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PIETA' SOTTO LEGGE? IL CASO WELBY
di Eugenio Mazzarella
Alla fine, nel doloroso caso di Piergiorgio Welby, è stato un medico a mettere un punto fermo, provvisorio, nella dilaniante vicenda. E a consentire – venendo incontro di propria iniziativa alla richiesta del dott. Welby di poter sospendere la terapia che lo teneva in vita, ormai vissuta come pura ed inutile sofferenza, e da lui stesso denunciata come accanimento terapeutico impropriamente impostogli, lesivo della sua facoltà, giuridicamente riconosciutagli, di rifiutare in piena coscienza ulteriori cure, in sostanza il prosieguo del sostegno meccanico del respiratore artificiale – di dar respiro al dibattito bioetico e politico, senza il potente peso simbolico e mediatico che le immagini di Welby, incatenato al suo letto di dolore in attesa che gli si dicesse sì o no, avevano via via sempre più assunto, spingendo persino il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, destinatario di un’accorata lettera pubblica di Welby, a sollecitare il legislatore a chiarire una buona volta aspetti non marginali dell’etica di fine vita recepibile in dottrina ed in diritto positivo, alla luce anche degli indifferibili problemi posti ai singoli e alla coscienza pubblica dall’avanzamento delle tecnologie mediche nella loro capacità di sostegno rtificiale alla vita biologica.
L’ultima vampata mediatica si è avuta con i funerali laici del dott. Welby officiati dai radicali sul sagrato della parrocchia romana Don Bosco, che aveva rifiutato, recependo un’indicazione del Vicariato, i funerali religiosi a Welby. Sul terreno della polemica mediatica è rimasto per qualche giorno il destino del dott. Mario Riccio, l’anestesista che ha aiutato Welby a morire, e il suo ruolo nella vicenda, da alcuni salutato come generoso esercizio del proprio dovere di medico, che ha fatto alla luce del sole quello che tanti altri medici fanno in penombra a beneficio umano dei loro malati, da altri additato come reo di essere venuto meno alla deontologia professionale e al giuramento di Ippocrate, che mai il medico dovrebbe attentare o nuocere consapevolmente alla vita dei suoi pazienti.
Questo ultimo giudizio è venuto prevalentemente da parte cattolica, ma a dire il vero non solo da parte cattolica; giacché entrambi i giudizi – liceità morale o illiceità morale del comportamento del dott. Riccio – sono stati ampiamente trasversali a commentatori e sensibilità laiche e cattoliche. Trasversale è stata sulla stampa anche la sottolineatura del rischio di processo penale per il dott. Riccio, in effetti subito sentito dall’autorità giudiziaria come persona informata dei fatti dopo la morte di Welby; ora paventando l’ingiusta prospettiva di una condanna per l’anestesista nella nebulosa al riguardo della giurisprudenza, ora invocando al contrario una esemplare azione giudiziaria a scongiurare il diffondersi di pratiche eutanasiche, vietate dalla legge italiana, sotto mentite spoglie.
Poi anche questa querelle – ampiamente mescidata di idealità e valori, e pregiudizi e prese di posizione ideologiche e politiche spesso viziate da interessi di identità di parte e di consenso presso il proprio vero o presunto elettorato – si è stemperata nella vischiosa melassa dell’agenda politica italiana, il che forse porterà almeno il vantaggio di una legislazione che dovrebbe essere sì ormai di urgenza, ma non di emergenza; evitando «il rischio di generalizzare un caso estremo e fare, in conseguenza, una legge da cui non si può più tornare indietro», come ha scritto un commentatore francese, avvantaggiato dal non far parte dei teo-dem, dei teo-con, dei lib, dei lab, o dei radical-sinistri in etica e destri in economia di casa nostra. Un autore che forse era laico, Federico Nietzsche, ha scritto una volta che «il sangue è il testimone peggiore della verità». Una notazione, che andrebbe sempre tenuta a mente dal legislatore e dall’opinione pubblica che vuole partecipare, in un paese in cui, per altro, fortunatamente i digiuni politici non finiscono mai male.
