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Paesaggio e memoria. Topografie dell’immaginario vesuviano
di Emma Giammattei

Un atto visivo è già una teoria

Goethe



1. Fondazioni

«Tutto questo nominare in un certo modo le cose, definirle e interpretarle non le lascia certo illese» – ha scritto Dolf Sternberger nel libro Panorama del XIX secolo, provandosi a contestualizzare l’origine dell’idea di paesaggio e di panorama entro la struttura dei codici culturali, dell’immaginario quotidiano1, in quanto dato pertinente alla rappresentazione mentale nella sua storicità. In questa prospettiva, la storia dell’immagine del Vesuvio comincia, si sa, molto presto, e da subito possiede, con maggiore evidenza di altri loci, un interno e un esterno, il versante dell’evento e il versante della costruzione estetica. Non si tratta di una opposizione, ormai metodologicamente improponibile, fra letteratura e realtà, semmai di una intima dialettica compositiva fra termini non più identificabili secondo i dogmi dell’arte-come-rispecchiamento. Si parte anzi dall’assioma che ciò che può essere raccontato (o dipinto) è gia articolato simbolicamente, persino la catastrofe naturale, persino, per riprendere un titolo caro al filosofo e urbanista Paul Virilio, «ce qui arrive»2, l’incidente che giunge improvviso a mettere in scacco o a complicare l’intreccio storico. Né si può trascurare il nesso fra testimonianza e racconto che di fatto fonda, con le celebri epistole di Plinio il Giovane a Tacito sull’eruzione del 79 dopo Cristo e sulla morte di Plinio il Vecchio, l’immagine del Vesuvio, proiettandola, fatale e smagliante, sullo sfondo silenzioso dei secoli precedenti. In quelle pagine nasce subito «il modello canonico in ambito retorico e culturale del soffio di fuoco che viene lanciato dal ventre della terra»3. Si dica pure che si stabilisce un topos, cioè una «forma che può venir riempita di volta in volta di un contenuto inteso attualmente»4. Si deve ad un analitico studio di Marcello Gigante la messa a punto filologica e retorica delle due Lettere, dove «gli artifici letterari non sono soltanto uno strumento espressivo» ma concorrono vivamente alla costruzione della verità storica. Gigante distingue le due lettere, dal punto di vista dei differenti generi praticati da Plinio, definendo la prima Lettera per la Storia e la seconda Lettera per la Cronaca. La «Lettera I appartiene alla letteratura degli illustrium virorum exitus fiorente all’epoca di Plinio». Ne emerge in tutta la sua esemplarità, ktema es aei, la figura dell’eruditissimus vir, del Naturalista che, mentre gli altri fuggono, diventa l’Eroe impavido, la cui morte richiama la fine di Catone l’Uticense e quella di Seneca. Nella Lettera II il modello richiamato dalle citazioni è quello, virgiliano, dell’ultima notte di Troia nell’Eneide, «una notte più nera di tutte le notti». Sin dall’inizio, dunque, nel racconto dell’uomo si fronteggiano la Natura e la Storia: come si vedrà oltre, non saranno pochi i viaggiatori illustri dell’età moderna che dinanzi al rombo e al tumulto del vulcano ricorderanno il disordinato clamore di una battaglia o di una rivoluzione5. In Plinio, la celebrazione della catastrofe vesuviana è nello stesso tempo la celebrazione del Savio e della parola letteraria. Il profilo del Vesuvio come forma sembra emergere, ai nostri occhi di moderni, tra fenomenologia naturale e fantastico da Biblioteca6. Vale la pena citare l’interpretazione di Gigante del passo più celebre della prima lettera, dove immaginazione scientifica e immaginazione letteraria appaiono compenetrate ed inestricabili secondo un modello che sarà di lunga durata:
La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte perché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero. Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d’aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l’abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d’immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevata con sé.

E se ne riporta anche la postilla conclusiva che inaugura nel racconto vesuviano il motivo della “esperienza diretta”:
Perciò concludo. Ma voglio fare una postilla: tutta la mia narrazione è fondata sull’esperienza diretta o sulle notizie udite immediatamente dopo la catastrofe, quando la memoria degli eventi è prossima alla verità. Tu farai una selezione dei fatti più importanti, perché scrivere una lettera non è lo stesso che scrivere storia, come scrivere per un amico non è lo stesso che scrivere per tutti. Addio.

Nella Lettera per la cronaca Plinio narra la vicenda di coloro che invece sono sopravvissuti, ai margini dell’Evento e, nelle tenebre fitte che seguono l’eruzione, offre la riflessione morale del testimone sull’eterna vanità del Tutto:
16. Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi verso di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si arrestò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo; fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti, ne saremmo stati coperti ed il suo peso ci avrebbe anche soffocato.
17. Fra pericoli così gravi non mi lasciai sfuggire un lamento ne una parola men che virile. Non me ne vanto, come pur potrei, perché allora pensai che io perivo insieme con l’universo e l’universo periva insieme con me: un conforto magro, e tuttavia efficace, della caducità umana.
18.Alla fine quella tenebra, evaporando, diventò quasi fumo o nebbia e sùbito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido, come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi ancora spauriti tutto appariva mutato: c’era un manto di cenere alta come di neve7.

Si trova certo in queste righe, come è agevole controllare, la matrice di figure e similitudini posteriori, come quella fra cenere e neve.
Può risultare significativo, allora, che dopo secoli di variazioni del tema vesuviano, da parte di viaggiatori, descrittori, poeti, narratori, l’industria globale della letteratura registri oggi, con romanzi di grande successo, esattamente il Ritorno a Pompei, la riconsiderazione dello spettacolo originario del 79 dopo Cristo, grazie a scrittori come Amèlie Nothomb e Robert Harris8. Questi narratori hanno ripreso, tra i vari sottogeneri del sistema letterario sotteso al Vesuvio, l’ historical fiction inaugurata da Bulwer Lytton, negli Ultimi giorni di Pompei (1834), filtrata attraverso la visione archeologica del romanzo neogotico di Th. Gauthier Arria Marcella9, e collegata ad una idea di temporalità storica non evolutiva, archivio di fatti già stati. In questo caso, inoltre, la prima catastrofe descritta ha attratto la ricerca dell’esotico, nel passato remoto invece che in un altrove forse sempre meno esperibile nella totale accessibilità del mondo.
Dopo Plinio, le attestazioni nella letteratura latina, registrano il passaggio del toponimo, com’è noto, da locus amoenus a locus horribilis, a partire da Marziale10. In particolare qui importa individuare la traccia di un itinerario significativo della memoria letteraria e culturale nei dintorni di un paesaggio-chiave dell’Occidente, che è poi divenuto emblema e paradigma, di volta in volta, di molte cose, tanto da proporsi come un vasto campo di significati tra di loro correlati. Tutta la nostra tradizione del paesaggio – è stato scritto – è il prodotto di una cultura comune, «costruita appunto a partire da un ricco deposito di miti, memorie e ossessioni»11, di cui si deve stanare la forza originaria, nascosta sotto la stratificazione del luogo comune. Il testo speculare e complementare rispetto a quello di Plinio è costituito, in tal senso, dalle Silvae del poeta Papinio Stazio, già messo in rilievo sulla «Napoli Nobilissima» nella rubrica, scritta a più mani, Napoli nelle descrizioni dei poeti. Ecco, intanto, formarsi subito, all’origine, l’altro versante dell’immaginario vesuviano: a quello “pompeiano” di tipo geografico-scientifico, sostanzialmente apocalittico, si aggiunge il modello letterario urbano “partenopeo”, di più complessa articolazione storica. Stazio, nato a Napoli, ed anzi «l’unico grande poeta napoletano della latinità»12 nel terzo libro delle Silvae intende convincere la moglie romana a vivere nella sua città natale; ma Claudia ha paura della prossimità al vulcano. Sono passati solo quindici anni dall’eruzione, e però Stazio nel suo intento persuasivo ne minimizza gli effetti, per primo insiste sul tema laico della continuità della vita: «Non adeo Vesuvinus apex, et flammea diri/Montis hiems trepidas exhausit civibus urbes:/Stant, populisque vigent… Nostra quoque haud propriis tenuis, nec rara colonis/Parthenope..». Decanta quindi gli oblectamina di Napoli, nobile città di origine greca, fra il lido di Sorrento «caro al dio del vino» e il porto di Pozzuoli, protesta, con excusatio rivelatrice, che il natale solum non è certo la barbara Tracia né la Libia. Nel descrivere l’incanto apollineo della Napoli greca di Stazio l’erudito Paolo Savi-Lopez ne offre un passo tradotto dallo studioso e poeta, allievo del Carducci, Guido Mazzoni. Ed è versione di evidente ispirazione carducciana che vale la pena riproporre:
Qui dal cielo, da’ vigneti, da le spume
spirar sento de l’antica Grecia il nume;
vivon qui le favole.
Dal mio cuore, tristi secoli, fuggite:
mi sorride fuor del pelago Afrodite,
presso è l’Ade e fumiga13.

