quando serve strumentalmente ad alimentare nuovi investimenti.
È l’investimento che genera valore mentre la struttura finanziaria può creare un aumento del rendimento per gli azionisti delle società che realizzano, mediante il debito, nuovi investimenti ma solo quando e se il costo del denaro risulti inferiore al rendimento dei nuovi asset finanziati con il debito. Quando si realizza questa vera e propria “alchimia della finanza” il debito aumenta la crescita del sistema perché ha aperto le porte alla formazione di nuova ricchezza. È stato, come diceva Schumpeter, il biglietto di ingresso per un mondo sicuramente più ricco e che potrebbe anche essere molto migliore, sotto il profilo della equità sociale, ridistribuendo con le politiche fiscali una parte della nuova ricchezza prodotta. Insomma, il debito non genera valore per l’esserci ma è la condizione necessaria, e non sufficiente, della crescita che, a sua volta, è la ineludibile premessa dello sviluppo economico: di una crescita che alimenti, in una sequenza di successione cronologica che consente l’intervento redistributivo delle politiche pubbliche, anche il benessere diffuso e la giustizia sociale. Secondo le logiche di una azione collettiva governata dall’iniziativa degli Stati nazionali. Se e quando questi ultimi sono fondati sull’impianto di un pensiero liberale, amico e rispettoso ma non succube dei mercati, e non sulla chimera della pianificazione socialista.
Purtroppo il Ministro Tremonti non si è fermato alla frase che abbiamo riportato ma ha allargato la sua interpretazione delle cause della crisi ad altri piani: ne ha esposto le basi analitiche in quattro punti che sono, ecco il nostro punto di dissenso, assai meno condivisibili della sua motivazione principale. Quella che afferma la causa della crisi essere una globalizzazione troppo rapida, poco governata, dominata dal comportamento “opportunistico” di una larga parte del sistema bancario. Comportamento che si risolve nella cessione – attraverso le cartolarizzazioni di crediti esistenti e di prodotti derivati collaterali, i derivati – del rischio detenuto nei bilanci delle banche alla platea indistinta dei possessori di fondi liquidi in un regime di sostanziale opacità dei prezzi dei titoli, di mancata evidenza della dimensione del rischio, e del suo rapporto necessario con la dimensione dei rendimenti attesi. Uno scambio, quello della stagione delle cartolarizzazioni e della ingegneria finanziaria, tra gli stock esistenti di crediti e titoli contro massa monetaria – il risparmio rimasto in forma liquida – e non tra nuovi flussi di risparmio e nuovi flussi di investimento, come scrive del resto lo stesso Tremonti30.
Veniamo allora al dissenso sul merito di quelle motivazioni analitiche che non ci sembrano condivisibili. Le radici profonde, le cause generanti della crisi, sono ricondotte da Tremonti a quattro patologie. La nuova finanza non é un fattore di progresso scientifico utile per migliorare la qualità della politica economica e la robustezza della crescita ma solo una fonte di opportunismo: «un paradigma che, basato sull’azzardo matematizzato dei derivati, ha creato e sta creando effetti progressivi di crisi». La seconda patologia è la degenerazione causata dalla fuoriuscita dalle giurisdizioni ordinarie. La sequenza che conduce il capitalismo «più che nello schema della deregulation in quello dell’anomia». La terza patologia è l’abbandono dell’idealtipo della società per azioni e la opzione di estendere fuori dal perimetro di quella l’utilizzo delle strutture societarie per dare vita ad entità incerte nella propria identità, che non sono imprese e neanche banche: hedge fund ed equity fund. Si presume, anche se Tremonti in questo caso non le menziona, che ricadano in questa fattispecie anomala anche le special entities per le cartolarizzazioni e tutte le altre costruzioni contrattuali della finanza di progetto: il mondo variegato della “ingegneria finanziaria”. L’ultima patologia, la quarta, riguarda la tecnica della contabilità e le sue possibili degenerazioni.
Il criterio della partita doppia si organizza fondamentalmente e basicamente sulla distinzione tra conto patrimoniale e conto economico. Non esiste l’uno senza l’altro e non esiste l’altro senza l’uno. Diversamente, l’ultimo capitalismo si è liberato dal vincolo della partita doppia. Si è spostato solo sul conto economico, abbandonando la base del conto patrimoniale. Questo non è stato solo un passaggio contabile, è stato soprattutto un passaggio politico e morale. Il conto patrimoniale è infatti il mondo dei valori. Il conto economico è invece il mondo dei prezzi. Il conto patrimoniale è un mondo in cui vedi la struttura, la storia, l’origine, il presente e il futuro di una società, e anche la sua missione industriale e morale. Il conto economico è invece un’altra cosa. Se tutto il capitalismo vira sul conto economico e cessa di essere orientato nella logica della lunga durata, come è invece tipico e proprio del conto patrimoniale, se diventa corto e breve, perché così è la logica del conto economico, se non conta più la durata della società, ma l’anno sociale, questo a sua volta diviso in semestri, in trimestri, in fixing giornalieri, allora è chiaro che quasi tutto cambia. È così che il capitalismo ha preso la forma istantanea del conto economico. È così che è venuto via via configurandosi un capitalismo di tipo nuovo, di tipo “take away”.
Estrai ricchezza dal conto patrimoniale, saccheggi i valori che ci sono dentro e li porti fuori.

