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L’Europa e «Il Mondo»: l'europeismo ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio
di Yuri Guaiana
«Il Mondo» di Mario Pannunzio, pubblicato dal febbraio 1949 al marzo 1966, è stato, si dice in Tempi di ferro di Antonio Cardini, «il periodico più importante e autorevole in cui ha trovato espressione il pensiero laico e liberale dell’Italia del dopoguerra. Fucina di giornalisti, punto di coagulo di un vasto numero di intelligenze, esercitò un’influenza molto superiore alla sua diffusione effettiva»1. Esso rappresenta pertanto un osservatorio privilegiato attraverso il quale studiare una forza storica minoritaria, ma determinante nella vita dell’Italia contemporanea, una forza che s’incarnava in un composito gruppo, fortemente anche se variamente connotato culturalmente e politicamente, collocabile grosso modo tra la sinistra liberale e la destra azionista. Un gruppo che fece dell’europeismo molto più di una razionale e consapevole scelta politica, fino ad includerlo in un più ampio orizzonte etico e culturale al quale volgere e dal quale trarre speranza ed ispirazione. Una scelta – si potrebbe dire – di civiltà, di quella civiltà che, per il De Caprariis, nacque sull’Atlantico tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento. Una koinè etica, fatta della «comune fede nei diritti inalienabili della persona umana, nella libertà di coscienza e di parola, nella superiorità delle istituzioni libere e delle dottrine costituzionalistiche fondate sul rispetto di una legge liberamente voluta dal popolo»; principi, valori, ideali che materiano le istituzioni liberaldemocratiche2. Tale è la ragione profonda dell’europeismo de «Il Mondo» e il filo rosso che accomuna le pur diverse accezioni che di esso danno i diversi autori della rivista. Ed in questa luce si comprende come questa e tutte le altre scelte di politica internazionale del periodico romano fossero guidate dal comune obiettivo di difendere tale civiltà, il sistema liberaldemocratico, dai convergenti attacchi di stampo comunista e neofascista e di espandere i troppo angusti confini del “mondo libero”. Solo l’integrazione economica, politica e militare dei paesi democratici dell’Europa occidentale li avrebbe difesi dall’aggressività sovietica e avrebbe aumentato le speranze di liberare i popoli dell’Est dal giogo del totalitarismo, ma anche quelli iberici dal franchismo.
Proprio la dimensione etico-politica dell’opzione europeista illustra chiaramente la portata dell’influenza su questo gruppo di intellettuali del più grande padre ideale, nonché collaboratore, della rivista: Benedetto Croce. Fu proprio il filosofo partenopeo a mostrare il principio etico-politico che illuminò sempre il percorso seguito dal periodico nel campo di cui ci si sta occupando. Come è noto infatti, Croce concepiva ed auspicava la formazione degli “Stati uniti d’Europa” all’interno della sua più ampia teoria della libertà. Per lui – nell’efficace sintesi del Galasso – la libertà era «la possibilità di estrinsecare, nei modi volta per volta storicamente attuali e nella massima misura consentita, le energie morali dei singoli»3. In quest’ottica, la libertà si faceva ideale e gli istituti nei quali si concretava «le si lega[va]no e si slega[va]no per necessità storic»4. Ciò che contava era l’ideale liberale, mentre le forme nelle quali storicamente s’incarnava, che pure serbavano la loro importanza, avevano un valore puramente strumentale e storicamente determinato dalla loro capacità di ampliare il grado di libertà di un popolo. Così gli Stati nazionali, che in origine furono strumento «di umano avanzamento» e in quanto tali pertinenti «al mondo della libertà», si sarebbero potuti comporre «in stati plurinazionali o stati uniti»5.

Cos’è Europa: definizione culturale dell’Europa

L’impostazione etico-politica dell’europeismo de «Il Mondo» determina poi una questione che merita di essere approfondita, quella dei confini europei. Per questo gruppo di intellettuali, la “civiltà europea” sembrerebbe estendersi tanto all’America, quanto alla Russia. Secondo Carlo Antoni, anche la Russia, nonostante le profonde differenze con l’Occidente, come la mancanza di «quell’idea del diritto di natura, che nei popoli dell’Occidente ha creato la base dell’affermazione dei diritti dell’individuo» o come un accoglimento senza convinzione del concetto e del diritto di proprietà, contribuì alla civiltà europea grazie al fatto che «proprio l’evangelismo russo ha riportato in Occidente, attraverso i romanzi, alcuni motivi dell’etica cristiana, che in Occidente la dogmatica e l’organizzazione ecclesiastica avevano fatto obliare»6. Tuttavia, la Russia serbava in sé solo alcuni caratteri della cultura europea e gli apporti che vi diede sembravano, nelle parole di Antoni, contributi esterni. Insomma, la Russia era qualcosa di intermedio, di eurasiatico.
Quest’ambiguità venne completamente a sparire con l’avvento del comunismo sovietico e con la calata nel centro Europa della “cortina di ferro” che misero la Russia e i paesi sotto il suo dominio decisamente al di fuori dell’Occidente. Per adottare la dizione dello storico inglese Leonard Bertram Schapiro, citata su «Il Mondo» da Mazarino7, gli stati totalitari come la Russia sovietica, ma anche come la Spagna franchista e il Portogallo salazariano, erano «membri dormienti dell’Europa [che non erano] in grado di dare tutto il loro contributo alla salvaguardia di quei valori che sono la ragion d’essere dell’Europa»8, ma che ne erano pur sempre parte. Non a caso, nelle sue pagine culturali, il periodico romano dedicò sempre una certa attenzione alla letteratura russa e spagnola. D’altronde anche le posizioni politiche più dure assunte dalla rivista contro il blocco orientale erano tese a liberare i popoli dell’est, compreso quello russo, dal giogo totalitario e comunista per permettere loro di riunirsi alla grande famiglia europea.
Sia detto per inciso che, dopo la fine della “guerra fredda” e la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, la questione dell’ambiguità russa, della sua condizione eurasiatica, si ripresenta ponendo seri problemi al processo di espansione dell’Unione europea. Problemi questi, che non appaiono fronteggiati con una seria riflessione sui confini dell’Unione europea e sui limiti da porre al suo processo di espansione.
Anche il rapporto tra America ed Europa era, comunque, di grande momento. Pur ammettendo «che alcune tendenze della vita americana non corrispond[eva]no al gusto europeo», non era concepibile una cultura americana distinta da quella europea. L’America era «una prosecuzione fedele dello spirito europeo»9, diceva Panfilo Gentile, primo estensore della rubrica di politica internazionale “Ventesimo secolo”. Anzi, dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti furono percepiti come uno dei più solidi bastioni a difesa proprio di quel principio di libertà che informa di sé lo “spirito europeo”. Questa sorta d’identità tra Europa ed America fu alla base del contrasto, scoppiato sulle pagine del settimanale nella prima metà degli anni Cinquanta, tra gli atlantisti, che attribuivano una maggiore urgenza alla costituzione di una comunità atlantica, e i federalisti europei, che attribuivano invece una maggiore importanza alla costituzione di una federazione europea.
E’ evidente, quindi, come la priorità del momento etico-politico fosse determinante per il gruppo d’intellettuali che si raccolse attorno a Pannunzio anche nella definizione dei confini d’Europa. Essa muoveva da ragioni tutt’altro che territoriali, geopolitiche o geostrategiche. I confini d’Europa non erano basati su elementi dati, fisici e naturalistici ma, seguendo il moto storico di espansione e contrazione del principio di libertà, erano in continuo divenire e ricomprendevano tutti i paesi in cui, in un determinato momento storico, tale principio avrebbe trovato il suo topos.
Del resto perché meravigliarsene? Sono secoli – sosteneva Mazarino – che l’Europa nella quale una determinata tradizione di libertà e di progresso si è venuta più o meno faticosamente e più o meno parzialmente realizzando non corrisponde con l’Europa geografica […] E’ questo il dato storico significativo da cui lo sforzo di costruzione unitaria dell’Europa ha preso e deve continuare a prendere vigore e conforto10.


Difesa europea tra europeismo e atlantismo

Il 1949, anno di nascita del settimanale pannunziano, fu contraddistinto dalla firma del Patto Atlantico, a favore del quale «Il Mondo» si schierò senza distinzioni e senza riserve. L’alleanza «non era soltanto la risultante di una determinata congiuntura, ma era anche, ed anzi soprattutto, il punto di arrivo d’un molteplice ed insieme univoco processo storico, attraverso il quale una comunanza di ideali e di valori si faceva forza cosciente e si concretava in un’istituzione politica»11. Questa concezione portò gli intellettuali di via Campo Marzio12 a preferire, almeno in un’occasione, un’opzione atlantista ad una federalista europea.
Lo scoppio della guerra di Corea, il 28 giugno 1950, rese particolarmente urgente sciogliere il nodo gordiano della difesa europea. L’amministrazione americana di Harry Truman si convinse, allora, della necessità di integrare la Repubblica federale tedesca nella nascente organizzazione militare della NATO e avanzò, in occasione del Consiglio atlantico di New York del settembre 1950, una precisa indicazione in questo senso.
La proposta americana incontrò la simpatia dei redattori de «Il Mondo», come dimostrò l’atteggiamento tenuto dal giornale nel dibattito promosso il 21 ottobre 1950. È assai significativo che nel presentare l’apertura del dibattito il giornale abbia ritenuto di anteporre allo scritto di Spinelli un breve corsivo, sicuramente attribuibile a Pannunzio, dal quale traspare chiaramente l’esigenza di una presa di distanza dalle tesi sostenute nel dal leader del Movimento federalista europeo. È bene riportare per intero queste poche righe introduttive:

Noi siamo consapevoli dell’estrema urgenza di provvedere alla difesa dell’Europa Occidentale e non vorremmo subordinarla al verificarsi di alcuna condizione, comunque desiderabile, che potesse ritardarne la realizzazione o diminuirne l’efficienza. Ma la migliore difesa, in un paese a regime democratico, è quella a cui ci si prepara consapevolmente, avendo ben chiare davanti agli occhi le conseguenze implicite nelle diverse soluzioni possibili. Ed è per questo che intendiamo con l’articolo di Spinelli, aprire una discussione sull’importante argomento13.


