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NAPOLI NELLE MEMORIE DI GIUSEPPE FRANK 1839-40*
di Antonio Borrelli
in ricordo di Vittorio Donato Catapano


Il medico tedesco Giuseppe Frank1, dopo la sua formazione a Pavia sotto la guida del padre, il celebre Giovanni Pietro, l’avvio della carriera nella stessa città e nove anni trascorsi a Vienna come primario, nel 1804 fu chiamato insieme con il padre in Russia, a Vilna2, dallo zar Alessandro I. Mentre il secondo vi restò solo un anno, il primo vi rimase fino alla metà del 1823, rinnovando in profondità la Facoltà di medicina e l’ospedale della città. Al ritorno da Vilna, Giuseppe, dopo qualche perplessità iniziale, decise di stabilirsi in una deliziosa villa sul lago di Como, dove si spense il 18 dicembre 1842. Da allora il suo corpo riposa nel cimitero di Laglio, in un insolito mausoleo a forma di piramide che lui stesso aveva ideato e fatto costruire3. Nel 1839-1840, all’età di sessantanove anni, Frank intraprese un viaggio attraverso l’Italia, un paese che aveva sempre amato e a cui era rimasto legato. Durante questo viaggio, si fermò cinque mesi a Napoli4 insieme con la moglie Cristiana Gerhardy, una nota ed eccellente cantante. Come aveva fatto nel 1803 con il viaggio compiuto in Francia, Inghilterra e Scozia5, anche in tale occasione raccontò dettagliatamente il suo peregrinare nelle Memorie sue e della sua famiglia, che continuò a stendere fino alla morte.
Il nome e le opere dei due Frank furono ben conosciuti negli ambienti medici napoletani; in particolare i libri di Giuseppe ebbero una buona fortuna editoriale. Nel 1796 uscì l’opera di Melchior Adam Weikard, Prospetto di un sistema più semplice di medicina ossia dilucidazione della nuova dottrina medica di Brown, da lui tradotta e curata. L’anno dopo apparve la Lettera ad un amico sopra i diversi punti di medicina interessanti anche i non medici. All’inizio del nuovo secolo furono pubblicati altri scritti: nel 1801 la Ratio instituti clinici ticiniensis, che conteneva una sua prefazione; nel 1802 la Spiegazione della dottrina medica di Giovanni Brown, traduzione della seconda edizione tedesca; nel 1805 il Manuale di tossicologia ossia di dottrina de’ veleni e contravveleni, tradotto dal tedesco da Giuseppe Matthey, e le Osservazioni teorico-pratiche sui principi fondamentali della medicina, tradotte dal tedesco e annotate da Giuseppe Zandonati. Le iniziative editoriali più significative furono, comunque, quelle legate alla pubblicazione dei Praxeos medicae universæ præcepta, tradotti e pubblicati la prima volta da Francesco Tauro, per Borel e C., nel 1824-1829, e la seconda da Salvatore De Renzi e Pasquale Manfré, per i tipi del Filiatre-Sebezio, nel 1841-1844. Questi ultimi scrivevano nella Prefazione:
L’opera di Frank è la guida più sicura ed infallibile presso il letto dell’infermo, e chi sa profittare dei suoi insegnamenti e dei suoi precetti può giustamente reputarsi medico istruito […]. Con questo codice nelle mani [il medico] non può sbagliare diagnosi, non può trascorrere in eccessi nel metodo curativo6.

E rispetto al fatto che l’opera non era stata ancora terminata dall’autore, concludevano:
E poiché ritirato da ogni pubblico affare attende nel suo ritiro unicamente a porre termine a tale lavoro, speriamo di veder presto pubblicati i trattati che mancano, e noi che siam rincuorati dallo stesso Frank all’esecuzione di questa versione, riceveremo senza dubbio sollecitamente quanto altro sarà scritto, o ci metteremo con Lui di accordo perché questa edizione uscisse compiuta7.

De Renzi e Manfré furono ricordati da Frank nelle Memorie con parole elogiative. De Renzi, allora quarantenne, fu considerato, per i lavori fatti e per l’ancora relativa giovane età, un medico e uno scienziato di sicuro valore. Sul fascicolo di dicembre del 1839 de «Il Filiatre-Sebezio. Giornale di scienze mediche», allora diretto da Salvatore Maria Ronchi, aveva pubblicato in italiano un estratto della vita di Frank apparsa nel 1821 nella Biographie médicale, con un’aggiunta che conteneva notizie di prima mano fornite, quasi certamente, dallo stesso Frank8. A proposito del viaggio a Napoli, De Renzi scriveva che Frank, oltre a osservare «gli oggetti di belle arti e di antichità», volle essere informato quanto più possibile sulla medicina napoletana e sulla vita di grandi medici come Domenico Cirillo e Domenico Cotugno, dei quali desiderava visitare perfino le abitazioni «per riconoscere almeno il luogo ove dimorarono questi valorosi concittadini»9. Infine sottolineava la signorilità e la generosità della consorte di Frank, che, «emulando le virtù dello sposo», si era esibita, con «la sua bella voce», in concerti il cui ricavato doveva andare «ora a sostegno degli Ospedali, ed ora per rendere men gravi le comuni sventure»10. Durante il soggiorno di Frank nella capitale, Manfré11 gli propose di continuare la traduzione dei Præcepta:
Il dottor Pasquale Manfré, giovane medico di buone speranze – scriveva Frank –, si mostrò assai sollecito nei miei riguardi. Egli mi propose di continuare la traduzione in italiano dei miei Præcepta praxeos medicæ rimasta incompiuta per la morte del dottor [Francesco] Tauro; a questo scopo mi chiese il permesso di eseguire il mio ritratto per ornarne l’opera. Il pittore [Luigi] Rocco fu incaricato del lavoro.

Alla morte di Frank, De Renzi volle onorare l’amico pubblicando sul fascicolo di gennaio del 1843 de «Il Filiatre-Sebezio» l’ultima lettera che gli aveva mandato12. Nel fascicolo di aprile dello stesso anno pubblicò, invece, la commemorazione che ne aveva fatto all’Accademia Pontaniana, nella quale ripercorreva le tappe salienti della vita del medico tedesco, accennava ai suoi scritti più famosi, ricordava il suo soggiorno a Napoli, quando gli aveva prestato le sue cure per una leggera infermità, e si augurava che fossero pubblicate quanto prima le Memorie, un’opera che, a suo parere, conteneva «preziosi monumenti sulla storia e sulla medicina degli ultimi tempi»13.
Quando Frank arrivò a Napoli la città attraversava uno dei periodi migliori dell’Ottocento. Nel primo quindicennio del governo di Ferdinando II (1830-1859) la popolazione e gli uomini di cultura avvertirono la volontà riformatrice del sovrano. Fu l’epoca in cui, scriveva Francesco De Sanctis ne La giovinezza, il re «mostrava di volersi conciliare coi pennaruli [e] il partito dell’oscurantismo accennava a voler cadere»14. Si diffusero un entusiasmo e un dinamismo che ricordavano quelli degli anni successivi all’arrivo di Carlo di Borbone a Napoli nel 1734, degli inizi del regno autonomo.
Dopo il 1830 un fervore nuovo, un nuovo risveglio civile e intellettuale agita dall’intimo la vita della capitale – ha scritto Guido Oldrini –. Insieme con le arti e la letteratura, discipline come la filosofia, la storia, la giurisprudenza, la scienza della legislazione, l’economia politica, la statistica, in breve tutto il corpo delle scienze speculative, morali e sociali, a non dir nulla del ramo fiorentissimo delle scienze mediche e di quello delle scienze fisico-matematiche, ricevono un forte impulso […]15.

