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L’unità del sapere*
di Giuseppe Galasso

A mio figlio
Luigi,
per la sua esemplare figura
professionale e intellettuale




I. Le due culture

Nel 1959 Charles Percy Snow – fisico molecolare, ma anche romanziere e giornalista, nonché incaricato di varii importanti uffici per conto del governo britannico – pubblicò un libretto che era l’ampliamento di una conferenza tenuta in quell’anno a Cambridge sul tema The two cultures and the scientific devolution. Al libretto arrise una imprevista e clamorosa fortuna, accompagnata da discussioni e polemiche, che spinsero l’autore a pubblicarne nel 1963 una redazione rivista col titolo The two cultures and a second look. An expanded version of “The two cultures and the scientific revolution”.
Snow sosteneva che tra cultura scientifica e cultura umanistica – le due culture di cui egli parlava – si era creata nel corso del secolo XIX una frattura profonda, tradottasi ormai in una totale estraneità e assenza non solo di colloquio, ma perfino della possibilità di colloquio. Le conseguenze di questa frattura estraniante erano per Snow lontane dal limitarsi al già fondamentale piano della cultura. Ne derivava, infatti, anche un pericoloso vuoto nella stessa politica mondiale, in cui i paesi ricchi non sfruttavano appieno la potenziale immensità dei progressi scientifici e della parte che grazie ad essi si poteva giocare in aiuto dei paesi poveri.
Il problema era, in fondo, semplice. Gli umanisti non apprezzavano a dovere la natura e la portata della rivoluzione scientifica. «Gli scienziati – diceva – possono dare cattivi consigli» a chi governa, ma «coloro a cui spetta prendere decisioni non possono sapere se sono buoni o cattivi». Ciò presupponeva che la formazione di coloro che prendono decisioni fosse di tipo essenzialmente umanistico e, perciò, inadatta a un rapporto intrinseco con le voci della scienza, sulla quale, peraltro, Snow non puntava a scatola chiusa, poiché come si è visto, affermava che i consigli degli scienziati potevano anche essere cattivi consigli.
A parte, però, questo aspetto del problema, la distinzione tra le due culture e il giudizio sulla infelicità dei loro rapporti non erano affatto quella novità che allora apparve e che venne ritenuta un merito di Snow di avere sottolineato. La distinzione tra le scienze e le humanities risale ben addietro nella storia della cultura. Così, ad esempio, e per non rifarsi troppo in là nel passato, già nel secolo XIII troviamo nettamente enunciate sia la distinzione che la contrapposizione delle due culture.
Ruggiero Bacone scriveva allora che, oltre le singole scienze, ve n’è «una più perfetta di tutte e che tutte in modo mirabile le certifica», ossia «la scienza sperimentale che tralascia le argomentazioni, non probanti anche quando sono forti, a meno che allo stesso tempo non vi sia una sperimentazione conclusiva […] E questa scienza certifica tutte le cose sia naturali che artificiali», ed è, quindi, «la signora di tutte le altre scienze e il termine di ogni riflessione teorica».
Per contrapposto, a sostegno degli studia humanitatis, si adduceva l’incapacità delle scienze naturali e delle loro sperimentazioni di andare oltre i dati delle proprie certificazioni, di attingere il piano della filosofia morale e dei problemi che essa tratta, di comprendere l’essenza di ciò che, sia pure nel quadro della natura, rende l’uomo più veramente uomo. Lo scienziato – scrive Petrarca nel suo De sui et multorum ignorantia, del 1367 – «molte cose sa delle belve, degli uccelli e dei pesci», ma dell’uomo in quanto uomo, nulla. Petrarca si muoveva, così, nella scia di sant’Agostino, il quale aveva notato che già i «filosofi antichi con la forza dell’ingegno» ad essi dato da Dio «molte scoperte fecero, e predissero molti anni prima eclissi di sole e di luna, indicando il giorno e l’ora, e se sarebbero state parziali o totali, e non si sbagliavano nei calcoli». Molte cose sostenute dagli scienziati – proseguiva il Petrarca – si sono poi rivelate false; ma anche se tutte le loro affermazioni ed escogitazioni fossero vere, quale importanza avrebbero per la vita morale e per la felicità dell’uomo?
Ancora più serratamente il Petrarca si muoveva in quest’ordine di pensieri nella sua Invectiva contra medicum, del 1352. A un medico che aveva affermato l’inutilità e la vacuità della poesia e delle arti liberali egli replicava che la medicina è solo un’ars mechanica, che si può prendere cura del corpo, non dello spirito, e deprecava che i mechanici vantassero di possedere e dominare ogni campo del sapere. Egli respingeva, peraltro, anche le pretese di coloro che riducevano il pensiero filosofico a una vuota dialettica, e svolgeva i suoi argomenti a uguale obbrobrio di “dialettici” e “meccanici”. Ma, soprattutto, valeva per lui una radicale contrapposizione fra il sapere del medico e la sapientia di poeti, filosofi, oratori, che accedevano a un altro livello, più alto e più vero, di pensiero e di conoscenza.
In questo caso, però, a differenza che nel De ignorantia, il Petrarca, alla resa dei conti qualificava il sapere del medico che come una mera abilità tecnica, manuale; un’ars mechanica che non sa, né può penetrare negli archana Dei e neppure nei secreta naturae. Di conseguenza, quel sapere non è neppure, propriamente parlando una scienza. La vera scienza rimane quella che parla di tali archana e secreta, quella che fin dai tempi di Socrate, di Platone, di Aristotele, come di Cicerone e di Seneca, dai tempi dell’antica Ellade e di Roma la cultura euro-mediterranea è venuta elaborando in una sostanziale continuità di ispirazioni, secondo un modello di unità del sapere. Un sapere che non avverte divaricazioni sostanziali fra le sue articolazioni disciplinari, come mostra, con ogni evidenza, proprio il corpus delle numerosissime opere di Aristotele, a lungo ritenuto ancora nell’età moderna una vera enciclopedia del sapere dell’antichità e di sempre, a dispetto di tutte le diversità di ispirazioni e di svolgimenti teoretici e metodologici sopravvenuti nel corso del tempo. Un sapere per il quale, come in Epicuro o in Lucrezio, tra poesia e filosofia o scienza non si fa alcuna differenza di dignità e di materia.
Anche in questa polemica tra un’ars mechanica, qual è la medicina, e la sapientia dei poeti e dei filosofi era, tuttavia, contenuta in nuce una contrapposizione ben più profonda e senz’altro di nuovo conio: la contrapposizione che abbiamo già visto chiaramente prefigurata, se non proprio formulata, in Ruggero Bacone e nel Petrarca del De sui et multorum ignorantia. Attraverso le varie vicende della cultura europea che portano dall’Umanesimo all’Illuminismo questa contrapposizione prese progressivamente una forma sempre più specificata ed esclusiva, seguendo lo spartiacque segnato dalla “rivoluzione scientifica”, ossia dall’affermazione della scienza moderna e dei suoi metodi di ricerca e di elaborazione teorica e tecnica, in assoluta indipendenza da qualsiasi contaminazione con altre procedure e vie della ricerca e della riflessione sulla realtà fisica materiale del mondo e con codici propri di sistemazione, espressione e comunicazione e di svolgimenti tematici, tecnici e metodologici altrettanto specifici e inconfondibili.
La divaricazione divenne quindi via via, effettivamente, quella tra scientia e sapientia, e non fece che consolidarsi e allargarsi. Alla fine, nell’area derivante dalla tradizione del concetto di sapienza rientrarono quelle che anche oggi – con un termine di per se stesso significativo – definiamo discipline umanistiche, e che sono distinte da quelle matematiche, fisiche e naturali, enucleatesi all’altro polo di quella divaricazione, in base ai criteri della sperimentabilità, del calcolo, della ripetitività più o meno periodica, della classificabilità statistica e strumentale quali caratteri fondanti e presenti nelle seconde e assenti e, invero, neppure ipotizzabili nelle prime.