Il riferimento è inequivocabile. È senza alcun dubbio la federazione europea quella condizione “comunque desiderabile” alla quale non poteva in alcun modo essere subordinata la difesa europea, dato il carattere di “estrema urgenza” che questa rivestiva. Per Spinelli, infatti, occorreva creare un saldo potere politico europeo attraverso l’elezione di un’Assemblea costituente. Finché gli Stati avessero mantenuto la loro assoluta sovranità in materia di politica estera, militare e finanziaria, infatti, l’esercito europeo sarebbe rimasto un progetto inefficace se non addirittura pericoloso, poiché avrebbe potuto portare all’instaurazione «di una dittatura militare, esercitata da un corpo militare completamente estraneo ai poteri civili europei»14.
La risposta al leader federalista fu affidata ad Antonio Calvi, redattore di «Ventesimo secolo», e ad un tecnico, il generale Gabriele Boglione: la federazione europea (“programma massimo” sul quale in linea di principio tutti potevano dichiararsi d’accordo) rappresentava un’ipotesi non a portata di mano, a causa del rifiuto inglese ad impegnarvisi e della contrarietà francese al riarmo della Germania. «I tempi non [erano] ancora maturi», la federazione appariva una scadenza troppo lontana perché le si potesse subordinare la difesa del continente. Nell’immediato la questione strategicamente fondamentale era allargare la protezione atlantica alla Germania ed impegnarsi a difendere la linea di demarcazione sull’Elba perché da questo dipendeva in gran parte la difesa dell’intera Europa15.
Nel frattempo, la Francia rese noto il cosiddetto Piano Pleven, formulato proprio in antagonismo alla proposta americana e destinato – nelle intenzioni del suo promotore – a dar vita al progetto di una Comunità europea di difesa. Su questa circostanza Garosci incentrò una parte della sua risposta al generale Boglione criticando l’idea che la federazione europea sarebbe stata «un problema di vasta portata, un problema complesso», mentre l’esercito atlantico sarebbe stato un «problema facile a risolversi». L’opposizione francese e la sua controproposta avrebbero dimostrato, invece, che «la soluzione dell’esercito atlantico comporta tutte le difficoltà che comporterebbe la federazione europea e magari qualcuna supplementare». Inoltre Garosci sosteneva la maggiore efficacia dell’esercito europeo rispetto a quello atlantico, poiché in quest’ultimo, non esistendo una patria atlantica, i soldati non avrebbero potuto essere animati da un patriottismo atlantico perdendo così quella motivazione morale necessaria alla vittoria, tanto esaltata nelle stesse scuole militari16.
A quest’articolo di marca federalista, replicarono nuovamente Boglione e Calvi. L’uno contestando che i valori morali avrebbero avuto «nell’esercito federale quell’indispensabile peso che [avrebbe fatto] invece difetto nell’esercito atlantico, costituendone un suo insanabile elemento di debolezza»17, l’altro sostenendo che,

se una forma anche minima di unità federale fra alcuni paesi europei [avesse tardato] troppo a venire, questi stessi paesi si [sarebbero trovati] ad essere direttamente partecipi di un’unità atlantica in via di sviluppo, [un] unità […] così robusta ed efficiente da assorbire, in definitiva, ogni possibilità di legami federali europei18.


Spinelli allora sottolineò come la particolare congiuntura internazionale non allontanasse affatto una federazione europea, ma anzi la avvicinasse come mai prima: infatti, la Francia era costretta ad operare in questa direzione per scongiurare la ricostituzione delle forze armate tedesche; la Germania avrebbe accettato il piano Pleven dietro la garanzia di avere pari dignità con gli altri contraenti; il Parlamento italiano aveva invitato il governo ad agire per la creazione di un’autorità europea e gli Stati Uniti non volevano inimicarsi la Francia né assumere il ruolo di padroni incontrastati19.
Tuttavia, a riprova della posizione de «Il Mondo» decisamente favorevole alle tesi atlantiste, il dibattito venne chiuso da un articolo di Mario Paggi dall’emblematico titolo Uno Stato atlantico. Per l’articolista una realtà europea era «del tutto inesistente e ormai superata»: l’Est era prigioniero del totalitarismo comunista, in Inghilterra prevaleva la logica imperiale, la Scandinavia perseguiva un indirizzo di politica estera filo britannico, la Turchia si ritrovava con la minaccia russa ai confini e la Spagna giaceva ancora sotto il giogo dittatoriale. In un simile contesto, per Paggi, «l’avvenire dell’Europa poteva essere assicurato soltanto da una rapida creazione di una Federazione atlantica»20. La debolezza economica e militare degli Stati europei limitava di fatto la loro sovranità politica di fronte agli Stati Uniti che elargendo i propri aiuti avevano modo d’influire ampiamente sulle decisioni politiche europee. L’unico modo per evitare il rischio di un colonialismo americano era quindi quello di limitare anche la sovranità statunitense e devolverla insieme a quella degli Stati europei ad un’autorità sovranazionale. Essa si sarebbe dovuta organizzare secondo i dettami liberali e democratici e avrebbe dovuto garantire uguali diritti a tutti i membri. Solo così, per Paggi, si sarebbe garantita la necessaria cooperazione economica e militare entro un contesto politico veramente democratico.
La cosa più importante evidenziata dal dibattito sulla difesa europea è la concezione schiettamente liberale che gli “amici del Mondo” avevano della politica estera. La federazione europea e lo Stato atlantico erano considerati esclusivamente come strumenti per raggiungere il vero obiettivo che era quello di salvaguardare ed incrementare la libertà dei popoli. La scelta tra una soluzione e l’altra si basava su di una realistica valutazione di efficacia, come dimostrò anche il fatto che successivamente «Il Mondo» spostò nuovamente le sue preferenze dalla soluzione atlantica a quella federalista. Se dapprincipio la polarizzazione emersa durante il dibattito sulla difesa europea permase – la rivista continuò infatti a propendere per una linea decisamente filo-atlantista, senza tuttavia mancare di offrire spazio anche ai sostenitori delle tesi di un europeismo più intransigente –, nel corso del 1951 lo scenario internazionale tese a subire delle modificazioni tali per cui, alla fine, «Il Mondo» arrivò ad appoggiare fortemente il progetto di Comunità europea di difesa e le sue virtualità federaliste, pur lasciando sussistere, almeno sino al febbraio 1953, una ferma opposizione atlantista rappresentata in particolar modo da Antonio Calvi.
Il 15 febbraio 1951 si aprì a Parigi tra i rappresentanti di RFT, Francia, Italia, Belgio e Lussemburgo21 la Conferenza per l’organizzazione dell’esercito europeo nell’ambito della quale si sarebbe giunti alla stesura del trattato CED che costituiva un sensibile miglioramento del progetto francese sul piano della sua realizzabilità22. Nel frattempo il conflitto coreano andava stabilizzandosi con un allentamento dei combattimenti intorno al 38° parallelo e così il 10 luglio 1951 poté prendere l’avvio la conferenza di pace che, anche se si trascinò per circa due anni in cui i combattimenti continuarono, allontanò il timore di un’estensione della guerra su scala mondiale e consentì un certo allentamento della tensione internazionale. In ottobre, infine, Wiston Churchill tornò alla guida del governo inglese, il che se non portò ad un appoggio inglese alle tesi federaliste, almeno attenuò l’ostilità di quel paese all’unificazione dell’Europa continentale. Diminuendo così leggermente la tensione internazionale e aumentando la praticabilità del piano Pleven l’amministrazione Truman iniziò ad ammorbidire la sua opposizione nei confronti della proposta francese mentre Eisenhower, neo-nominato capo delle forze militari atlantiche, pronunciò il 13 luglio 1951 un discorso a favore di una “workable European Federation” che Spinelli non mancò di sfruttare per sferrare un nuovo attacco alle tesi atlantiste su «Il Mondo». Il leader federalista, quasi a voler rispondere all’articolo di Paggi a chiusura del dibattito dell’anno precedente, criticò l’ipotesi di un’unità atlantica poiché in essa ogni Stato potrebbe sperare al massimo di farsi valere più degli altri verso “il generoso nuovo padrone”. Spinelli citò testualmente e fece sue le parole di Eisenhower:

L’Europa non potrà raggiungere la grande statura materiale che le sarebbe possibile conseguire […] finché sarà divisa da rabberciate barriere territoriali […] Con gli oneri dipendenti da una divisione forzosa, è chiaro che anche un minimo sostanziale sforzo di difesa intaccherà seriamente le risorse dell’Europa23.


Sotto la propaganda dell’unione atlantica si celavano il nascente imperialismo americano ed il parassitismo europeo, ammoniva il leader federalista. Egli trovava dunque nelle parole del comandante Nato una piena conferma delle sue tesi e anche un’indicazione operativa per l’immediato futuro:

Il Patto atlantico sarà una garanzia di pace, di benessere di sicurezza alla sola condizione che l’Europa continentale democratica, e più precisante i paesi del piano Schuman, si decidano a fondare una «workable Federation»24.


Spinelli ebbe così modo di rilanciare, dalle colonne de «Il Mondo», la sua proposta per la convocazione di un’Assemblea costituente europea, avvalendosi stavolta di un alleato d’eccezione.
Nel frattempo il trattato CED venne definitivamente sottoscritto il 27 maggio 1952 nella versione contenente l’impegno a creare contemporaneamente all’esercito europeo anche istituzioni politiche comuni (art. 38). Antonio Calvi puntò allora le sue critiche non tanto sulla CED, che rappresentava un modo per ottenere la partecipazione tedesca alla difesa occidentale e favoriva inevitabilmente il processo d’integrazione europea, quanto sul correlato progetto di una Comunità politica europea (Cep) che rischiava di compromettere la ratifica parlamentare del trattato CED e quindi la possibile soluzione del nodo gordiano della difesa europea. Onde evitare questo rischio Calvi sostenne insistentemente la necessità di separare i due progetti arrivando a sostenere la più classica tesi funzionalista25.
Con più il tempo passava e con più si creavano difficoltà alla ratifica del trattato CED, con più le critiche di Calvi s’inasprivano, sino ad arrivare a sostenere senza mezzi termini che «non è affatto detto che la federazione europea sia necessaria e utile, se non è inquadrata in un contemporaneo sviluppo della comunità atlantica. Il federalismo fine a sé stesso può fare, senza volerlo, il giuoco di un eventuale neo-isolazionismo americano»26. Questa ipotesi preoccupava particolarmente Calvi poiché se la CED e un’eventuale federazione europea avevano il pregio di legare più saldamente la Germania all’occidente, quest’ultima sarebbe potuta facilmente divenire l’elemento preminente sia della CED sia della federazione. L’unica soluzione per l’articolista continuava a stare in un permanente collegamento «non solo con la Gran Bretagna, ma anche e soprattutto con gli Stati Uniti», il che poteva essere garantito solo da una comunità atlantica, cioè un «organismo permanente e non temporaneo come un’alleanza»27. Tale posizione, comunque, era sempre più minoritaria nel periodico pannunziano, come si capisce dal risalto dato agli articoli dei collaboratori federalisti che spesso venivano anteposti nelle prime pagine a quelli del redattore di «Ventesimo secolo». Nel 1953, poi, mentre «Il Mondo» era impegnato in politica interna a sostenere la legge elettorale con premio di maggioranza e la coalizione centrista in previsione delle elezioni che si sarebbero tenute il 7 giugno 1953, le critiche di Calvi si appuntarono direttamente sulla politica federalista di De Gasperi e del governo, la quale sarebbe andata a discapito di un rafforzamento della comunità atlantica28. Questo stato di cose poneva un problema di indirizzo politico-editoriale a «Il Mondo» e al suo direttore e, probabilmente, non fu estraneo al fatto che il 28 febbraio 1953, Calvi cessò la sua collaborazione con il periodico romano. Comunque l’impegno dei liberali de «Il Mondo» a favore della ratifica del trattato CED era destinato ad essere vano: il 30 agosto 1954, infatti, esso venne respinto dall’Assemblea nazionale francese.
In questo discorso sulla difesa europea si rende ora necessario spiegare quale fosse il ruolo che l’Europa avrebbe dovuto giocare sullo scacchiere internazionale per gli “amici del Mondo”. L’Europa, pur restando al fianco degli Stati Uniti, doveva assumersi le proprie responsabilità, doveva essere in grado di contribuire alla propria difesa senza scaricarne sull’alleato tutti gli oneri. Questo sarebbe stato possibile solo attraverso l’istituzione di un vero e proprio Stato federale europeo, che quindi diveniva un obiettivo prioritario. Il ruolo che l’Europa non avrebbe comunque mai dovuto ambire a ricoprire era quello di una terza forza equidistante o mediatrice tra Unione Sovietica e Stati Uniti, di un Europa, cioè, slegata da ogni solida alleanza tanto con gli USA quanto con l’URSS, in grado di comunicare ad entrambi i mondi al fine di «opporre ostacolo ad ogni volontà di guerra, che [dovesse] svolgersi sul suolo europeo»29. Questa posizione, se pur venne sostenuta su «Il Mondo» da alcuni collaboratori come Ferruccio Parri e Arturo Carlo Jemolo, rasentava il neutralismo nenniano – più volte attaccato come, di fatto, filosovietico – ed era dunque inaccettabile. A tale proposito è significativo segnalare la risposta proprio alle affermazioni terzaforziste di Jemolo che Pannunzio affidò a Spinelli.