Non solo l’immagine di Napoli divenne più moderna, ma migliorò la vita complessiva della città: furono completati il nuovo Camposanto di Poggioreale e la chiesa di San Francesco di Paola; furono creati, per motivi igienico-sanitari, mercati anche nelle zone più povere; comparve nelle strade principali l’illuminazione a gas, a cominciare da via Toledo; fu inaugurata, con grande partecipazione popolare, la linea ferroviaria Napoli-Portici; il teatro San Carlo rivaleggiò, per qualità e quantità di spettacoli, con i più rinomati teatri del mondo; Macedonio Melloni e i fratelli Antonio e Gaetano Fazzini fecero conoscere al grande pubblico i segreti e le meraviglie della fotografia, scoperta in Francia da Louis Jacques Daguerre; Guglielmo Luigi Cottreau diffuse con successo in Europa la canzone popolare napoletana; proliferarono le imprese tessili e metallurgiche, nelle quali furono occupati sempre più operai; l’editoria libraria e soprattutto quella periodica diedero chiari segni di ripresa e di vivacità; l’Istituto d’incoraggiamento organizzò annuali esposizioni di prodotti della tecnica e delle manifatture meridionali molto seguite; l’Università si rinnovò nei docenti e nell’insegnamento; il governo avviò i preparativi per il Settimo Congresso degli scienziati italiani, che si tenne nella capitale del Regno nel 184516. Queste attività e manifestazioni furono dovute ai cambiamenti che, seppure lentamente, stavano avvenendo nella pubblica amministrazione. Invece, dopo i moti del 1848, la città conobbe un periodo di declino dal quale si risollevò solo dopo l’Unità d’Italia.
Come aveva fatto in occasione delle visite in altre città, Frank volle conoscere Napoli, la capitale del Sud, in ogni suo aspetto: dalle curiosità naturali, ai costumi del popolo e della corte, agli intellettuali, alle istituzioni. La città che emergeva dalle sue Memorie era quella di un mondo complesso e contraddittorio, antico e moderno, nobile e plebeo, ricco e povero, cosmopolita e provinciale, levantino ed europeo. Ovunque andasse, chiunque incontrasse, Frank scorgeva i resti di un passato mai superato veramente e i simboli di un futuro che si sarebbe dispiegato solo in parte. Una realtà difficile, fatta di sogni spesso irrealizzabili, di utopie politiche stroncate sul nascere, di una cultura ferocemente conservatrice, ma anche di speranze progressiste, di fiducia nell’avvenire, di consapevolezza dell’utilità della scienza e della tecnica per il miglioramento della vita dell’uomo. Napoli, la «porta dell’Oriente verso l’Occidente e […] dell’Occidente verso Oriente»17, rimaneva per così dire sospesa, in bilico, e lo sarà anche in seguito, fra Parigi e Istanbul.
In quell’epoca erano numerosissimi gli stranieri che venivano a svernare a Napoli, a godersi il sole che ancora in dicembre riscaldava la città dalla mattina alla sera. Gli alberghi erano pieni, come anche gli appartamenti in affitto, che costavano cari, «più o meno come a Londra, Parigi o Vienna». La ragione dipendeva dalle tasse governative e dal fenomeno largamente praticato del subaffitto.
I proprietari si giustificano dicendo – annotava Frank – che le imposte sono pari a un quinto del reddito, ma poiché il reddito è calcolato sugli affitti che si pagavano in passato, le imposte scendono a un decimo del reddito. Esse furono peraltro aumentate del tre per cento durante il mio soggiorno a Napoli per procurare al comune dei ricavi, visto che i dazi percepiti dalla città vengono riversati interamente allo stato, contrariamente a quel che accade negli altri comuni del Regno. Questa nuova imposta dovrebbe servire in primo luogo a finanziare l’orfanotrofio (L’Annunziata) e ad aprire delle case di lavoro al fine di abolire la mendicità. La causa principale dei prezzi elevati degli affitti a Napoli è che i proprietari delle case (o degli appartamenti) li affittano vuoti a degli speculatori che li subaffittano ammobiliati agli stranieri, spellandoli vivi. Questi speculatori sono in maggioranza tedeschi, svizzeri e francesi venuti a Napoli come corrieri, camerieri o cuochi; dopo aver messo da parte un po’ di denaro, essi cercano di farlo fruttare in questo modo.

Con tutto ciò, Napoli rimaneva per Frank l’unico luogo in Europa, con la sola eccezione di Costantinopoli, dove gli stranieri godevano di diversi privilegi: essi potevano, infatti, «esercitare un’attività qualunque come i residenti senza pagare la minima tassa», restare «sempre sotto la protezione dei ministri o dei consoli delle loro nazioni», essere «esenti da ispezioni domiciliari e da molte altre seccature». Accanto a tali privilegi, non secondari per chi viveva, anche se per un breve periodo, in un altro paese, vi era l’opportunità di mangiare bene senza spendere molto. Frank rimase colpito dalla varietà di frutta, verdura, carne e pesce che era possibile trovare nei mercati e nei negozi, per la qualità del pane, per la bontà del vino, per il delizioso caffè: «In nessun luogo – scriveva – si beve un caffè buono come quello di Napoli».
Frank osservò Napoli e i napoletani nella vita di tutti i giorni, in occasione di grandi cerimonie e nelle feste solenni. Scoprì un popolo sobrio, che mangiava poco, che non eccedeva nel vino, che viveva alla giornata. Una condotta che si rovesciava a Natale e a Carnevale, quando, viceversa, si eccedeva in tutto e ci si divertiva con spensieratezza. «È impossibile dare un’idea dei cibi di ogni genere esposti nei giorni precedenti [il Natale] sui mercati e nei negozi. Si direbbe che la città si rifornisca per resistere a un assedio», annotava il medico tedesco. Durante la festa più bella dell’anno veniva fuori l’anima barocca della città: dai presepi ricchissimi, con pastori perfino d’argento, alla sontuosa cerimonia dei doni per il re. Eccone la suggestiva descrizione:
Alla vigilia di Natale si svolge uno spettacolo degno di essere visto. Parlo dei doni che la città offre al re, e che gli sono portati in processione. Una delegazione del comune apre la sfilata in vettura, seguita da uomini che portano sul capo dei vasi avvolti da nastri bianchi con fiori, uva, ananassi e dei cesti con patate, pere, verdure, gelati, dolci; altri uomini recano dei bei cacatua, dei pappagalli grigi, dei canarini in gabbia, delle porcellane, dei vetri prodotti a Napoli, eccetera. Fin qui andrebbe tutto bene; poi, quando si fa sera, il popolo si diverte a sparare per le strade e a lanciare petardi. Si fa fatica a evitarli e i cocchieri stentano a trattenere i cavalli. Ogni anno succede qualche disgrazia.