Partiamo, allora, proprio da questa quarta patologia, la contrapposizione tra conto economico e stato patrimoniale, che rappresenta una dimensione tecnica della gestione aziendale; le altre tre essendo questioni di carattere istituzionale, regole ed organizzazioni su cui fondare le basi della moderna economia monetaria di produzione: altro nome, meno ideologico come avevamo detto nel glossario precedente, per indicare il capitalismo.
La partita doppia è una potente innovazione nella tecnica per la gestione delle informazioni relative al governo delle imprese e dei progetti di investimento. La sua apparizione, nel 1494, rappresenta uno dei tasselli generati dalla ritrovata libertà di pensiero che alimenterà un vero e proprio salto nella produttività generale di sistema: migliorando la percezione, e dunque, l’efficienza della gestione, dei progetti imprenditoriali ma anche la loro valutazione, ex ante ed ex post. È vero che conto patrimoniale e conto economico siano complementari ma mentre il conto economico racconta il divenire dei flussi che attraversano l’impresa, quello patrimoniale è rigorosamente istantaneo e rappresenta una vera e proprio fotofinish, al 31 dicembre di ogni anno, che fissa le dimensioni puntuali degli stock esistenti nell’impresa. Esso censisce la dimensione ed il valore, al costo storico, dunque ai prezzi di mercato, delle attività reali e dei debiti che sono stati accessi, e sono in essere a quella data, l’out standing come si dice in inglese, necessari per fronteggiare quella consistenza degli asset descritta nel lato sinistro del conto. L’unico, il lato sinistro del conto patrimoniale, che crea valore, come ci hanno insegnato da decenni Modigliani e Miller. Ovviamente, nel conto patrimoniale, i valori reali, quegli degli asset, assunti al prezzo pagato per ottenerne la disponibilità, possono e debbono essere modificati da fondi di rettifica che ne riportano il valore attuale verso quello di mercato. Perché, come dice anche la Bibbia, l’oro potrebbe non bastare, in futuro, per ricomprare l’argento che abbiamo usato precedentemente per comprare l’oro medesimo. Essendo l’oro la ricchezza reale e l’argento la moneta, nel testo delle scritture.
La vera patologia, ed in questo ha ragione Giulio Tremonti ma lo dicono tutti gli economisti sin dall’inizio del Novecento, è scegliere di limitare il proprio giudizio sull’impresa al conto economico di un anno: una segmentazione arbitraria della vita del progetto imprenditoriale sottostante. Il progetto che viene governato dalla società che amministra il complesso dei beni e dei servizi necessari alla sua realizzazione: l’azienda.
La descrizione della storia dell’impresa, effettiva quando si legge nel bilancio, od attesa, quando la si disegna in un business plan, si compie in tre passi: uno stato patrimoniale iniziale, uno finale ed un conto economico lungo quanto la vita stessa dell’impresa, ancorché segmentato in periodi solo per poterne verificare periodicamente lo stato di avanzamento, affiancato da un rendiconto finanziario. Le grandezze descritte sono gli stock che danno origine al progetto e quelli che si ritrovano alla fine ma anche l’insieme dei flussi che modificano, nel tempo, il valore e la dimensione degli stock. È vero che segmentare per giorni e trimestri il conto economico è una manifestazione ulteriore della patologia già indicata da Tremonti. Se le transazioni si riferiscono solo allo scambio sul mercato secondario di valori e titoli esistenti con moneta altrettanto esistente, e non riguardano i flussi del reddito e della spesa, per consumi od investimenti, potrebbe essere utile, e viene redatta, una ragionevole, ma forse non esaustiva spiegazione, della variazione intervenuta nel valore dello stock di chi vende (l’asset, reale o finanziario che sia) per convincere del quantum di moneta da consegnare colui che lo compra. Ma questa percezione deformata del conto economico ha veramente poco a che vedere con la partita doppia e le intuizioni aritmetiche di Luca Paciolo.
Non regge, inoltre, l’ipotesi di una distinzione tra il conto patrimoniale come archivio dei valori reali contro il mondo dei prezzi, il riflesso del quale sarebbe leggibile nel conto economico. Il conto economico istantaneo è una patologia, ed anche un nonsenso, perché è il conto patrimoniale che è, deve essere, istantaneo. Il conto economico racconta esplicitamente una dinamica di flusso e non uno stato. Dunque, come avevamo anticipato, il giudizio iniziale del Ministro Tremonti – la patologia degli scambi concentrati solo nel mercato secondario tra moneta e valori esistenti, il cui prezzo viene presentato in termini opachi al mercato – è assolutamente preferibile, e non ha bisogno alcuno di essere sostenuto da una metaforica interpretazione della partita doppia, come valore della tradizione contro la cattiva innovazione, che finisce per deformare e non per rafforzare la sua tesi iniziale. Veniamo, più in breve, alle ultime ed ulteriori tre patologie.