Nessuno che abbia pensato seriamente a questo problema [l’unificazione europea, ndr.], può mai aver seriamente definito come compito della federazione europea quello di fare da mediatrice; l’Europa unita dovrebbe risolvere i propri problemi di civiltà e di libertà, e dovrebbe cercarsi nel mondo quegli alleati che essa ritenesse più vicini ai suoi interessi e ad i suoi ideali30.


Un evidente riferimento agli Stati Uniti, con buona pace del neutralismo socialcomunista.
Alla luce di quanto detto sinora si comprende quindi la posizione assunta dal «Il Mondo» negli anni Settanta, quando si aprì il dibattito sulla riforma del Patto Atlantico. Gli intellettuali di via Colonna Antoniana31 si schierarono ancora una volta con l’amministrazione americana, a quell’epoca presieduta da John Fitzgerald Kennedy. L’Europa avrebbe dovuto organizzare una propria difesa comune con armi convenzionali, senza bisogno degli aiuti e della presenza americani, come estrinseco fattore di unità, la qual cosa era resa possibile dalla crescita economica che interessò il continente europeo in quegli ultimi anni. Gli Stati Uniti avrebbero invece dovuto assumersi l’impegno di intervenire in aiuto dell’Europa con armi atomiche, se essa fosse stata aggredita con armi di tale natura. Il Patto atlantico, in questo contesto, si sarebbe dovuto riformare nel senso di una vera partnership fra Europa ed America, in modo da garantire una qualche forma di partecipazione europea all’eventuale decisione di utilizzare armi nucleari.
La questione fu oggetto di un breve dibattito che prese corpo sulle colonne della rivista nel corso del 1963 e in cui la redazione non mancò di schierarsi. Il dibattito venne aperto da Achille Albonetti, esponente della sinistra democratico-cristiana ed esperto economico che ricoprì numerosi incarichi nell’amministrazione comunitaria. Per l’articolista l’Europa unita, per nascere, aveva bisogno di una sua identità, la quale si sarebbe formata distinguendosi, e quindi rendendosi indipendente, oltre che da Cina, India e Unione Sovietica, anche dagli Stati Uniti. Questo, comunque, non avrebbe escluso un’amicizia e un’alleanza con gli americani, perché tale rapporto era nell’interesse dell’Europa. L’Occidente europeo, pertanto, doveva essere indipendente ma, scriveva Albonetti, «nel mondo moderno la misura dell’indipendenza sta nel possesso di efficaci armamenti nucleari». Gli Stati «nuclearmente disarmati o vivono come clienti sotto una protezione atomica esterna o hanno quell’effimero terzo sesso che è la neutralità». Per l’economista democratico cristiano, dato che Francia e Inghilterra possedevano già un armamento nucleare, esistevano solo tre possibilità: se essi fossero riusciti a conservare le proprie armi atomiche indipendentemente dagli Usa avrebbero perso ogni interesse per un’Europa unita e federata; se non vi fossero riusciti o avrebbero dovuto trovar rifugio in una rinnovata Alleanza atlantica che avrebbe potuto prendere la forma di una confederazione o di un «satellismo nudo e crudo», ma che avrebbe, «in ogni caso, escluso l’unità europea»; o avrebbero dovuto coinvolgere gli altri Stati europei nella costituzione di una difesa comune e di un armamento nucleare comune che avrebbe portato «per conseguenza»32 ad un’Europa unita anche politicamente.
A questa tesi ribatté Altiero Spinelli muovendo l’accusa di «nazionalismo europeo»:

Il progetto di armamento atomico europeo autonomo”, non nascendo da un urgente bisogno di difesa, “nasce dall’ambizione di occupare un rango degno delle antiche glorie […] Un’ Europa occidentale che facesse del proprio autonomo armamento atomico la pietra d’angolo della propria unificazione si presenterebbe quindi inevitabilmente […] nel […] ruolo dell’aspirante grande potenza, insoddisfatta perché costretta a rivendicare un rango non automaticamente riconosciutole, impegnata ad agitare all’interno ideali di nazionalismo europeo pieno di risentimenti […] Sarebbe quindi anzitutto un’Europa con assai forti tratti autoritari33.


Per Spinelli, dato che una guerra nucleare avrebbe distrutto l’umanità intera, si venne a creare uno “strano” patto implicito tra le superpotenze rivali. Si trattava di un impegno reciproco a fare il possibile per evitare lo scoppio di una tale guerra. Una politica responsabile avrebbe dovuto rispettare questo patto e, allora, il problema della difesa, tanto per gli americani e i sovietici, quanto per gli europei, si sarebbe ridotto a quello di una difesa convenzionale. Ciò significava che compito dell’Europa sarebbe stato solo quello di organizzare un’efficace difesa convenzionale, ma non anche una nucleare.
Albonetti allora rincarò la dose. Armare l’Europa solo convenzionalmente avrebbe lasciato un vuoto di potenza sul continente minando, anziché facilitando, la distensione, lo sviluppo democratico, la libertà e, quindi, la pace. Un’Europa federale dotata di armi atomiche, invece, avrebbe avuto il vantaggio di poter proporre, forse con qualche possibilità di successo, una sua rinuncia all’armamento atomico in cambio, naturalmente, di una contemporanea rinuncia russa e americana34.
La risposta questa volta arrivò da Arangio-Ruiz che sottolineò il pericolo di dotarsi di armamenti nucleari europei prima di un Parlamento e un governo europei in grado di controllare effettivamente la politica estera e di difesa comuni35 . Il dibattito, a riprova dell’opinione della redazione di via Colonna Antoniana, fu chiuso da Spinelli, il quale ribadì la sua visione di una Nato riformata e organizzata in un Europa federale con la responsabilità della propria difesa convenzionale e in un’America impegnata ad utilizzare il proprio armamento nucleare in caso di un attacco atomico sovietico contro l’Europa. Sarebbe stato proprio quest’impegno americano a garantire dalla creazione di quei vuoti di potenza che, per il leader federalista, erano giustamente temuti da Albonetti36.

Per una nuova economia europea

Il 1949 fu caratterizzato anche da una severa crisi economica che poneva anche tale questione in primo piano, come ammonì autorevolmente Carlo Sforza dalla prima pagina del primo numero del «Mondo»37. I commentatori economici del settimanale non sottovalutarono certo la portata del problema e pertanto s’impegnarono sin dal primo numero ad analizzare le necessarie basi economiche del processo d’integrazione europea. Il principio cardine attorno al quale ruotava l’intero discorso era quello del libero scambio. Tale principio rappresentava agli occhi degli autori de «Il Mondo» la migliore garanzia contro il nazionalismo autarchico e il miglior modo per conservare la pace nel mondo. Solo così infatti sarebbe stato possibile «risanare l’economia mondiale, rialzare le aree depresse, promuovere il benessere dovunque». L’adamantina adesione a questo principio portò gli autori de «Il Mondo» a concentrare il fuoco della loro polemica verso «l’egoismo dei sindacati [che erano] contro l’ingresso [in Italia] di lavoratori stranieri» e «l’esclusivismo degli imprenditori [che erano] contro l’ingresso delle merci e delle iniziative straniere»38, due categorie che avrebbero dovuto essere antagoniste ma che, «secondo una logica che ormai si ripete[va] invariabilmente»39, convergevano nel tentativo d’impedire un allargamento dei mercati nazionali su scala almeno continentale. Le critiche investirono persino un governo amico come quello presieduto da Alcide De Gasperi per via della proposta fatta alla conferenza di Annecy (il secondo round negoziale realizzato nel 1949 sotto l’auspicio del GATT per ridurre le tariffe e le altre barriere al commercio) sulle tariffe doganali da adottare in Italia, giudicate dal liberale Enzo Storoni eccessive e contraddittorie rispetto all’obiettivo di istituire la federazione europea40. Fino al 1953 i principi liberisti furono posti anche alla base dell’europeismo de «Il Mondo» dall’economista austriaco Wilhelm Röpke, fino a quella data portavoce della linea economica della rivista. Ciò portò ad un contrasto di metodo con i federalisti europei di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, contrasto che, tuttavia, si risolse dopo il 1953 a favore di quest’ultimi41.
Per il Röpke «integrazione economica europea» significava ripristino «di un libero e stabile sistema» di relazioni economiche internazionali che rendesse possibile «una divisione razionale del lavoro tra i paesi europei e una corrispondente diminuzione del costo della produzione». Tale integrazione doveva mirare a porre un termine alla disintegrazione economica dell’Europa, di cui era responsabile «l’adozione su larga scala della pianificazione nazionale, particolarmente per quanto riguarda[va] gli investimenti e il commercio estero». A partire dalle condizioni indicate, secondo Röpke esistevano solo due vie per raggiungere lo scopo: da un lato il «metodo liberale», cioè «lo smantellamento dei sistemi nazionali di pianificazione, autarchia e pressione inflazionistica e la restaurazione […] dell’economia di mercato e del meccanismo dei prezzi sul piano nazionale, come su quello internazionale»; dall’altro il «metodo collettivistico», ovvero la sostituzione dei «sistemi nazionali di pianificazione con un sistema internazionale di pianificazione su scala europea»42.
Quest’ultimo metodo gli sembrava utopico e comunque indesiderabile. Lo riteneva utopico perché credeva che il socialismo fosse incompatibile, ad un livello sovranazionale, con un’unione superiore all’unità politica all’interno della quale opera e, in ambito subnazionale, con un’organizzazione federale all’interno della stessa unità.