II. Il sapere frammentato

Il consolidamento e l’allargamento della divaricazione si accompagnarono all’avvio di uno sviluppo storico ancora più importante, la frammentazione, cioè, dell’unità del sapere. Ancora per un paio di secoli continuò l’idea di una “cultura generale” che costituisse un patrimonio unitario, un circolo onnicomprensivo del potere. Questa idea trovò, anzi, nel secolo XVIII, con la pubblicazione dell’Encyclopédie a opera di d’Alembert e di Diderot, il suo monumento e il suo modello. In ipotesi, chi avesse letto, imparato e ritenuto l’intero contenuto dell’Encyclopédie avrebbe potuto dire di possedere l’intero sapere del suo tempo. La compatibilità e la giustapponibilità delle nozioni e delle idee erano date per scontate, senza che vi si frapponessero limiti pregiudiziali, materiali o formali.
Alcuni episodi della cultura del secolo XVIII sono indicativi della permeabilità attribuita al sapere in tutti i suoi aspetti, che lo rende, per ciò stesso, partecipabile a ogni livello. Mi riferisco, in particolare, a quel Newtonianismo per le Dame, nel quale Francesco Algarotti espose, peraltro con nitidezza ed esattezza, i principii della dottrina fisica di Newton, indirizzandosi alle donne, allora ancora ritenute poco adatte a ricevere un’educazione scientifica. Ugualmente si può, inoltre, ricordare l’Invito a Lesbia Cidonia, il poema in elegantissimi versi endecasillabi in cui Lorenzo Mascheroni invitava la sua amica marchesa Paolina Secco Suardi Crismondi a visitare i laboratori, i musei e le collezioni scientifiche dell’Università di Pavia, dove egli insegnava chimica, e le spiegava la natura, le proprietà e le attività dei materiali e degli strumenti esposti.
Già, però, al tempo di Kant, tra la fine del secolo XVIII e gli inizi del secolo XIX, la frattura tra il sapere scientifico e quello umanistico veniva convalidata da quel grande filosofo e scienziato con la distinzione delle scienze nomotetiche (quelle che forniscono le norme che consentono di unificare nella loro tipologia le leggi naturali, e consentono quindi la formulazione di tali leggi) da tutte le altre (e va anzi notato che per la sua personale figura di intellettuale Kant può essere considerato egli stesso uno spartiacque storico tra l’epoca dell’enciclopedia del sapere e quella della specializzazione). La distinzione kantiana ebbe notevole fortuna, e fu spesso ripresa e sviluppata. Fra gli altri, quasi un secolo più tardi Wilhelm Windelband l’avrebbe resa più stringente, opponendo le scienze nomotetiche, intese da lui come quelle scienze che formulano le leggi naturali, le scienze naturali appunto, alle scienze dello spirito e alle scienze storiche, puramente indicative e descrittive.
Chi, però, pensasse che con questa bipartizione fosse esaurito il ciclo della divisione del sapere si sbaglierebbe di molto. Già per Kant veniva osservato che egli aveva assunto a modelli di scienza quelli elaborati da Euclide per la geometria e da Newton per la fisica. Ma proprio a pochi anni di distanza da lui già Gauss avrebbe cominciato a pensare a nuovi tipi di geometria e a nuovi modelli di spazio, mentre la fisica si sarebbe un po’ più lentamente, ma non meno decisamente avviata a quelle modificazioni e innovazioni radicali delle sue “leggi”, che si sarebbero poi concentrate nella dottrina della relatività di Einstein, per proseguire poi anche al di là di essa.
Ben più; era il concetto stesso di scienza che veniva mutando. Come al tempo di Galilei quel concetto aveva visto il passaggio (secondo il titolo dell’importante libro di Alexandre Koyré su tale argomento) «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione», così dalla fine del secolo XIX si passava dal modello dell’esattezza certa, sicura e definitiva al modello del probabile e del fluttuante. Mutava l’idea della razionalità. Veniva meno la concezione di un modello universale e unitario del razionale come chiave infallibile della realtà fisica e di ogni realtà assimilabile a quella fisica. La razionalità si rivelava un campo differenziato di modelli e di linguaggi, che non necessariamente si risolvevano l’uno nell’altro, anzi tendevano, piuttosto, a permanere come istanze irriducibili di aspetti anch’essi irriducibili della realtà che l’uomo è in grado di percepire e di scrutare, e, più di rado, e meno sicuramente, di conoscere.
Nello stesso tempo il panorama delle scienze mutava anch’esso in maniere e in misure imprevedibili: mentre le scienze fisiche, matematiche e geometriche coronavano la loro millenaria carriera nella cultura occidentale raggiungendo l’apice duraturo delle loro fortune, la chimica e le scienze mediche si evolvevano a loro volta in misura tale da occupare uno spazio vastissimo dell’area scientifica, molto più vasto del passato (benché la medicina avesse dietro di sé un passato più che illustre). Infine, nel corso del secolo XX si sarebbe avuta la trionfale affermazione delle scienze biologiche, e nell’ultimo scorcio dello stesso secolo XX addirittura avrebbero preso a giganteggiare nuovi o rinnovati corpi di scienze come, tanto per fare solo un esempio, quelle informatiche.


