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LE FAMIGLIE DELLA 'NDRANGHETA
di Rossana Sicilia
Il fatturato della ’ndrangheta in Italia, negli ultimi anni, ha raggiunto il 3,4% del prodotto interno lordo, come risulta da un rapporto dell’Eurispes del 2004. Dati come questi hanno consentito di considerare il fenomeno mafioso calabrese come il più rilevante tra quelli che il nostro paese è costretto ad affrontare, con poche speranze di risultanze positive in termini di ridimensionamento. Secondo un altro dato molto preoccupante una parte non esigua della popolazione calabrese vive grazie alle attività gestite dalla ’ndrangheta, poiché il rapporto tra affiliati ai clan mafiosi e la popolazione complessiva della regione offre una densità criminale pari al 27%, contro il 12% della Campania il 10% della Sicilia e il 2% della Puglia. In questo caso i dati sono della Direzione investigativa antimafia e si riferiscono all’anno 2001. Ancora un dato, relativo agli anni tra 1991 e il 2005, riguardante l’infiltrazione mafiosa all’interno delle istituzioni pubbliche regionali, riporta che sono stati sciolti ben trentadue consigli comunali, di cui sette nella provincia di Catanzaro, tre in quella di Crotone, due a Vibo Valentia, uno a Cosenza e diciannove a Reggio Calabria. Aggiungendo a queste cifre le risultanze della storiografia sul fenomeno (da Cingari ad Arlacchi, da Di Bella a Ciconte) che ne fa risalire l’origine alla seconda metà dell’Ottocento, si deve accettare la conclusione, condivisa da buona parte degli italiani e supportata e amplificata anche dai media, come è avvenuto di recente nella trasmissione Anno zero di Michele Santoro, che il forte sviluppo del fenomeno in poco più di un secolo ha portato ad identificare la Calabria con la ’ndrangheta.
Per cercare di comprenderne le ragioni e le motivazioni di lungo periodo è necessario tracciare un breve profilo di ricostruzione storica che tenga conto delle indagini, a mio avviso, più attendibili che sono state elaborate sull’argomento. È stato Cingari in Briganti, proprietari e contadini nella Calabria dell’Ottocento, a individuare le prime forme di presenza di organizzazioni mafiose dette “fibbie” negli ultimi decenni dell’XIX secolo. Si trattava di associazioni di contadini che intendevano difendersi, anche con la violenza, nei confronti delle pretese dei ceti proprietari, sia in relazione alla distribuzione del prodotto e sia contro le forme contrattuali di concessioni della terra. Inoltre le fibbie operavano attraverso intimidazioni per ottenere lavoro per i propri adepti nelle imprese di costruzione della linea ferroviaria ionica.
Successivamente nel 1980, in Mafia contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Pino Arlacchi, originario di Gioia Tauro, offriva un’analisi approfondita della genesi della ’ndrangheta nella Piana di Gioia, sostenendo che nella «società di transizione permanente» che vi si era annidata, la mafia assumeva una funzione regolarizzatrice del mercato oleario, attraverso azioni anche violente rivolte sia ai produttori locali che agli imprenditori del settore commerciale, quest’ultimi in buona parte provenienti dall’esterno. L’intento dei mafiosi era quello di calmierare il prezzo del prodotto, che altrimenti avrebbe subito oscillazioni molto violente in relazioni all’alternarsi imprevedibile degli anni di “carica e di scarica” della monocoltura dell’ulivo, fenomeno questo che rendeva molto precaria l’esistenza stessa delle numerose aziende contadine della Piana ed è questo che veniva definita “società di transizione permanente”. Il potere mafioso in questa fase non perseguiva finalità di arricchimento economico, ma Arlacchi sosteneva che aveva come obbiettivo primario quello di garantirsi l’egemonia sociale, fondata sul prestigio personale e sull’onore del capomafia.
Nel decennio successivo Enzo Ciconte, deputato ed esponente del Pci calabrese, pubblicava ’Ndrangheta dall’Unità a oggi, in cui dava, tra l’altro, alcune informazioni su processi penali svoltisi tra il 1877 e il 1890, contro associazioni definite, già in quel momento, «di maffiosi». Occorre avvertire che il termine veniva largamente usato nei giornali meridionali del tempo. In uno di questi processi, svoltosi a Palmi, si accusava l’associazione «di picciotti» di delitti contro le persone e la proprietà. Le conclusioni da trarre dalle indagini di Cingari, di Arlacchi e Ciconte individuano, perciò, concordemente, una derivazione agraria delle prime e documentate forme di organizzazione mafiosa calabrese.