Socialismo significa essenzialmente «politicizzare» o «statizzare» la vita economica, trasformandola […] in […] attività che vien diretta fin nei minimi particolari dai poteri amministrativi, i quali impartiscono direttive e ne impongono l’attuazione mediante i mezzi di coercizione di cui dispongono, il che significa che vi saranno tante economie programmate in forma coercitiva quante saranno le unità politiche in grado di attuare i loro piani. Queste unità politiche generalmente sono gli stati, in seno ai quali s’è verificata la massima concentrazione di poteri nelle mani di un governo nazionale, ma […] solo a prezzo della disintegrazione internazionale sarà possibile raggiungere la concentrazione nazionale del processo economico43.


L’elevato grado di concentrazione del potere richiesto dal socialismo, per operare a livello continentale, imporrebbe poi di liquidare «la vita nazionale e l’auto governo delle nazioni”, il che a sua volta non avrebbe potuto che attuarsi “mediante la violenza del genere di quella esercitata da Hitler o da Stalin»44.
Ma il “metodo collettivistico” appariva al Röpke anche indesiderabile poiché avrebbe trasferito a livello continentale conseguenze del collettivismo nazionale come «isolazione, dislocazione dei canali del traffico, tendenze autarchiche»45 e avrebbe quindi portato ad un’integrazione europea “chiusa” verso una più ampia integrazione economica col resto del mondo. Una lucida previsione di ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti, soprattutto nel settore agricolo.
L’economista austriaco era assolutamente persuaso dell’urgente necessità di avviare tanto un’integrazione economica quanto un’integrazione politica, peraltro di tipo federale; anzi, nel 1951, quando dopo lo scoppio della guerra di Corea s’accrebbero i timori di un’aggressione sovietica in Europa, attribuì la priorità proprio ad un’integrazione politica e militare piuttosto che ad una economica46. Tuttavia Röpke tenne sempre ben distinti i due piani. In particolare egli fu sempre recisamente contrario al raggiungimento dell’integrazione politica attraverso quella economica e ad ogni confusione tra la logica economica e le considerazioni politiche. Si trattava di una netta presa di distanza dalla teoria funzionalista, che già allora si stava affermando, ricca di spunti interessanti nell’attuale situazione di crisi dell’europeismo di marca monnetiana. Il raggiungimento dell’integrazione economica non necessitava di una preventiva realtà superstatale e doveva mirare esclusivamente a ristabilire libere relazioni economiche multilaterali e una «libera convertibilità delle divise»47. In particolare Röpke si scagliava contro l’abbandono della libera convertibilità delle monete e contro il controllo statale delle divise, visto, quest’ultimo, come la “chiave di volta” del collettivismo nazionale. Questo convincimento, tuttavia, portò lo studioso liberista su posizioni opposte anche a quelle federaliste di Rossi e dello stesso Einaudi. Per Rossi, infatti, «ogni possibilità concreta di unificazione dei mercati» era esclusa «nel modo più assoluto» se prima non si fosse costituito «un vero e proprio governo sovrannazionale che [avesse] una giurisdizione, comunque limitata ma diretta sui cittadini dell’unione». Questa convinzione tipicamente federalista era supportata, per lui, da due fatti. In primo luogo, «il carattere odierno della guerra totale»:

Le tariffe doganali, gli scambi bilanciati, i trattati di commercio, il controllo sulla moneta, sul credito, sulle correnti migratorie sono oggi divenuti – diceva Rossi – armi non meno importanti per la difesa e l’offesa militare di quanto lo siano i cannoni, le corazzate, le bombe e gli aeroplani48.


Così stando le cose, finché i popoli democratici dell’Europa non si fossero uniti con un patto federale, impegnandosi a difendere la casa comune con un unico esercito ed un’unica politica estera, non ci si poteva attendere che un governo consapevole dei suoi doveri consentisse a cedere liberamente «le principali leve del comando nel campo economico» ad un qualsiasi organo sovrannazionale comunque costituito. Secondariamente, l’abbandono della libera convertibilità delle monete in oro o in divise comparate all’oro e il loro fluttuare secondo i diversi fini che i governi si proponevano rendeva impensabile una «unificazione dei mercati che [prescindesse] dalla unificazione dei sistemi monetari». Era evidente, quindi, che, «se le banche di emissione dei paesi che [volevano] unificare i mercati, [dovevano] dipendere da un’autorità diversa e superiore a quella dei loro governi, tale autorità [avrebbe potuto] essere trovata solo in un vero e proprio governo sovrannazionale»49.
Röpke, però, era anche contrario al progetto di far nascere una moneta europea perché «superflua oppure irrealizzabile». Superflua in quanto, se si fossero aboliti il collettivismo nazionale e il controllo delle divise, non vi sarebbe stato più bisogno «di una moneta europea per restaurare il libero traffico dei pagamenti in Europa». Irrealizzabile poiché, se si fosse voluto «perseguire con la moneta europea lo scopo d’instaurare la convertibilità entro la sfera delle nazioni europee», allora si sarebbe voluto «introdurre un controllo delle divise paneuropeo, un collettivismo paneuropeo e quindi uno Stato paneuropeo»50, il che sarebbe risultato utopico senza il ricorso alla violenza per la già indicata incompatibilità tra socialismo e federalismo.
La diversità tra l’impostazione liberista e quella federalista emerse nei commenti sul Piano Schuman. Röpke si rifiutava di considerare l’economia come parte della sovranità statale e quindi, per lui, bene facevano i governi a rifiutarsi di cedere una parte di sovranità che non apparteneva loro, anche se erano degni di biasimo per l’ostinazione con la quale, per esempio, rifiutavano una limitazione della propria libertà di movimento in politica estera51. Una volta siglato il trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il 18 aprile 1951, Röpke trovò anche l’appoggio di Cesare Zappulli che arrivò a sperare che il trattato non passasse l’esame dei Parlamenti nazionali in quanto colpevole di tentare d’instaurare un’Europa corporativa52. La linea del giornale, tuttavia, venne espressa da Antonio Calvi che, pur riconoscendo la fondatezza delle critiche mosse da parte liberista, secondo le quali il pool carbo-siderurgico in luogo di formare «un autentico libero mercato” avrebbe creato un “regime di cartelli semipubblici», sottolineò l’importanza politica del trattato e sostenne che le sue punte dirigiste si sarebbero esaurite nel periodo transitorio e che comunque «la sostituzione dei funzionari agli imprenditori nel controllo e nella condotta dei cartelli [avrebbe rappresentato] una maggiore garanzia per gli interessi del consumo»53.
Infine, per completare il quadro delle posizioni dei collaboratori de «Il Mondo» sull’integrazione economica europea, occorre fare un passo indietro e segnalare la posizione di Eugenio Scalfari. Secondo lui il conflitto coreano (1950 – 1953) rendeva del tutto anacronistico un programma di cooperazione economica squisitamente continentale. I necessari piani di riarmo avrebbero mutato l’atteggiamento degli Stati Uniti che avrebbero avuto come interesse dominante «quello di controllare, mediante accordi bilaterali diretti e senza più alcuna collettiva intermediazione, la spendita degli aiuti che essi ancora erogheranno»54. Queste condizioni facevano vedere a Scalfari, quale unica soluzione per sfuggire al “colonialismo americano”, l’inserimento delle nazioni europee in quegli istituti atlantici di coordinazione e direzione della politica economica e monetaria dei dodici paesi aderenti all’alleanza allora in via di formazione55. Se, come si è visto, l’atlantismo – che qui assume un connotato economico – venne progressivamente abbandonato da Scalfari come dagli altri autori de «Il Mondo», la sua posizione già a favore di una direzione statale dell’economia era invece destinata ad avere fortuna soprattutto dopo l’abbandono dell’acceso liberismo di Röpke nel 1953.