III. La specializzazione

Tutte queste cose sono più che note e non varrebbe, quindi la pena di ricordarle, ma è necessario farlo, sia pure in modo molto sommario e generico, perché l’enorme espansione del panorama delle scienze ha avuto una parte essenziale nel determinare le esigenze di specializzazione che da un paio di secoli a questa parte contraddistinguono il lavoro scientifico. Nella specializzazione, per l’appunto, si è sempre più tradotto il processo che abbiamo definito di frammentazione del sapere. Frammentazione che – dobbiamo, però, qui precisare – è una divisione e suddivisione consistente in un’articolazione del sapere in branche, da un lato, sempre più specifiche e, dall’altro, progressivamente più robuste e tali da costituire, ciascuna, a volte più rapidamente, a volte meno rapidamente, nuove discipline e, addirittura, non di rado, interi nuovi settori di ricerca.
Un riflesso cospicuo, anzi, il più cospicuo, di questi sviluppi è l’espansione torrenziale della letteratura scientifica, che ha reso materialmente difficile, e, in non pochi casi, più che difficile, padroneggiarla con l’impegno di un singolo studioso. Su tematiche molto particolari e definite si è determinata, infatti, una serie copiosissima di lavori e di apporti che, per l’uno o per l’altro motivo, in tutto o in parte, hanno una sicura dignità scientifica e non possono, quindi, non essere presi in considerazione dai cultori della materia. È per ciò che si è pure notato come oggi, se si vuole sapere tutto in un determinato campo, è necessario che questo tutto sia di dimensioni sempre più piccole, fino al punto di rischiare di sapere tutto su quasi niente. Parallela, con lo sviluppo dell’informatica, è stata poi la diffusione di networks disciplinari e generali, nazionali e internazionali su singoli argomenti, anch’essi relativi a spazi sempre più ristretti del sapere.
E qui subito sono da fare due osservazioni di particolare importanza.
La prima è che la specializzazione non è soltanto un portato dell’espansione materiale o, per così dire, quantitativa delle attività scientifiche. Essa ha, infatti, condotto le varie e sempre più numerose branche specialistiche a elaborare propri metodi e tecniche di ricerca, linguaggi relativi a tali metodi e tecniche e alle proprie esigenze di sviluppo, e a costituire, perciò, universi epistemologici, aree e sistemi cognitivi, pratiche e teorie euristiche ed ermeneutiche, norme e consuetudini espressive e rappresentative sempre più differenziate e complesse.
La seconda è che, tanto per questa via quanto per la logica intrinseca a ogni fenomeno di particolarizzazione, la specializzazione si è fin troppo largamente risolta in una vera e propria frammentazione del sapere. Frammentazione vuol dire che perfino lo specialista, preso nell’ingranaggio implacabile del suo settore specialistico, finisce col trovarsi in possesso di una quantità crescente di dati, di informazioni, insomma di conoscenze tecniche e teoriche, senza, però, alcuna visione unitaria della realtà di fatto e scientifica che forma il contesto del suo settore specialistico. Figuriamoci se, su tali basi, si può pensare a una unità del sapere! E di qui anche il troppo frequente confinamento dello specialista in uno spazio concettuale fatto di immagini parziali e prevalentemente scollegate del reale e del sapere.
Del resto, non solo questo è da notare, ma anche che la ristrettezza dei campi di indagine e il particolarismo pervasivo delle discipline e della ricerca non evitano una frequente sovrapposizione di tematiche e di ambiti scientifici, con una almeno parziale dispersione di mezzi e di strumenti operativi e con non rare escrescenze parassitarie e infeconde della ricerca. Allo stesso modo, non è raro neppure il caso che le stesse sovrapposizioni e gli interstizi fra le singole aree di ricerca diano luogo a nuove specializzazioni e a nuove discipline o sub-discipline, che ripetono il gioco dell’insieme, giustificando più che mai la qualificazione di frammentazione del sapere data a questo gioco. Basti pensare, per confermarlo, all’alto livello di autoreferenzialità che, in conseguenza di quanto si è detto, presentano ormai i linguaggi disciplinari: prassi autoreferenziale che, certo, agevola di molto i discorsi all’interno dei singoli campi, ma rende meno facili i discorsi fra campi diversi, per cui non è raro, a sua volta, anche il paradosso che la comunicazione e le relazioni internazionali all’interno dello stesso campo siano di gran lunga più intense, costanti e funzionali che fra campi diversi all’interno di uno stesso contesto statale o nazionale. Il che può non avere (e, nella sostanza delle cose, non ha) rilievo per quanto riguarda l’attività scientifica considerata in sé e per sé, ma ha sicuramente rilievo per quanto riguarda i singoli contesti nazionali e statali, istituzionali ed etico-politici in cui l’attività scientifica viene svolta, e quindi anche per la vita morale e civile di tali contesti.
Un paradosso, però, ben maggiore è che, in quella che molti, non senza ragione, definiscono come Torre di Babele dei saperi specialistici, ogni specialista diventa un’autorità inappellabile per chi è all’esterno di quel campo di specializzazione, ed è contestabile solo all’interno dello stesso campo, sicché si è pure osservato che, in tal modo, il parere dello specialista diventa anche un potere dello specialista.
La questione della frammentazione di cui parliamo è, inoltre, accresciuta dal fatto che ai suoi effetti non vale neppure la distinzione generalissima, che abbiamo visto anteriore anche al fortunato saggio di Snow del 1959, fra discipline umanistiche e scienze fisiche e naturali. All’interno stesso di ciascuno di questi due grandi raggruppamenti la frammentazione ha prodotto tutti i suoi effetti, senza sostanziale differenza di modi e di portata del fenomeno; e l’articolazione delle discipline umanistiche, che se ne potevano credere meno suscettibili, in sempre nuovi e più numerosi e ristretti campi di competenza non è stata per nulla minore che nelle scienze fisiche e matematiche.