Fausto Cozzetto nel saggio La Calabria dopo il fascismo, nel XV volume della Storia del Mezzogiorno, ricostruiva le difficoltà di azione politico-amministrativa dello Stato, tanto che il prefetto e il questore della città di Reggio erano considerati «agli ordini» di un mafioso divenuto segretario amministrativo della federazione fascista; e per questo il Ministero dell’Interno sostituì, nel 1933, anche il federale di Reggio Calabria Faraone. L’organizzazione mafiosa, dunque, non era esclusivamente riconducibile alle sole campagne, ma gravitava e pesava anche sul territorio urbano, come aveva sottolineato Cingari, in un capitolo del suo volume Reggio Calabria, del 1988, in cui proponeva una ricostruzione della vita politica reggina tra fine Ottocento e Novecento, in particolare delle dispute politiche tra “camagnini” e “tripepini”. A quest’ultima compagine era collegato lo stesso cardinale reggino Portauova, ma entrambe erano caratterizzate da «picciotteria».
Appariva, perciò, già realizzato un accrescimento e un ampliamento del fenomeno mafioso, che si estendeva fino a interessare l’ambito urbano, almeno della provincia di Reggio. Questo interessamento comportava un cambiamento di rotta nel circuito delle finalità della mafia, che si rivolgeva verso la gestione degli appalti per la ricostruzione della Reggio post-terremoto del 1908, incanalando nella direzione del profitto le esperienze di contatti col mondo politico già sperimentati durante il decennio precedente. Compariva, insomma, all’orizzonte mafioso un nuovo modo di atteggiarsi e di incidere sulla vita delle comunità di appartenenza, che non riguardava più esclusivamente il sociale, ma anche la sfera economica attraverso la scelta di un rapido arricchimento e i contatti, funzionali a quest’ultimo obbiettivo, con il mondo della politica.
Pino Arlacchi nel volume del 1983 La mafia imprenditrice sintetizzava sia le risultanze di alcune ricerche compiute in diverse aree della Calabria, riguardanti il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale e che gli avevano consentito di poter scrivere il già citato testo sulla mafia calabrese, sia quelle emerse da un’indagine compiuta oltreoceano, negli Stati Uniti, dove aveva raccolto informazioni sullo «stato delle arti» mafiose in quel paese e più specificamente sul rapporto tra la mafia siciliana e il commercio dell’eroina. Il volume quindi affrontava il problema della mafia da un altro punto di osservazione, difatti erano cambiate le condizioni di riferimento entro cui aveva operato la mafia tradizionale. Arlacchi collocava in una prospettiva sociologica ben definita il fenomeno mafioso di inizio anni Ottanta. Nel trentennio successivo al secondo dopoguerra si sarebbe verificata nel Mezzogiorno una “grande trasformazione” provocata in gran parte dall’insieme degli interventi dello Stato, attraverso la politica meridionalistica. Tale politica in una prima fase aveva riguardato gli interventi per modernizzare l’agricoltura, sia attraverso la suddivisione del latifondo e la riforma agraria, sia attraverso nuovi contratti agrari. Entrambe queste riforme, nel corso degli anni Cinquanta, avevano rafforzato i ceti contadini più moderni e consapevoli, creando un ampio fronte contro la violenza e i soprusi della mafia. Tuttavia la conseguente crescita dell’agricoltura non aveva raggiunto risultati tali da determinare condizioni di sviluppo economico soddisfacente. Era, quindi, diventata generale la convinzione che per risolvere la Questione meridionale fosse necessaria l’industrializzazione del Sud, realizzabile, in un primo momento, preparando una efficiente rete di infrastrutture, successivamente incentivando e promuovendo lo sviluppo industriale di alcune aree ormai attrezzate del Mezzogiorno, indirizzando infine cospicui investimenti finanziarii nel settore secondario. In questo contesto, secondo Arlacchi, aveva agito la nuova organizzazione mafiosa, che aveva aggiunto alle sue tradizionali attività di parassita del complesso delle attività economiche, sia agricole che urbane, nuove attività imprenditoriali attraverso l’abituale esercizio della violenza perpetrata, ormai, sia nei confronti delle imprese concorrenti, che perciò venivano eliminate dal mercato, e sia nei confronti della manodopera dipendente, che per un tragico sentimento di omertà accettava il lavoro nero e le retribuzioni non adeguate. Tutto ciò comportava anche la comparsa della mafia cosiddetta dei “colletti bianchi”, che agiva nella pubblica amministrazione, nonché la rappresentanza degli interessi mafiosi all’interno dei partiti e delle istituzioni politiche. Era evidente il salto epocale del fenomeno mafioso che da semplice garante del ruolo di egemonia sociale per i gruppi di comando e in taluni casi di regolazione del mercato, volto a garantire l’egemonia della mafia, si trasformava in protagonista della vita socio-economica e politica di alcune aree del paese. A quei tempi l’onorevole Giacomo Mancini, già segretario del partito socialista italiano e potente ministro della Repubblica, sosteneva che in alcune zone della Calabria «la mafia interveniva per decidere il luogo e il tempo di costruzione anche della cappella del santissimo Patrono».
