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Il PD dopo Veltroni
di G. G.
Che le elezioni in Sardegna avrebbero potuto avere conseguenze di primaria importanza nel gioco politico italiano, era prevedibile ma era difficile immaginare che queste conseguenze sarebbero state quelle che si sono viste.
Ha colpito, in particolare, non tanto la sconfitta quanto la misura della sconfitta del PD. Le dimissioni di Veltroni lo hanno esplicitato anche per coloro ai quali poteva tornare più comodo continuare a mantenerlo, fino al congresso del PD, sotto il peso del fardello di una segreteria, che certo non ha mai avuto momenti luminosi di chiarezza, di linearità, di vigore politico, ne mai ha dato l'impressione di offrire una
leadership in grado di poter contrastare quella che Berlusconi indiscussamente (nella sostanza, anche se spesso, episodicamente, e alla superficie, non è cosi) assicura al centro-destra, ma che è stata anche sempre oggetto di opposizione interna forte e costante, benché, per lo più, dissimulata (e, anzi, come suole accadere, tanto più forte e logorante quanto più dissimulata).
Oggi non è dato prevedere il tempo e i modi in cui la crisi del PD possa essere superata. E ciò a prescindere dalla soluzione adottata in quella che continua a essere denominata “assemblea costituente” del partito. Come si sa, in questa assemblea si sono affrontate due tesi; quella che ha finito col prevalere, e che sosteneva l’ opportunità di una chiusura formalmente piena della crisi determinata dalle dimissioni di Veltroni; e quella, soccombente, che riteneva preferibile l’immediata convocazione del congresso del partito, comunque previsto entro il presente anno. E solo in apparenza curioso che entrambe le tesi tendessero a giustificarsi con argomenti che facevano riferimento alle necessità imposte da un momento come quello attuale che prelude al prossimo “election day” di giugno, i cui risultati potrebbero riuscire per il PD ancora più esplosivi di quelli delle elezioni regionali sarde. La tesi che ha prevalso ne deduce che proprio per questa occorreva dare subito al partito una guida di pieni e riconosciuti diritti e poteri e, perciò, e in tal senso, accreditata anche all’esterno. La tesi perdente sosteneva, per la stessa motivazione elettorale, la convenienza di evitare una segreteria fatalmente di transizione, e altrettanto fatalmente non suscettibile dell’autorevolezza e della prospettiva di una segreteria scaturiente dall’organo che più di tutti è competente a designarla, ossia la base del partito.
Di queste due tesi si pensi quello che si vuole, ma è lecito chiedersi se sarà oggettivamente consentito di rimediare alle necessità del periodo elettorale in cui ora si entra con la segreteria Franceschini, il cui credito esterno non può per nulla essere assicurato soltanto dalle più o meno reali e dichiarate intenzioni di coloro che ne hanno promosso l’elezione; e chiedersi di conseguenza, se pagare il costo, probabilmente più alto, di un congresso a scadenza immediata non sarebbe stato politicamente più avveduto e lungimirante. Non è, ovviamente, in discussione la persona di Franceschini. I commenti alla sua designazione ed elezione - fuori dello stretto ambito del partito e della sua sfera di influenza - non sono stati i migliori. Oggettivamente, non potevano riuscire davvero persuasive e trasparenti la perpetuazione di un controllo così pieno del partito da risolversi per una ennesima volta in una votazione di quelle che si definiscono “bulgare”, o la tesi apparente di una continuità unanimistica affermata come canone obbligato (secondo un inveterato, ma non lodevolmente perdurante costume di vecchi partiti) e già in parte disdetta dalle prime dichiarazioni di Franceschini che dimostrano non del tutto vera l’asserita continuità. Ancora meno potevano riuscire persuasivi la pratica riduzione di senso e l’irrisorio risultato elettorale dell’unica candidatura alternativa mantenuta (tutte le altre non essendo state neppure avanzate dopo quello che è apparso come il draconiano
diktat dell’attuale, cristallizzata nomenclatura del partito). Per di più, all’assemblea che ha eletto Franceschini ha partecipato un terzo appena del suo plenum, e non è perciò, una indebita illazione pensare che l’assenza da Roma di ben due terzi dei componenti dell’“assemblea costituente” non sia priva di un suo pregnante significato. All’interno stesso del partito si è reagito a tutto ciò in qualche caso (vedi il commento di Cacciari) con autentica e rivelatrice cattiveria. E, comunque, alla tesi ufficiale di un nuovo segretario dotato del crisma di tutti i diritti e i poteri caratteristici di una normalità strutturale e istituzionale sono in pochi; in pochissimi a credere. A Franceschini è stato subito applicato il verbo “traghettare”, riferendosi alla necessità del PD di passare dall’emergenza alla normalità che si avverte ancora tutta da costruire o ricostruire dopo le dimissioni di Veltroni. Che poi, come qualcuno non ha mancato di ipotizzare, e come anche a noi non sembra affatto inverosimile, Franceschini si trasformi da traghettatore in capitano di lungo corso, è, evidentemente, un altro discorso, adesso certamente intempestivo.
Per ora quel che rimane certo è che la crisi del PD non è nata con le sconfitte in Sardegna e altrove. Piuttosto, sono queste sconfitte a essere figlie di una crisi, la cui ragione è sia interna che esterna, come si poteva vedere e pensare già prima delle elezioni sarde (e basti per questo rinviare all’esauriente e illuminante articolo di Adolfo Battaglia nel precedente numero della nostra rivista).