Il contributo alla serietà del dott. Riccio è stato tanto più significativo, perché alla fine – dopo l’ulteriore scabrosa vicenda del funerale religioso negato a Welby dalle autorità ecclesiali, dove forse, più che le argomentazioni di diritto canonico, a sostegno della controversa decisione ha pesato piuttosto la preoccupazione che la mobilitazione radicale si impadronisse anche dei funerali in chiesa, veicolando la convinzione che, sotto sotto, pur non potendolo dire per problemi di regressivo magistero papale, anche la chiesa cattolica sull’eutanasia non aveva poi chiusure così nette – ha riportato il problema alla sua fattispecie reale. Cosa, in altri termini, si può e si deve fare per accordare il diritto positivo alle emergenze valoriali dell’etica di fine vita indotte dal progresso tecnologico in medicina, che oggi ci dà possibilità di intervento e di omissione nella cura prima impensabili? Se non ci fosse, ormai così affinata, la tecnologia di sostegno alle funzioni biologiche anche quando queste vengano del tutto compromesse dalla patologia, il caso Welby non si sarebbe neppure posto. E’ un truismo, un’ovvietà, ma il peso dell’ovvio non ci esime, anzi ci obbliga a prendere posizione; e questo dovrebbe valere innanzi tutto per il legislatore, il che non vuol dire secondare la pretesa che nell’etica di fine vita da recepire in diritto, come in generale in campo bioetico, si possa o si debba giuridificare tutto, approntare un protocollo giuridico per ogni caso concreto. Anche la buona pratica medica sa che i protocolli scientifici e terapeutici sono sempre da interpretare al letto del malato, che è una persona concreta, un’individualità effettiva anche come risposta meramente biologica alle terapie, e non un caso clinico come semplice ricorrenza statistica di una fenomenologia patologica, affrontabile sempre e comunque nello stesso modo.
Nel caso di Piergiorgio Welby c’erano già probanti evidenze mediche, giuridiche e morali per venire incontro alla sua richiesta di sospendere le cure che lo tenevano in vita. Con Welby si è stati in presenza di un caso di accanimento terapeutico, che per configurarsi come tale non aveva certo bisogno di un ulteriore degrado della qualità della vita del paziente, e questo già per altro per la consapevole testimonianza dell’interessato. Mette poco conto che il caso Welby sia stato fatto argomento politico per giungere ad una legge sull’eutanasia. Sarebbe ipocrita negare questa evidenza, che però non delegittima neanche a posteriori né in diritto, né in fatto la sua richiesta di por fine alle cure, accolta poi dal dott. Riccio. E per altro Piergiorgio Welby, al di là della possibile strumentalizzazione della sua testimonianza politica e civile da parte di una mentalità eutanasica, pur possibile nello sgangherato dibattito bioetico cui talora si assiste, non pare affatto essere stato vittima di una tale mentalità. Si è semplicemente proposto come un uomo, che, nel pieno delle sue facoltà, ha deciso che era meglio finirla con l’insostenibilità della “sua” sofferenza. Nel suo caso la richiesta di “eutanasia” si è configurata più propriamente come richiesta di un accompagnamento medico ed umano al di fuori dell’accanimento terapeutico, cui da tempo si sentiva ormai sottoposto, come strumento medico e giuridico per il conseguimento di una finalità – il diritto a rifiutare cure che protraggano uno stato intollerabile senza speranze – sostanzialmente già moralmente pacifica. Una finalità già recepita per altro dagli articoli 14 e 34 del Codice di deontologia medica, che all’art. 34 (Autonomia del cittadino) recita che «il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona», e all’art.14 (Accanimento diagnostico-terapeutico) «il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita», senza per altro vincolare alcun medico contro coscienza al dettato di questi articoli, giacché all’art. 19 (Rifiuto d’opera professionale) è previsto che il medico «al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita». D’altro canto il Comitato Nazionale di bioetica, già prima dell’intervento di Riccio, aveva sostenuto la liceità della richiesta di Welby che gli si sospendessero le cure.
Solo una lettura astratta dal contesto del codice deontologico dell’art. 36 (Eutanasia) – «Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte» – può indurre a ritenere deontologicamente illecito il comportamento del dott. Riccio, se all’art. 37 (Assistenza al malato inguaribile) si prevede che «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita; in caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile; il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo», e all’art. 51 relativo al rifiuto consapevole di nutrirsi, che certamente portato avanti fino in fondo conduce a morte, al medico è fatto obbligo di «non assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale», pur impegnandolo a continuare ad assistere la persona.
