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L’uso sociale della ricerca storica sul medioevo*
di Giovanni Vitolo
La pubblicazione negli ultimi due-tre anni di vari libri di storici italiani contemporanei, nei quali essi stessi o altri hanno riflettuto sul loro percorso di ricerca1, ha contribuito alla ripresa del dibattito sul problema – destinato a restare sempre aperto finché avvertiremo il dovere di cercare la verità nell’indipendenza dalla propria ideologia e nel rispetto delle testimonianze – se lo storico debba mirare solo ad acquisire conoscenze in maniera del tutto libera e disinteressata (la libertà della memoria di Mario Del Treppo) o, come propone Giuseppe Ricuperati, debba assumersi, nell’ambito sia della ricerca sia dell’insegnamento, anche i rischi di un uso pubblico della storia responsabile e critico, dandosi come referenti ideali non più e non solo, come nel passato, lo Stato, la nazione e la comunità scientifica locale e internazionale, ma anche la costruenda identità dell’Europa, intesa non come identità chiusa e autoreferenziale, ma allargata e molteplice2: proposta, questa di Ricuperati, che non considero incompatibile con la libertà della memoria, perché non si tratta di coinvolgere la storia in miti fondativi né di reinventare il passato in funzione politica, quanto piuttosto di cercare le radici dei processi oggi in atto nello stesso tempo in cui si approfondiscono le esperienze della diversità, senza naturalmente escludere rotture e discontinuità, che sono del resto esse stesse altrettanti problemi da chiarire.
Ha ragione pertanto Giovanni Miccoli nel rivendicare allo «storico professionale che sia degno di questo nome, nel momento stesso in cui si propone, con la sua ricerca, di cogliere e chiarire le situazioni e i nessi che dal passato hanno portato al nostro presente, che condizionano e orientano sottilmente il nostro presente», il diritto a non rinunciare «alla segreta aspirazione che le nuove consapevolezze così acquisite non restino un fatto puramente libresco, ma trovino interlocutori partecipi, che possano a loro volta servirsene nel vivo della loro storia attuale». E ciò nella fedeltà all’«antica divisa della grande storiografia del secondo Ottocento e del primo Novecento, che assegnava allo studio disinteressato della storia e alla conoscenza storica il compito di formare cittadini consapevoli, di far crescere la consapevolezza civile della collettività»3, senza che questo, come giustamente ha osservato Giorgio Chittolini, abbia impedito ad essa di costruire «modelli interpretativi inevitabilmente caduchi, ma che hanno svolto dignitosamente la loro funzione di strumenti conoscitivi4. In sostanza, se utilizziamo bene la «cassetta degli attrezzi» di cui abitualmente ci serviamo per il nostro difficile, ma bellissimo mestiere5, il pensiero come azione non è detto che sia pericoloso per il lavoro dello storico. Basta «tenere in tensione la scienza e noi stessi», raccomanda Natalie Zemon Davis6.
Come pure non penso che sia necessario scegliere, quando ci si interroga sulle finalità dell’insegnamento della storia, tra la semplice trasmissione di conoscenze e il rafforzamento o la creazione di appartenenze, dato che le due cose non sono affatto alternative, ma possono stare benissimo insieme, se però ci si intende sul concetto di appartenenza.
Oggi noi siamo consapevoli non solo delle nostre diverse identità, ma anche delle nostre molteplici appartenenze – religiose, culturali, politiche – e delle loro continue evoluzioni, trattandosi, come giustamente osserva Giuseppe Galasso, di concetti e di realtà «a eminente fondamento storico», per cui non sorprende che esse, sia pur in misura diversa, si vadano sempre di più affievolendo7. Quella che sembra in grado di resistere meglio è la coscienza del luogo come sede di continuata residenza, la quale in un modo o nell’altro condiziona la nostra esistenza, indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli o non, ma in relazione al grado di appartenenza che è presente negli altri: la vita in un luogo nel quale i residenti hanno sviluppato un buon grado di appartenenza è infatti di qualità decisamente più alta, perché ci sono i presupposti di coesione sociale per un più efficace governo del territorio. Operare in questa direzione è ovviamente dovere di tutti, e in maniera particolare di chi ha la responsabilità del governo locale e delle istituzioni sociali e culturali a ciò preposte, oltre che delle associazioni che perseguono espressamente finalità di questo genere. Un ruolo particolare spetta però anche agli studiosi del Medioevo e soprattutto a coloro che lo fanno a livello professionale, sia perché sono i depositari di un’esperienza di grande fantasia creativa nell’organizzazione del territorio urbano e rurale nel quale siamo ancora immersi sia perché i segni di essa sono ancora dappertutto più o meno forti.