Uno spettacolo simile, per coreografia e numero di persone, Frank lo rivide il 9 febbraio, in occasione del Carnevale: «La via Toledo offriva un colpo d’occhio magnifico – scriveva –. Il bel mondo occupava i balconi e le finestre, comprese quelle degli ammezzati: le case sembravano coperte di gente. C’era gente anche sulle terrazze, che sostituiscono i tetti. Le strade erano così affollate che una mela gettata dall’alto non sarebbe caduta per terra. Migliaia di vetture sfilavano ordinatamente sotto l’occhio vigile dei lancieri. Numerose pattuglie di gendarmi a piedi e a cavallo controllavano i pedoni». Le strade di Napoli apparivano agli occhi dei visitatori stranieri simili a quelle di Parigi, perennemente affollate di persone, carrozze e bancarelle. Frank apprezzò molto la bravura dei cocchieri napoletani, abilissimi a districarsi in quel viavai continuo di gente, animali e veicoli di ogni tipo, ad attraversare strade larghe e l’angusto dedalo dei vicoli.
Partendo da queste osservazioni e pensando alla ricordata ferrovia Napoli-Portici, appena inaugurata e perfettamente funzionante, Frank si chiedeva cosa sarebbe accaduto se fosse venuto un colpo apoplettico al macchinista che guidava, in estate e sotto un sole a picco, una locomotiva che sprigionava per giunta enorme calore. Ben presto si rese conto che simili domande non toccavano il popolo napoletano, «abituato a fronteggiare» cataclismi come «le eruzioni del Vesuvio e i terremoti». I napoletani avevano una sola immensa paura: quella dello sguardo degli «jettatori». Un fenomeno antropologico e sociale, dalle radici antichissime, che Frank descrisse senza stupore, forse perché lo aveva riscontrato anche in altri paesi:
Alludo qui – scriveva – alla convinzione che alcune persone abbiano la capacità di nuocere con il loro sguardo, e che si possa evitare il male che ne deriva portando su di sé una manina di corallo, o argento, o avorio, con due dita ripiegate all’interno, per cui l’indice e il mignolo imitano le corna. In mancanza di una mano artificiale, si usa quella vera, senza che la persona dalla quale ci si vuole difendere se ne accorga. Questo pregiudizio è legato a un altro: se la prima persona che si incontra uscendo di casa è un prete o un monaco, bisogna attendersi una disgrazia. Questa credenza esiste anche in Russia e sono portato a credere che sia di origine greca, perché i greci consideravano le corna come simbolo di un buon inizio.

Il fenomeno del cosiddetto «fascino», indagato con metodo razionale in pieno Settecento dal medico-filosofo Gian Leonardo Marugi e dall’avvocato Nicola Valletta18 e reso noto ai lettori e alle lettrici europei di metà Ottocento dal racconto Jettatura di Théophile Gautier19, trovava un immediato riflesso, secondo Frank, in un altro fenomeno molto diffuso a Napoli: il gioco del lotto20. «L’arte cabalistica è legata a questo genere di credenze. Quando succede qualcosa che colpisce l’immaginazione del popolino napoletano, si consultano dei vecchi libri o delle vecchie signore per sapere quali numeri sono legati a quell’avvenimento e per poterli giocare al lotto. Non conosco nessuna città in cui questo gioco sia diffuso come a Napoli, se non forse Milano. In questa città è stato osservato che nei giorni di estrazione del lotto la vendita di pane è inferiore al consueto». Frank, uomo del nord Europa, si meravigliò che in una città operosa e con molte industrie manifatturiere avesse potuto radicarsi, e non solo nelle persone del popolo, una mentalità che vedeva la possibilità di migliorare la propria esistenza con la sorte e non con il lavoro. Oltre a queste stranezze, dovette ben presto notarne anche altre, come gli eterni cumuli d’immondizia per le strade, i panni stesi ad asciugare fra un balcone e l’altro di due palazzi, gli uffici che aprivano quando gli addetti decidevano di farlo, senza provocare la minima reazione nelle persone che stavano rassegnate ad aspettare; tutt’al più queste si limitavano a fare «congetture satiriche sui motivi che potevano aver provocato il ritardo dello speditore».
Le osservazioni successive di Frank riguardavano il clima mite della città in tutte le stagioni, le bellissime passeggiate a Mergellina, a Posillipo e al Vomero, i numerosi teatri, in particolare il San Carlo21 dove aveva assistito a molti spettacoli, tra i quali i Briganti e l’Elena di Feltre di Francesco Saverio Mercadante e il Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini, il Conservatorio di San Pietro a Maiella e il Collegio reale di musica, istituzioni a cui aveva dedicato diverse pagine ispirate dall’amore che egli nutriva per la musica. Di rilievo appare anche il ritratto che tracciò di Ferdinando II, al quale riconobbe non pochi meriti:
È veramente un peccato che il re non abbia ricevuto un’educazione più liberale – scriveva –, perché tutti gli riconoscono un talento naturale e delle buone disposizioni. Il suo primo atto dopo l’avvento al trono fu di ridurre le spese; egli stesso diede l’esempio limitando quelle della casa reale […]. Anche il colera ha dato un colpo terribile alle finanze dello Stato. Quando il flagello si manifestò nella capitale, il re dimostrò un eroismo degno del massimo elogio. Andò a piedi nei quartieri più colpiti, si fece dare del pane che secondo il popolo era infetto, lo mangiò pubblicamente e calmò così l’agitazione. S. M. si occupa soprattutto delle attività militari; a giudicare dalla guarnigione di Napoli, egli ha un esercito superbo, che ama far manovrare in continuazione. Da qualche tempo, il sovrano ha cominciato a interessarsi alla marina, all’abbellimento della capitale, alle opere pubbliche, eccetera.