IV. Interdisciplinarità e altre vie

Quale valore può, allora, essere riconosciuto, sulla base di una tale situazione, ai varii modi in cui si è cercato di fare fronte alla specializzazione-frammentazione del sapere in una miriade di saperi di sempre più corto raggio?
Non c’è dubbio che fra questi modi di gran lunga il più importante, e, insieme, a prima vista, il più pertinente, sia stato quello dell’approccio interdisciplinare a particolari problemi o nodi di problemi, attraverso il contatto fra studiosi di diverse discipline intorno a quei problemi o nodi di problemi. Tralasciamo il punto, peraltro, meritevole di grande considerazione, che il ricorso a un tale metodo significa già di per se stesso un riconoscimento dell’insufficiente autonomia a cui si è giunti per tutti, nessuno escluso, i campi disciplinari, perché si tratta di un punto da considerarsi scontato. Osserviamo, invece, che la interdisciplinarità procura, in effetti, vantaggi notevoli e permette di raggiungere assai spesso, in via pratica, risultati di sicuro rilievo. Del tutto dubbio rimane, però, che ciò porti alla formazione di un autentico sapere metadisciplinare e tale da configurarsi come un reale superamento della frammentazione a cui si intende così di porre riparo.
Non bisogna confondere, da questo punto di vista, i risultati pratici del lavoro interdisciplinare con una promozione di tali risultati a un livello teorico o a uno statuto epistemologico, in cui si ricomponga una intrinseca, piena e formale unità di saperi diversi. Non per nulla nel lavoro interdisciplinare uno dei motivi ricorrenti è il rischio di riduzione di alcuni campi di scienza ad altri, di cui si sente di doversi preoccupare non tanto per campanilismo disciplinare quanto perché, portati fuori del loro ambito proprio, i punti costitutivi e relativi di un sapere subiscono alterazioni che possono riuscire distorcenti e tali da impedire che li si riconosca nella loro originaria fisionomia e validità.
Non meno importante dell’interdisciplinarità, in vista di un’attenuazione, se non di un superamento, degli effetti della frammentazione o specializzazione del sapere, finisce, perciò, con l’essere, alla resa dei conti, quel processo, che si potrebbe definire di “contaminazione”, fra le tecniche e i metodi di discipline di campi diversi. Ciò si riferisce, in particolare, al campo umanistico, ma non ha minore rilievo per quello scientifico. Si pensi, ad esempio, per il campo umanistico, a discipline come la linguistica e l’archeologia, nelle quali l’adozione di tecnologie, anche molto avanzate e sofisticate, è stata larghissima. Allo stesso modo, tecnologie avanzatissime sono state introdotte nella storia dell’economia e della popolazione. La stessa filologia presuppone oggi gabinetti e strumentazioni di lavoro che apparirebbero incredibili ai filologi degli inizi del secolo XIX e, ancora, degli inizi del secolo XX. Addirittura, campi disciplinari di altissima e squisita natura umanistica, come la psicologia, nata quale dottrina dell’anima, ha avuto una gemmazione radicale con l’avvento di una psicologia medica di molto articolata configurazione chimica e fisio-patologica.
La contaminazione umanistica nel campo delle scienze fisiche e naturali è senza dubbio assai meno avvertibile e definibile. È, però, molto difficile negare il delinearsi di influenze, che per comodità di discorso definiremo qui storiche e filosofiche, in moltissimi campi e aspetti del sapere fisico e naturalistico.
È stato notato, ad esempio, che dopo Einstein, con la meccanica quantistica, sono nate questioni il cui dominante carattere teoretico è fin troppo evidente: come quelle del valore statistico delle “leggi di natura”; come quelle del difficile rapporto degli eventi fisici coi nuovi metodi matematici e gli strumenti di misura; come quelle dell’esigenza di unificare teorie generali quali le teorie del campo o della meccanica quantistica o della gravità delle interazioni forti e deboli; o come quelle del criterio della complessità impostosi al linguaggio matematico una volta superati i criteri ispirati alla dottrina della regolarità ed elementarità della natura.
Si sa, peraltro, che problemi di non minore delicatezza teoretica si sono posti e si pongono nelle scienze mediche e biologiche (basti pensare alle discussioni recenti sull’accanimento terapeutico, sull’eutanasia o sul testamento bio-etico). Né si può trascurare l’importanza che sembra aver assunto la storia della scienza e del pensiero scientifico al fine di chiarire i precedenti di nuove concezioni e di nuove tecniche, interessanti per una migliore definizione delle questioni attuali in questo o in quel settore. E come si potrebbero considerare problemi del tutto ed esclusivamente “scientifici” quelli connessi alla teoria del Bing-bang o alla questione dell’apparizione dei sistemi e degli apparati pre-biologici e, quindi, dell’apparizione della vita, o alla non meno rilevante questione della formazione e sviluppo della biosfera, o, ancora, e per fare solo un altro caso, alla questione dell’antropo-genesi e della socio-genesi?