È lecito assumere come utile punto di partenza il manipolo di immagini e motivi presenti in questi due testi classici, capostipiti, per quel che concerne l’immagine letteraria del Vesuvio, di una duplice tradizione. In entrambi i casi la dovizia figurale, le tecniche della evidentia, sembrano preannunciare quel nesso strettissimo tra immagine e parola che accompagnerà, a partire dal XVI secolo, la rappresentazione del vulcano.


2. Tra l’Arcadia e l’Atlantide

Prima della soglia determinante, segnata dalla eruzione del 1631, che fonda in età moderna il paesaggio e il panorama del Vesuvio napoletano, invenzione in diretta di una nuova geografia territoriale, c’è il grande snodo della topografia letteraria costituito dal romanzo dell’Arcadia, di Jacopo Sannazzaro. L’intreccio di prosa e poesia, di dispiegamento retorico-pedagogico e di reale nostalgia dell’ esule, culminano, in una straordinaria contaminazione di registri stilistici, nell’ultima prosa, la duodecima. Guidato dalla Ninfa delle acque il protagonista viene condotto in una discesa nel mondo sotterraneo, nelle vicinanze del suo desiderato Sebeto, e «sotto il gran Vesevo» può sentire «gli spaventevoli mugiti del Gigante Alcioneo».
Tempo ben fu – gli dice la Ninfa – che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme, e con cenere coperse i circostanti paesi, siccome ancora i sassi liquefatti, ed arsi testificano chiaramente a chi gli vede; sotto a’ quali chi sarà mai che creda, che e popoli, e ville, e città nobilissime siano sepolte; come veramente si sono, non solo quelle, che dalle arse pomici, e dalla ruina del monte furon coperte, ma questa che dianzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo ne’ tuoi paesi, chiamata Pompei, ed irrigata dalle onde del freddissimo Sarno, fu per subito terremoto inghiottita dalla terra, mancandole, credo, sotto aì piedi il firmamento, ove fondata era. Strana per certo, ed orrenda maniera di morte; le genti vive vedersi in un punto torre dal numero de’ vivi, se non che finalmente sempre si arriva ad un termine, né più in là, che alla morte si puote andare: e già in queste parole eramo presso alla città, ch’ella dicea, dalla quale e le torri, e le case, e i teatri, e i tempj, si poteano quasi integri discernere14.

Questa immagine verticale e ctonia, di natura didascalica e moraleggiante, rievoca una anti-Arcadia sprofondata – Pompei come Atlantide – e trova il suo corrispettivo lirico nel contiguo lamento di Barcinio nell’ecloga XII - Dunque, miser, perché non rompi, o scapoli/ tutte l’onde in un punto, ed inabissiti: / poi che Napoli tua non è più Napoli? – Il passato come catastrofe e il presente come elegia, nel racconto di un io il quale, tornando fra i suoi non viene riconosciuto per le ferite inflittegli dal Tempo, concorrono ad una visione che già annuncia le figure di ciò che chiamiamo moderno: la dinamica della rovina e del frammento, lo sprofondamento nell’estraneità lacerata, l’epifania violenta dell’istante15. Tra la città e il vulcano scatta dunque la sinergia del negativo, della produzione inesausta di rovina e di assenza. Si vuole ricordare a questo punto il commento del passo citato da parte di un esperto connoisseur come Gino Doria: «Già Napoli non era più Napoli all’aprirsi del secolo XVI!». E nelle pagine di questo elegante pioniere, che hanno guidato tutti gli studiosi di paesaggi e viaggi napoletani16, sotto il vulcano, affiora, a partire dall’Arcadia, e quasi allo stato nascente, la proprietà singolare del colore locale, che consiste nel continuare a sparire, misura costante della decadenza, dato pertinente alla ricezione stessa della contemporaneità come rovina anticipata. Certo, è solo una geniale anticipazione, e neppure poeticamente omogenea, quella di Azio Sincero. C’è sempre spazio, ancora nel 1533, per un petrarchismo rovesciato e messo al servizio della oleografia di un amenissimo sito e di un bel monte da ascendere senza affanno. Allo spettatore, Berardino Fuscano, «vago sol di cercar di sponda in sponda deserte piagge», si offre alla vista tutt’altro spettacolo:
Stav’io mirando alquanto di lontano,
Quello tranquillo e ben riposto seno,
Dove in due corpi un monte in mezzo al piano
Sorgeva tutto fertil ed ameno,
il qual fu ‘n tempo albergo di Vulcano,
Com’hor di Bacco e di suoi Tirsi è pieno;
Nel cui, quando Vulcan sue fiamme sparse
Lasciò (come hor si veden) le pietre arse.
Spiega il bel monte le sue falde vive,
D’ogni suo lato così facilmente,
che senza affanno alcun par che s’arrive,
Su l’una e l’altra fronte alt’igualmente;
Dal’una fronte le gemmate rive
Vanno a bagnarsi al mar dove fur spente
L’audaci lingue de le fiamme antiche,
Anchora impresse in quelle piagge apriche17.

E tuttavia resiste, qui, pur nella mirabile visione, il principio descrittivo, la precisazione geografica.
Quando si verificherà la prima eruzione moderna, le carte dei codici culturali sono già predisposte per nuove combinazioni di antichi topoi, intanto l’incendio e il fuoco18, il simbolismo della grotta e il «topos scenografico della montagna che si apre»19, insomma per la generale risistemazione, sempre retroattiva, in feedback, dei meccanismi produttori di senso20. E molteplici e spesso sovrapposti sono i livelli di comunicazione letteraria chiamata a trattare ed elaborare l’evento: la cronaca scientifica, l’oratoria religiosa, il repertorio lirico di tutte le possibili situazioni e movenze metrico-retoriche del personaggio-Vesuvio, in gara non direttamente con la geografia reale, ma con le sue rappresentazioni cartografiche e pittoriche di cui sono l’implicita ecfrasis o la allusa sollecitazione. Vale, anche per lo spettacolo vesuviano, il modello della Galeria del Marino, il contagio fra quadri reali e quadri immaginati, esistenti nell’apparato verbale21. Inoltre, basta mettere a raffronto i testi a vario titolo scientifici della miscellanea presente nella Biblioteca Oratoriana dei Girolamini e quelli poetici della raccolta Giorgi o attraversare la folta selva di testimonianze di ogni genere letterario fruttuosamente conservate dalla Società Napoletana di Storia Patria, per verificare il primo dato: che la letteratura è spesso rappresentata dalla prosa dei trattati scientifici che in quell’occasione misero alla prova le prime linee del pensiero laico, mentre la miriade di sonetti odi e canzoni dei cosiddetti marinisti attestano l’altissimo livello tecnico-retorico del giornalismo letterario di allora. Con le debite distinzioni, s’intende: Girolamo Fontanella, ad esempio, nell’ode giustamente messa in rilievo dagli specialisti, Al Vesuvio. Per l’incendio rinovato, sa mettere bene in scena, enumerandoli, i fatti che seguirono l’eruzione, le drammatiche morti, le separazioni, lo scempio che il vulcano fece di donne vecchi e bambini, ricorrendo alla fine ad una raffinata retorica del silenzio – «resto atonito anch’io/ qual freddo sasso et insensata pietra,/ già vien manco il dir mio,/ già mi cade di man l’arco e la cetra:/ trema il suol, muffe ‘l mar, mutolo intanto/ dando luogo al timor, do posa al canto» –. C’è insomma una letteratura che cerca di nominare le cose, sebbene nella forma estrinseca dell’occasione, e persino di interpretare il sentimento popolare se si tiene conto che molte di queste liriche ambivano ad una circolazione orale, soprattutto quelle rivolte a celebrare il ruolo di San Gennaro: così ad esempio il Muscettola dipinge in versi una tavoletta votiva con l’apostrofe Al monte Vesuvio. Per lo sangue di san Gennaro, che oppone al “tetro incendio” l’“argine” di un vetro, cioè la teca dove sono le ampolle del «sovrano sangue… del mio Gennaro»22. Ma generalmente questa poesia lavora, per dir così, “in folle”, nel senso che sperimenta soluzioni retoriche, nuove designazioni e distinzioni. (Analogamente nelle contemporanee simulazioni dei pittori si può a volte cogliere l’anticipazione del figurativo sull’evenemenziale). In questo lavoro linguistico spicca il Basile con il trionfo di antitesi assai rilevate del sonetto Per l’incendio del Vesuvio del 1632. Per la prima volta viene indicata la doppia natura, femminile e maschile del Vulcano, «solfurea parca, incendioso fato». Nel primo verso campeggia «l’ampia voragine» da cui «fervido vedi uscir parto mal nato». A questa Madre Natura in azione, già matrigna, subentra la voce maschile – «ei par che gridi» – che istituisce, per contrasti, il ritratto del poeta:
- Ahi! - con lingua di foco ei par che gridi -
arde il tutto, e sei pur alma di gelo;
tu nel peccar t’avanzi e ‘1 mar s’arretra.
Non temi, e crollar senti i colli e i lidi;
non cangi stato, e cangia aspetto il cielo;
disfassi un monte, e più il tuo cor s’impetra! –23