Un giudizio eccessivamente severo espresse solo nei riguardi dei suoi rapporti con le scienze: «Quanto alle scienze, non se ne interessa affatto e protegge le arti solo in quanto servono ad abbellire i suoi palazzi». In realtà Ferdinando II s’impegnò a incoraggiare le scienze22, a incrementare l’economia, a compiere opere pubbliche per ridare splendore ai luoghi più significativi della città23. La buona impressione che Frank riportò dalle visite all’Accademia delle scienze e all’Istituto d’incoraggiamento, le principali istituzioni scientifiche del Regno, e dai soci che le componevano, avrebbe dovuto indurlo a una maggiore prudenza nel giudicare l’impegno politico del sovrano e dei suoi collaboratori nella promozione delle scienze. L’ultima parte delle Memorie relativa al soggiorno a Napoli era dedicata proprio alle istituzioni scientifiche e sanitarie, educative e assistenziali24, dall’Università agli ospedali, all’Accademia medico-chirurgica, al Collegio medico-cerusico, agli scienziati. Il quadro che Frank tracciò non era negativo, anche se non mancò di segnalare disfunzioni e vere e proprie anomalie nel sistema dell’istruzione. Ciò che lo colpì maggiormente fu la preferenza degli studenti per le scuole private, che a Napoli proliferavano, piuttosto che per le aule universitarie25. Un’antica consuetudine, che si poté abolire, fra interminabili polemiche, solo dopo l’unificazione nazionale.
L’Università, scriveva Frank, «si limita a conferire i diplomi e le lezioni vengono tenute solo formalmente, quando vengono tenute, con qualche eccezione. Così gli studenti che vogliono studiare devono seguire a proprie spese le lezioni private […]». Poco oltre aggiungeva:
Nel corso dell’anno scolastico, i professori dell’università non tengono un corso completo della materia loro affidata. Gli studenti che non frequentano il collegio sono quindi obbligati a prendere lezioni private. Vi sono molti insegnanti, dal momento che il governo concede facilmente il permesso di tenere queste lezioni. Alcuni lettori insegnano tutta la scienza medica, altri si limitano a una sola branca. Questo è il caso degli insegnanti di fisica, tra i quali ho conosciuto i signori [Lorenzo] Fazzini e [Filippo] Cassola, proprietari di gabinetti relativi alla scienza che insegnano; raramente si trovano simili gabinetti presso dei privati26.

Erano, in sostanza, le considerazioni che faceva negli stessi anni Luigi Settembrini nelle Ricordanze della mia vita, dove si legge che gli studenti erano «liberissimi di entrare e di uscire» dall’Università, «o di non andarvi affatto», e in effetti pochissimi vi andavano. Il risultato era che «chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami, ed era approvato, aveva il suo diploma»27.
Frank ovviamente era interessato soprattutto alla Facoltà di medicina, al Collegio medico-cerusico, agli ospedali e ai medici che operavano a Napoli, senza trascurare quelli, molto celebri, del secolo precedente. A proposito di questi ultimi tracciò un breve profilo di Giorgio Baglivi, Nicola e Domenico Cirillo, Francesco Serao, Michele Sarcone e Domenico Cotugno. Rilevanti e gustose risultano le considerazioni che fece sul grande medico di Ruvo di Puglia, scomparso qualche decennio prima carico di ricchezze, libri e onori. Frank riferì, fra l’altro, aneddoti sconosciuti o poco noti della sua lunga vita. Vale la pena, pertanto, di riportare l’intero brano:
Domenico Cotugno, nato il 29 gennaio 1736 a Ruvo in provincia di Bari, era figlio di un pastore. Riuscì a entrare come interno all’ospedale degli Incurabili di Napoli. Qui contrasse una febbre con delirio e cercò di gettarsi dalla finestra; un suo compagno accorse e lo afferrò per la camicia, fatta di una tela così robusta che resistette senza strapparsi, salvando la vita al malato. Una volta ristabilito e informato di quel che gli era accaduto, Cotugno commentò: “Ecco, devo la vita alla mia povertà”. Arrivato al culmine della carriera, Cotugno si recò come al solito all’ospedale, dove fu pregato di visitare un domestico malato sistemato in una camera singola. Era la stessa camera usata da Cotugno quando era studente. Egli la riconobbe subito e, baciando il muro, esclamò: “Devo a voi quel che sono diventato”. Cotugno aveva curato il duca di Bagnara per una malattia dalla quale il duca era guarito; ma dopo varie ricadute il morbo lo portò nella tomba. In seguito, egli continuò ad assistere la duchessa. Un mattino egli arrivò più presto del solito e trovò la duchessa che indossava una veste da camera piuttosto scollata. Vergognandosi di essere stata sorpresa in quello stato da un uomo che non era suo marito, tormentata dagli scrupoli, la duchessa offrì a Cotugno la sua mano ed egli accettò. Il matrimonio ebbe luogo nel 1793 e durò felicemente fino alla morte di Cotugno, nel 1822. Rimasta vedova, la signora Cotugno si affrettò a bruciare tutti i libri del marito messi all’indice, malgrado le richieste di alcuni missionari che le avevano proposto di affidarli a loro. Ella ordinò anche a un pittore di passare una mano di vernice sacrilega sul seno di una vergine di Raffaello che, secondo lei, portava un abito troppo scollato. Nelle opere postume di questo grande medico, pubblicate a cura del signor [Pietro] Ruggiero, non c’è traccia della sua corrispondenza con altri scienziati; si deve quindi pensare che le lettere abbiano fatto la stessa fine dei libri. I signori [Mario] Giardini, [Benedetto] Vulpes e [Pietro] Magliari scrissero un elogio di Cotugno rendendo giustizia alle sue opere, troppo note per parlarne qui. Quanto al suo carattere, basterà ricordare per descriverlo che egli lasciò gran parte della sua fortuna all’ospedale degli Incurabili. Mi feci indicare la casa dove egli aveva abitato: era un appartamento al terzo piano di via delle Vergini28.

Frank si soffermava poi sui rapporti fra medicina e chirurgia, notando che anche a Napoli la seconda era stata nel passato subordinata alla prima, ed elencava i docenti e le cattedre della Facoltà medica29: Costantino Dimidri (Anatomia), Stefano Delle Chiaie (Anatomia comparata), Gaetano Lucarelli (Fisiologia), Antonio Grillo (Anatomia umana e patologica), Saverio Macrì (Materia medica), Vincenzo Lanza (Medicina pratica), Benedetto Vulpes (Medicina pratica), Leonardo Santoro (Istituzioni di patologia e terapia esterna), Salvatore Maria Ronchi (Clinica medica), Cosmo de Horatiis (Clinica chirurgica), Pasquale Leonardi Cattolica (Clinica ostetrica), Teodoro Civita (Clinica ostetrica) e Giovan Battista Quadri (Clinica oftalmogica). Come aveva fatto con i medici del Settecento, su alcuni di loro espresse giudizi e addusse qualche aneddoto curioso.
Delle Chiaie gli apparve un uomo di straordinaria concentrazione, capace di lavorare «dalla mattina alla sera» e di vivere «unicamente per le scienze naturali». Rimasto a lungo in Francia, conosceva bene le lingue e possedeva una ricchissima biblioteca, formata da volumi che si procurava da librai italiani e stranieri con cui era in contatto da tempo. In Lanza, che si trovava «nel fiore dell’età», scorse «una delle teste più belle» che si potevano «ammirare» a Napoli. Era un docente molto seguito e aveva una florida attività medica. «Mi ha mostrato il manoscritto di un testo di nosologia – scriveva Frank –, la cui impostazione mi è piaciuta molto. Durante il nostro incontro, il signor Lanza chiamò tutti i suoi figli e disse loro di guardarmi bene per ricordarsi il mio aspetto. I poveretti presero l’ordine del padre alla lettera e mi esaminarono come se fossi una bestia del serraglio. Feci fatica a rimanere serio»30. Vulpes, allievo di Cotugno e coetaneo di Lanza, lo colpì per la sua spiccata propensione al silenzio e per «l’aria assorta e le maniere di un uomo di corte». Ronchi ci teneva a mostrare, sotto il peso degli anni e della scienza, la sua venerabilità: «Il mio cameriere mi aveva presentato semplicemente come un medico russo, e il vecchio mi ricevette senza sapere come mi chiamassi. Gli feci un complimento per la sua ricca biblioteca; egli mi rispose che, grazie al principe Leopoldo di Salerno, aveva meno difficoltà dei suoi colleghi nel procurarsi i libri stranieri». Quadri, considerato uno dei maggiori oculisti europei, non deluse il medico tedesco. Arrivato nel 1814 a Napoli da Bologna, dove si era formato, aveva creato la clinica oculistica e accresciuto il suo già considerevole prestigio professionale31. Frank ascoltò una sua lezione, che risultò chiara e comprensibile, e assistette a due operazioni:
La prima era una cataratta – scriveva –; l’operazione riuscì perfettamente, sebbene gli occhi fossero infossati e irrequieti. Ho notato che egli esegue una incisione molto ampia per fare uscire facilmente la cataratta. Era la sua duemilacinquecentosesta operazione di questo genere. Nulla eguaglia l’abilità con cui questo chirurgo inserisce la pupilla artificiale. In questo caso si trattava della duemillesima operazione.