V. Nuova scienza e cultura generale

Le questioni di cui abbiamo trattato sono, dunque, del tutto aperte dinanzi a noi. È sintomatico, peraltro, che, almeno nel mondo europeo, a preoccuparsene di più sembrino piuttosto gli ambienti della cultura cattolica, e anzi proprio le gerarchie ecclesiastiche, che nella frammentazione dei saperi vedono un effetto diretto del processo di laicizzazione e di secolarizzazione del mondo moderno, con una conseguente frammentazione della stessa persona umana e della sua vita etica, e con una prospettiva di ricomposizione soltanto sotto il segno di una visione teologica dei problemi inerenti all’essere, all’agire e al destino dell’uomo.
Sul piano puramente scientifico bisogna, invece, riconoscere che ben poco si è elaborato di corrispondente alla gravità e complessità del problema. Ci si è abbastanza largamente e rapidamente adagiati in una nuova e assai suggestiva concezione della scienza. La concezione, cioè, della scienza come grande attività collettiva, cooperativa e cumulativa, che, tuttavia, nella dispersa, ma, in questa visione, non dispersiva molteplicità del suo procedere specialistico realizza – muovendo un passo qui e un passo lì – la costruzione di un maestoso edificio di conoscenze, convalidato e corroborato dalla imponenza e qualità dei progressi tecnici e scientifici realizzati in un tale regime euristico ed epistemologico e trasformatisi in mutamenti profondi di tutti modi di vita sociale, quotidiana, pubblica, privata degli individui e delle collettività confrontabili solo con quelli determinati dalla “rivoluzione neolitica” diecimila anni prima, e ancora e incomparabilmente più estesi e più profondi.
Certo, questo maestoso edificio non è più quello della “scienza” concepita come unico, unitario e coerente universo di tutta la conoscenza: la scienza dell’enciclopedia, la scienza enciclopedica, rappresentata ordinatamente nelle sue varie ramificazioni e nella gerarchia di tali ramificazioni. È, al contrario, una scienza federata, che procede in ordine sparso per i più varii sentieri, senza obbedire più neppure a quella modellizzazione matematica della realtà fisica che era stata la grande innovazione di Galilei e aveva sollecitato e favorito lo sviluppo della scienza moderna. E, tuttavia, è una scienza che nella miriade dei suoi molti àmbiti disciplinari e dei loro rispettivi molteplici sviluppi, ospita e colloca a un loro certo luogo la miriade delle conoscenze scientifiche che nella dispersione si vanno acquisendo.
Di questa nuova condizione e concezione della scienza si hanno, altresì, ripercussioni ormai notevoli anche nel sistema educativo, in particolare al livello dell’istruzione universitaria. Non si tratta, quindi, soltanto di problemi e di difficoltà teoriche, né li si può sottovalutare o trascurare per il semplice fatto che la sfera amplissima dei progressi sul piano tecnico e nella vita materiale a ritmo ormai incalzante, dall’attuale assetto tecnico-scientifico degli studi e della ricerca.
Sul piano scolastico – sul quale il problema, sia pure con le sfasature temporali più che spiegabili e prevedibili in questo settore della vita civile e intellettuale, non poteva mancare di porsi in termini ancora più complessi che in via generale – è diventato sempre più problematico e sempre più difficile a tradursi in realtà didattica e formativa il concetto di “cultura generale”. Sul piano scientifico il vagheggiamento dell’informatica o di quella che alcuni definiscono come “cultura digitale” quale “terza via” risolutiva e superatrice dell’antitesi fra scienze umane e naturali, il vagheggiamento di un piano metadisciplinare sul quale portare la pullulante e ulteriore diversificazione delle discipline che compongono l’universo del sapere, il vagheggiamento di un “sapere fondamentale” quale sapere di cui non si può fare a meno, il vagheggiamento di una interconnessione sempre più stretta almeno fra i campi scientifici diversi che più ambiscono a riflettere l’essenza della realtà, questi e altri vagheggiamenti non sembrano andare oltre il piano, appunto, del vagheggiamento.


VI. Un antidoto attinto alla storia

Un “antidoto” alla frammentazione del sapere è stato visto anche, assai spesso, nella storiografia o, per meglio dire, nella forza del tessuto connettivo concettuale che può essere ravvisato nella “prospettiva aperta” della storiografia. In questa prospettiva nessun orizzonte viene mai chiuso e concluso. Al contrario della realtà storica, nella quale la storia viene scritta, ma non può essere mai riscritta, nella storiografia tutto viene di continuo scritto e riscritto, in una logica per la quale ogni cosa che accade ha la sua ragione (fosse anche il caso!), e quella ragione non è mai isolabile nella immediatezza e singolarità dell’evento, ma richiede di essere inquadrata in un contesto via via più ampio, complesso, articolato, e, nell’essere scritta e riscritta, resta, nella sua più elementare essenza e significazione, la ragione iniziale dalla quale si è partiti, l’evento nella sua prima eco e nella sua prima ripercussione.
Tenuto conto della moltiplicazione delle discipline storiche (non minore che in ogni altro campo), delle discussioni sulla storia e sui suoi fondamenti e sulle sue modalità concettuali e rappresentative, della crisi dell’idea di storicità che si è avuta nel secolo XX, nonché della varietà e molteplicità delle scuole e delle concezioni storiche, appare, tuttavia, problematico anche questo percorso. E tanto più appare problematico in quanto dalla metà del secolo XX in poi la cultura occidentale ha, per così dire, detronizzato la storia da quel primato prospettico nel quale l’aveva consacrata la grande “rivoluzione culturale” del Romanticismo e dell’idealismo nei primi decennii del secolo XIX.
A titolo indicativo del tipo di percorso che più può prospettarsi come rassicurante, se non risolutivo, nella trattazione del problema, si può, comunque, anche far capo alla storia, ma in tutt’altro senso. Nel senso, cioè, di cercare una comune, imprescindibile, unica natura, struttura, qualità logica alla base dei giudizi che sono l’intelaiatura di base, la cellula-madre, il nucleo germinale, l’elemento atomico (nel senso letterale del termine atomo) del pensiero dell’uomo nel suo articolarsi e svolgersi.
Sulla presenza, sulla realtà costitutiva, sull’ufficio di tali elementi di base o nuclei del pensiero bisogna riflettere più a fondo anche se, almeno nella cultura occidentale è dal tempo di Socrate di Platone e di Aristotele che vi si pone mente. Sempre, in qualunque atto o forma il pensiero si manifesta e opera (una constatazione, una descrizione, una riflessione, un comando, una preghiera, un incitamento, un’analisi etc.) è per giudizi che lo si vede e lo si sente procedere, coordinando poi i giudizi – nella maniera più esplicita o in quella più implicita, più evidente o più latente o dissimulata – in quello che si suole definire il “filo del pensiero”, e che poi non è altro che una catena di giudizi ed è, ancor più propriamente, la piena esplicazione della razionalità umana e si traduce nel cammino (per così dire) della ragione.
Per questo verso ritenere che il pensiero del “primitivo” o del bambino o di altre creature umane abbia suoi modi sostanziali diversi da quelli di una pretesa umanità più matura, da quelli del “mondo civile”, o ritenere che altro siano la sostanza e il procedere del pensiero nella cultura occidentale e secondo il suo modo di pensare, e altro in altre e diverse culture, è davvero, nel migliore dei casi, un fraintendimento. L’uomo che storicamente conosciamo come homo sapiens sapiens è un essere pensante reso tale da quella struttura costitutiva e procedurale del pensiero sopra in estrema sintesi ricordato, quali che siano le condizioni storiche e le forme esteriori in cui quella struttura si manifesta e opera.
Tra l’altro è proprio il filo del suo pensiero, il modo di procedere e di svilupparsi seguendo argomentazioni della più varia complessità, dalla minima alla massima, a smentire la possibilità, più volte considerata e affermata, di ridurre il pensiero umano a pura fisicità, a un susseguirsi di reazioni fisico-chimiche, di movimenti naturali del cervello umano e delle sue diramazioni e connessioni nell’organismo umano. Questa dimensione di reazioni fisico-chimiche e di diramazioni e connessioni del cervello sono una realtà innegabile (e, del resto, a ben vedere, evidente), che le scienze medico-biologiche illustrano sempre meglio. Quel che non pare riducibile a tale realtà è, per l’appunto, la capacità umana di procedere alla formulazione di giudizi e di coordinarli nel “filo del pensiero”, con una varietà di forme e di espressioni che va dalle forme più semplici, inarticolate e disgiunte a quelle più complesse, articolate e fra loro coordinate o subordinate. Una capacità umana che farebbe pensare a una specifica “energia mentale” come prodotto specifico e “altro” della realtà fisica del cervello (in sé e in tutte le sue diramazioni e connessioni) e della sua attività.
Non è il caso, peraltro, di fermarsi qui sul tema dell’“energia mentale”. Si sa quanto sia discutibile l’approccio a questo tema in coloro che cercano di elaborarne la nozione seguendo le orme della medicina tradizionale cinese o di altre tradizioni orientali, come quelle indiane. Costoro sono, tuttavia il caso migliore rispetto a coloro che ne trattano in maniera dilettantesca e del tutto approssimativa, come argomento attinente ai più o meno ipotetici poteri paranormali della mente, o, anche, in rapporto ad altrettanto ipotetiche connessioni tra l’energia mentale e l’esercizio delle attività sportive o a fumose e ridicole teorie magiche o dei poteri occulti o iniziatiche e misteriche.