Non sono pochi quelli che attraverso la descrizione antitetica del vulcano offrono la forma dell’autoritratto, sia pure convenzionale, dal Basile all’“oscuro marinista” Baldassarre Pisani, onesto artigiano delle immagini e perciò presenza tanto più istruttiva ai fini del discorso sul Vesuvio come mutuo determinarsi di evento e di rappresentazione, “roccaforte dell’immaginario”. Ecco uno dei suoi molti sonetti sul tema, Al monte Vesuvio
Simile a tè son io, superbo monte,
che da la gola erutti aliti ardenti
e ‘1 fiero impulso a rintuzzar de’ venti
sovra il regno degli astri ergi la fronte.
Te ‘1 sole adugge e ‘1 gemino orizonte
vibra in me di due lumi aure cocenti,
vomiti tu dal sen fiumi bollenti,
lagrimoso dagli occhi io spargo un fonte.
Io di speranze privo e tu di frondi,
tu per natura immoto ed io costante,
io di tormenti e tu d’arene abondi.
Ciò sol di vario io scerno, Amore infante
io nel mio petto chiudo e tu nascondi
ne le viscere tue Tifeo gigante24

Questa antropomorfismo del vulcano, collegato all’autoritratto, sfugge al mero gioco dell’esercitazione barocca e registra invece una soglia del tragitto artistico e culturale fin qui percorso. Non è un caso che nella storia della cultura volto e paesaggio avanzino concordemente, verso il disincantamento del mondo25. Nella cultura napoletana del Seicento, la profonda complementarità fra modello lirico marinista, modello iconografico e descrizione scientifica, illeggibili separatamente, segnala, al cospetto del Vesuvio, il nuovo contratto stipulato con il visibile, che da una parte ci ha valso la prima cartografia affidabile, dall’altra indica il passaggio, di lì a poco, dallo spaventoso al sublime, che è poi il sacro-senza-dio, spazio dicibile.


3. Dal pellegrinaggio laico al viaggio testuale

Non aveva poi torto Salvatore Di Giacomo a indicare, nella Guida di Napoli, l’eruzione del 1694 come quella che apre «l’epoca moderna dei fenomeni vesuviani» poiché «si ebbero, da quel tempo, periodi eruttivi simili per l’ordine con cui si seguono le loro fasi»26. La regolarità controllabile dell’accadere è l’indice della storicità, del progresso della conoscenza, laddove l’eruzione del 1631 avrebbe, per il poeta ed erudito, i connotati, ancora, del prodigio, del monstrum. Il corpus sei-settecentesco degli opuscoli e trattati scientifici sulle eruzioni del Vesuvio restituisce, in effetti, la tensione ad individuare costanti, una prevedibilità dei fenomeni, o quanto meno una possibile origine comune, da parte di una scienza che si appresta ad intervenire, ad acquisire prestigio e potere. Un’operetta di rilevante interesse, il Discours sur les divers incendies du mont Vesuve di Gabriel Naudé pubblicata a Parigi nel gennaio 1632, negli stessi giorni dell’opuscolo del Campanella De conflagratione Vesuvii, rappresenta tempestivamente l’esigenza di situare la stessa eruzione del 1631 entro una sequenza storica di precedenti e di simili27. Narrare o descrivere, sembrano essere le due vie, spesso comunicanti, di volta in volta percorse da intellettuali napoletani italiani stranieri verso il vulcano, con diversa strumentazione, fra ampia discussione scientifico-filosofica e descrizione dettagliata di zolle e persone, in ogni caso con risultati determinanti anche in sede strettamente linguistico-letteraria. Si pensi solo alla divulgazione grazie al Magalotti di parole come lava, o all’attenzione dei dotti ai toponimi della zona vesuviana così come li pronunciano gli autoctoni28. Non c’è opposizione conflittuale fra linguaggio scientifico e linguaggio poetico, ma una redistribuzione: dove l’uno cerca regolarità profonde, l’altro insegue «la scintillante superficie del mondo»29. Il discrimine va individuato semmai fra una osservazione escatologica, dove l’acume scientifico è messo al servizio di una tesi, quella della catastrofe come segno della collera divina, e quello che si può definire il pellegrinaggio laico verso il fenomeno-in-sé. Molto interessante, in una possibile teologia della catastrofe, ad esempio, è l’«esercitazione medico-fisica», del genovese Vincenzo Alsario della Croce, vescovo e medico papale, Vesuvius ardens30 dove l’eruzione è trattata come una malattia, in un articolato percorso che convoglia tutta una simbologia, a partire dalla comparazione del Vesuvio e del Monte Sinai olim ardescentis.
Ineludibile, in ogni caso, l’osservazione diretta del fenomeno: la salita al Vesuvio, sempre rischiosa, apre il sentiero anche per coloro che sul monte non saliranno mai. Ci sono trattatelli che inglobano la testimonianza letteraria, come quello di Camillo Volpe31. Soprattutto ci sono le pagine assai belle ed analitiche del Journal di J.J. Bouchard che guardando e misurando offre la recensio delle opere dell’abate Braccini e del padre Carafa, a favore di questt’ultimo, «qui n’escrit rien que ce qu’il a vu», mentre gli altri e lo stesso Braccini, rispetto alla verità accertata con gli occhi «ne sont pas si religieus, contans beaucoup de fables qu’ils ont oui dire, et les raportent come les ayant vues»32. La conclusione è che «l’on a à scavoir que tous ceus qui ont escrit jusques ici et fait le plan du Vesuve, ont tous failli»33. A fine secolo, subito dopo l’eruzione del 1694, l’editore ed erudito Antonio Bulifon risalirà la montagna – «tanto mi rampicai col bastone e colla spada» – in compagnia di ammirati ed impauriti “forestieri”, ancora sulle orme dell’abate Giulio Cesare Braccini e della sua Relazione dell’incendio fattosi sul Vesuvio alli 16 dicembre 1631, in una continua comparazione fra i due viaggi, ed esibendo le attestazioni letterarie del fenomeno, da Marziale a Boccaccio. Di 89 pagine, 55 sono dedicate all’eruzione del 1631, e le ipotesi scientifiche che l’autore della lettera di ragguaglio al duca Odescalchi, ripete circa la dinamica e le cause dell’eruzione, sono quelle che concernono il rapporto tra il fuoco e le acque del mare – il leit-motiv di tutti questi trattati. Quel che è certo è che l’eruzione del 1631, la prima, come subito annotò il Bouchard, a colpire la città di Napoli, «jusques dans Naples mesme», modifica il territorio reale e simbolico: da quel momento l’iconografia della città attrae il Vesuvio al posto e nel ruolo che era stato di Castel Sant’Elmo34. Uno spostamento dallo storico al naturale, arretramento che contagia lo statuto stesso dell’immagine della città? O forse, al contrario, nella nuova veduta i napoletani guardano ciò che prima non potevano vedere? D’ora in poi il punto di vista è l’implicito soggetto della visione. Sarà Stendhal a notare, rielaborando materiali goethiani, che «in fondo a qualunque strada della città antica, si scorge a mezzogiorno il Vesuvio e a tramontana Sant’Elmo»35.
Bulifon aveva affidato in chiusura dell’opuscolo le sue osservazioni, che assicurava di prima mano, sin alle soglie del cratere, «precipitosa voragine, che per quanto potei osservare mi parve assai più profonda di 500 passi…» – ad altri uomini virtuosi e migliori osservatori, più versati nel filosofare. Fra tutti il “dottor fisico” Luca Antonio Porzio, rappresentante di quella “scienza civile” così vitale nella cultura napoletana del tempo e del quale bisognerà almeno ricordare le straordinarie lezioni all’Accademia di palazzo del Duca di Medinaceli Dell’acque del Monte Vesuvio centrate sull’evento del 1631 e sul fatto, degno di meraviglia, che «tra il fuoco voracissimo, si videro acque copiose». Sono lezioni accademiche importanti anche dal punto di vista della prosa scientifica, dello stile del libertinaggio erudito, come risulta da questo esordio esemplare contro i pregiudizi dei filosofi:
Gran cosa mi pare invero che le madri ingannino i fanciulli con le larve e non insegnino loro le cose vere et reali et il dover guardarsi dagl’infiniti pericoli di cadere et ammazzarsi, o vero in tutta la vita di restar sconci e storpii, ma grandissima mi pare che di quel che non è e non può essere molti filosofi vogliano che la natura abbia a temere: come alcuni dicono che sia il v[u]oto, che non mai sia stato e non mai esser possa, ma che la natura ne teme e, perché non sia, faccia sempre alla giornata opere meravigliose36.