Gli ospedali, gli ospizi e le carceri furono gli altri luoghi che Frank visitò con estremo scrupolo32. Anche in questo caso il suo giudizio appare oggettivo, “scientifico”, quasi freddo. La sua formazione e la sua vasta esperienza gli vietarono di cadere, come spesso avvenne in scritti sulla situazione sanitaria a Napoli dell’epoca, in giudizi o del tutto negativi o troppo elogiativi. Si recò agli ospedali degli Incurabili, della Pace, dei Pellegrini, di Santa Maria di Loreto, di San Francesco di Paola, della Trinità, del Sacramento, della Marina e, ad Aversa, alle Reali Case dei Matti. In definitiva l’ospedale che non gli fece una buona impressione fu proprio il più antico e importante della città, quello degli Incurabili, sul quale scriveva:
L’ospedale degli Incurabili può accogliere milleduecento malati dei due sessi affetti da malattie croniche. Esso serve anche come clinica universitaria. La sua posizione è alta sopra la città, l’aria è salubre, le sale sono immense ed eccellenti durante la stagione estiva; ma il frastuono delle voci è tale da far pensare a una fiera. La pulizia delle sale è migliore rispetto a quella delle scale, dove ho visto degli escrementi. Sembra che le pareti non siano mai state imbiancate. I lungodegenti sono mescolati agli altri, esclusi quelli che devono subire delle operazioni chirurgiche importanti. Ci sono però due sale separate per i malati di tisi e per quelli affetti da malattie veneree (sale del mercurio).


Frank rimase molto sorpreso di non trovare nell’ospedale le cartelle cliniche. Questa mancanza gli fece rilevare, con una certa ironia, che i medici degl’Incurabili dovevano avere un’ottima memoria per ricordarsi diagnosi e terapia di ogni malato.
Negli altri ospedali la situazione era certamente migliore. L’Ospedale di Santa Maria di Loreto, destinato ai casi urgenti (oggi diremmo al pronto soccorso), prestava una buona assistenza. L’Ospedale di San Francesco di Paola, destinato invece ai malati delle prigioni, ne ospitava centocinquanta, «sistemati in sale spaziose e abbastanza pulite». Il vitto era discreto e veniva dato vino a tutti, a meno che non fosse stato proibito dal medico. Grazie alla «saggia legislazione napoletana», le condizioni di vita dei detenuti erano soddisfacenti:

[…] si mettono i ferri solo ai condannati per alcuni crimini e mai a chi è in attesa di giudizio – scriveva Frank –; quindi all’ospedale non si vedono detenuti incatenati. I malati possono ricevere la visita dei parenti a giorni fissi, due volte la settimana, e in qualunque momento se circostanze straordinarie lo richiedono. L’edificio è molto ampio; accoglie anche i prigionieri in buona salute che possono pagare un carlino al giorno e gli ecclesiastici accusati di reato. (I sacerdoti condannati si trovano all’isola di Nisida). Alcune sale servono come dormitori per i giovani sbandati, chiamati detenuti imberbi, che la polizia rinchiude la notte e lascia liberi durante il giorno.

Tali condizioni erano dovute all’ampia discussione che dagli anni Trenta si era sviluppata a Napoli sulla «scienza delle prigioni» e che trovò coronamento nel decreto, profondamente innovativo, del 21 aprile 1845 sull’organizzazione del regime carcerario33. Parole lodevoli Frank espresse anche per l’Ospedale della Trinità, che era dotato da un ottimo personale medico, tra i quali si segnalavano Gabriele Acuto, primario medico, e il ricordato Quadri. Il comandante, uno dei membri del consiglio di amministrazione, era molto rigido nel fare rispettare le regole: esigeva silenzio nelle sale, non permetteva che si giocasse a carte, né che le ragazze visitassero «i loro innamorati» e portassero «cibo». Frank commentava: «Trovo tutto ciò corretto in un ospedale dove il cibo e il servizio non lasciano nulla a desiderare». Buona appariva anche la situazione dell’Ospedale della Marina, situato a Piedigrotta, il migliore nosocomio militare della città. Oltre ai soldati, ospitava, senza distinzione di trattamento, anche i galeotti. L’ospedale, che sorgeva in riva al mare, aveva un giardino con piante di arancio cariche di frutta. Le camere erano «spaziose, ben areate e pulite», e vi era perfino «una sala a parte per i moribondi». I pazienti erano separati a seconda del tipo di malattia. La direzione era affidata ad Antonio Grillo, che, come si è detto, era dal 1834 titolare della cattedra di Anatomia umana e patologica. Per Frank «il buono stato dell’ospedale» era dovuto proprio all’abilità di Grillo, che aveva creato, fra l’altro, una farmacia di tutto rispetto. Nell’Ospedale della Marina venivano conservati gli strumenti chirurgici che servivano alle navi, «tutti prodotti a Napoli e lavorati perfettamente».
Da grande medico e docente qual era, Frank volle sempre vedere le attrezzature scientifiche degli ospedali. A Napoli lo colpirono due gabinetti: quello di Anatomia nell’Ospedale di Santa Maria di Loreto, e quello di Anatomia comparata e patologia nell’Ospedale di San Francesco di Paola34. Il primo, fondato da Pietro Ramaglia, meritava «l’attenzione dei medici in visita a Napoli, soprattutto per la parte patologica»35. I preparati anatomici, commentava il medico tedesco, diventavano «assai utili per l’insegnamento in una città dove per un terzo dell’anno le autopsie» erano «vietate per motivi sanitari, a causa del clima», eccessivamente caldo. Frank fu attratto, in particolare, da uno strano individuo:
Tra i reperti che ho visto in questo gabinetto – scriveva – citerò solo quello di una persona di nome Emanuela Arsano, che aveva tutte le parti genitali esterne femminili e fu maritata con un certo Luigi Michilli. Quando la signora morì all’età di novantasette anni, l’autopsia rivelò che le mancavano le trombe, la matrice e le ovaie, mentre c’erano due testicoli perfettamente conformati, con l’epididimo, situati nelle parti laterali della regione pubica, con i condotti spermatici collegati alle vescicole seminali, poste tra la vescica urinaria e la vagina. L’individuo era piuttosto un uomo che una donna ed è stato descritto come neutro-uomo.