“Come fare l’Europa”: l’istanza governativa e quella radical-federalista

L’europeismo del periodico pannunziano non poteva non esprimersi anche nell’impegno politico a favore della costituzione di una nuova entità statale europea. Impegno che anzi è stato prioritario in tutti i 18 anni di vita del giornale. La decisa impronta federalista impressa da Luigi Einaudi e da prestigiosi collaboratori come Ernesto Rossi e Altiero Spinelli non impedì a Pannunzio di restare fedele al costume di «far convivere opinioni, voci, correnti ideali diverse […] purché naturalmente nell’ambito di un comune rispetto per gli inderogabili principi fondamentali»56. La conferma di ciò sta in un confronto tra Spinelli e La Malfa57, che ebbe luogo proprio sulle colonne del settimanale romano. Dopo la costituzione del Consiglio d’Europa, in occasione del terzo Congresso nazionale del MFE (Firenze, 23 – 25 aprile 1949), Spinelli valutò, senza mezzi termini, «tutti i tentativi di raggiungere l’unità mediante accordi fra stati sovrani» come degli «esperimenti negativi»58, mentre La Malfa, dopo aver accusato i federalisti di essere vittime di un radicalismo astratto il quale rischiava di portarli a quello stesso “sinistrismo” causa della prematura fine del Partito d’Azione, specificò che essi avevano il diritto di considerare insufficienti gli sforzi degli Stati per conseguire un minimo di unità, ma non quello di considerare la via imboccata come totalmente erronea59. Trovarono dunque spazio sulle pagine de «Il Mondo» due delle maggiori istanze europeiste che animavano il dibattito in quegli anni: l’istanza funzionalista e quella federalista. Nonostante l’opposizione terminologica possa trarre in inganno, il contrasto tra le due istanze era puramente metodologico: esso concerneva l’individuazione della strada più sicura per riuscire nell’intento che comunque restava il medesimo, quello di una federazione europea. La presenza delle due posizioni e lo stesso oscillare delle preferenze della rivista dall’una all’altra secondo le contingenze storiche indicavano una feconda riflessione sul metodo più opportuno da adottare per giungere ad un fine che rimase sempre ben fermo. L’alternante sostegno a queste due posizioni così come il complesso rapporto con Altiero Spinelli e i federalisti europei vanno tuttavia interpretati anche alla luce di un altro principio ispiratore della politica europeista del giornale. Per gli autori de «Il Mondo», in prevalenza idealisti crociani, la federazione europea aveva senso solo come mezzo per rafforzare ed espandere i principi liberali e il sistema liberaldemocratico. La federazione europea era quindi obiettivo sempre secondario rispetto all’ideale liberale. Il metodo per raggiungerla non poteva violare questo ideale, doveva essere «opera e frutto di libertà», doveva essere una libera scelta dei singoli Stati e dei singoli popoli che liberamente avrebbero deciso di devolvere una parte della loro sovranità ad un’autorità sovrastatale. La federazione europea doveva nascere su base razionale per opera di un’élite consapevole, ma coinvolgendo i parlamenti e, perciò, i popoli da essi rappresentati. La strategia europeista de «Il Mondo» potrebbe definirsi come una sorta di federalismo moderato. Gli “amici del Mondo” condividevano in toto le finalità del MFE e avrebbero anche preferito l’immediata costituzione di un’autorità sovrastatale attorno ad un nucleo di sovranità ceduto dagli Stati. La moderazione stava invece nel metodo. In via Campo Marzio, infatti, si riteneva indispensabile l’azione dei governi insieme con quella dei parlamenti e dei popoli e si era disposti ad accettare anche il raggiungimento graduale della federazione attraverso il completamento di unioni settoriali con una più ampia unione politica. Comunque, sino al 1954, anno che segnò il fallimento della CED, l’intesa tra gli intellettuali di via Campo Marzio e Spinelli fu piena, almeno per quanto riguardava la tensione tra federalismo moderato e radicale.
Tale intesa si basava su di una strategia bifronte. Da un lato si appoggiavano e si sostenevano iniziative governative di stampo funzionalista come il Consiglio d’Europa o la Comunità europea del carbone e dell’acciaio poiché vi si coglievano le insite virtualità federaliste e si apprezzavano realisticamente i margini d’azione che esse aprivano. Dall’altro lato il lavoro per il successo di tali iniziative era costantemente affiancato da una puntuale critica federalista, che ne sottolineava mancanze ed inadeguatezze, nonché dall’impegno volto ad indirizzare questi tentativi verso uno sbocco più propriamente federale.
Così la presentazione del Piano Schuman, il 9 maggio 1950, suscitò grande entusiasmo in Spinelli e tra gli “amici del Mondo”, che vi videro l’incarnazione della tesi federalista secondo la quale occorreva procedere subito ad un’unione federale di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, anche senza l’Inghilterra, poiché essa comunque non avrebbe potuto sottrarsi a lungo ad un effettivo processo di unificazione dell’Europa. Tale entusiasmo, tuttavia, non impediva loro di denunciarne i limiti derivanti dall’impostazione funzionalista dalla quale muoveva il ministro degli esteri francese. Per Spinelli e gli intellettuali di via Campo Marzio era impossibile integrare solamente il settore carbo-siderurgico perché esso era fondamentale per la difesa e costituiva «l’ossatura stessa dell’economia nazionale». Deferire ad un’autorità europea sovrastatale il mero controllo del settore carbo-siderurgico, lasciando agli Stati nazionali la competenza esclusiva nel controllo delle condizioni generali delle rispettive economie nazionali e nell’organizzazione della difesa, avrebbe creato «un’inestricabile disordine negli Stati nazionali o l’impotenza della nuova autorità europea»60.
Così, ancora, Spinelli spiegò le ragioni del sostegno alla CED all’indomani dello scoppio della Guerra di Corea in questi termini:

in astratto si dovrebbe dire che occorre prima fondare la costituzione politica e passare poi a costruire le strutture economiche e militari della Comunità. La gravità della situazione europea impone tuttavia che si proceda senza perdere tempo all’integrazione militare, in particolare della Germania. Ma la costruzione politica, cioè l’Assemblea Costituente, deve essere messa in opera simultaneamente61.


E anche se in seguito lo sviluppo di CED e Comunità politica europea non collimarono con gli ideali federalisti, «Il Mondo», pur non lesinando critiche severe, s’impegnò a fondo nella battaglia per la ratifica.
Essa si giocò soprattutto su di una vivace e serrata polemica contro l’ormai smascherata «coalizione antieuropea»62, la quale era composta innanzi tutto dall’Unione sovietica e dai comunisti. I redattori di «Ventesimo secolo» si preoccuparono sempre di mettere in guardia dalle “offensive di pace” sovietiche: azioni diplomatiche che tentavano di sedurre i tedeschi proponendo l’unione del paese al prezzo della sua neutralizzazione con lo scopo evidente di indebolire lo schieramento occidentale. Gli autori de «Il Mondo» evidenziarono inoltre il totale appiattimento dei comunisti italiani, ed europei in genere, sulle posizioni sovietiche. Entrambi erano accusati di voler far fallire la CED ed ogni altro tentativo per raggiungere la federazione europea allo scopo di mantenere l’Europa divisa e quindi più debole e vulnerabile alla conquista della potenza sovietica. «In questo senso Togliatti è veramente per l’unificazione europea, come lo erano i Quisling che volevano ridurre i loro paesi a satelliti o province dell’impero europeo di Hitler»63. La “coalizione antieuropea” era poi formata dai nazionalisti spalleggiati dai grandi gruppi industriali monopolisti che si erano assicurati la protezione dei loro mercati nazionali e temevano le conseguenze più lontane della CED. Se i comunisti erano accusati di essere la quinta colonna sovietica in occidente, ai nazionalisti veniva imputato l’atteggiamento contraddittorio di voler instaurare regimi autoritari per sconfiggere il comunismo, il quale però sarebbe stato inevitabilmente rafforzato dal frazionamento dell’Europa che i nazionalisti volevano mantenere per non perdere i piccoli vantaggi che gli derivavano dagli eserciti e dagli stati nazionali.
Dopo la piena condivisione della linea di politica estera dei governi De Gasperi, però, il fuoco della polemica si rivolse anche contro il nuovo governo Pella insediatosi il 17 agosto 1953. Pella ritardò deliberatamente la ratifica del trattato istitutivo della CED per ottenere dagli americani un atteggiamento più favorevole sulla questione giuliana. Spinelli rilevava che la politica europea dell’Italia aveva subito «un’eclisse» e, ribadendo che l’unità europea era «una condizione preliminare per […] l’avvenire democratico» dell’Italia, affermava perentoriamente che il trattato istitutivo della CED doveva essere presentato senza indugi in Parlamento per la ratifica. Infine esponeva quella che per «Il Mondo» era l’unica soluzione possibile della questione giuliana.

Il problema nazionale di Trieste […] non va approntato [sic] con gli isterici urli nazionalisti, con le inutili sfilate militari alla frontiera, ma facendo partecipare l’Italia ad una federazione europea, facendo del nostro confine orientale [quello] della Comunità europea, interessando così tutta l’Europa alla sorte di Trieste e, cosa ancor più importante alla trasformazione in senso democratico della Jugoslavia64.


Dopo la presentazione del trattato in Parlamento ad opera del governo Scelba, si moltiplicarono gli articoli dei più prestigiosi collaboratori che spronavano il Parlamento italiano a ratificare il trattato prima di quello francese e il governo Scelba, che non mostrava la determinazione necessaria per assicurare la ratifica, ad attivarsi energicamente per accelerarne i tempi. Nicolò Carandini considerava la politica estera italiana ormai in “disfacimento”. In questo «passivo ed anarchico stato di cose» l’ex-ambasciatore a Londra si chiedeva perché non puntare «con ogni energia e urgenza verso la politica di realizzazione della CED che [era] politica italiana inaugurata da De Gasperi ed ereditata come preciso impegno dai suoi successori»65. All’indomani del rifiuto francese della CED, il 30 agosto 1954, «Il Mondo» criticò allora aspramente quella «specie di moda antieuropeista»66 che si stava diffondendo in Italia e che lasciava la strada aperta ai fascisti e ai comunisti.
Quel rifiuto segnò una tappa importante anche nella storia del settimanale pannunziano. Dopo quella sconfitta, il leader del MFE si abbandonò al più cupo pessimismo67 sull’efficacia dell’azione di governi, diplomazie e parlamenti per giungere finalmente ad un’Europa federata. Egli pertanto condannò senza possibilità d’appello i tentativi promossi dai governi europei, americano e canadese per superare quella situazione di stallo che si era venuta a creare. Il compromesso uscito dalla Conferenza dei Nove nell’ottobre del 1954, che prevedeva l’estensione del trattato di Bruxelles del 1948 alla Repubblica federale tedesca e all’Italia nonché l’istituzione dell’Unione europea occidentale, sarebbe pertanto stato da bocciare ed il compito di elaborare una costituzione federale, «di cui l’Europa continua[va] ad aver bisogno»68, avrebbe dovuto essere affidato direttamente al popolo, organizzato nel “Congresso del popolo europeo”, e non più a governi, diplomazie e parlamenti.
E’ evidente che un tale atteggiamento non poteva essere condiviso dai federalisti moderati de «Il Mondo». Mentre le diplomazie europee erano al lavoro, alla ricerca paziente di un accordo di compromesso che consentisse all’Occidente di superare una difficile crisi e di recuperare la sua coesione, non era accettabile l’atteggiamento di Spinelli, volto ad esasperare i contrasti con forzature che apparivano astratte e ideologiche, nonostante fosse comune a tutti il profondo senso di delusione e di amarezza per l’occasione così malamente perduta. La critica al compromesso dei Nove fu pertanto l’ultimo articolo di politica internazionale scritto su «Il Mondo» dal leader federalista sino al 1963 e questo stesso articolo fu immediatamente seguito da un pezzo di Nicolò Carandini, esemplificativo della posizione del periodico romano, la quale fu sostenuta anche da Vittorio De Caprariis che dal 2 novembre 1954 divenne il nuovo redattore di «Ventesimo secolo» con lo pseudonimo di Turcaret. L’ex ambasciatore italiano a Londra mostrò puntualmente i limiti di un accordo che manteneva le caratteristiche militari della CED e ne respingeva tutte le implicazioni politiche.

Pure – diceva – a raffronto fatto […] noi […] esortiamo gli uomini politici responsabili a sostenere con ogni energia la tenue trama unitaria degli accordi di Londra. Essi offrono il primo appiglio per risalire la china in fondo a cui il rifiuto francese ha fatto franare il risultato di anni di fatiche, di speranze, di ardita immaginazione69.