In sintesi, all’esterno si è rimasti lontani dall’opporre al governo e alla maggioranza una linea alternativa credibile di per se, e, ancor più, per gli elettori. L’esperienza del “governo-ombra” è stata fallimentare. La giusta rinunzia a un’opposizione gridata e demagogica alla Di Pietro è stata troppo spesso contraddetta, con una ricorrente tentazione di sanare le proprie carenze in modi più o meno improvvisati. E si potrebbe continuare, ma più ancora importanti sono state le mancanze interne. La conduzione del partito è rimasta tutta nelle mani delle varie, vecchie nomenclature che ne hanno deciso la nascita, fossilizzandosi nei consueti giochi di gruppi e di persone. La costruzione del partito sul territorio ha registrato ben pochi successi, restando affidata in pratica alle precedenti presenze dei DS o dei gruppi più consistenti e validi della Margherita. E anche qui si può continuare, ma si aggiunga solo che la politica delle tante amministrazioni del Sud a maggioranza PD è stata anch’essa lasciata pressoché per intero ai potentati locali, ai quali certo non la si poteva sottrarre in principio o del tutto, e ciò anche per le esigenze realistiche che ogni politica comporta, ma è stata in effetti trascurata per interessi di persone e correnti del partito a cui faceva comodo ciò che il PD aveva nel Sud.
Anche da un’analisi sommaria come questa, emerge, dunque, che la responsabilità, pur pienissima, di Veltroni è solo una componente, benché essenziale, della crisi del PD. E ciò anche perché da parte degli altri esponenti del partito non è mai stato delineato alcun apprezzabile disegno alternativo, ne alcuna decisa contestazione della linea e dell’azione di Veltroni. Franceschini ha dichiarato (con correttezza obbligata, essendo egli stato il “vice” di Veltroni, ma non per ciò meno lodevole) che le responsabilità e gli errori di Veltroni sano stati errori e responsabilità anche suoi. Ma ancor più corretto è, forse, ricordare che il progetto veltroniano è stato il progetto di tutto il partito e che, qualsiasi manipolazione politica si voglia fare delle continue sconfitte elettorali del PD negli ultimi tempi, certo è che Veltroni non può fungere da loro capro espiatorio, e meno che mai da loro unico capro espiatorio.
Vedremo, comunque, nei prossimi mesi se e come il PD ne uscirà. Aggiungiamo soltanto qualche parola circa quel che tutto ciò ha significato e significa per il Mezzogiorno. E lo facciamo perché ci pare indubbio sia che, malgrado tutto quanto si fa e si dice in contrario, il Mezzogiorno continui a essere uno dei maggiori problemi nazionali e uno dei maggiori banchi di prova delle classi politiche italiane, sia che, ciononostante, il fronte meridionale continui a essere, come accade ormai da circa un ventennio, uno dei meno presidiati della politica italiana.
Va detto innanzitutto che il Mezzogiorno, già, per alcuni anni, tra i maggiori supporti del PD, ha in ultimo contribuito molto al declino delle sue fortune. La questione dei rifiuti in Campania, le vicende giudiziarie in Abruzzo, Campania, a Napoli e altrove, l’opinione molto negativa in Italia e all’estero sulle prove amministrative del PD nel Sud sono state una componente tra le più determinanti della sconfitta del PD in quasi tutte le elezioni da un paio di anni a questa parte. Il resto lo ha fatto la già accennata omissione del partito (non solo di Veltroni) a interventi nelle situazioni locali anche quando più manifesto ne appariva il bisogno e li si invocava. Così, dal punto di vista della vita interna le condizioni del partito nel Sud sano apparse le più criticabili e troppo spesso risolte in sistemi di potere e in aggregazioni chiaramente clientelari (al punto che amministratori di altre parti d’Italia tra i più e meglio considerati del PD come Chiamparino e Cacciari, hanno assunto a questo riguardo atteggiamenti ancora più critici di quelli del centro-destra. Né meno rilevante è che nelle stesse amministrazioni a guida PD del Sud si registrino contrasti di linee di governo gravi e irrisolti (come quello sulla prudente e responsabile linea economico-finanziaria dell’assessore D’Antonio in Campania) e maggioranze composte con molti elementi della sinistra scomparsa nelle elezioni del 2008 e molti dipietristi, il cui accordo col PD si è fatto sempre più problematico.
La domanda che si pone è, a questo punto, se il Sud continuerà a contare nel PD per i suoi voti elettorali e congressuali o se anche nel Sud potranno esservi la reazione culturale e politica, la tensione e passione morale e civile che dovevano portare alle fortune del PD e che sono indispensabili per una sua ripresa, e tanto più in quanto le prospettive elettorali del partito appaiono nel Sud, per tutto quanto si è detto, ancora meno rosee che altrove.
Domanda che ne implica altre. Il PD dedicherà in futuro al Mezzogiorno un’attenzione maggiore di quella, debole e incerta, che si è vista finora? E il PD del Sud si dimostrerà meglio in grado nel futuro di chiedere e ottenere da tutto il PD una tale attenzione?
Interrogativi di fondo per il PD, ma, come è facile intendere, non solo per il PD.
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