Se mai, è sotto il profilo della giurisprudenza dove la domanda decisiva attiene «al momento esatto in cui cessa, in capo al medico, l’obbligo di prestare assistenza, e di procedere alla rianimazione», che si pone il problema. Se infatti «risulta “coperto” dalla volontà del malato il momento in cui egli permane cosciente, nella prassi giurisprudenziale resta controversa la fase successiva – quella dell’incoscienza – che nel caso di Welby, data la sedazione, ha peraltro accompagnato tutte le fasi propedeutiche al suo trapasso: la giurisprudenza maggioritaria in Italia riconosce l’obbligo dell’intervento del medico nel momento in cui il paziente perde conoscenza perché da quell’istante in poi non è più verificabile la permanenza della volontà di sospensione delle cure, e deve prevalere la presunzione contraria» (Jacopo Tondelli su «il riformista» del 23 dicembre 2006).
Questo orientamento della giurisprudenza ha un senso nel caso in cui la perdita di coscienza non sia l’esito di cure palliative di sostegno alla fase del trapasso indotta dalla cessazione su richiesta volontaria del paziente dell’accanimento terapeutico; giacché altrimenti si chiederebbe l’inumanità che egli debba patire da vigile fino in fondo le sofferenze fisiche e morali del trapasso dovuto al desistere dall’accanimento terapeutico richiesto. Un assurdo umano e logico, che non ha bisogno di commenti, ma solo di una disposizione normativa, che escluda l’obbligo per il medico della rianimazione in casi del genere. D’altro canto, a fugare ogni dubbio sulla validità deontologica dell’approccio al caso Welby da parte del dott. Riccio, basterebbe ricordare l’autorevole parere espresso a ridosso della morte di Welby – tra gli altri – dal dott. Piero Morini. Medico anestesista dirigente dell’Unità di cure palliative dell’Asl 10 di Firenze, cattolico, il dott. Morini ha sottolineato che l’eutanasia «significa somministrare un farmaco letale a un paziente che vuole morire, mentre la sedazione è l’intervento che si dovrebbe concordare con il malato per aiutarlo a morire quando la medicina non è in grado di controllare un sintomo refrattario che provoca sofferenze insopportabili», posizione che era già quella di Pio XII nel 1954, che «alla domanda se fosse lecito dare della morfina a un malato che soffre anche se questa può portarlo gradualmente alla morte, rispose di sì» (su «Il foglio» del 23 dicembre 2006).
Come si vede nell’etica di fine vita il «colpo di grazia» in morale, anche cattolica, ha già una sua storia. Temere nella decisione sul caso Welby un precedente giuridico in direzione di una legislazione sull’eutanasia non meditata, non condivisa ha a lungo impedito nel caso in esame l’esercizio di una pietà già possibile, con sufficiente serenità giuridica e morale. E’ mia convinzione che all’esito che ha poi avuto la vicenda si sarebbe potuto giungere già prima se nella strumentalizzazione politica ed ideologica della sua situazione non si fosse creata una spinta ad usare un caso per certi versi eccezionale di accanimento terapeutico – per la personalità del paziente, per la lucidità con cui ha voluto prendere posizione circa se stesso – per ottenere dal legislatore una normativa eutanasica fortemente orientata dal convincimento laicista radicale che la vita non è mai un universale, e in quanto tale un bene mai totalmente disponibile nella sua declinazione particolare, ma sempre e solo un bene particolare in capo ad un soggetto individuale che ne è l’unico titolare, come singola soggettività o come soggettività sociale surrogata che ne eserciti il diritto nei casi di inabilità a fruirne dell’individuo titolare del diritto.