VII. Energia mentale e creatività

Senza pensare a tutto ciò e, tanto più, senza tenere alcun conto di tutto il ciarpame che ciò comporta, il tema dell’energia mentale meriterebbe di certo di essere approfondito in misura e in modi congruenti alla necessità di tenere nella debita considerazione il problema della irriducibilità dei contenuti o prodotti del pensiero a fenomeni di puro ordine fisico-chimico.
È vero che le tendenze di gran parte della ricerca scientifica si muovono proprio in questa direzione. Si è discusso e si discute, ad esempio, intorno al problema dell’origine ontogenetica o filogenetica della mente, istituendo, così, un dislivello, che appare difficilmente colmabile, in un qualsiasi modo a cui si voglia pensare, tra il piano delle evoluzioni individuali e quello delle evoluzioni della specie. Allo stesso modo si è pensato all’organismo, di qualsiasi tipo, come realtà dotata naturalmente di capacità e attività computazionali; come realtà volta a presidiare, così, la conservazione delle sue strutture e funzioni e relativi comportamenti, nonché le sue reazioni ai rapporti alle influenze e alle modificazioni esterne e/o ambientali, ineludibili dal quadro delle forze e delle strategie evolutive; e, ancora, come realtà intesa a modulare, plasmare, integrare le variazioni evolutive, sia individuali che della specie, trasformando, fra l’altro, in acquisizioni, ontogenetiche o filogenetiche che siano, la serie degli eventi mutazionali, casuali o non casuali che a loro volta siano, di cui è di fatto lastricata la via delle vicende degli organismi.
Una tale logica serratamente ed esclusivamente fisica (biologica, biologico-computazionale) sia della struttura che dell’evoluzione dell’organismo umano procura il grande vantaggio di una ripresa della considerazione unitaria e unificante del discorso antropologico. Non risolve affatto, però, neppure da lontano, il problema della natura da riconoscere alla mente umana e alle sue attività, alla mente che non è tutto l’uomo e non esaurisce l’orizzonte antropologico, ma che altrettanto certamente è il referente unico ed esaustivo dell’uomo in quanto intelletto, ragione e connesse dimensioni e attività. Lo complica, anzi, postulando una unicità tipologica e dialettica delle azioni e delle reazioni in cui la dimensione mentale poi si concreta, che nella realtà di fatto non si riesce in alcun modo a riconoscere nei contenuti e nei prodotti della mente; oppure può essere riconosciuta solo in via generalissima: tanto generale da togliere qualsiasi significato concreto, qualsiasi significato fattuale a una tale generalità.
La realtà concreta della mente e delle sue attività è, infatti, una dimostrazione fin troppo evidente di varietà irriducibili ad alcuna tipicità o unicità, per così dire, produttiva, come sarebbe logico attendersi se la generalità strutturale e funzionale di cui parliamo fosse legata alla sola dinamica (fisica, comunque poi la si voglia ipotizzare e definire) alla quale tale generalità viene riferita. La realtà concreta della mente quale si dimostra nello stadio finale della sua attività, ossia nelle “produzioni” mentali, e nei “contenuti” della mente in cui le sue produzioni si sedimentano e si consolidano con variazioni o senza variazioni di rilevo, una tale varietà di modi, di qualità, di ritmo, di intensità, di procedure, di esiti da indurre a pensare necessariamente che tra il punto di partenza (la struttura “naturale”: fisica, biologica etc.) e il punto di arrivo (le “produzioni” e i “contenuti” della mente) vi sia un salto di qualità da riportare a componenti o a fattori allogeni rispetto a quel punto di partenza. Non solo questa varietà si manifesta da uomo a uomo in misura imponente e con assiduità mai smentita, ma sussiste nello stesso uomo a seconda di periodi, di campi di applicazione e di attività, di momenti, di cui si prende atto tanto concretamente da indurre a parlare del “genio” di alcuni individui, di “individui superiori” per definizione o relativamente ad alcune particolari eccellenze qualitative riconoscibili e riconosciute in essi per i contenuti e per i prodotti della loro attività mentale.
È anche da ciò che si è indotti – punto per nulla secondario – a porsi il problema della cosiddetta “creatività” quale dimensione del pensare e agire umano, e quale dote sia della specie che degli individui. Un problema che rinvia, in effetti, a ben vedere, e in via diretta, a quello, che abbiamo già di sopra accennato, dell’“energia mentale”.