Il secondo gabinetto, fondato da Antonio Nanula, era uno dei più rinomati in città. Sollecitato da Cotugno, Francesco Folinea, suo allievo e successore sulla cattedra di Anatomia, fu il primo a chiedere alle autorità competenti la costituzione di un gabinetto di preparati in cera e a secco nell’Università di Napoli. Nel 1819 Francesco Ronchi, Stefano Delle Chiaie e Gennaro Ferrini, furono nominati rispettivamente aggiunto, aiutante e preparatore in cera del gabinetto, che nel 1821 già possedeva pezzi di notevole pregio, tanto da suscitare l’ammirazione di Antonio Scarpa. Una vera e propria svolta si ebbe nel 1833, quando Nanula donò all’Università la sua ricca collezione anatomica, situata nell’Ospedale di San Francesco di Paola, dove lavorava e dove Frank poté ammirarla. La collezione, resa pubblica in un catalogo a stampa nel 1834, fu trasportata nel Collegio dei gesuiti, sede dell’Università, solo nel 1845, anno in cui il gabinetto fu inaugurato in occasione del Settimo Congresso degli scienziati. Nelle Memorie vi è un elenco dei reperti che avevano attirato l’attenzione di Frank:
1° il cranio di uno scrofoloso che presenta un’estrusione simile a una stalattite; 2° quello di un brigante che ha crudelmente assassinato più di duecento persone, senza che si noti alcunché di anormale nel presunto organo della distruzione; 3° un feto che ne teneva un altro in bocca, più piccolo, del quale sembrava avesse succhiato il sangue; 4° cinque neonati settimini, un maschio e quattro femmine, messi al mondo contemporaneamente da una povera donna; 5° una ricca collezione di calcoli vescicali e di malformazioni cardiache, frequenti tra i prigionieri36.

Significativa fu anche la visita che Frank effettuò alle Reali Case dei Matti di Aversa37. Sorto nel 1813, in epoca francese, e diretto per diversi anni da Giovanni Maria Linguiti, nel 1840 l’ospedale era diretto da Giuseppe Simoneschi, aveva come medico consulente Salvatore Maria Ronchi e come primario Benedetto Vulpes. Collaborava con l’istituto anche Luigi Ferrarese38, un medico molto apprezzato da Frank, che aveva pubblicato interessanti opere sulla pazzia, tra le quali il trattato Delle malattie della mente ovvero delle diverse specie di follia, uscito a Napoli la prima volta nel 1830-1832 e la seconda nel 1841-1843. L’ospedale era un ex convento francescano, formato da quattro edifici: la Maddalena, Sant’Agostino e la Montagna, per gli uomini, e al Monte, per le donne. L’amministrazione era unica per tutte le sezioni. «In questo modo – osservava Frank – l’economia si unisce al vantaggio di non ammucchiare settecento disgraziati negli stessi locali». Nelle Memorie vi è una descrizione accurata degli ambienti, dei pazienti, dei medici, dalla quale emerge un giudizio positivo sulla struttura e sulla vita che vi si conduceva. L’unica critica è riservata alla troppo lieve differenza di trattamento fra coloro che pagavano la pensione completa e la mezza pensione e coloro che erano mantenuti a spese dei loro comuni39. Scriveva Frank:
La Maddalena è la sede principale. Il 18 febbraio 1840, data della mia visita, c’erano duecento alunni. Una delicatezza raffinata fa sì che essi si chiamino così. Diciassette pagano la pensione completa di dodici ducati mensili e sedici la mezza pensione; centosessantadue poveri erano ospitati a spese dei Comuni di appartenenza. Gli ospiti delle prime due categorie vestono i loro propri abiti, quelli della terza la divisa dell’istituto, nella quale il colore del colletto (bianco, verde, rosso, eccetera) indica il tipo di follia. Gli ecclesiastici si riconoscono dalla croce che portano sul petto.

Dal direttore dipendevano gli ispettori e i prefetti; a questi ultimi, in pratica degli infermieri, erano affidati dodici «alunni», che erano serviti da camerieri. Una disposizione, questa, secondo Frank, «ammirevole e della massima importanza». Altro aspetto significativo nella vita dell’istituto fu la preoccupazione dei medici e delle maestranze di tenere occupati, per quel che era possibile, gli «alunni», tenendo conto delle loro capacità e dei loro interessi.
C’è una stamperia – continuava – che, detto tra parentesi, è l’unica esistente ad Aversa, città di sedicimila abitanti e sede episcopale. Anche la musica vocale e strumentale ha un ruolo in questo istituto. Alcuni alunni si esibirono in un coro dall’opera Tancredi di Rossini. Altri hanno costituito una banda di strumenti a fiato, con una divisa elegante; di loro posso dire che per lo meno non straziano le orecchie. Questa banda apre la sfilata quando gli alunni si recano in processione al refettorio. A un colpo del tamburo, essi sfilano tra i banchi e i tavoli (in marmo bianco, senza tovaglia); a un secondo colpo aprono i tovaglioli e cominciano a mangiare, senza coltelli. Il pranzo comprende una minestra, tre once e mezzo di carne senza osso, pane e mezza caraffa di Asprino, un vinello gradevole. Quelli che pagano la pensione intera pranzano separatamente con una minestra, tre piatti principali e il dessert, che consiste in un’arancia e un gambo di finocchio, crocchiato con un piacere indescrivibile. Le posate e i bicchieri sono in argento. Gli ospiti non paganti più tranquilli hanno dei dormitori comuni, gli altri hanno delle camere a due o a un letto.