Qualche anno più tardi, un altro geniale frequentatore dell’Accademia di Medinaceli, Pietro Giannone, il quale aveva abbandonato gli studi scientifici per quelli giuridici e storici, si lascerà coinvolgere nella questione della neve sul Vesuvio e la affronterà con lo pseudonimo anagrammatico di Giano Perentino. Si tratta della Lettera scritta da Giano Perentino ad un suo amico, che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio, in quella che butta fiamme ed è più bassa, la neve lungamente si conservi, e nell’altra ch’è alquanto più alta ed intera non vi duri che per pochi giorni, del 1718 di cui si offre qui un passo suggestivo:
Or, per venire al discioglimento, è da notarsi che l’orlo del Vesuvio ha una sopravveste d’arena, fatta da’ frantumi delle pietre arse, che lancia fuori, in alto, la violenza del fuoco che ha in seno e poi ripiovono giù (come anch’essere nella cima del Mongibello per la stessa cagione, sarà a voi notissimo): onde nasce la gran difficoltà che pruovono i curiosi a montarvi su, perché il piede non solo affonda in quella arena, ma anche colla stessa arena sovente sdrucciola a dietro; e, talvolta, non tanto s’avanza quanto si perde di cammino. Or, quindi, nasce che la neve dura più in quella cima del Vesuvio, ancorché sia più bassa e butti fiamme, che nell’altra, alquanto più alta; poiché, cadendo la neve su quel sabbione, ogni stilla che se ne liquefà, scola giù per dentro l’arena e non resta a corromper l’altra neve, che ancora è intera: dove, per contrario, cadendo su ‘l sasso o terren duro degli altri monti, le gocciole d’acqua che si vanno dalla neve generando, non sono dal sasso o dal terreno imbevute; ma restano mischiate con essa neve, che, perciò, tantosto si liquefà. Ed è certo che, a sciogliere la neve, è assai più atta l’acqua che vi si spargesse sopra, benché poca, che tutta la forza de’ raggi solari, come l’esperienza dimostra. Così anche ho veduto più volte in campagna; e, gli anni addietro, viaggiando per l’Apruzzo, lo osservai nella montagna che chiamano di Frosolone, che la neve caduta su’ sassi o su ‘l terreno duro andava via in un momento, quando l’altra che giaceva su l’erbette durava fino a sera.

Si vuol dire che il discorso scientifico, con tutte le sue approssimazioni, e senza dimenticare il posto degli studi vulcanologici nella “Nolana Filosofia” di Bruno e Stigliola37, costituisce il Vesuvio come mappa di questioni e argomenti “meravigliosi” e come articolato testo descrittivo, nello stesso tempo liberandone il dispositivo allegorico-metaforico, in virtù del quale l’immagine naturale svolgerà di volta in volta un ruolo in funzione dell’opera che la convoglia. Da questo momento si afferma irresistibilmente lungo il secolo XVIII la figurazione europea del Grand Tour; man mano che gli scavi restituiscono la città morta, prima Ercolano e poi Pompei, si apre la lunga teoria dei viaggi testuali, verso un testo – una tessitura di immagini – di cui spiare la realtà e al fine di un ulteriore atto di scrittura, all’interno di un sotto-genere subito saldamente costituito nella pur folta tradizione odeporica. «Le descrizioni che avevo letto avevano stimolato nella mia immaginazione visioni brillanti ed inquietanti» confessa, ad esempio, nel 1785 Henry Swinburne. Salvo poche giustamente celebri eccezioni, tra le quali continua a campeggiare Goethe, modello inarrivabile di tutti i viaggi successivi, e cominciano a prendere rilievo con la loro potente laconicità, speculari, i Memoirs del pittore Thomas Jones38, i viaggiatori arrivano a Napoli, la città vivente, per scrivere e descrivere, ma vengono essi stessi inscritti nel paesaggio. Alle vertigini del sublime, dell’«orribile accostato al bello, il bello all’orribile»39, all’esperienza del paesaggio vesuviano come Stimmung, che abbatte i confini tra esterno ed interno, tra visione e sentimento, si aggiunge la costante attenzione antropologica al “carattere” di coloro che vivono sotto il vulcano. In questo percorso, come avrebbe scritto nel Novecento il più empatico ed acuto osservatore di Napoli, Walter Benjamin, il viaggiatore e l’indigeno sono mutui testimoni «del modo in cui una superstizione antichissima e una modernissima impostura si congiungono in funzionali procedure» di cui ciascuno di essi è, per la sua parte, insieme l’usufruttuario e la vittima. Diversa, evidentemente, la situazione dell’intellettuale napoletano; da Ferdinando Galiani ad Emanuele Rocco a Francesco Mastriani, dal Settecento all’Ottocento, si può seguire quasi una controdescrizione, una satirica difesa del principio di realtà contro il viaggio-ad-occhi-chiusi, il pacchetto turistico per il quale andare a Napoli senza salire al Vesuvio è come visitare Roma senza vedere il Papa. È un catalogo meno noto o affatto ignoto, in gran parte ancora da costituire, e da affiancare utilmente ai vasti repertori ragionati dei viaggi narrati e dipinti40, come testimonianza, non è un gioco di parole, della ricezione della ricezione, in un raddoppiamento di punti di vista. Basterà ricordare il testo parodico di Ferdinando Galiani sotto lo pseudonimo di Onofrio Galeota, a proposito dell’eruzione del 1779, su cui per primo si è soffermato il Croce, grande narratore di Curiosità napoletane.
Ebbene il rovesciamento del Galiani comincia dal rifiuto di vedere: «[…] e tutti corri corri, corsero al Gigante a vederlo, ed io non mi volsi movere, e i restai e non ci volsi andare». Del resto, aggiunge Galiani-Galeota «tutto quanto fece la montagna lo fece in pubblico». Ed ecco il passo che qui maggiormente interessa: «…dal mese di Agosto in qua tutti li pittori, pittorelli, pittoricchi e pittoroni si sono messi a dipingere quell’eruzione, e maledetto quell’uno che l’abbia ingarrata» Altrettanti i «letterati che ne scrivono e stampano... alle volte ci sono eruzioni grandi e scrittori pochi, ed altre volte ci sono eruzioni piccole, e scrittori assai». La conclusione stabilisce:
A Napoli poi nessuno ebbe spavento, né del passato, né del presente, né del futuro: e veramente la cosa non lo meritava. Chi si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è tra una cannonata e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a un astrico41.