Qui siamo sul terreno istituzionale. Sono in gioco regole ed organizzazioni: la regola della condivisione tra i soci del rischio implicito nell’utilizzo degli asset; la regola del trasferimento del rischio di insolvenza, e del correlato diritto del banchiere a ritirare il valore degli asset di un progetto fallito cedendo quegli asset al prezzo residuo al mercato, che è la base della responsabilità limitata e del fallimento. In queste regole, che sono le colonne della società di capitali, si nascondono due opzioni, due derivati che esistono, dalle origini del capitalismo, e forse anche prima, dalle origini della possibilità di redigere contratti basati sulla proprietà e la cedibilità della stessa sotto condizioni. Anche se nessuno li aveva riconosciuti, prima della esplosione dell’interesse analitico per la finanza, animato da Merton; Black, Sholes e molti altri allievi dei maestri storici delle università americane: Samuelson e Modigliani. Gli azionisti hanno azioni che possono essere descritte come una call, un derivato: il diritto ma non l’obbligo di pagare il debito in essere per ottenere la disponibilità tra il valore residuo, che deriva dalla differenza tra il prezzo di mercato degli asset ed il valore del montante tra debito ed interessi. Quel montante è lo strike price della call, mentre il valore degli asset è incerto, come è naturale che sia, mentre la sua stima potenziale dipende dal valore atteso dei loro rendimenti netti. Le azioni aiutano a convivere con l’incertezza del risultato imprenditoriale – ecco perché sono effettivamente una call – ma non a gestire il rischio. Grazie alla differenza tra azioni e debito, al fatto che il rendimento delle azioni sia legato all’esito dell’investimento ed al rischio che lo caratterizza mentre il rendimento dei creditori sia definito per contratto e non dipenda dall’esito del progetto imprenditoriale, gestire il leverage, per evitare un eccessivo rischio di fallimento o gestire la struttura degli impieghi dell’impresa, o quella dei portafogli azionari, diventano utili manovre per evitare di mettere tutte le uova nel medesimo paniere ed ottenere, grazie alla media tra rischi e rendimenti, il vantaggio che il rischio medio si riduca più rapidamente del rendimento medio, per note ragioni statistiche circa la relazione tra media e deviazione standard dalla stessa. Questo è il bagaglio analitico della finanza tradizionale, quella che dominava la scena prima della scoperta dei derivati e della ingegneria finanziaria. Il debito, per chiudere su questo punto, o meglio il leverage (il rapporto tra il valore nominale del debito e quello delle azioni) non è mai “troppo”. Ma, se è molto elevato, rende ancora più volatile e sensibile la relazione tra costo del debito e rendimento degli asset.
In presenza di una variazione del secondo, che è una grandezza aleatoria, rispetto al primo, che invece è fissato nel contratto con i finanziatori – anche quando è fissato in formula e non in valore assoluto ed è, quindi, variabile – aumenta il rischio di insolvenza e la probabilità che si manifesti il conseguente fallimento dell’impresa. La banca che abbia richiesto agli azionisti una fideiussione, od una garanzia reale, ha una sorta di put, un altro derivato: il diritto di vendere a terzi, i garanti, ai prezzi di mercato gli asset residui del progetto, sui quali gli azionisti non hanno esercitato la propria call, pagando il debito, perché il valore del debito superava il valore atteso degli asset. Se e quando la call degli azionisti è in the money, la put dei creditori è out of the money; e viceversa. Se esiste una, l’altra si estingue. Se l’azionista paga il debito ottiene il profitto ma egli paga il debito solo se esiste quel profitto, almeno quando agisce in regime di responsabilità limitata e non ha concesso garanzie terze ai creditori. Altrimenti, appunto, ricorre alla clausola della responsabilità limitata e fallisce. Un esito naturale del progetto imprenditoriale quando esso non degeneri nelle circostanze che rimandano al reato di bancarotta: alla utilizzazione opportunistica del fallimento. Se, al contrario, i banchieri discutono le garanzie, scompare l’impresa, essendo scomparso il profitto che ne rappresentava la dimensione essenziale, e gli asset tornano sul mercato grazie alla loro vendita all’incanto e con un danno per i garanti che, se sono in grado, sopporteranno le conseguenze che nascono dal diritto delle banche a pretendere da loro il valore atteso dei crediti che essi avevano scelto di garantire.
I derivati esistono indipendentemente ed a prescindere dalle regole che li potrebbero governare e da coloro che li descrivono e li costruiscono consapevolmente. Quando questa costruzione degenera rispetto alla loro natura assicurativa, di copertura sugli Stati del mondo rispetto all’incertezza del loro successivo manifestarsi, la compravendita di derivati diventa assimilabile alle scommesse e si risolve in una bolla pericolosa, perché genera volumi crescenti di rischio di controparte. Diventa un rischio sistemico che può degenerare in una crisi puntuale, altrettanto sistemica, di liquidità se si allarga alla scala dell’intero sistema: circostanza molto probabile in una economia globale che disponga solo di un regime di vigilanza prudenziale segmentato secondo i perimetri degli Stati nazionali.
L’ingegneria finanziaria, insomma, è solo uno strumento, una tecnica: non è e non può essere più o meno diabolica, Può, essendo molto opaca e complessa da decifrare, prestarsi a comportamenti di azzardo morale (hidden action) da parte di chi la conosce nei confronti di chi non la capisce: i consumatori di prodotti finanziari derivati od i regolatori dei mercati finanziari. Regolatori che osservano le banche e che, in un mercato che trasferisce il rischio dalle banche ai risparmiatori, perdono anche una parte importante delle informazioni sulla dimensione del rischio.
A maggior ragione se i prezzi con cui quel rischio viene trasferito ai mercati non sono prezzi di equilibrio, nella relazione tra rischio e rendimento. Ma questa seconda circostanza è una questione di selezione avversa (hidden information) che dipende sempre dalla asimmetria delle conoscenze ma si manifesta nel mercato e non nella dinamica reciproca delle gerarchie organizzative. A differenza della hidden action, che genera vantaggi personali per i manager, bancari od industriali, sottraendo valore ai consumatori ed ai propri azionisti.