Nell’ultimo ventennio del secolo scorso le prospettive offerte dalla politica meridionalistica fallirono, sotto l’effetto congiunto della Rivolta di Reggio (1970/71), che creò per anni un clima di illegalità diffusissima a Reggio, e della crisi petrolifera mondiale e conseguentemente energetica. Queste ultime costrinsero il paese a un processo di riconversione industriale e, di fatto, alla chiusura di ogni prospettiva di sviluppo industriale del Mezzogiorno, che riguardò anche la Calabria, spegnendo le speranze alimentate dalle promesse incluse nel “Pacchetto Colombo” e nella nascita a Gioia Tauro del quinto centro siderurgico. Dei grandi progetti prospettati nei decenni precedenti rimase ben poco: come scrisse Galasso in «Nord e Sud» del 1974, ciò che restava era un poco di buona agricoltura, qualche insediamento turistico, qualche azienda industriale in grado di resistere alla concorrenza settentrionale, al contrario un sistema bancario debole, una pubblica amministrazione, sempre più pletorica e soprattutto inefficiente, un’agricoltura povera in virtù della quale mezzo milione di calabresi vivevano con un terzo del reddito regionale, a sua volta il più povero del paese. La Calabria cominciò a vivere grazie al trasferimento di risorse finanziarie provenienti sia dal governo centrale, che dagli interventi dell’Europa comunitaria. Inoltre mezzo milione di pensionati calabresi si equiparavano, al 1984, al complesso della popolazione attiva, la regione viveva in maniera vistosa di assistenza pubblica. Infine la disoccupazione regionale subiva una forte impennata e soprattutto quella giovanile raggiungeva e superava il 50% del totale degli occupati.
Tra il 1999 e il 2005, la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria aveva indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso 7.909 persone, il 59% degli affiliati alla ’ndrangheta risultava avere un’età inferiore ai quarant’anni. Questo dato che si presenta ancora oggi nella società regionale, come ha denunciato all’apertura dell’anno giudiziario 2007 il presidente della Corte di Appello di Reggio, implicava e implica, come ha riferito il presidente della regione in un recente colloquio con il presidente della Repubblica Napoletano, che i giovani calabresi in maggioranza sono in costretti a scegliere tra l’alternativa dell’emigrazione, oppure quella di entrare nelle associazioni a delinquere mafiose.
Due opere la prima degli inizi degli anni Novanta, scritta da Pantaleone Sergi, La santa violenta, la seconda del dicembre 2006, di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, hanno presentato, tra le molte edite in questi anni, un quadro molto realistico delle trasformazioni realizzate dalle cosche mafiose calabresi, che hanno saputo sfruttare e far convergere a loro vantaggio le congiunture complessive della vita regionale. Esse hanno saputo, inoltre, usare le loro peculiarità originarie, concentrando la loro forza sulla famiglia mafiosa, impermeabile, perciò, al fenomeno del pentitismo - che ha fortemente ridimensionato la mafia siciliana - perché fondata sugli affetti personali, che rendono improponibile il tradimento. Le ’ndrine, così vengono definite le cosche mafiose calabresi, hanno accumulato grosse somme di denaro provenienti dalle molte attività illegali gestite sul territorio di appartenenza, costituendo un cospicuo patrimonio finanziario, che hanno trasferito in un primo momento in altre parti del paese, presso membri della stessa famiglia trasferitisi al nord d’Italia, dove hanno impiantato nuove famiglie, investendo in queste aree del paese in attività illegali o paralegali. Il passo successivo ha riguardato l’investimento in altre parti d’Europa sia occidentale e di recente orientale (Russia compresa), nonché l’entrare in contatto e investire grosse cifre nell’America centrale e meridionale nella produzione e nella commercializzazione degli stupefacenti. Si tratta quindi di vere e proprie holding a carattere finanziario e commerciale a livello internazionale, in grado, come è stato scoperto un paio di anni fa, di affittare un sommergibile e caricarlo di barre di uranio da destinare, una volta giunto nel Mediterraneo, a un paese centro-africano.
Tutto ciò suscita amare riflessioni e, ciò che conta, scarsa fiducia nel domani, in chiunque non sappia rinunciare ai valori espressi da una società civile e non riesca a rassegnarsi al fenomeno dell’omertà e dell’asservimento di tanta parte di una società passiva. Una parte di società che non trova stimoli e motivazioni interiori che le permettano di rifiutare un lavoro redditizio alla dipendenza delle ‘ndrine, ma che costringe però a vivere come burattini, le cui fila sono mosse da guide, maschili e femminili, che si riconoscono nella ’ndrangheta, identificata da molti come “santa violenta”, per la capacità “miracolosa” che essa possiede di adeguarsi ai tempi della globalizzazione e di produrre ricchezza e potere per i suoi affiliati.
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