Questo sostegno alle iniziative governative, accompagnato però da un’ampia critica di stampo federalista, fu riservato anche ai trattati di Roma del 1957, le cui potenzialità, tuttavia, non vennero colte appieno dagli “amici del Mondo”, come dimostra anche l’esiguo numero di articoli pubblicati a sostegno della loro ratifica. Solo quando i trattati erano ormai stati ratificati da quasi tutti gli Stati firmatari, «Il Mondo» promosse un dibattito.
Aldo Garosci, nuovo redattore di «Ventesimo secolo» dal 13 novembre 1956, aprì il dibattito criticando i trattati perché non si collocavano al centro dei problemi della crisi europea, che era crisi politica, ma fuori di essa: nella zona della cooperazione economica e della liberalizzazione degli scambi. Il MEC gli appariva allora una soluzione parziale, perché non affrontava la questione politica della federazione europea, e che rischiava di essere inefficace, perché gli stessi pericoli all’economia europea non venivano direttamente da ragioni di carattere economico bensì, ancora una volta, politico70.
L’intervento successivo fu firmato da Eugenio Scalfari che appariva totalmente disinteressato alle virtualità politiche ed europeiste del trattato e lo giudicava per i suoi soli aspetti economici. Per questo criticò i federalisti che avevano, a suo giudizio, attaccato impropriamente il trattato sul MEC attribuendogli un obiettivo (la federazione europea) non pertinente al suo oggetto71.
La risposta ufficiale di parte federalista apparve sotto la firma di Altiero Spinelli sulla prima pagina di due numeri dopo. In quest’articolo il leader federalista – che intervenne non come collaboratore, ma come esterno – espose compiutamente la posizione del MFE sui trattati di Roma. Per Spinelli, la creazione di un mercato comune europeo mediante l’unificazione delle politiche commerciali dei sei Stati aderenti e delle loro strutture industriali come si proponeva il trattato CEE necessitava imprescindibilmente di «un governo europeo, dotato di tutti gli strumenti necessari ad un governo per farsi obbedire, ed una legge europea in conformità della quale quel governo [avrebbe dovuto agire]». Solo così si sarebbe potuto far fronte alle resistenze degli interessi colpiti dalle trasformazioni in corso e, contemporaneamente, si sarebbero potuti contenere eventuali eccessi di dinamismo di quelli emergenti; solo così si sarebbe potuto dare il necessario indirizzo politico al sistema economico emergente. Dato che, tuttavia, il trattato non prevedeva alcuna autorità politica europea, non avrebbe potuto mantenere l’impegno di creare un mercato comune e quindi era un “inganno”. Il maggiore difetto del trattato era quindi di non prevedere dei vincoli per gli Stati aderenti, affidando così la propria esecuzione alla «buona volontà e alla concordia di sei governi sovrani»72.
A questo punto intervenne nel dibattito anche la parte dei cosiddetti “europeisti «minimalisti»” per voce di Renato Giordano, il quale sosteneva che neanche i “minimalisti” negavano «la precarietà degli equilibri su cui i Trattati [erano stati] preparati e su cui [avrebbero dovuto] marciare», tuttavia riteneva che, «dopo il fallimento della Ced[,] Il Mercato Comune e l’Euratom [erano] il massimo risultato che [era] stato possibile realizzare. E, nonostante le imperfezioni [restavano] uno sforzo notevolissimo per mettere l’Europa sul binario giusto»73. Giordano riconosceva che la meta era ancora lontana e che occorreva una buona dose di fortuna perché le “ragioni di fondo” che esigevano una federazione europea potessero prevalere, tuttavia reputava più efficaci i pur limitati tentativi dei “minimalisti” della mera protesta cui si dedicava Spinelli.
Infine, il dibattito venne chiuso da una lettera dell’avvocato Catalano in cui attraverso una particolareggiata analisi del testo dei trattati si propose di dimostrare che con essi si era creato «non solo un “governo”, ma altresì un embrione di Parlamento europeo». Per l’avvocato la creazione delle nuove comunità costituiva «una tappa di estrema e storica importanza per la realizzazione dell’ideale federativo, che sarà certo facilitata dalla soppressione delle barriere economiche, dalla creazione di interessi comuni, dalla stessa necessità di dover risolvere intorno ad uno stesso tavolo non già soltanto problemi nazionali, ma problemi della Comunità»74. Era una limpida esposizione della teoria funzionalista.
Se «Il Mondo» dimostrò quindi scarso interesse nei confronti della fase costitutiva della CEE, esso mantenne tuttavia alta l’attenzione sulla politica estera italiana. Tra il 1954 e il 1955 con l’elezione di Amintore Fanfani a segretario della Democrazia cristiana, quella di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica e le reiterate dichiarazioni di Pietro Nenni in favore di un esperimento di collaborazione coi cattolici, la prospettiva di centro-sinistra appariva sempre più concreta. Perché essa si realizzasse, però, occorreva un’ampia revisione della politica socialista, che riguardasse anche la politica internazionale. Di conseguenza si moltiplicarono su «Il Mondo» gli appelli a Nenni affinché assumesse anche in politica estera posizioni coerenti con la sua dichiarata disponibilità a collaborare con i cattolici per governare il paese. Un esempio di questo orientamento fu la richiesta al PSI di entrare nel Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa di Monnet come avevano responsabilmente fatto tutti i partiti socialisti europei, SPD compresa.

Tutto il socialismo democratico europeo – diceva Turcaret – ha preso posizione risolutamente: resta ora da vedere se il solo altro partito dell’Europa occidentale che si fregia del nome di socialista, il P.S.I., continuerà a nascondersi dietro generiche proposizioni propagandistiche75.


Comunque, il «Taccuino» non mancò di commentare entusiasticamente il voto socialista sui trattati di Roma76 che, secondo gli estensori della rubrica, dimostrava che il PSI era ormai diventato un partito “costituzionale e democratico”, che stava sviluppando una propria linea politica sulla quale si era realizzata «la distinzione, il contrasto, la rottura» con i comunisti e col quale occorreva aprire una «discussione politica vera, su temi concreti, su problemi reali»77.
Aspramente critico era invece l’atteggiamento degli “amici del Mondo” nei confronti della posizione comunista di “assoluta opposizione” al Mercato comune. I comunisti e la CGIL, che dopo un iniziale politica di critica costruttiva ai trattati di Roma passò su posizioni comuniste, erano accusati di fare una sterile politica di rivendicazioni e di agitazioni sociali senza essere in grado di offrire realizzabili soluzioni alternative. L’unica politica di sinistra accettabile dagli “amici del Mondo” avrebbe potuto essere quella tendente, da una parte, a rivendicare istituzioni sovranazionali capaci di orientare gli investimenti e di condurre un’efficace politica antimonopolista e, dall’altra, tendente a porre l’accento sulle riforme di struttura necessarie all’economia italiana per affrontare con successo il confronto con le più avanzate economie degli altri paesi78.
Nel frattempo, prendeva sempre più piede in Italia una nuova linea di politica estera che vedeva i suoi maggiori sostenitori proprio in Gronchi e Fanfani: il neoatlantismo, che diventò addirittura la linea ufficiale del governo quando nel 1958 Fanfani salì contemporaneamente al Viminale (allora sede della Presidenza del Consiglio) e a Palazzo Chigi (allora sede del Ministero degli Esteri). Se da un lato gli “amici del Mondo” approvavano le finalità di Gronchi di approfondire il legame atlantico anche dal punto di vista politico ed economico, dall’altro essi si opponevano recisamente all’attivismo nei confronti dei Paesi arabi mediterranei di Fanfani e alla sua richiesta di una maggiore autonomia per la politica estera italiana. Per Aldo Garosci la politica “mediterranea” tentata dal governo Fanfani appariva soltanto come «una velleità di ottenere prestigio facendoci apparire, agli occhi del pubblico interno e internazionale, più potenti di quanto veramente siamo».

Non è in contestazione il fatto che noi abbiamo interessi nel Levante e che dobbiamo tutelarli nella pace, ciò che del resto fanno tutti gli altri stati; ma come questa tutela implichi il riconoscimento altrui di una nostra posizione specialmente eminente nella regione, o come essa conduca al fine certamente desiderabile di «allargare la sfera della libertà e della prosperità» nella regione resta da dimostrare79.


Tali velleità mediterraneiste, in più, vennero criticate perché si temeva che la politica mediterranea prendesse il sopravvento su quella europea, sottraendole le già scarse risorse di cui disponeva l’Italia. Garosci vide inoltre nelle rinate tendenze mediterraneiste il rischio d’instaurare una rivalità con altre potenze, magari anche alleate, il che, oltre a indebolire la posizione italiana, avrebbe minato l’intera alleanza occidentale80. Gli “amici del Mondo” furono sempre molto attenti ai paesi nordafricani e mediorientali e furono anche sempre persuasi della necessità di adottare una precisa politica verso di essi. Questa però non doveva essere fatta da una singola potenza, magari in concorrenza con le altre, ma doveva essere implementata concordemente da tutti gli alleati occidentali e, in particolare, da tutti i Paesi europei.

La questione algerina

Nel 1954 il processo di decolonizzazione del Nord Africa francese, in corso ormai da anni, arrivò ad un punto critico con l’inizio della guerra di liberazione algerina proclamata il primo novembre dal Fronte di liberazione nazionale. La guerra algerina, che portò alla caduta della IV Repubblica francese e all’ascesa al potere del generale De Gaulle il 29 maggio 1958, riveste un significato particolare anche nello studio dell’europeismo de «Il Mondo». L’analisi dell’atteggiamento del giornale di fronte alle vicende algerine consente infatti di comprendere più a fondo l’idea di Europa, intesa come strumento di espansione della libertà, che apparteneva a questo gruppo d’intellettuali.
Rispetto alla questione magrebina i radicali mantennero una posizione perfettamente coerente con la loro idea di «società aperta». Essi ritenevano assolutamente necessario conservare buoni rapporti politici, economici e militari con una regione strategicamente ed economicamente fondamentale per la sicurezza e la prosperità europee. Dal punto di vista politico-militare e strategico volevano in primo luogo evitare un’infiltrazione sovietica anche in quelle aree81; secondariamente, volevano dissolvere «l’illusione degli arabi di [poter] giocare a fare la “terza forza” sul piano mondiale tra i due blocchi, magari sotto la protezione dell’India»82; infine, volevano garantire una certa stabilità politica economica e sociale in una regione così vicina all’Europa da minarne, altrimenti, la sicurezza83. Sotto il profilo economico ritenevano legittimo l’interesse europeo al petrolio sahariano, ma ribadivano la necessità di operare per il progresso economico di quelle regioni, istituendo una zona economica comune dove il senso della corrente degli scambi non fosse unilaterale ma, al contrario, multilaterale, in un’ottica schiettamente liberoscambista84. Il punto nodale dei rapporti eurafricani per gli “amici del Mondo”, tuttavia, era innanzi tutto politico. I rapporti tra le due rive del mediterraneo non potevano essere solo economici o militari perché essi, a monte, implicavano inevitabilmente delle scelte politiche e ideali che avrebbero dovuto essere prese su di un piano di assoluta parità tra tutti gli interessati. Per i radicali solo sostanziali vincoli politici avrebbero potuto garantire una duratura collaborazione, ma essi non potevano certo essere il frutto della tradizionale politica colonialista francese, già ampiamente criticata per i gravi errori in essa contenuti85. I legami politici tra Europa e Nordafrica dovevano, invece, garantire una vasta autonomia politica e il più ampio riconoscimento delle singole individualità nazionali di tutti i partners. Di fronte a tali esigenze, gli autori de «Il Mondo» proposero, quale unica soluzione possibile, quella di tipo federale86. Dapprima, concordemente ad alcune proposte avanzate sia da parte africana sia francese, venne considerata quale unica «soluzione razionale [al] problema […] della guerra algerina»87 il mantenimento di un legame federale tra Francia e Algeria.
Un simile legame, però, sarebbe dovuto essere ampliato anche a Marocco e Tunisia (il primo dei quali avanzò già dal 1958, per bocca di Maometto V, una proposta di federazione magrebina collegata in qualche modo alla Francia) creando problemi di non facile soluzione, primo tra tutti, quello che i francesi non avrebbero mai accettato di farsi parte di uno Stato federale in cui avrebbero rischiato di essere numericamente sopraffatti dalle popolazioni magrebine.