Il discorso parodico è corrosivo di ogni possibile voyage pittoresque, ma non può contrastarne le profonde ragioni culturali, la ricerca di una certa idea di natura e di realtà. L’ascesa al Vesuvio, anzi, si arricchisce nell’Ottocento romantico di nuove visioni e vedute, unico corrispettivo meridionale del sublime nordico descritto da Kaspar Friederich. Così nel viaggio di Chateaubriand, il quale oppone il Vesuvio al monte Bianco, il sublime vesuviano 42 è, appunto, vertigine, cioè, per dirla con il teorico, «attrazione il cui primo effetto sorprenda e sconcerti l’istinto di conservazione»; poi, è una forma di illuminazione propria, il riflesso notturno che il vulcano possiede anche a mezzogiorno, come luce luttuosa, presente nel colore solitamente attribuitogli, il viola. All’opposto, in differente postura, c’è chi sa già di esperire un viaggio di secondo grado e, senza essere autoctono, ne assume l’ironia. Contro il rischio dello stereotipo l’irriverente ed astuto Stendhal definisce infatti nel 1832 la salita al Vesuvio “abominevole”, si presenta dinanzi al panorama dalla montagna mangiando la frittata preparata dall’eremita 43, nient’altro che l’aubergiste di un rifugio privilegiato o di un agriturismo ante litteram.
Nel 1847, le pagine napoletane e vesuviane del Dickens provocheranno la spazientita protesta dello scrittore e filologo napoletano Emanuele Rocco:
Non ha molto che la terra ha compito la sua cinquemilaottocentocinquantesima rivoluzione annuale intorno al sole, ed un cinquemilaottocentocinquantesimo viaggiatore compiva il suo giro d’Italia con una visita a Napoli.

Ormai il viaggio in Italia è un genere di successo dell’industria editoriale europea, il resoconto dello scrittore inglese è produttiva finzione: il volume scritto «a triplice galoppo, senza mai prender fiato… gli sarà ben caramente pagato – commenta infatti il Rocco con mesta invidia – perché questo mignone del pubblico inglese può dare ai suoi librai tutto ciò che vuole».
E qualche pagina prima, nel necrologio del letterato e vocabolarista Raffaele Liberatore, ne indicava l’opera più importante, accanto al Vocabolario Tramater, vale a dire la cura e l’illustrazione storica del Viaggio Pittorico di Cuciniello e Bianchi «che doveva far dimenticare quello del Saint-Non» 44. Si ha l’impressione che man mano che si afferma la coscienza italiana nella cultura napoletana, cresca l’esigenza di sostituire allo sguardo dal di fuori una più autentica conoscenza del proprio mondo, il “pittorico” al “pittoresco”, magari anche nella forma di un ulteriore colore locale.


4. Il Vesuvio tra racconto e ideologia

Nella prospettiva otto-novecentesca, è molto attraente l’analisi che, da più parti, ha cominciato a verificare il ruolo, diremo così, strutturale del Vesuvio nelle opere letterarie e filosofiche 45. Vi appaiono romanzi assai noti, dalla Justine del de Sade, alla Corinne, di Madame de Stael, dalla Graziella del Lamartine, alla Fragoletta del Latouche, comprendendo il dramma di Dumas Térèse e il romanzo italiano Ginevra, l’orfana dell’Annunziata del napoletano Antonio Ranieri che ospitò il Leopardi a Napoli. Il romanzo sadiano Justine presenta un caso-limite, per cui il cratere del vulcano diventa il luogo del delitto e della perversione non puniti, quasi in una orgiastica osmosi tra orifizi – della scena si ricorderà D’Annunzio in una lettera erotica a Barbara Leoni in cui descrive una lasciva ascesa al Vesuvio 46. Nelle altre opere citate, la rappresentazione notturna del vulcano, il racconto della salita verso il cratere, viene situata in posizione chiave, come preannuncio allusivo al rischio, alla passione che perde, alla rovina. Si tratta sempre di una “mise en abime”, di una sequenza descrittiva chiamata a svolgere una funzione narrativa, ad orientare il lettore verso il dispiegamento degli eventi. Pure, lo scrittore che in quegli anni avrebbe potuto meglio intendere e interpretare questa funzione narratologica, Herman Melville, l’autore di Moby Dick, scrisse non un romanzo ma un singolare poema-pastiche Napoli al tempo di re Bomba sintesi delle sue impressioni napoletane. E il centro visivo è il Vesuvio:
Che monte è qui? Minaccia come un Mohawk.
Svetta un pennacchio di tartareo fumo
In cima alla brunita fronte.
Ha un piè posato su Pompei dipinta,
L’altro sulla disfatta città d’Ercole.
Turistica città delle sirene,
Ma minacciata da due bombardieri
Coi carichi mortai, le micce accese –
Vesuvio più discosto, Bomba qua.
Qualcosa forse inchioderà i cannoni
Di Bomba, non i tuoi, sulfureo monte
Che t’alimenti d’infernali fuochi 47.

È significativo inoltre che nel suo diario di viaggio, la presenza rischiosa del Vesuvio induca una analogia con il ghiaccio, venga cioè ricondotta all’immaginario dello scrittore, alle sue feconde ossessioni: i napoletani gli appaiono come “pattinatori sul ghiaccio” che sta per incrinarsi. Proprio intorno al motivo, reale e metafisico, del rischio, il primo Ottocento inaugura una doppia rubrica, narrativa e propriamente filosofica, con importanti risultanze novecentesche. Vale la pena di mettere innanzi un testo pressoché dimenticato, ma che ebbe attenti e provveduti lettori, da Cuvier a Humboldt, il dialogo filosofico in forma di réverie, Consolation in Travel or the lost days of a philosopher del 1828, dello scienziato inglese Humphrey Davy, poi nella partecipe traduzione francese del positivista Camille Flammarion, nel 1872, col titolo enciclopedico Les derniers jours d’un philosophe. Entretiens sur la Nature, les Sciences, les Metamorphoses de la Terre et du Ciel, l’Humanité, l’Ame et la vie éternelle48. Il dialogo centrale tra Filalete e due amici si svolge alla sommità del Vesuvio al levar del sole, dinanzi al grande spettacolo di quel colossale “laboratorio della Natura”: accanto, in azione, ferve l’opera altrettanto incessante della società civilizzata, e un po’ più lontano l’allegro clamore di una capitale un po’ frivola. Dalla parte di Pompei gli scavi in corso sembrano mostrare i tetti di case in costruzione di una città nuova. In questa scena composita gli osservatori riconoscono una “epitome” del moderno, che parla alla immaginazione, alla memoria, ai sensi. Filalete-Davy riflette sul popolo che costruisce le sue città con materiali vulcanici e le sue regge con le pietre di città distrutte: analogamente, egli dice, nella storia nessun fatto viene perduto, ma, come quelle pietre, rivede il giorno in forme nuove. Senza la rovina, non ci sarebbe progresso. È un’opera, questa del Davy, difficile e farraginosa ma suggestiva, nella sua visione stoica, che presenta punti di contatto con le considerazioni del Leopardi, «su l’arida schiena /Del formidabil monte/ Sterminator Vesevo» al cospetto del medesimo spettacolo, benché dal versante opposto della fede nella scienza. Basta in effetti una semplice rotazione del pensiero per riconoscere nel rapporto fra l’uomo che costruisce e il Vesuvio che distrugge, il segno di una vittoria o di una perdita. Nell’ambito del giobertismo meridionale, l’abate Vito Fornari avrebbe situato alle pendici del Vesuvio il dialogo immaginario fra Leopardi, Nicola Zingarelli e Andrea Giovene, intitolato Dell’Armonia Universale, del 1850, dove si dimostrava al poeta della Ginestra e delle Operette morali che la «Natura è combattimento, non iscompiglio»49. Un celebre passo di Nietzsche probabile lettore di Leopardi, e memore di un viaggio napoletano del 1876, incita gli «uomini della conoscenza» a vivere pericolosamente: «Costruite le vostre case sul Vesuvio!». La storicità vera, ha commentato Antimo Negri, è per Nietzsche quella che costruisce e ricostruisce, senza panico, «anche le case della scienza»50. Il problema della Natura è in verità il problema della Storia. Ed è significativo che su questa linea di metafore filosofiche, nel primo Novecento un filosofo della storia particolarmente attratto dalle rovine come Walter Benjamin, appassionato frequentatore, nel suo soggiorno caprese, del Vesuvio degli scavi di Pompei e del Museo Archeologico, abbia proposto l’analogia fra il Vesuvio e Parigi capitale del XIX secolo, due paradigmi del moderno:
Nell’ordinamento sociale Parigi è il corrispettivo di ciò che è il Vesuvio nell’ordinamento geografico. Un massiccio minaccioso, pericoloso, un focolaio di rivoluzione sempre attivo. Ma come le pendici del Vesuvio, grazie alle stratificazioni di lava che lo ricoprono, si trasformarono in frutteti paradisiaci, così sulla lava delle rivoluzioni fioriscono come in nessun altro luogo, l’arte, la vita mondana, e la moda51.