Ricapitolando le radici analitiche delle quattro patologie esposte da Tremonti, si può dire, sinteticamente, che esse esistono tutte, come patologie della moderna economia monetaria di produzione ma che esse sono solo l’effetto distorto di forze implicite, ed esistenti da sempre, nelle basi logiche, prima ancora che storiche, del “capitalismo” come di ogni altra combinazione tra scambio e gerarchie, mercati ed istituzioni che abbia alimentato la produzione e la distribuzione della ricchezza.
Esse non sono altro che una potenziale utilizzazione patologica degli strumenti fondamentali del sistema ma non sono esse stesse, e comunque, una patologia del sistema. Contano gli uomini, i loro comportamenti ed i valori che essi intendono conseguire, prima ed indipendentemente dalla natura e dalle forme che gli stessi uomini hanno dato alle istituzioni, da loro create e gestite, per governare l’azione collettiva.
La metafora biologica che descrive come creature viventi gli Stati e le Imprese può nascondere, a volte e con conseguenze negative, questa necessaria constatazione.
La finanza, il debito ed i derivati, insomma, non sono una metastasi da ridimensionare ma una forza da utilizzare. Come l’energia atomica, che alimenta la distruzione del mondo o la creazione di vantaggi collettivi secondo le circostanze e le modalità con cui viene impiegata.
Il 19 di gennaio, sulle colonne de «La Repubblica», Luigi Spaventa pubblica un commento che ci offre le due categorie ulteriori con cui si chiude il cerchio di un possibile superamento della crisi globale in atto31.
La prima è la proposta di ritirare dai bilanci delle banche i titoli resi opachi dalla indeterminatezza del rapporto tra rischio e rendimento e dal prezzo utilizzato in sede di emissione per segnalare la dimensione di quel rapporto. La “ipotesi Paulson”, insomma. Una proposta progressivamente emarginata, anche se una proiezione della stessa riappare nella creazione di contenitori, controllati dalle banche centrali, e da quella degli Stati Uniti in particolare: riappare nella forma della creazione di “discariche per i titoli tossici” in circolazione.
La seconda è la creazione di un legal standard, una disciplina condivisa, e sovranazionale, che fissi le regole di comportamento future per gli intermediari ed individui una autorità capace di vigilare sull’applicazione delle stesse. Proposta che, come abbiamo già detto, è stata recepita dal G7 conclusosi a Roma nel mese di aprile.
Scrive Luigi Spaventa che questa sorta di costituzione sovranazionale, capace di impedire la replica degli errori alle nostre spalle, «dovrebbe avere una caratteristica particolare. Essa dovrebbe essere formulata per principi, e non in termini di regole dettagliate: per regole dettagliate. Lo stesso principio può essere soddisfatto in modi diversi, in relazione alle diverse realtà giuridiche. Né si deve inseguire l’illusione di un regolatore unico: una proposta che sarebbe inattuabile non solo politicamente ma anche in pratica». La ipotesi Paulson ha anche un illustre precedente nella storia economica italiana. La nascita dell’IRI: che conclude una lunga rincorsa nella creazione di banche di credito finanziario per ripristinare una relazione ordinata tra intermediari ed imprese separando la progressiva intersezione tra i bilanci delle prime e quelli delle seconde, frutto degli effetti della crisi del 1929. Imprese che accusavano gli effetti di una progressiva recessione mondiale e diventano progressivamente il liquide scontavano effetti presso le banche che, a loro volta si indebitavano con la banca centrale: per sostenere imprese delle quali non erano più creditori ma anche azionisti e, per salvare il valore delle azioni, dilatavano il leverage delle imprese stesse, ma anche quello dei propri bilanci, oltre ogni ragionevole capacità degli asset di generare redditi per fronteggiare il servizio del debito crescente.
Il fondatore dell’IRI, e delle numerose banche di credito finanziario precedentemente create (ICIPU, Crediop; IMI), Alberto Beneduce, dette vita ad un ente pubblico economico, pubblico per l’esserci, come dirà successivamente Giuliano Amato delle banche italiane. Finanziò questo ente non solo con un fondo di dotazione ma anche facendo emettere allo stesso titoli pluriennali che vennero collocati nel portafoglio delle famiglie italiane, recuperando larga parte della liquidità esistente. Investendo i proventi di quel debito nell’acquisto delle azioni rappresentative del capitale delle maggiori imprese e di alcune banche italiane. Titoli che non avevano prezzi capaci di segnalare il valore prospettico di quelle imprese e di quelle banche. Le banche, cedute le azioni delle imprese e quelle delle banche da loro controllate in termini incrociati, ritrovarono un equilibrio finanziario e la stessa banca centrale superò la progressiva rigidità della propria struttura finanziaria, ingessata dal credito di ultima istanza concesso alle aziende di credito. L’IRI seppe governare la progressiva espansione di quelle imprese e di quelle banche, si pensi al caso del piano siderurgico realizzato da Oscar Sinigaglia, e coprire il servizio di quelle obbligazioni che erano state emesse. Il leverage dell’IRI generò, grazie alla crescita realizzata dalle sue imprese, i margini per ripagare quel debito grazie al nuovo reddito prodotto. Almeno nella lunga e positiva stagione che si concluse con il “miracolo economico” degli anni Sessanta.