Frank elencava infine le misure che venivano prese dai medici nei casi di malati gravi: «Oltre alla camicia di forza, si usano i letti di repressione, nei quali il malato è legato in modo da non poter nuocere agli altri. C’è anche una camera oscura, nella quale il malato può essere lasciato solo giacché le pareti sono coperte da materiali che impediscono di farsi male anche picchiandovi la testa». In quel luogo di dolore Frank si mostrò meno freddo del solito, come sembra attestare l’incontrò che fece con un capitano svizzero, «di taglia atletica, soggetto a parossismi di furore». In uno dei rari momenti di lucidità del malato, Frank riuscì a scambiare qualche parola con lui. Quando il capitano seppe che il visitatore era nato in una località vicino al Reno che amava molto, lo prese in simpatia e parlò dell’istituto, dicendo che «era un luogo triste, ma che ne aveva conosciuti altri, e quello era il migliore», e aggiunse: «Non potremmo essere trattati meglio […] per dodici ducati al mese!».
A metà marzo del 1840 il soggiorno a Napoli di Frank e della consorte volse a termine. In cinque mesi la coppia, amante dell’arte e della musica, dedita alla beneficenza, curiosa del bel mondo e degli umili, era riuscita a farsi un’idea piuttosto precisa di Napoli e dei napoletani. Nell’ultima lettera che mandò a De Renzi, qualche mese prima di morire, Frank scriveva di pensare alla città sempre con affetto: «Vedo qualche volta il console di Napoli a Milano cav. [Teodoro] Monticelli, e questi suole darmi nuove di codesta capitale alla quale penso continuamente. Ne ho fatto un quadro scientifico-medico, che vi piacerà, io spero, quando leggerete un giorno le mie Memorie biografiche». Probabilmente De Renzi, a cui Frank fu molto legato40, non poté leggere le Memorie, rimaste inedite finora; ma se avesse potuto farlo, sicuramente non gli sarebbe dispiaciuto il dettagliato quadro scientifico-medico di Napoli tracciato dal collega tedesco. E nella ricordata commemorazione che fece all’Accademia Pontaniana ne tracciò un affettuoso ritratto: «Bello e valido nella persona, netto e decoroso nel vestire, amorevole e caro nelle maniere, aperto e leale nel dire, franco e libero ma urbano e cortese nel discettare, amico della giovialità dell’eleganza e della musica, studioso del comodo ma non del lusso, generoso ma non prodigo, per naturale inclinazione portato alla beneficenza: tale lo vide gran numero di voi, tale lo conobbi io stesso»41.