Per Benjamin come per Nietzsche sembra valere l’aforisma lirico di Holderlin: «Dov’è il pericolo, là è anche ciò che salva»: naturalmente, l’uso filosofico dell’immagine vesuviana, se ne conferma la persistente validità di campo semantico attivo, ne mette a rischio proprio la congruità storica dalla quale la estrapola. Se si torna in territori più agevolmente controllabili, si vuole qui considerare, intorno ai medesimi argomenti, un libro napoletano di tutt’altro carattere, scritto in occasione della eruzione del 1872. L’autore è un narratore di fertile immaginazione ma anche di robusto senso della realtà, Francesco Mastriani; L’eruzione vesuviana del 26 aprile 1872. Memorie storiche, è un’opera ironica, polemica, ricca di dati, splendido esempio di giornalismo letterario, dal ritmo veloce, costruito come un diario della lava. In quell’occasione morirono, e qui fu la novità dell’evento, dei giovani di “un’eletta brigata” in gita sul Vesuvio, sorpresi dall’eruzione. Il Vesuvio è meta turistica, i ciceroni, grazie alla ripresa dell’attività vulcanica facevano, si legge, «il pienone tutte le sere, come si suol dire in istile teatrale. Il concorso de’ curiosi fu straordinario. Il piano delle ginestre, renduto così celebre da’ versi del Leopardi, si vedeva ogni sera rischiarato da mille faci; e le carrozzelle pioveano a Resina; e la prima domanda che un inglese volgeva a qualche suo concittadino si era: Did you go and see the Vesuvio last night?». Siamo nei primi anni dell’Italia unita e Mastriani non tralascia di polemizzare sia con «tutti gli sfaccendati d’Europa che vengono a visitare la nostra terra» sia con il ministro Quintino Sella che aveva proposto, per i danni provocati dall’eruzione «una semplice proroga dei tributi!». Nell’ultimo capitolo, Due chiacchiere sui vulcani, Mastriani fa il filosofo e propone: «La costruzione di case portatili sarebbe indicata in questi luoghi» per concludere: «Tutta la Campania, inclusa Napoli, sarà sepolta sotto un cataclisma, che sarà il prologo del gran dramma annunziato dall’Apocalisse, e che chiuderà con un gran ballo di trasfigurazione la serie delle rappresentazioni telluriche»52. Con diversa misura narrativa, rispetto all’enfasi del Mastriani, e però in una forma di omaggio al maestro assai prossima al plagio, Matilde Serao su quella traccia avrebbe offerto di lì a poco una delle sue prove più compiute, nel racconto Nella lava, storia sentimentale, fra cronaca contemporanea e immaginazione letteraria, di quella piccola brigata di giovani in parte decimata dal vulcano53. In quel medesimo giro di anni, nel 1870, nell’ambito della grande letteratura fantastica, il professor Annonax prigioniero del Nautilus del Capitano Nemo veniva condotto sotto l’oceano a vedere un altro Vesuvio con i suoi torrenti di lava e un’altra Pompei, «toute une Pompéi enfouie sous les eaux», con i suoi templi distrutti e le sue strade deserte. E nell’oscurità oceanica, il capitano Nemo con una pietra tracciava sulla roccia di basalto nero una sola parola: ATLANTIDE54.

5. Il Vesuvio come assenza? Linee per una conclusione

Alla fine, dunque, le ripetizioni, le citazioni, le variazioni del locus vesuviano restituiscono un percorso circolare che ricongiunge gli elementi compositivi originari, il fuoco con le acque del mare, l’incandescente con la neve, il sotterraneo con l’alto, in una sorta di fisiognomica della cultura che considera l’immagine come il volto delle cose e consente di accostare il comprendere filosofico all’intelligenza empirica della Natura55. La letteratura sommuove, mobilita, ravviva le forme del visibile, mentre l’uso inerte dell’immagine la occulta e consuma, fino alla disparizione. Del resto, a rimettere la visione del Vesuvio al suo posto, nella geografia, hanno sempre pensato gli storici, che hanno saputo guardarlo nella sua magnifica laicità. Si pensa al Colletta che compara le due eruzioni del 1750 e del 1794 solo per farne emergere la diversa caratura dei due sovrani e la diversa situazione economica. Nel 1799, racconta ancora lo storico, lo sbuffo improvviso del Vesuvio – «alzò fiamma placida e lucentissima come di festa» – fu accolto come augurio di felicità dai giacobini napoletani e dal volgo ma la realtà storica non avrebbe confermato il segnale, «però che il tempo nascondeva sorti contrarie»56.
Come ha poi sottolineato in anni recenti Amedeo Maiuri, nel momento in cui si istituisce l’Osservatorio Vesuviano, il vulcano entra nella fase clinica. E a partire dal 1944, il rovesciamento dello stereotipo ha prodotto non poche pagine sul «Vesuvio senza pennacchio»57. Da paesaggio a luogo didascalico, il Vesuvio era già stato esorcizzato entrando nei libri per ragazzi, con titoli come Pinocchietto nel Vesuvio58. Nel secondo Novecento toccherà alla letteratura prodotta a Napoli cercare nelle pratiche e nelle psicologie dei personaggi la memoria sociale, per dirla con Warburg, di un paesaggio profondamente modificato, alla stessa maniera in cui Jacques Tati cerca, in Play Time, il fantasma di una Parigi perduta nei volti e negli sguardi degli operai parigini, figli di coloro che avevano visto ed erano stati visti da quel paesaggio ora estinto. Così nei racconti e nei romanzi di Michele Prisco la provincia addormentata, alle pendici del Vulcano, ribollente ed inquieta, registra la nuova corrispondenza fra interno ed esterno, nel degrado, nell’abusivismo dei sentimenti e delle coscienze. Il tragitto dal Vesuvio come immagine – l’immagine che rende visibile – al Vesuvio come icona, simulacro globale della “civiltà delle immagini”, è stato prefigurato dalle pagine del “viaggio italiano” al Vesuvio, a partire dagli anni Quaranta fino agli anni Settanta, da Bruno Barilli a Emilio Cecchi, da Corrado Alvaro a Ennio Flaiano. Nell’Itinerario italiano di Alvaro del 1941 viene offerta, lungo il percorso vesuviano, questa riflessione, non da antropologo ma da scrittore meridionale che ancora sente nel paesaggio l’intimità col mondo:
La natura ha un’armonia così grande che vi si può scoprire un tema uguale e universale per tutto. I paesi sono chiari come le pietre d’un letto di torrente all’asciutto. E tutto questo popolo di verdure, di fiori di pozzi, di asini bendati intorno al pozzo, e gli orti disposti come in una geometria, e l’incombente Vesuvio colore di rosa, che sembra un plastico, di cui sfuggono quasi le dimensioni reali, v’è da giurare che occhi di migliaia d’anni e gli stessi occhi di Virgilio e di Orazio li abbiano veduti sempre gli stessi, e gli stessi atteggiamenti degli agricoltori, e perfino i loro cappelli e i loro vestiti rustici. V’è una delicatezza di scavo, una gracilità da paesaggio antico, tutta opposta all’idea che di solito ci si fa, sullo sgargiante della terra napoletana. Quelli che vivono alle falde del Vesuvio non credono al Vesuvio. Non lo chiamano neppur Vesuvio; lo chiamano la Montagna. Non ci credono o non ci pensano, come l’uomo non pensa alla morte59.