Legal standard, come misura attesa di una migliore regolamentazione del mercato finanziario globale; riscoperta del valore positivo della finanza e della sua necessaria utilizzazione per rilanciare la crescita; segregazione e gestione dei titoli opachi, il valore dei quali può essere progressivamente ricostruito od ammortato nel tempo per quella parte che risultasse assolutamente sterile. Sono questi i tre pilastri di un nuovo possibile e futuro equilibrio. Nel contesto di un nuovo equilibrio tra flussi di reddito, saldi dei conti con l’estero e livello dei cambi tra le principali monete32.
Il contesto della seconda Bretton Woods che viene spesso evocata.
Equilibrio degli intermediari e dei mercati finanziari, che oggi rappresentano il sistema di governo dei flussi internazionali dei capitali, ed equilibrio macroeconomico mondiale rappresentano i punti di arrivo, la fuoriuscita definitiva dalla crisi attuale. Non sono vicini ma si comincia a capire cosa dovrebbero essere e come si possano costruire le condizioni per dare loro vita. Da questo punto di vista, Giulio Tremonti sarà considerato certamente uno degli architetti che avranno contribuito alla realizzazione dell’edificio.




NOTE
1 «Occupiamoci ora degli approcci classici all’etica della finanza. Vorrei cominciare attirando l’attenzione su una singolare contrapposizione, la dissonanza tra la cattiva fama di cui gode la pratica dell’attività finanziaria ed il ruolo sociale, altamente positivo, che indubbiamente essa assolve […] certo il mestiere del prestare denaro è stato censurato per migliaia di anni» p. 55 di A.K. Sen, La ricchezza della ragione, Denaro, valori, identità, (traduzione italiana), Bologna, Il Mulino, 1991.^
2 «Un evento sconvolge i mercati quando contraddice il senso comune sul presunto comportamento del mondo della finanza. L’incertezza conduce ad un drammatico disimpegno da parte della comunità finanziaria, che, quasi immancabilmente comporta vendite e, di conseguenza, prezzi più bassi per prodotti ed attività. Possiamo spiegare con modelli economici la fase dell’euforia e la fase della paura del ciclo di business: hanno parametri piuttosto diversi. Ma non siamo mai riusciti a trovare modelli economici per illustrare la transizione dall’euforia alla paura» scrive A. Greenspan in «Il Sole 24 Ore», 14 maggio 2009, Arringa del Maestro: non sono un mago. Confermando che la crisi nasce dal diffondersi dell’incertezza e dall’eccessiva confidenza con il rischio ma confermando, anche ed implicitamente, che essa, pur non essendo descrivibile come una routine, si muove sulla falsariga di comportamenti troppo azzardati da parte dei banchieri e troppo timidi da parte dei supervisori dei banchieri che, in definitiva, traggono le proprie informazioni, senza poter fare altrimenti, dal comportamento degli stessi banchieri.^
3 Si possono leggere giudizi interessanti sulla esistenza e la dimensione di questo cambio di tendenza in M. De Cecco, La notte buia che il G20 non illumina, in «La Repubblica», Affari & Finanza, 6 aprile 2009 ed in L. Spaventa, Quel bisogno di ottimismo, in «La Repubblica», 21 aprile 2009. Si veda anche G. Tabellini, Idee e regole per il mondo dopo la tempesta, in «Il Sole 24 Ore», 7 maggio 2009.^
4 Il testo integrale si può scaricare at http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2009/bolls56.^
5 La relazione si può leggere at http://www.tesoro.it/ dove è possibile anche leggere l’intervista al Ministro, apparsa sul «Corriere della Sera», il 16 maggio 2009, dal titolo Tremonti: autostrade, poste e Iva ci dicono che la caduta si è arrestata.^
6 G. Tabellini, nel testo citato precedentemente, avanza l’ipotesi che l’innovazione finanziaria attenui, sotto il profilo cognitivo, la percezione del rischio anche nei “produttori” e non solo nei “consumatori” dei prodotti finanziari in presenza di una accelerazione delle innovazioni nell’industria della finanza. Ed aggiunge che tale attenuazione, della percezione sulle conseguenze della generazione del rischio, sia imputabile, per i modi in cui la crisi ha potuto deflagrare, anche ed in parte ai “regolatori” ed ai supervisori dei mercati e degli intermediari finanziari. Si tratta, per usare un linguaggio giuridico, di una spiegazione che accentua un dato colposo rispetto a quello doloso nel giudizio sulla deontologia professionale nel mondo della finanza. Francamente, come ammette del resto lo stesso Tabellini nel suo articolo, la causa scatenante di questa crisi sembra essere l’azzardo morale degli attori: manager, supervisori o controllori che essi siano stati. Come racconta, con una preveggenza singolare ed inquietante, G. Carli in un testo, Pensieri di un ex Governatore, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1988, citato anche oltre nel corpo di questo articolo, apparso nel 1988, ed in cui si riporta il contenuto di una sua conferenza tenutasi nel 1987, il giorno 11 di aprile, a Bologna.^