Di qui i tentativi di allargare la cornice della proposta federazione all’Europa; ché, in un simile complesso, i francesi non sarebbero più soverchiati nel numero dalle nazioni nuovamente riconosciute; la federazione avrebbe carattere davvero di impresa europea e di nuovo sistema di equilibrio; essa presenterebbe un diverso volto anche ai giovani nazionalismi asiatici88.


Questa era, senza dubbio, la soluzione preferita dagli “amici del Mondo”. Oltre al vantaggio di garantire la sicurezza e l’indipendenza, anche se non la sovranità, alle due comunità, mussulmana e francese, un potere superiore sia alla Francia sia all’Algeria avrebbe assicurato un contatto, anche culturale, tra Nordafrica e Occidente. Ecco quindi la federazione eurafricana diventare strumento di difesa dell’identità culturale e dell’autonomia dei singoli popoli, ma anche dell’espansione del liberalismo e di determinati diritti sui territori magrebini. Una concezione che era profondamente ugualitaria, volendo che determinati diritti fossero riconosciuti a tutti gli esseri umani a prescindere dalla loro razza o religione, e che era perfettamente coerente con i principi della politica internazionale de «Il Mondo», una politica che appunto doveva essere insieme strumento per la salvaguardia delle libertà in Europa e per l’esportazione di tali libertà anche al di fuori dei propri confini.

Contro l'Europa di De Gaulle

Sull’onda della crisi algerina il generale De Gaulle riconquistò il potere in Francia, il 29 maggio 1958. Questa data rappresentò un punto di svolta tanto per l’Europa quanto per il gruppo di intellettuali che si sta analizzando. Il Generale aderiva a quella corrente di pensiero comunemente chiamata “confederalista”. Coerentemente, egli sostenne la necessità di una cooperazione politica tra i «sei», che lasciasse però intatte le singole sovranità statali. Un’Europa così organizzata ed estesa «dall’Atlantico agli Urali» avrebbe dovuto spezzare la logica bipolare nata alla conferenza di Yalta, assumendo quindi il ruolo di una «terza forza» tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica.
Si tratta di una posizione di apparente buon senso e meramente difensiva della nazione e dell’interesse nazionale, ma che per Mazarino non era altro che un sofismo dietro al quale si nascondeva il nuovo conservatorismo europeo: un nemico insidioso perché «rompe[va] quel poco di Europa e di collaborazione atlantica che si era costituito in [quegli] anni, ma si richiama[va] ad un ordine internazionale indispensabile e auspica[va] la formazione di solidarietà più vaste»89.
Il cuore politico dell’iniziativa di De Gaulle fu la proposta, avanzata il 29 luglio 1960, di un «segretariato permanente europeo con partecipazione dei ministri e chiaro carattere politico»90. Questo progetto fallì per il veto posto da De Gaulle il 14 gennaio 1963 all’ingresso del Regno Unito nelle comunità europee e la conseguente reazione di Belgio e Olanda. Tuttavia, esso bastò a provocare la reazione degli “amici del Mondo”. Per Garosci il legame meramente diplomatico che sarebbe risultato dal progetto di De Gaulle non sarebbe stato tale da permettere di svolgere fini comuni, perché gli Stati minori «sarebbero, volta a volta, rimasti fedeli oppure no alle deliberazioni prese in comune […] a seconda della convenienza e della forza»91.
L’avvento di De Gaulle sulla scena europea portò anche ad un riavvicinamento tra Spinelli e gli “amici del Mondo”. Nel corso del 1961 il leader del MFE, di fronte all’innegabile successo – almeno economico – del Mercato comune europeo, prese atto che, anche se «in maniera strana e precaria»92, l’Europa stava nascendo e che le comunità europee erano divenute il punto di riferimento e di aggregazione delle forze politiche ed economiche europee. Spinelli, quindi, iniziò il disimpegno dall’azione del Congresso del popolo europeo ed incominciò ad impegnarsi per la democratizzazione delle Comunità europee e per un maggiore sviluppo sovrannazionale delle stesse. L’abbandono del totale e pregiudiziale rifiuto dell’azione governativa portò ad un rapido miglioramento dei rapporti con gli intellettuali di via Colonna Antoniana, evoluzione che culminò con l’incarico affidato a Spinelli di svolgere la relazione generale all’undicesimo convegno degli “amici del Mondo”, dedicato al tema «Che fare per l’Europa?», che si tenne il 2 e 3 febbraio 1963 al teatro Eliseo di Roma.
Di fronte all’offensiva gollista Spinelli e gli “amici del Mondo” proposero una politica di sviluppo democratico e federale delle comunità europee che permettesse di coinvolgere sempre più nella battaglia anche le forze nuove, essenzialmente socialiste, che ne cominciavano a comprendere l’importanza.

Se non sappiamo dare a tutti i nostri concittadini una visione di quello che deve essere il ruolo dell’Europa rischiamo forte di fare belle affermazioni, mentre nel frattempo le macchine amministrative e burocratiche e tecnocratiche andranno avanti per conto loro, saranno influenzate dalla sola politica europea operante che è quella di De Gaulle e ci metteranno di fronte a fatti compiuti assai differenti da quelli che vorremmo93.


Una linea antitetica a quella di “resistenza democratica” sostenuta al convegno da La Malfa, Lombardi e Vittorelli che, tutta concentrata sulla necessità di sostenere l’ingresso della Gran Bretagna nelle comunità allo scopo di creare un grande schieramento democratico in grado di contrastare il piano del presidente francese e quindi di salvare le comunità europee da una frantumazione politica, prevedeva anche un’eventuale ibernazione del Mercato comune europeo94.
Gli “amici del Mondo” sostenevano l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune europeo, sia perché avrebbe indebolito le tendenze protezionistiche in seno ad esso e particolarmente evidenti nella Politica agricola comune sia perché il coinvolgimento della società britannica avrebbe messo in moto il riflesso democratico inglese, in base al quale «là dove c’è un centro […] di potere pubblico deve esserci anche un controllo democratico»95. Tuttavia non si facevano eccessive illusioni sul ruolo del Regno Unito poiché il governo britannico, come aveva dimostrato la sua condotta nel secondo dopoguerra non proprio lodevole dal punto di vista europeista, avrebbe tutt’al più sostenuto nelle Comunità una versione inglese dell’Europa delle patrie.
Occorreva invece unificare le Commissioni delle tre Comunità e trasformare quest’unificata Commissione in un governo federale dell’economia europea e nel motore politico di un successivo sviluppo federale delle comunità; era necessario inoltre degradare il Consiglio dei ministri da organo di governo a Camera degli Stati, far eleggere direttamente dal popolo il parlamento europeo e attribuirgli poteri di controllo sull’attività dell’esecutivo e poteri legislativi nei campi che sarebbero progressivamente divenuti di competenza comunitaria. Questo, insieme all’accoglimento di alcune istanze avanzate dai socialisti (l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei sindacati quali la CGIL negli organi economici della Comunità economica europea e delle discriminazioni nei confronti dei partiti socialista e comunista nell’Assemblea di Strasburgo) avrebbe dovuto dar vita a quel vasto schieramento democratico che solo avrebbe avuto la capacità di opporsi adeguatamente all’offensiva confederalista di De Gaulle.
Il successo della campagna sulla unificazione degli esecutivi di CEE, CECA ed Euratom, concretatosi l’8 aprile 1965, fu tuttavia offuscato da una delle più gravi crisi che il processo di unificazione europea ricordi.
Infatti, quando la Commissione Hallstein, movendosi nella direzione tracciata dagli “amici del Mondo”, propose, il 31 marzo 1965, di attribuire alla Comunità risorse proprie, di eleggere il parlamento europeo a suffragio universale e diretto e di attribuirgli il potere di approvare il bilancio preventivo della comunità, Parigi reagì bruscamente, dichiarando la comunità in crisi e ritirando i propri rappresentanti da tutti gli organi comunitari. Nessun governo fu in grado di adottare la linea intransigente di sostegno alla Commissione proposta dagli “amici del Mondo” e così l’ultima grande crisi europea seguita dal settimanale pannunziano si concluse con un compromesso che andò, ancora una volta, a discapito delle virtualità federaliste della Comunità.
L’azione federalista di questo gruppo di «profeti disarmati»96, benché punteggiata da sporadici successi, fu quindi segnata soprattutto da numerose sconfitte. Tuttavia la rigorosa elaborazione teorica e la puntuale attenzione riservata dagli “amici del Mondo” alle vicende europee ebbero una straordinaria importanza creando quel substrato culturale necessario sia al conseguimento della possibilità di eleggere il parlamento europeo a suffragio universale diretto nel giugno 1979, una grande vittoria federalista, sia a mantenere vivo l’ideale di un’Europa federale intesa non come fine, bensì come mezzo per rinforzare e dare respiro a quell’ideale morale che per Benedetto Croce era la libertà97. Una lezione, quella de «Il Mondo» di Mario Pannunzio, la quale dovrebbe essere presa in seria considerazione oggi che forte soffia il vento mefitico dell’euroscetticismo.