Non c’è che la letteratura, forse, a produrre queste agnizioni, quando un luogo «mette in mostra le proprie connessioni con un’antica e peculiare visione ». Vent’anni dopo Ennio Flaiano, con in mano due “aurei libretti”, cioè le guide di Maiuri e di Doria, percorre spaesato la nuova autostrada che porta a Pompei «fiancheggiata di cartelli pubblicitari, invitanti e perentori, a volte
tanto grandi da nascondere la vista del Vesuvio» E conclude con uno dei suoi paradossi: «Il paesaggio non può essere difeso più di così»60.
Risulta allora particolarmente significativo che l’immagine del vulcano sia stata evocata, attiva memoria, sulla linea New York-Napoli, nel capolavoro narrativo di Susan Sontag The Volcan Lover (1992), dove nelle carte settecentesche ritrovate in un mercatino di Manhattan la scrittrice riesce a rivedere il Vesuvio com’era, nel presagio della Rivoluzione napoletana e della fine di un’Epoca, attraverso gli occhi appassionati di Sir William Hamilton:
Quel che nell’antichità non riconosceva, quel che non era preparato a vedere, il Cavaliere lo vagheggiava nel vulcano: gli antri, le cavità selvagge, le grotte buie, i crepacci, i precipizi, le cascate, burroni in fondo a burroni, rocce sotto rocce – le macerie e la violenza, il pericolo, l’imperfezione61.

Sul versante di una memoria individuale ma altrettanto mitologica, produttrice cioè di racconto, si deve all’elegante nostalgia di Raffaele La Capria la restituzione di un profilo prodigioso, innevato, secondo un motivo che ha attraversato tutto l’itinerario fin qui percorso. Vale la pena di offrirlo conclusivamente al lettore, tra veduta e miraggio:
In un lontano prodigioso giorno del 1939 i ragazzi che giocavano nel cortile di Palazzo Donn’Anna, a Posillipo, affacciandosi dai tre archi sul mare videro con sorpresa la cima del Vesuvio tutta coperta di neve. Il Vesuvio non pareva più il Vesuvio con quel cappuccio bianco, era fantastico, lieve e librato come un miraggio nella trasparenza azzurrina dell’aria62.