7 Si vedano Ben S. Bernanke, The Economic Outlook Before the National Italian American Foundation, New York, November 28, 2006, e M. Draghi, Le istituzioni finanziarie internazionali nell’economia mondiale, Firenze, 11 Ottobre 2006. Si vedano anche, ed in una dimensione ex post rispetto alle dinamiche di crisi ormai manifeste, M. Draghi Banche e mercati: lezioni dalla crisi, Intervento alla Foreign Bankers’ Association, The Nederlands Amsterdam, 11 giugno 2008 e F. Saccomanni, Nuove regole e mercati finanziari, SSPA – Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, Roma, 19 gennaio 2009.^
8 Bollettino Economico numero 53, luglio del 2008, Banca d’Italia, p. 16.^
9 Bollettino Economico numero 53, luglio del 2008, Banca d’Italia, p. 11. Si deve leggere anche B. S. Bernanke, Semiannual Monetary Policy Report to the Congress Before the Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs, U.S. Senate, July 15, 2008 At Http://www.federalreserve.gov/newsevents/testimony/bernanke20080715a.htm ^
10 Sulla politica monetaria della BCE è intervenuto di recente, con un lungo articolo, su «Il Foglio» G. la Malfa. All’articolo di la Malfa, apparso sul numero del 22 aprile 2009 del quotidiano in questione, hanno fatto seguito articoli ed interviste di B. Smaghi, P. Savona e G. Tabellini. Rispettivamente sui numeri del 23 aprile, del 24 aprile e del 25 aprile. Il dibattito ritorna sulla natura dell’inflazione e sulle modalità di politica economica che governano le scelte della BCE. La diminuzione, a maggio del tasso di sconto da parte della BCE, infine e successivamente, è oggetto di una puntuale ed acuta interpretazione nell’articolo di P. Savona, I tempi delle scelte, in «Il Mattino», 8 maggio 2009.^
11 Il 13 ottobre 2008, sulle pagine de «La Repubblica», viene pubblicata una efficace e sintetica ricostruzione del salto di qualità che la crisi subisce con il fallimento della più aggressiva banca d’affari americana. Si tratta dell’articolo di L. Spaventa, Capire la crisi, le statuine e il mercato.^
12 Su questa analisi convergono sia le opinioni di G. Nardozzi – I danni del denaro facile: quell’alleanza tra Fed e Cina, in «Il Sole 24 Ore» del 26 giugno 2008 – che quelle di P. Savona. Si vedano Europa svegliati, serve una sola voce, del 5 luglio 2008 e Prezzi, Dollaro e Borsa del 16 luglio 2008, entrambi su «Il Messaggero». Ma anche Euro, dollaro ed inflazione. Chi ha incastrato Roger Rabbit ? sempre su Il «Messaggero», del 28 luglio 2008.^
13 La modificazione dei prezzi relativi come dimensione diversa delle convenzionali interpretazioni dell’inflazione viene proposta nel dibattito italiano, per la prima volta, da Guido Carli. Il contributo di Carli, apparso originariamente nel 1975, si può ora leggere nel volume, a cura di Pier Luigi Ciocca, Guido Carli governatore della banca d?italia, 1960 – 1975, Bollati Boringhieri, Torino 2008, alle pagine 60 e seguenti, con il titolo: L’inflazione 1968 - 74: nuovi caratteri. Ma era già stato ripubblicato anche in G. Carli, New Features on the Inflationary Process, Luiss University Press, Roma 2003.^
14 Si veda M. De Cecco, Germania hub industriale dell’Unione, su «La Repubblica», Affari & Finanza, 19 gennaio 2009.^
15 È stato osservato che la elevata dimensione della evasione fiscale, stimata in vario modo, sia nel caso italiano una sorta di correzione del prezzo dei beni pubblici, la qualità dei quali si presenta inferiore al valore nominale delle imposte e delle tasse se fossero tutte onorate nella dimensione dovuta. L’evasione, insomma, sarebbe una correzione di mercato del fallimento dello Stato. In effetti questa correzione di mercato genera, a sua volta, un doppio danno al mercato italiano: quello derivante dall’impatto della fragilità finanziaria, che deriva dall’eccesso di debito che deve fronteggiare il gap delle imposte rispetto alle attese, che peggiora la reputazione ed il rating della finanza pubblica, traducendosi in uno spread positivo che innalza il livello dei tassi di interesse sul debito; l’ulteriore danno derivante dalla cattiva qualità dei servizi pubblici che non viene corretta perché diventata compatibile con il ridotto gettito fiscale. Si genera, in definitiva, un ulteriore e peggiore fallimento del mercato italiano, come attrattore di investimenti, in ragione del fallimento dello Stato nel compito, difficile ma necessario, di riorganizzare e rendere efficienti i servizi pubblici.^