VIII. Il giudizio e la storicità

Non occorre, peraltro, ai fini che qui ci proponiamo, proseguire questo discorso. Basti ricordare che il giudizio – il primo e maggiore dei contenuti e prodotti della mente nella pienezza della sua configurazione umana – occupa il centro delle espressioni del pensiero, come unità nucleare. Una unità che si può rompere con un’analisi grammaticale o con un’analisi logica, ma che non per ciò perde la sua unitaria struttura genetica e costitutiva, che è assolutamente senza alternative possibili. La scissione dell’atomo provoca le fatali e giustamente temutissime esplosioni e deflagrazioni che dal 1945 hanno adombrato sulla vita e sul futuro dell’umanità un nero velo di distruzione e di morte. La scissione grammaticale o logica dell’unità nucleare del giudizio non fa, invece, che rafforzare l’unità del giudizio, che si ricompone e si ripropone più forte proprio per effetto di quelle analisi. Quando questo non accade e, sotto l’urto di fattori ben diversi da quelli degli esercizi di grammatica o di logica, le conseguenze sono funeste: invece dell’analisi si produce il disordine della mente che può giungere fino allo smarrimento della coscienza di sé oltre che del proprio pensare e agire.
Il nostro pensiero si traduce, quindi in catene di giudizi, prodotte dalla nostra energia mentale non diversamente che i giudizi stessi. Le catene possono essere più o meno complesse, più o meno coerenti, più o meno forti e resistenti, a seconda dello sforzo di energia mentale che esse riflettono.
A me è sembrato, così, di poter affermare che, contrariamente a quanto per lo più è sostenuto nella tradizione filosofica e in quasi tutte le epistemologie scientifiche, il giudizio umano abbia un’unica configurazione, inalterabile in qualsiasi rete di formulazioni, connessioni o statuizioni si vada a comporre nel formare le catene di pensieri in cui consistono i nostri ragionamenti, ricerche, elaborazioni, teorie e quant’altro è oggetto dell’attività del pensiero.
La dimostrazione di questo suggerimento è complessa, e anche per questo sarebbe inopportuna intraprenderla qui. Mi permetto, perciò, di rimandare ad alcune poche pagine del mio libro, che ho già ricordato, Nient’altro che storia, nelle quali questo argomento viene accennato, benché non completamente svolto, augurandomi che, leggendole, si possano trovare validi elementi di persuasione e di consenso a tale riguardo.
Il succo della questione è, comunque, che ogni espressione del pensiero umano è di natura storica, è storia e storiografia – si tratti di formule matematiche o fisiche o chimiche, di concetti e idee filosofiche o di qualsiasi altro tipo, di narrazioni o descrizioni, di temi riguardanti la struttura della materia o di “leggi” o teoremi o postulati o corollari relativi ad essa e alla sua dinamica, di precetti morali o religiosi, di discorsi politici o economici, e così via dicendo, senza limitazione alcuna di àmbito di studio o di ricerca come di contenuto o di forma o di metodo, come di prassi e convenzioni espressive, come di quant’altro si possa o si voglia specificare.
Hanno natura storica le affermazioni che tre per tre fa nove, o che la Terra gira intorno al Sole; che Cesare fu ucciso il 15 marzo del 44 a. C., o che la Germania perse entrambe le guerre mondiali del XX secolo; che l’acqua è un composto di ossigeno e idrogeno, o che per curare un tumore sia necessario un intervento chirurgico o una chemioterapia o una radioterapia; che atomi e particelle subatomiche, molecole, cellule o altri momenti e forme della realtà abbiano una determinata struttura, o che un evento fisico o chimico debba e possa essere descritto mediante una brevissima o lunghissima catena di simboli e di formule; che non si debba fare agli altri quel che non vogliamo che sia fatto a noi, o che si debba amare il proprio prossimo come se stessi; che esista o non esista la “legge bronzea” del salario o la “legge di Gresham” sulla buona e la cattiva moneta; che un virus o un batterio agiscano in una determinata maniera, o che un’equazione algebrica vada risolta nell’uno o nell’altro modo; che la politica segue una “logica machiavelliana” o di altro tipo…
Esemplificazione – è il caso di notarlo? – desolantemente minuscola rispetto all’assunto a cui si riferisce, ma anche, come si sarà capito, volutamente semplicistica, e perfino ingenua, appunto perché fosse un semplice accenno per ribadire che il pensare dell’uomo è sempre e in ogni caso storico per essenza e vocazione, per logica costitutiva e funzionale. In altri termini, il pensare è storico o non è pensare. E lo è, si aggiunga, in quella dimensione trascendentale della conoscenza umana che Kant fissò in una riflessione non meno fondamentale, per la qualificazione strutturale e procedurale del pensiero umano, di quanto lo siano state la “rivoluzione copernicana” in cosmologia o la “teoria della relatività” in fisica.