NOTE


1 D. Sternberger, Panorama del XIX secolo (1938), Bologna, il Mulino, 1985, al Cap. Naturale-artificiale, p. 56; e cfr. J. Ritter Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Bologna, il Mulino, 1970. Si veda anche F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003.^
2 Cfr. P. Virilio, Ce qui arrive, Paris, Ed. Galilée, 2001 e cfr. anche ID., Un paysage d’événements, Paris, Ed. Galilée, 1996.^
3 G. Polara, Il Vesuvio nella poesia latina, in Undici studi di letteratura latina, Napoli, Loffredo, 2000, p. 16.^
4 Cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1969, p. 59.^
5 Cfr. ad es. nelle Memorie del pittore Tischbein: «I più della nostra società avevano perduto ogni voglia di salire al Vesuvio, e tornarono indietro alle loro case. Solo il conte Rasumowsky ed io restammo fino alla notte per vedere nell’oscurità gli effetti del fuoco. …Spettacolo spaventoso e terribile. Pure, diceva il Conte, che questo era niente rispetto ai tuoni e ai fuochi, quando fu preso d’assalto Oczakow. Così i rumori degli uomini superano anche quelli della Natura!», B. Croce, Dalle memorie del pittore Tischbein, in «Napoli Nobilissima», 6 (1897), fasc. VII, pp. 99-100.^
6 Nel senso indicato da M. Foucault: «La vera immagine è conoscenza. Sono parole già dette, recensioni esatte, masse d'informazioni minute, particelle infinitesime di monumenti e di riproduzioni di riproduzioni che portano nell'esperienza moderna i poteri dell'impossibile. Non c'è altro che il rumore assiduo della ripetizione che possa trasmetterci quello che può accadere una sola volta. L'immaginario non si costituisce contro il reale per negarlo o compensarlo; si stende tra i segni, da libro a libro, nell'interstizio delle ripetizioni e dei commentari; nasce e si forma nell'intercapedine dei testi. È un fenomeno da biblioteca»: Un “fantastico” da biblioteca, in Scritti letterari, a c. di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 138. ^
7 M. Gigante, Il fungo sul Vesuvio secondo Plinio il Giovane, Roma, Lucarini, 1989, pp. 53-91.^
8 A. Nothomb, Ritorno a Pompei, Milano, Voland, 2005; e R. Harris, Pompei. 79 d.C. 20 ore alla catastrofe, Milano, Mondadori, 2003.^
9 Cfr. A. Mozzillo, Neogotico pompeiano, in Il Vesuvio e le città vesuviane. 1730-1860, Atti del Convegno 28-30 marzo 1996, con intr. di F. De Sanctis, Napoli, CUEN, 1998, pp. 215-225.^
10 G. Polara, op. cit. , pp. 10 sgg.^
11 S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997, p. 15.^
12 G. Polara, op. cit., pp. 19-20.^
13 P. Savi-Lopez, Napoli nelle descrizioni dei poeti. Le Selve di Stazio, in «Napoli Nobilissima», 6 (1897), fasc. III, pp. 45-46.^
14 J. Sannazzaro, Arcadia, a c. di E. Carrara, Torino, UTET, 1951, p. 199.^
15 E. Raimondi, Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 2.^
16 Cfr. almeno G. Doria, Viaggiatori stranieri a Napoli, pref. di A. Girelli, Napoli, Guida, 1984; e ID., Del colore locale e altre interpretazioni napoletane (1930), a c. e con una nota di E. Giammattei, Napoli, Dante & Descartes, 2001.^
17 B. Croce, Napoli nelle descrizioni dei poeti. Le Stanze del Fuscano II,in «Napoli Nobilissima», 3 (1894), fasc. XII, p. 189. ^
18 Cfr. ad es. un testo canonico come quello di Alessandro Consedenti dedicato al Cardinal Mazzarino, Teatro delle Descrizzioni Sacre, Morali & Accademiche, in Roma, per il Moneta, 1646, ad vocem.^
19 Mi riferisco al volume curato da M.F. Bosquet e F. Sylvos, su L’imaginaire du volcan ( Presses Université de Rennes, 2005) e alle ricerche di F. Lavocat, nell’ambito del ‘Centro sulla letteratura dei viaggi’ ( Sorbonne, Paris IV ) sui mutamenti intervenuti nelle rappresentazioni del vulcano nelle feste medicee, dovuti all’eruzione del 1631, in Le volcan dans l'opéra-ballet et le théatre à machines (ivi).^
20 Cfr. G.Alfano, Introduzione a Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano, a c. di G. Alfano, M. Barbato, A. Mazzocchi, Napoli, Cronopio, 2000, pp. 29-30.^
21 M. Fumaroli, La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 61-80; G. Fulco, Giovan Battista Marino, in Storia della letteratura italiana, vol. 10, L’Età barocca, Roma, Ed. Salerno, 1999.^
22 Cfr. Tre catastrofi…, cit, pp. 37-43 e p. 61.^
23 B. Croce, Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910, p. 153.^
24 B. Pisani, I sonetti, a c. di L. Montella, pref. di L. Reina, Salerno, Edisud, 1999, p. 113.^
25 Il riferimento è naturalmente a G. Simmel, Filosofia del paesaggio, in Il volto e il ritratto, Bologna, il Mulino, 1985, pp.71-83; cfr. anche R. Débray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Milano, Ed. Il castoro, 1999, in part. Il Cap. La geografia dell’arte, pp. 157-168.^
26 S. Di Giacomo, Nuova Guida di Napoli, Napoli, Morano, 1926, p. 98.^
27 Si veda il bel saggio di L. Bianchi, Tra informazione scientifica e critica storica. Il “Discours” sul Vesuvio di G. Naudé,in «Giornale critico della filosofia italiana», sesta serie, vol. VII, a. LXVI ( LXVIII), pp. 459-481. ^
28 Cfr. Grande Dizionario della Lingua italiana Battaglia, Torino, UTET, vol. VIII, ad vocem . E cfr. il Vocabolario Napolitano-Toscano del 1873 del D’Ambra: «A lo 1631 le llave atterrajeno miezomunno attorno a la montagna»: alla voce Lava, p. 220.^
29 J. Starobinski, Linguaggio poetico e linguaggio scientifico, in Le ragioni del testo, a c. di C. Colangelo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 69-93, a p. 85. ^
30 Vesuvius ardens/sive/Exercitatio/medico-Physica/ad Rigopyreton , idest , motum et incendium Vesuvij montis in Campania , XVI mensis decembris. – Romae, ex typographis Guilelmi Facciotti, 1632.^
31 C. Volpe, Breve discorso dell’incendio del monte Vesuvio et degli suoi effetti, in Napoli, per Lazzarto Scoriggio 1632; su questo testo cfr. S. Ussia, Dies irae: l’eruzione vesuviana del 1631. La cronaca del Giudizio, in Cronaca e letteratura, a c. di G. Barberi Squarotti, Torino, Tirrenia, 1991, pp. 43-59, a p. 53.^
32 J.J. Bouchard, Journal de voyage à Rome et à Naples, a c. di E. Kanceff, tome II, Torino, Giappichelli, 1976, p. 222.^
33 Ivi, p. 217^
34 Cfr. L. Di Mauro, L’eruzione del Vesuvio del 1631, in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli, Electa, 1984, vol. II, pp. 37-52.^
35 Stendhal, Rome, Naples et Florence (1826), ed. de P. Brunel, Paris, Gallimard, 1987, p.318. ^
36 Lezioni dell’Accademia di Palazzo del duca di Medinaceli ( Napoli 1698-1701), a c. di M. Rak, tomo III, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2000, p. 67.^
37 S. Ricci, Due filosofi del Regno. Giordano Bruno e Nicola Antonio Stigliola, in Napoli Viceregno Spagnolo: Una capitale della cultura alle origini dell’Europa moderna ( sec. XVI-XVII), a c. di M. Bosse e A. Stoll, Napoli, Vivarium, 2001, pp. 177-233.^
38 Viaggio d’artista nell’Italia del Settecento. Il diario di Thomas Jones, a c. di A. Ottani Cavina, Milano, Electa, 2003.^
39 J. W. Goethe, Viaggio in Italia <1786-1788>, Firenze, Sansoni, 1980, p. 222.^
40 Cfr. Grand Tour. Viaggi narrati e dipinti, a c. di C. De Seta, Napoli, Electa, 2001; C. De Seta, Vedutisti e viaggiatori in Italia tra Settecento e Ottocento, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; cfr. anche il volume collettaneo a c. di A. Mozzillo, Vesuvio, Napoli, Franco Di Mauro, 1994.^
41 Spaventosissima Descrizione/ dello spaventoso spavento/ che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera/ degli otto d’Agosto 1779, ma (per grazia di Dio)/ Durò poco/ di D. Onofrio Galeota/ Poeta e filosofo all’impronta/ Napoli/ Presso Gio Battista Seguin/1825, pp. 8, 15, 19. Cfr. B. Croce, Curiosità napoletane, Don Onofrio Galeota poeta e filosofo napoletano, in «Napoli Nobilissima», vol. XV, 1906, fasc. V, pp.74-78.^
42 Cfr. J. Rigoli, Le Voyageur à l’envers. Montagnes de Chateaubriand, suivi de l’édition du Voyage au Mont-Blanc et du Voyage au Mont-Vèsuve, Paris, Droz, 2005.^
43Correspondence(1800-1842), in P. Gasparini, S. Musella, Un viaggio al Vesuvio. Il Vesuvio visto attraverso diari, lettere e resoconti di viaggiatori, Napoli, Liguori, 1994, p. 241: e Rome, Naples et Florence(1826), cit. p. 326.^
44 E. Rocco, Scritti varii, Napoli, Stabilimento Tipografico, 1859, pp. 160-182.^
45 Si rinvia alle analisi di G. Papoff Migliaccio, di P. Crupi e di A. Patierno, in Il Vesuvio e le città vesuviane, cit.; e B.T. Cooper, Le Volcan: élement du spectacle, élement du drame chez Dumas et Pixérécourt, in Alexandre Dumas e il mezzogiorno d’Italia, a c. di A. Patierno, Napoli, CUEN, 2004, pp. 15-25. Si veda anche M. Costa, Sentimento del sublime e strategie del simbolico ( Il Vesuvio nella letteratura francese), Napoli, Edisud, 1996.^
46 Lettere a Barbara Leoni, Firenze, Sansoni, 1954, lettera del 19 ott. 1891, pp. 387-390.^
47 H. Melville, Napoli al tempo di Re Bomba, a c. di G. Poole, Napoli, Filema, 1995, pp. 46-47.^
48 Paris, Libr. Académique Didier, 1872. E’ l’edizione consultata.^
49 Dell’Armonia universale. Ragionamenti di Vito Fornari, Firenze, Marghieri, 1878, p. 37 sgg.; cfr. E. Giammattei, Il romanzo di Napoli. Geografia e storia letteraria nei secoli XIX e XX, Napoli, Guida, 2001, pp. 39-40.^
50 A. Negri, Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, Bari, Laterza, 1994, p. 4 sgg.^
51 W. Benjamin, Opere complete IX. « I passages » di Parigi a cura di R. Tiedemann, ed.it. a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2000, p.88.^
52 F. Mastriani, L’eruzione vesuviana del 26 aprile 1872. Memorie storiche, Napoli, Pei tipi del Commend. G. Nobile, 1872, p. 31 e p. 102.^
53 M. Serao, Nella lava, poi in Il romanzo della fanciulla(1886), a c. di F. Bruni, Napoli, Liguori, 1985.^
54 J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Torino, Einaudi, 1995, al cap. Un continente scomparso.^
55 Si rinvia, per questo tema, alla prefazione di E. Raimondi a D. Sternberger, op. cit. p. 5 sgg.^
56 P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, Torino, L’Unione Tipografico-Editrice, 1860, Tomi 2, p. 78, pp. 163-164, p. 219. ^
57 Cfr. almeno G. Artieri, Il Vesuvio non fuma più, in Napoli punto e basta?, Milano, Mondadori, 1980.^
58 L. D’Avignone, Pinocchietto nel Vesuvio, Milano, Bietti, 1933. E si veda anche R. Natoli I cavalieri del Vesuvio, Firenze, Nerbini, 1943; G. Chelazzi, Il figlio del Vesuvio, Salani, 1944.^
59 Paesaggi napoletani, in Itinerario italiano, Milano, Bompiani, 1941, pp. 328-329.^
60 Taccuini d’occasione 1956-1960, in E. Flaiano, La solitudine del satiro, Milano, Rizzoli, 1973, pp. 68-69.^
61 S. Sontag, L’amante del Vulcano, Milano, Mondadori, 1995, p. 54.^
62 R. La Capria, La neve del Vesuvio (1988), in Opere, a c. di S. Perrella, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2003, p. 621.^
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