16 M. Draghi, Guido Carli innovatore, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 16 gennaio 2009. In una intervista rilasciata al Forum di Davos, gennaio 2009, Mario Draghi afferma che la crisi potrà essere superata solo a queste condizioni: «In the end, what we want is a financial industry and banking-sector industry where you have more capital, less debt, more rules and much stronger supervision […] (financial) markets largely remain frozen and that the only thing that would attract investors -- many of which actually serve as lenders because they invest in debt -- is an assurance of safety and transparency […] The only thing we can do to help restart the market is to tell the world that there are certain kinds of real products that are simple to understand, easy to price and satisfy certain legal conditions». Dove, atteso che Draghi parla dei mercati finanziari, per real products si intendono titoli da classare nei portafogli degli investitori, aprendo di nuovo la possibilità di utilizzare il mercato del credito e quello finanziario per trasferire risparmio ai nuovi investimenti, alimentando la crescita e superando, così, il clima recessivo che domina la scena.^
17 Si veda ancora l’articolo, già citato precedentemente, di M. De Cecco sulla Germania come hub della industria europea.^
18 Sulla natura complementare di mercato e gerarchia, ma anche sulla contrapposizione tra la soluzione delle scelte individuali, conseguite attraverso il sistema dei prezzi, e quelle relative alle scelte dei gruppi, la soluzione delle quali si affida al governo della scelta collettiva che si ottiene con gerarchie ed istituzioni, che non siano necessariamente parte dell’ordinamento degli Stati nazionali, si veda K. J. Arrow, I limiti dell’organizzazione, traduzione italiana, Milano, Il Saggiatore, 1986.^
19 In un memorabile articolo pubblicato nell’«American Economic Review», volume 48, n. 3 June, nel 1958, F. Modigliani e M. Miller propongono una interpretazione risolutiva dell’impatto del debito sulla creazione di valore. Il titolo dell’articolo è The Cost of Capital, Corporation Finance and The Theory of Investiment. La traduzione italiana si legge in molti volumi e, tra l’altro, in F. Modigliani, Reddito, interesse, inflazione, Scritti scientifici raccolti da T. e F. Padoa Schioppa, Torino, Einaudi, 1987. Nella vulgata che si diffonde, in seguito al loro contributo, emerge una sintetica ed elementare definizione: è il lato sinistro del bilancio che crea valore. Essendo il lato sinistro del bilancio quello che espone il valore e la natura delle attività reali, che rappresentano gli strumenti necessari della produzione (gli asset) che genera il valore delle merci prodotte e non solo le merci stesse. Anche se il completamento della formazione del valore avviene attraverso lo scambio, sul mercato, nel quale prende corpo la dimensione del prezzo, cioè la misura del valore stesso nella percezione dei consumatori e data la dimensione della competizione esistente sul mercato. Il lato destro del bilancio aziendale, invece, essendo quello che espone la dimensione e la provenienza dei fondi presi a prestito, i debiti, e di quelli conferiti a titolo di capitale dagli azionisti (liabilities and equità). Si legga, in proposito, A.P. Villamil, The Modigliani-Miller Theorem, voce che apparirà nella prossima edizione del The New Palgrave Dictionary of Economics, at http://www.econ.uiuc.edu/~avillami/PalgraveRev_ModiglianiMiller_Villamil.pdf .
Si veda anche il numero 4 dell’annata 1988 del «Journal of Economic Perspectives», che ospita una lunga serie di articoli dedicati al trentennale delle opinioni espresse da Modigliani e Miller sulla struttura finanziaria ed il suo impatto sulla creazione di valore. In particolare l’articolo di J.E. Stiglitz, Why Financial Structure Matters, che espone le relazioni tra informazione asimmetrica e comportamenti di azzardo morale che inficiano la neutralità che, altrimenti ed in condizioni di piena competizione dei mercati, si manifesterebbe, come provano, appunto, i contributi seminali di Modigliani e Miller.^
20 M. Monti sul «Corriere della Sera» e G. Toniolo, su «Il Sole 24 Ore», ripropongono un tema importante. Se L’Unione Europea non debba ritrovare una dimensione più coesa ed insieme più condivisibile della struttura economica delle proprie economie, una volta consolidato l’ampio allargamento del numero degli Stati partecipanti. Il trade off proposto è tra una imposizione fiscale meno leggera di quella ipotizzata dalle economie più vicine al sistema anglosassone, come il Regno Unito, ed una economia che finanzi meglio il proprio regime di protezione e supervisone con le risorse fiscali aggiuntive che quella maggiore pressione fiscale comporta. L’idea sarebbe quella di una Unione Europea più renana e più fondata sul così detto capitalismo di relazione, tra gruppi ed interessi sociali costituiti. Non si capisce, tuttavia, se e come, questa economia sociale di mercato, più onerosa per i contribuenti, possa, nel medesimo tempo offrire una base competitiva più affidabile al proprio interno, grazie alle risorse fiscali dedicate alla tutela della competizione, e manifestare un adeguato grado di competizione con le rimanenti economie del mondo, cioè con una fetta assai larga dell’intera economia globale.