IX. Trascendentale e storico: una identità

Sarà bene, a questo punto, ricordare che “dimensione trascendentale” vuol dire per Kant che il pensiero dell’uomo accede alla realtà soltanto (né può diversamente) nei modi e nelle forme consentiti (e richiesti) dalla sua struttura psichica e sensoriale. È attraverso questo specchio che noi conosciamo il reale e comunichiamo tra noi e con noi stessi. Fossimo conformati in modo diverso sul piano della psiche e/o dei sensi, penseremmo il reale e ne parleremmo in altro modo.
Una limitazione? Indubbiamente sì. Proprio, però, in questa limitazione – ed era il punto al quale Kant mirava – si ritrova una garanzia non solo di certezza, bensì anche di universalità del pensiero. Così è, infatti, il soggetto pensante stesso a costituire la fonte, la realtà e il principio dell’unità della mente umana; a costituire la condizione e, insieme, l’ordinamento di ogni possibile conoscenza; a rendere perfettamente equivalenti e conformi, compatibili e coincidenti nella funzione del pensare e nelle sue scaturigini, dinamiche e modalità l’uomo singolo e l’intera umanità: il singolo trasceso dalla valenza universalmente umana del suo essere e pensare, l’umanità reale solo nella singolarità delle sue incarnazioni; a costituire la condizione indispensabile, ma sufficiente della comunicazione e della memoria e la fonte dell’unità della conoscenza, ossia della sicurezza per cui, parlando fra loro, gli uomini possono essere sicuri di parlare la stessa lingua del pensare e del conoscere.
In altri termini, l’unità è connaturata al modo stesso di funzionare del pensiero umano, e si esprime al suo livello più intrinseco ed essenziale nell’unità formale e strutturale del suo nucleo primigenio e finale, intimo ed esterno (fenomenico), elementare e universale, ossia il giudizio. Che, a sua volta, come si è detto, è sempre e soltanto storico; è sempre e soltanto la traduzione in termini storico-logici di ciò che ne è l’oggetto e che non può essere percepito, né razionalizzato se non come un quid storico, quale che ne sia la formalizzazione o la modalità di comunicazione e di conservazione (una formula matematica o una proposizione storiografica).
In quanto trascendentale – si può, perciò, dire – il pensiero è storico, e, viceversa, in quanto storico è trascendentale. La sua “ragion pura” è, al dunque, “ragione storica”, ed è l’unica ragione di cui l’uomo disponga. A dimostrarlo è lo stesso Kant, con la sua ricerca e teorizzazione di una “ragion pratica” e di una “critica del giudizio”, che sono acute e profonde, ma non per questo meno vistose e deroganti fuoriuscite dal regno della “ragion pura”, nel quale l’uomo è confinato. Semmai, la sua esperienza di una tale ricerca e teorizzazione dovrebbe ammonire a considerare la vita morale e l’arte al di fuori della logica, come slanci creativi della natura sociale dell’uomo, come attinenti alla vitalità di bisogni e inclinazioni primigenie, irreprimibili e inestinguibili dell’uomo in quanto individuo e collettività, o in altro equivalente modo pre-logico o a-logico.
L’uomo, insomma, non è (lo abbiamo accennato) soltanto mente, intelletto, ragione. Portare la riflessione sulla vita morale e sull’arte fuori dei loro àmbiti sarebbe, però, come volere sostituire la realtà dell’economia, ossia l’iniziativa e gli atti degli uomini in questa sfera, con la scienza o le dottrine economiche, la realtà della politica, ossia l’iniziativa e gli atti degli uomini in questa sfera, con le dottrine e la filosofia della politica, il lavoro di laboratorio di un tecnico o dello scienziato con l’opera di astrologi, indovini, maghi, fattucchieri, alchimisti, esorcisti, ipnotizzatori, sensitivi o altre simili figure che la vita sociale ha conosciuto in ogni tempo, e continua a conoscere con stupefacente continuità (e ciò a prescindere dal ruolo che storicamente le pseudo-scienze dell’alchimia o della para-psicologia o dell’astrologia e simili hanno avuto o possono aver avuto nella storia della scienza).
Così, per continuare in una almeno campionaria illustrazione dell’assunto, le “leggi della natura” (come una volta le si denominava) sono una realtà storica sia a parte obiecti (ossia dal punto di vista della loro “oggettività”, che va considerata come una condizione storicamente determinata, e solo storicamente certa e accertabile o, se si preferisce, “vera” e verificabile, di equilibri e strutture di cui noi conosciamo a volta a volta le “leggi”, che hanno senso e ragione solo in riferimento alla fase contrassegnata da quella condizione), sia a parte subiecti (ossia dal punto di vista del soggetto conoscente, che è l’uomo, le cui procedure e strumenti di conoscenza e i contenuti e le sistemazioni della conoscenza evolvono nel tempo secondo ritmi e direzioni in continuo mutamento).
Così, la “verità” è storica sia a parte obiecti (perché il suo oggetto non è pensabile da noi che in termini comunque storici, quale che ne sia la sistemazione e la comunicazione formale ed espressiva), sia a parte subiecti (perché il patrimonio conoscitivo, le condizioni antropologico-culturali ed economico-sociali, le aspirazioni e i fini dell’uomo evolvono storicamente nella lunga o lunghissima come nella breve o brevissima durata e vedono con occhi sempre diversi, o, meglio, sempre nuovi gli oggetti sia di recentissimo che di originario o antichissimo interesse).


X. L’orizzonte unitario del sapere

Il tessuto unitario del sapere appare, dunque, sicuro e incontrovertibile. Può questo riuscire risolutivo anche dal punto di vista dell’unità del sapere nei termini dai quali abbiamo qui preso le mosse? La risposta non può essere semplice, né può essere semplificata. Sul piano dei principii, non c’è dubbio. Sul piano della prassi e delle indispensabili convenzioni che essa comporta, il problema è molto più complesso.
Può apparire un paradosso che un sapere, la cui unità genetica, strutturale e formale è tanto sicura, tenda, invece, a scindersi in discipline di sempre più ridotto àmbito e in progressiva difficoltà di comunicazione fra loro proprio, mentre il progresso tecnico e scientifico raggiunge vertici inimmaginabili anche soltanto alla vigilia della “rivoluzione industriale” nel secolo XVIII, per non parlare di tempi anche meno recenti. Rispetto a questa divaricazione disciplinare, che sempre più è anche una divaricazione di saperi, il discorso sui principii può apparire, e magari anche riuscire, astratto. Lo spessore della specializzazione ha, infatti, raggiunto un tale spessore e una tale complessità di forme, di prassi e delle relative motivazioni da richiedere al riguardo discorsi fortemente incisivi. E, tuttavia, il discorso sull’unità del sapere non ha, con ciò, perduto alcunché della sua fondatezza e delle esigenze che lo richiedono, e, anzi, lo impongono.
Dalla montagna o, piuttosto, collinetta delle considerazioni che precedono vorremmo, perciò, limitarci a far nascere il topolino di una riaffermazione di quella fondatezza e di quelle esigenze come conclusione prescrittiva di un compito epocale irrecusabile, e insieme, e in ogni caso, riaffermando l’unità del sapere come orizzonte irrinunciabile della stessa condizione umana.


*Testo rivisto e ampliato della conferenza tenuta al CEINGE (Centro di ricerca di ingegneria genetica) presso l’Università Federico II di Napoli il 5 marzo 2009.^
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