Note
1 A. Cardini, Tempi di ferro. "Il Mondo" e l'Italia del dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 1992, testo pubblicato sul retro di copertina. La diffusione del settimanale pannunziano è stata stimata in 15 mila copie nel 1950 e in 30 mila copie nel 1957. Cfr. N. Ajello, Il settimanale di attualità, in La stampa italiana del neocapitalismo, Laterza, Roma-Bari, 1976.^
2Cfr. V. De Caprariis, Storia di un'alleanza, Opere nuove, Roma, 1958, pp. 18 – 31.^
3 G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Il Saggiatore, Milano, 1969, pp. 191.^
4 B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, 1993, p. 22.^
5Ivi, pp. 363.^
6 C. Antoni, Questa Europa, in «Il Mondo», 5 agosto 1950, p.5.^
7 Lo pseudonimo Mazarino, erroneamente attribuito da Giampaolo Cantini nella sua premessa agli indici de «Il Mondo» editi da Passiglia nel 1987 a Salvatore Onufrio, era invece usato sulle pagine del periodico romano da Giuseppe Galasso.^
8 Mazarino, Europa e antieuropea, in «Il Mondo», 28 settembre 1965, p. 5.^
9 P. Gentile, Vita o morte dell’Europa, in «Il Mondo», 31 dicembre 1949, p. 8.^
10 Mazarino, Europa e antieuropea, cit., p. 5.^
11 V. De Caprariis, Storia di un'alleanza, cit., p.129.^
12 Sede de «Il Mondo» sino al 1956.^
13 A. Spinelli, L’esercito europeo, in «Il Mondo», 21 ottobre 1950, p. 1.^
14Ibidem.^
15Cfr. A. Calvi, La “forza integrata”, in «Il Mondo», 21 ottobre 1950, p. 6 e G. Boglione, L’esercito atlantico, in «Il Mondo», 4 novembre 1950, p. 1.^
16 A. Garosci, Il tetto e la base, in «Il Mondo», 11 novembre 1950, p. 2.^
17 G. Boglione, Desideri e realtà, in «Il Mondo», 18 novembre 1950, p. 2.^
18 A. Calvi, Speranze d’Europa, in «Il Mondo», II, 18 novembre 1950, p. 6.^
19 A. Spinelli, Chi comanderà in Europa, in «Il Mondo», II, 25 novembre 1950, p. 4.^
20 M. Paggi, Uno Stato atlantico, in «Il Mondo», 2 dicembre 1950, p. 1.^
21L’Olanda restò assente dai lavori sino al mese di ottobre.^
22Tra l’altro si ammetteva un’esclusione della Gran Bretagna e si accoglieva il principio che tutti i paesi partecipanti (Germania compresa) dovessero godere di uguali diritti.^
23 A. Spinelli, Un generale intelligente, in «Il Mondo», 11 agosto 1951, pp. 3 –4.^
24 Ibidem.^
25 Cfr. A. Calvi, L’esercito difficile, in «Il Mondo», 13 dicembre 1952, p. 4 e Id., I francesi in Danubio, In «Il Mondo», 1 novembre 1952, p. 4.^
26 Id., Tempo di cambiare, in «Il Mondo», 7 febbraio 1953, p. 4.^
27 Id., L’Europa in tre fasi, in «Il Mondo», 12 gennaio 1952, p. 4.^
28 Cfr. Id., La ratifica della Ced, in «Il Mondo», 28 febbraio 1953, p. 4.^
29 A. C. Jemolo, Domande e risposte, in «Il Mondo», 22 giugno 1954, p. 4.^
30 A. C. Temolo, A. Spinelli, Domande e risposte, in «Il Mondo», 8 giugno 1954, p. 4.^
31 Sede de «Il Mondo» dal 1956.^
32 A. Albonetti, Europeismo, atlantismo e nazionalismo, in «Il Mondo», 26 febbraio 1963, p. 4.^
33 A. Spinelli, Il nazionalismo europeo, in «Il Mondo», 12 marzo 1963, p. 3.^
34 A. Albonetti, Nazionalismo o europeismo?, in «Il Mondo», 26 marzo 1963, p. 4.^
35 G. Arangio-Ruiz, Il nazionalismo europeo, in «Il Mondo», 2 aprile 1963, p. 4.^
36 A. Spinelli, Ancora sul nazionalismo europeo, in «Il Mondo», cit., p. 4.^
37 Cfr. C. Sforza, Salvarsi, in “Il Mondo”, I, 1, 19 febbraio 1949, p. 1.^
38 G. Alpino, L’Europa non-cooperata, in “Il Mondo”, II, 23, 10 giugno 1950, p. 3.^
39 E. Scalfari, Acciaio, area depressa, V, 3, 17 gennaio 1953, p. 3.^
40 Cfr. E. Storoni, I contratti di Annecy, in “Il Mondo”, I, 17, 11 giugno 1949, p. 1.^
41 Tale risultato fu il prodotto di una più generale alterazione della linea economico-politica della rivista determinata dal diffondersi, sullo sfondo della crisi del centrismo e della maggior consistenza assunta dalla proposta di centro-sinistra, della convinzione che senza uno Stato capace di mettere in atto interventi strategici, un vero libero mercato non avrebbe mai fatto la sua comparsa in Italia.^
42 W. Röpke, Dove l’Erp mancò, in «Il Mondo», III, 25 agosto 1951, p. 1.^
43 Id., L’Europa in gabbia, in «Il Mondo», 19 febbraio 1949, p. 3.^
44 Ibidem.^
45 Id., Dove l’Erp mancò, in «Il Mondo», 25 agosto 1951, p. 1.^
46 Cfr. Id., Il patriota europeo, in «Il Mondo», III, 24 novembre 1951, pp. 1 – 2.^
47Ivi, p. 2.^
48 E. Rossi, Il pinnacolo dei furbi, in «Il Mondo», II, 9 settembre 1950, p. 3.^
49 Ibidem.^
50 Id., Paneuropa in utopia, in «Il Mondo», 31 dicembre 1949, p. 1.^
51 Cfr. W. Röpke, Il piano Schuman, in «Il Mondo», 19 agosto 1950, p. 1.^
52 C. Zappuli, Il pollo nell’uovo, in «Il Mondo», 26 maggio 1951, pp. 3 – 4.^
53 A. Calvi, I padroni delle ferriere, in «Il Mondo», 28 aprile 1951, p. 4.^
54 E. Scalfari, La sepoltura dell’Oece, in «Il Mondo», 3 marzo 1951, p. 2.^
55 Cfr. Id., Una politica per gli atlantici, in «Il Mondo», 23 giugno 1951, p. 1.^
56 G. P. Carocci, Introduzione, in “Il Mondo”. Antologia di una rivista scomoda, a cura di G. P. Carocci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. XIII.^
57 U. La Malfa, Come fare l’Europa, in «Il Mondo», 4 giugno 1949, p. 3.^
58 A. Spinelli, Un’Europa da farsi, in «Il Mondo», 21 maggio 1949, p. 3.^
59 Cfr. U. La Malfa, Come fare l’Europa cit., p. 3.^
60 A. Spinelli, Dal carbone all’Europa, in «Il Mondo», 1 luglio 1950, pp. 1 – 2.^
61 Id., I tre punti di Eisenhower, in «Il Mondo», 17 maggio 1952, p.1.^
62 Id., La coalizione antieuropea, in «Il Mondo», VI, 20 aprile 1954, p. 1.^
63 Id., L’europeismo di Togliatti, in «Il Mondo», 5 gennaio 1954, p. 2.^
64 Id., Un voto per l’Europa, in «Il Mondo», 15 settembre 1953, p. 1.^
65 N. Carandini, Gli assenti, in «Il Mondo», 15 giugno 1954, p. 1.^
66 A. Benedetti, Gli europei pentiti, in «Il Mondo», 14 settembre 1954, p. 7.^
67 Cfr. A. Spinelli, La crisi europea, in «Il Mondo», 14 settembre 1954, p. 1.^
68 Id., Una falsa Europa, in «Il Mondo», 12 ottobre 1954, p. 1.^
69 N. Carandini, Pallida Europa, in «Il Mondo», 19 ottobre 1954, p. 1^.
70 Cfr. A. Garosci, Europa senza politica, in «Il Mondo», 13 agosto 1957, p. 1.^
71 Cfr. E. Scalfari, La disputa sul “mercato”, in «Il Mondo», 20 agosto 1957, p. 1.^
72 A. Spinelli, La prima domanda, in «Il Mondo», 24 settembre 1957, p. 1.^
73 R. Giordano, La disputa sul “mercato”, in «Il Mondo», 1 ottobre 1957, p. 6.^
74 N. Catalano, La disputa sul “mercato”, in «Il Mondo», 15 ottobre 1957, p. 12.^
75 Turcaret, L’atomo europeo, in «Il Mondo», 31 gennaio 1956, p. 4.^
76 I socialisti votarono a favore dell’Euratom e si astennero sul MEC.^
77 Taccuino, Discorso sulle essenze, in «Il Mondo», 30 luglio 1957, p. 2.^
78 G. Rendi, Una polemica sterile, in «Il Mondo», 9 febbraio 1960, p. 3.^
79 A. Garosci, Velleità e politica, in «Il Mondo», 11 novembre 1958, p. 4.^
80 Cfr. Id., Modestia e povertà, in «Il Mondo», 10 marzo 1959, p. 4.^
81 Cfr. A. Calvi, Il bazar a fuoco, in «l Mondo», 4 agosto 1951, p. 4.^
82 Turcaret, Il francese in Algeri, in «Il Mondo», 11 ottobre 1955, p. 4.^
83 Cfr. A. Garosci, Piani per l’Africa e volontà politica, in «Il Mondo», 18 marzo 1958, p. 4.^
84 Cfr. Turcaret, Politica algerina, in «Il Mondo», 27 marzo 1956, p. 4.^
85 Cfr. Ivi, p. 4 e Id., Il francese in Algeri cit., p. 4.^
86La rivolta africana, in «Il Mondo», 12 luglio 1955, p. 4.^
87 A. Garosci, Piani per l’Africa e volontà politica cit., p. 4.^
88 Ibidem.^
89 Mazarino, I sofismi del potere, in «Il Mondo», 10 agosto 1965, p. 5.^
90 A. Garosci, Un incontro e molti spettatori, in «Il Mondo», 9 agosto 1960, p. 4.^
91 Id., L’Europa a Roma, in «Il Mondo», 1 agosto 1961, p. 4.^
92 A. Spinelli, Diario europeo 1948-1969, a cura di E. Paolini, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 423.^
93 Id., Replica: l'ora dell'azione, in Che fare per l'Europa?, a cura di A. Spinelli, Edizioni di comunità, Milano, 1963, p. 190.^
94 Cfr. U. La Malfa, La linea di resistenza democratica, in Che fare per l'Europa? cit., pp. 149 – 156.^
95 A. Spinelli, Che fare per l'Europa?, in Che fare per l'Europa? cit., p. 36.^
96 Questa espressione venne coniata da Luigi Longo che in un articolo su «l’Unità» di commento al primo convegno degli “amici del Mondo” dedicato alla lotta contro i monopoli li invitava ad unirsi ai comunisti per rendere la loro azione veramente efficace. Cfr. L. Longo, Colpire assieme ma colpire veramente, in «L’Unità», 23 gennaio 1955, p. 1.^
97 Cfr. B. Croce, Storia d'Europa cit., p.1.^
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