Si vedano M. Monti, Un patto (vero) per l’Europa, 10 maggio 2009 e G. Toniolo, Nuove regole per volare non per legare, 10 maggio 2009. Si veda anche L. Zingales, Lo Zio Sam licenzia Paperon de’ Paperoni, «Il Sole 24 Ore», del 13 maggio 2005, che legge nella intera economia globale una deriva favorevole al capitalismo di relazione, in futuro. Si tratta, come è chiaro, di un tema parallelo ma non estraneo alla riflessione di Giulio Tremonti sull’economia sociale di mercato e la sua capacità di reagire alla crisi finanziaria, ed alla cultura del debito, meglio di quella anglosassone. Un tema sul quale torniamo nella ultima parte di questo scritto.^
21 Il Governatore ha partecipato, il 21 di febbraio del 2009, al 15° Congresso degli operatori finanziari, organizzato a Milano da AIAF, ASSIOM ed ATIC FOREX. Il testo del suo intervento si può leggere nella versione integrale at http://www.bancaditalia.it/interventi/integov.^
22 Tra i quali F. Giavazzi, sul «Corriere della Sera» del 22 febbraio 2009, Come salvarci dall’abisso e quello di L. Spaventa su «La Repubblica» del 17 gennaio 2009, L’economia non è un oroscopo.^
23 Si veda, ma è solo un primo esempio, la interessante rassegna esposta in I. Visco, La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti, Roma, 4 marzo 2009, che si può scaricare at http://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/visco_040309/Visco_040309.pdf. Si veda anche R. Rajan, Has Financial Development Made the World Riskier?, in The Greenspan Era: Lessons for the Future, Federal Reserve Bank of Kansas City, Jackson Hole, Wyoming, August 2005 at http://www.kc.frb.org/publicat/sympos/2005/sym05prg.htm. Ed infine, A. Kuritzkes T. Schuermann, What We Know, Don’t Know And Can’t Know About Bank Risk: A View From The Trenches, 2007 at www.ssrn.com. In Corso di stampa su F.X. Diebold, N. Doherty, and R.J. Herring (eds.), The Known, The Unknown and The Unknowable in Financial Risk Management, Princeton University Press.^
24 Si legga G. Carli, Il disordine nel tempio della finanza internazionale, in G. Carli, Pensieri di un ex Governatore, Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1988, pp. 161 sgg. Citato anche in precedenza.^
25 Una singolare conferma di questa interpretazione della crisi viene anche da un lavoro di T. Jappelli, Promotori finanziari e conflitti di interesse, apparso su «La Voce». Info il 21 aprile 2009. Il testo si può scaricare at http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001070.html.^
26 Si vedano sia l’intervento del Governatore alla Giornata Mondiale del Risparmio del 2008, Roma 31 ottobre 2008, che quello svolto nell’audizione parlamentare del 21 ottobre 2008, dal titolo: Un sistema con più regole, più capitale, meno debito, più trasparenza.^
27 Un vero caso di scuola sul modo di comunicare una simile politica economica, al contrario di quanto avviene nei paesi europei, è l’impianto del discorso di Barack Obama – un efficace disegno coerente dei propri progetti per l’America e dei modi per realizzarli sul mercato e con la supervisione del Governo ma senza alcuna invadenza dello stesso nella sfera di competenza delle imprese e delle famiglie – tenuto davanti alle camere riunite del Congresso americano il 24 febbraio 2009. Il testo originale si legge at http://www.ilsole24ore.com/includes2007/frameSole.html?http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7909271.stm.^
28 Il testo ridotto del ragionamento di Tremonti appare su «Il Corriere della Sera» del 12 febbraio 2009.^
29 Il testo integrale si può leggere, invece, at http://www.mef.gov.it/documenti/open.asp?idd=20721.^
30 Si veda ancora Guido Carli, 1988, già citato precedentemente, che anticipa, e di molti anni, la medesima interpretazione.^
31 Intelligente e condivisibile il giudizio di Giavazzi sulla politica del Tesoro negli Stati Uniti. Si veda Francesco Giavazzi, Non far morire i mercati, Corriere della Sera del 1 aprile 2009.^
32 «Non aiuti io chiedo per i paesi a valuta deprezzata; ma il fornire alle economie produttive di ciascun paese, e ciò nell’interesse generale, i mezzi per rendere attive le installazioni, le maestranze, le organizzazioni di scambio. Il cambio è espressione di tutta la situazione economica di un paese. Noi non possiamo perciò dire soltanto: occorre pareggiare la bilancia commerciale, o occorre pareggiare il bilancio dello stato; ma dobbiamo esaminare anche il problema da questo altro punto di vista, sia pure in linea molto generale, data l’esistenza di certe masse di lavoro, ammessa la possibilità e la volontà di un lavoro proficuo, come debbono orientarsi i rapporti internazionali in guisa da utilizzare queste capacità produttive nell’interesse generale?». Scrive Alberto Beneduce nel suo discorso alla Conferenza di Bruxelles, il 29 settembre 1920. Confermando come chiudere i conti, con l’estero o quelli del bilancio pubblico, per garantire equilibri sub ottimali sia una soluzione inefficiente sul piano dell’equilibrio reale possibile, altrimenti, grazie alla cooperazione internazionale. Un respiro eterodosso, e per certi versi keynesiano, rispetto all’ortodossia monetaria anglosassone di quel periodo ed al ritorno alla parità aurea ed ad una politica di stabilizzazione. Una prospettiva di politica economica, quella di Beneduce, che anticipa i temi che verranno presi in esame a Bretton Woods dopo alcuni decenni e la seconda guerra mondiale e che conferma ulteriormente il parallelo tra la soluzione della crisi che intervenne in Italia tra le due guerre, anche grazie al lavoro di Beneduce, per superare la crisi finanziaria originata dal crollo di Wall Street ma anche indotta dall’azzardo morale dei banchieri e degli imprenditori italiani, Toeplitz e Feltrinelli in primis, e dal rapporto che grandi banche e grandi imprese avevano stretto tra loro dilatando il rischio rappresentato dalle azioni bancarie a quello delle imprese clienti e trasferendo parte dello stesso al debito delle banche verso la banca centrale. Si veda, in aggiunta alle fonti tradizionali su questi temi, il recente volume dal quale è stata tratta la citazione di Beneduce: M. Franzinelli e M. Magnani, Beneduce, Il finanziere di Mussolini, Milano, Mondadori, 2009. Si vedano anche due interpretazioni delle medesime vicende molto puntuali, entrambe pubblicate nella seconda metà degli anni Settanta: AA.VV. Industria e Banca nella grande crisi, 1929 – 1934, a cura di G. Toniolo, Milano, Etas Libri, 1978 ed E. Cianci, Nascita dello Stato Imprenditore in Italia, Milano, Mursia, 1977.^
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