NOTE



*Le pagine su Napoli di Giuseppe Frank fanno parte del sesto e ultimo volume delle sue Memorie in francese, conservate (il quinto è irreperibile) nella Biblioteca dell’Università di Vilnius, in Russia. Ringrazio vivamente Giovanni Galli, che con estrema gentilezza mi ha dato l’opportunità di visionare queste pagine e utilizzare la sua traduzione per questo saggio. Il sesto volume delle Memorie, da lui curato, uscirà, come già il primo (cfr. nota 1), nella collana «Fonti e studi per la storia dell’Università di Pavia».^
1 Su Giuseppe Frank (1871-1842) e su suo padre Giovanni Pietro (1745-1821) cfr., anche per la bibliografia, G. Galli, Cenni biografici su Giuseppe Frank e sulla sua famiglia, in G. Frank, Memorie, a cura di G. Galli. Presentazione di P. Mazzarello, Milano, Cisalpino. Istituto Editoriale Universitario, 2006, pp. 1-52.^
2 Oggi Vilnius, capitale della Lituania.^
3 Cfr. G. Galli, La piramide di Laglio, Como, L’Editoriale, 2002.^
4 Durante il viaggio in Italia (agosto 1839-aprile 1840) Frank e sua moglie rimasero un mese a Lucca per una malattia di quest’ultima, due settimane a Pisa per seguire i lavori del Congresso, pochi giorni a Livorno in attesa di imbarcarsi, un mese e mezzo a Roma, dove incontrarono il papa Gregorio XVI. A Napoli rimasero dalla metà di ottobre 1839 alla metà di marzo 1840, alloggiando nell’albergo Città di Roma, situato nella zona vicino al mare.^
5 G. Frank, Viaggio a Parigi e per gran parte dell’Inghilterra e della Scozia. Per quanto concerne spedali, carceri, stabilimenti di pubblica beneficenza e d’istruzione medica, traduzione dal tedesco di R. Arrigoni, Milano, Dalla Tipografia di G. Pirotta, 1813.^
6 S. De Renzi, P. Manfré, Prefazione dei traduttori napoletani, in G. Frank, Precetti di medicina pratica universale, traduzione italiana su l’ultima edizione di Lipsia. Tomo I. Parte prima. Sezione prima. Napoli, Dalla Tipografia del Filiatre-Sebezio, 1841, pp. 5-6: 5.^
7 Ivi, p. 6. Man mano che i volumi uscivano ne veniva data notizia agli associati su «Il Filiatre-Sebezio».^
8 [S. De Renzi], Giuseppe Frank, in «Il Filiatre-Sebezio. Giornale di scienze mediche», fasc. 108, dicembre 1839, pp. 426-29.^
9 Ivi, p. 429.^
10 Ibidem.^
11 Per i contatti di Manfré con l’ambiente medico italiano e in particolare con «l’egregio suo amico Cavalier Frank», cfr. L.N., Un viaggio medico-anatomico, in «Poliorama pittoresco», n. 38, 2 maggio 1840, pp. 306-7.^
12 [S. De Renzi], Giuseppe Frank, in «Il Filiatre-Sebezio. Giornale di scienze mediche», fasc. 145, gennaio 1843, p. 64.^
13 S. De Renzi, Necrologia [di] Giuseppe Frank, in «Il Filiatre-Sebezio. Giornale di scienze mediche», fasc. 148, aprile 1843, pp. 247-56: 256.^
14 F. De Sanctis, La giovinezza. Ricordi, a cura di G. Savarese, Napoli, Guida, 1983, p. 89. «Pennaruli» era il termine dialettale con il quale Ferdinando II apostrofò sprezzantemente gli intellettuali.^
15 G. Oldrini, Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1990, p. 92; ma dello stesso autore cfr. l’ormai classico La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1973.^
16 Sulla prima metà dell’Ottocento a Napoli cfr., anche per la bibliografia, Storia e civiltà della Campania. L’Ottocento, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli, Electa Napoli, 1995, e il catalogo della mostra Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, Napoli, Electa Napoli, 1997, 3 voll.; per quanto riguarda in particolare l’illuminazione a gas, la diffusione del dagherrotipo e il Settimo Congresso degli scienziati cfr. P.A. Toma, Napoli e la Compagnia del Gas, due secoli insieme, Napoli, Compagnia dei trovatori, 2006; G. Uccelli, Macedonio Melloni, il battesimo italiano della fotografia, in R. Rosati, Camera oscura 1839-192. Fotografi e fotografia a Parma, Parma, Silva, 1990, pp. 41-54; Il Settimo Congresso degli Scienziati a Napoli nel 1845. Solenne festa delle scienze severe, a cura di M. Azzinnari, Napoli, Archivio di Stato, 1996.^
17 F. Ramondino, Invito, in F. Ramondino, A. F. Müller, Dadapolis. Caleidoscopio napoletano, Torino, Einaudi, 1989, pp. 61-63: 62. Il concetto è tratto da un articolo su Napoli di Fernand Braudel apparso sul «Corriere della Sera» nel 1983.^
18 Sull’argomento cfr. G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Milano, Mondadori, 1982, pp. 253-83; V. Ferrone, I profeti dell’illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 123-37.^
19 Il racconto, uscito a puntate, con il titolo Paul d’Aspremont, sul «Moniteur Universel» dal 25 giugno al 23 luglio 1856, fu pubblicato l’anno successivo in volume, con il titolo Jettatura, dall’editore Michel Lévy di Parigi. Su questo racconto cfr. E. De Martino, Sud e magia, Introduzione di G. Galimberti, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 158-71 (1a edizione, 1959).^
20 Sul gioco del lotto a Napoli nel Sette-Ottocento cfr. F. Strazzullo, I giochi d’azzardo e il lotto a Napoli. Divagazioni storiche, Napoli, Liguori, 1987; P. Macrì, Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento, Roma, Donzelli, [1997].^
21 Cfr. Il Teatro del Re. Il San Carlo da Napoli all’Europa, a cura di G. Cantone e F.C. Greco, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987; in particolare per i viaggiatori stranieri cfr. L. Di Lernia, La visita al San Carlo del viaggiatore straniero (ivi, pp. 159-71).^
22 Cfr. M. Torrini, Scienziati a Napoli, 1830-1845. Quindici anni di vita scientifica sotto Ferdinando II, Prefazione di G. Galasso, fotografia F. Donato, con appendice di E. Ragozzino, R. Rinzivillo, E. Schettino, Napoli, Cuen, 1989. ^
23 Nel 1839 lo stesso sovrano elaborò delle Appuntazioni per lo abbellimento di Napoli (cfr. A. Buccaro, La politica urbanistica nel pensiero di Ferdinando II, in Civiltà dell’Ottocento. Architettura e urbanistica, a cura di G. Alisio, Napoli, Electa Napoli, 1997, pp. 67-74).^
24 Per una utile guida documentaria e bibliografica su questi argomenti cfr. «Il Patrimonio del povero». Istituzioni sanitarie, caritative, assistenziali ed educative in Campania dal XIII al XX secolo, Presentazione di C. Mazzeo. Introduzione di S. Mastruzzi, Napoli, Fiorentino, 1997.^
25 Cfr. soprattutto A. Zazo, L’ultimo periodo borbonico, in Storia dell’Università di Napoli, Napoli, Ricciardi, 1924, pp. 469-588; Id., Le scuole private universitarie a Napoli dal 1799 al 1860, Napoli, I.T.E.A., 1926; Id., L’istruzione pubblica e privata nel napoletano 1767-1860, Città di Castello, Il solco, 1927.^
26 Sull’insegnamento e sul gabinetto privato di fisica dell’abate Fazzini cfr. F. De Sanctis, La giovinezza, cit., pp. 30-36.^
27 L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici, a cura di M. Themelly, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 58.^
28 Su Cotugno cfr. A. Borrelli, Istituzioni scientifiche, medicina e società. Biografia di Domenico Cotugno (1736-1822), con un’appendice di documenti sulla Scuola medica degl'Incurabili, Prefazione di M. Torrini, Firenze, Olschki, 2000. ^
29 Sui medici e sulla medicina a Napoli ai tempi del viaggio di Frank cfr. V.D. Catapano, Medicina a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, con la collaborazione di E. Esposito, Napoli, Liguori, 1990; Id., Vicende mediche a Napoli nell’Ottocento preunitario, in Sanità e società. Abruzzi, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria. Secoli XVII-XX, a cura di P. Frascani, Udine, Casamassima, 1990, pp. 251-88; sulle cliniche cfr. anche A. Giuliano, Le cliniche mediche a Napoli nella prima metà del XIX secolo, in Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica, Atti del convegno internazionale, Desenzano del Garda, 4-8 giugno 1991, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1995, 2 voll., II, pp. 1065-73.^
30 L’opera alla quale Frank alludeva fu pubblicato a Napoli, in cinque tomi e con il titolo di Nosologia positiva, tra il 1841 e il 1845; sulla sua importanza nella medicina italiana dell’Ottocento cfr. V. D. Catapano, Medicina a Napoli, cit., pp. 162-74.^
31 Sugli anni di Quadri a Napoli (1814-1851) cfr. R. Salvemini, Le implicazioni economiche della cura degli occhi a Napoli nel primo Ottocento: il caso di G.B. Quadri, in La nascita dell’Oculistica campana. Fonti storiche e documentarie, a cura di A. Armone Caruso e A. Del Prete, Napoli, Giannini, 2005, pp. 137-52.^
32 Su questi aspetti cfr. L. Valenzi, Poveri, ospizi e potere a Napoli (XVIII-XIX sec.), Milano, Angeli, 1995; Ead., Donne, medici e poliziotti a Napoli nell’Ottocento. La prostituzione tra repressione e tolleranza, Napoli, Liguori, 2000.^
33 Cfr. F. Mastroberti, Tra scienza e arbitrio. Il problema giudiziario e penale nelle Sicilie dal 1821 al 1848, Bari, Cacucci, 2005, pp. 331-37.^
34 Sui gabinetti e sui musei scientifici a Napoli all’epoca del viaggio di Frank cfr R. Spadaccini, I musei scientifici napoletani nella prima metà dell’Ottocento, in Gli archivi per la storia della scienza, cit., I, pp. 371-95; A. Armone Caruso, Per la storia della ceroplastica scientifica a Napoli nel XIX secolo (1817-1822), in «Scrinia», 1 (2004), pp. 99-111; I musei scientifici dell’Università di Napoli Federico II, a cura di A. Fratta, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 1999.^
35 Cfr. Ospedale di Santa Maria di Loreto di Napoli, Catalogo delle preparazioni anatomico-patologiche conservate nel gabinetto dell’Ospedale, a cura di G. Palma, Napoli, Fibreno, 1853.^
36 Sul gabinetto di Nanula cfr. A. Nanula, Elenco degli oggetti di anatomia umana e comparativa preparati nell’Ospedale di San Francesco e d’ordine sovrano presentati alla Regia Università degli studi, Napoli, Nel Gabinetto bibliografico e tipografico, 1834; Gabinetto anatomico, in B. Quaranta, Istituti scientifici e letterari, pubblica istruzione, e loro edifizi, in Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, Napoli, Stabilimento tipografico di G. Nobile, 1845, 2 voll., II, pp. 30-34; P. Venditta, I fasti del Gabinetto anatomico dedicati al cav. Antonio Nanula dal suo allievo Paolo Venditta, in Omaggio funebre alla memoria del cav. Antonio Nanula fondatore del Gabinetto di Anatomia descrittiva e comparata nella Regia Università degli Studii, Napoli, s.e., 1846.^
37 Su questo ospedale cfr. V.D. Catapano, Le Reali Case de’ Matti nel Regno di Napoli, Napoli, Liguori, 1986. ^
38 Su Ferrarese cfr. V. D. Catapano, Le Reali Case de’ Matti, cit., pp. 319-43.^
39 Su questo problema cfr. V. D. Catapano, Le Reali Case de’ Matti, cit., pp. 138-45.^
40 Nel suo testamento Frank stabilì che a De Renzi fosse toccasse la scatola regalatagli da Senner con l’autografo annesso (cfr. Il testamento di Giuseppe Frank, in G. Frank, Memorie, cit., pp. 305-30: 330).^
41 [S. De Renzi], Giuseppe Frank, cit., p. 255.^
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