Bene però farebbe chi senza tante sottigliezze pure pensa, e ci sono, all’eutanasia come un diritto pacificamente in capo ad una personalità giuridica, sia esso un cittadino cosciente o un’istituzione a ciò deputata, a riflettere sul richiamo alla «pietà» che è nella bella risposta di Welby al paziente siciliano in condizioni analoghe che gli si era rivolto nei suoi ultimi giorni di vita per invitarlo a desistere dalla sua richiesta di essere aiutato a morire. A Salvatore Crisafulli, quarantunenne di Catania, che dopo due anni di coma, a seguito di un incidente, ora è completamente immobile e comunica solo attraverso un computer, Welby ha risposto in modo toccante, invitando a non vivere la propria richiesta come contrapposta alla sua, che chiedeva di essere aiutato a vivere: «Uno Stato che non ha pietà di me, che non sa ascoltare la mia voce, sarà meno capace di ascoltare la tua. Uno Stato che saprà rispettare le scelte di fine vita, sarà più capace di rispettare le tante straordinarie vite che siamo».
In questo dialogo estremo i due uomini hanno chiesto una pietà che è insieme la stessa ed è diversa: è per l’uno pietà per morire, è per l’altro pietà per vivere. Una buona legge sull’etica di fine vita che venisse dovrà tutelare tutti gli orizzonti della pietà, quelli verso la vita e quelli verso la morte: una «procedura» eutanasica potrà essere solo un articolo stretto all’estremo quando ogni altra pietà per la vita non sia possibile. E sempre resterà un margine extragiuridico alla pietà. Una «pietà sotto legge», una pietà che voglia sentirsi tutelata e garantita sempre nel suo esercizio, non è neanche propriamente una pietà, è l’esercizio deontologico di un codice o di un obbligo giuridico. Nell’etica di fine vita una pietà che chiedesse di chiudersi nel rassicurante perimetro di una norma, di porsi sotto la legge, non solo verrebbe meno a se stessa e al suo ufficio proprio nella concreta vita etica – dove non abroga la legge, ma ne compie lo spirito, come ben sa il cristianesimo – , ma potrebbe proprio far trovare nella legge, nella sua osservanza procedurale, la possibilità dell’elusione della pietà. Che è il vero rischio di ogni legislazione sull’eutanasia, di cui possano farsi scudo comportamenti umani impietosi nel “privato” e tensioni tra interessi della persona alla salute e interessi del sistema sanitario nel “pubblico”.
Proprio in questo senso mi sembra si possa leggere la pronunzia della Procura della Repubblica di Roma, giunta qualche giorno prima l’epilogo della vicenda Welby, favorevole all’accoglimento del ricorso di Welby nella parte che chiedeva l’interruzione delle cure, il trattamento terapeutico non voluto, ma che rigettava la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, «poiché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico, anche se di una scelta discrezionale tecnicamente vincolata in merito all’utilità e alla necessità di ripristinare in un momento successivo la terapia». Mi sembra che in quel dispositivo si affermasse di fatto che l’esercizio della pietà fosse indecidibile dalla norma, ma decidibile solo da un dialogo umano al letto di chi soffre. Credo difficile pensare che la pietà che si risolva a «staccare la spina», possa, non richiesta, volersi di nuovo volgersi al suo contrario, alla ricerca di un osceno casus belli politico-giuridico.
Ci fu un caso alcuni anni fa, nel 1998, dove fu proprio la legge a doversi mettere sotto tutela della pietà, per venir fuori da una tragica tensione morale. Un insegnante di Monza, Elio Forzatti, staccò i tubi che tenevano in vita la moglie in coma irreversibile. I giudici di primo grado, sul presupposto che non fosse provato il consenso della defunta, condannarono Forzatti per omicidio volontario, mitigando la pena con una seminfermità mentale che nessuno aveva chiesto né verificato. La condanna fu di sei anni e sei mesi. In appello, il collegio trovò insopportabile sul piano morale la decisione, ed andò fino in fondo nel contraddire con la pietà la giurisprudenza. Forzatti fu assolto perché si motivò che non era appieno provato che il decesso della moglie fosse stato causato dal distacco del tubo. I giudici evidentemente ricordarono che l’amore era venuto a compiere la legge, non ad abolirla. Non ci sarà legge sull’etica di fine vita che potrà evitarsi di tener a mente per la ragione giuridica la pietra d’inciampo di questo precetto, che potrà credere di riuscire a governare fino in fondo nella previsione normativa il battito del cuore della pietà, né deve proporsi di farlo.
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