A questo discorso, che sostanzialmente sarebbe andato bene anche venti o trenta anni fa, oggi si aggiungono però almeno due rilevanti elementi di novità, legati alla particolare situazione che sta vivendo il nostro paese, chiamato a misurarsi, da un lato, con i problemi della competitività a livello mondiale, dall’altro con quelli non meno complessi dell’immigrazione e del multiculturalismo ad essa connesso.
Cominciamo dalla competitività. Essa si svolge innanzitutto a livello mondiale e chiama in causa direttamente il problema dell’innovazione tecnologica. Oggi non si contano più le pubblicazioni e i convegni, seminari e tavole rotonde, in cui si ripete insistentemente che bisogna puntare sull’innovazione a tutti i livelli soprattutto nell’ambito dell’industria e della pubblica amministrazione, e non vedo come questo possa essere messo in dubbio, anche se di risultati finora se ne vedono ancora in misura insufficiente e qualcuno (Francesco Giavazzi sul «Corriere della sera» del 16 marzo 2007) ritiene, sulla base di dati relativi ad altri paesi, che forse si creerebbero più posti di lavoro investendo nelle scuole che in ambiziosi progetti di alta tecnologia.
C’è però un altro tipo di competitività di cui si parla meno al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori: la competitività territoriale, con il connesso marketing territoriale, considerato ancora con sospetto da quanti hanno una formazione di tipo umanistico, ma che invece è uno strumento molto utile, attraverso il quale si cerca di valorizzare la vocazione di un determinato territorio, progettando il suo futuro nel contesto nazionale ed europeo sulla base di un’analisi attenta sia delle risorse umane e materiali già esistenti sia dei potenziali investimenti che è possibile attrarvi. Si tratta di un importante supporto per l’azione politica e amministrativa, ma la cui efficacia è legata anche e soprattutto alla qualità dell’analisi e alle conoscenze di base su cui questa viene effettuata. Orbene, uno degli elementi presi in considerazione come utili alla competitività territoriale è la coesione sociale, alla quale contribuisce non solo un certo livello di sicurezza, per cui in aree infestate dalla delinquenza comune o organizzata è più difficile che avvengano investimenti produttivi, ma anche l’esistenza di un ricco tessuto di istituzioni culturali e associative, che attraverso la promozione della conoscenza del territorio, inteso come patrimonio culturale e ambientale, possono svolgere un ruolo importante nella formazione e nel consolidamento del senso di appartenenza, che della coesione sociale è uno dei fondamenti.
L’altro elemento di novità dianzi menzionato è l’immigrazione, con il connesso multiculturalismo. Del problema confesso di aver preso più profondamente coscienza quando ho scoperto come nell’arco di quattro-cinque anni, durante i quali non avevo avuto occasione di passare per una strada a gradoni posta proprio a ridosso del palazzo ducale, nel cuore della Napoli altomedievale, si fosse realizzata in quell’area una fitta presenza di immigrati extracomunitari, legata evidentemente al modesto valore abitativo e quindi al basso costo delle case, le quali però si trovano a immediato contatto con complessi monumentali sedi di altissime funzioni culturali, tra i quali l’Archivio di Stato, la biblioteca universitaria e vari dipartimenti universitari. Non credo che i precedenti occupanti di quelle case sapessero granché della storia della Napoli ducale che, come è noto, suscitava in Benedetto Croce sentimenti di patriottiche virtù, ma certamente ne sanno ancora meno, per non dire nulla, gli abitatori di oggi, i quali però, agli occhi del medievista, non è che siano completamente fuori posto in quell’area. Nell’alto Medioevo infatti la città svolse, al pari del resto dell’intero Mezzogiorno, un ruolo di mediazione e di luogo d’incontro tra Oriente e Occidente, per cui la presenza di forestieri, di stranieri e di tradizioni culturali diverse non creava problemi, ma anzi contribuiva a farne una realtà del tutto particolare, un vero e proprio laboratorio ante litteram di esperienze multiculturali8, per cui, come è stato giustamente osservato, «dovrebbe naturalmente vivere con minore impatto il tema del confronto e della contaminazione tra identità diverse»9. Se poi a questo si aggiungono le acquisizioni della stagione di studi promossi dal GISEM sui forestieri e sulle nationes come «potentissimi vettori di integrazione», secondo la felice definizione di Sante Bortolami10, si comprende come, almeno a Napoli e nelle altre città inserite nel sistema di rapporti individuato da Gabriella Rossetti in Italia e nel resto dell’Europa di tradizione latino-germanica, si tratterebbe in sostanza di ripristinare quella che è stata definita «una memoria plurale, che sappia leggere la complessità dei contesti e delle relative articolazioni e sfumature», nella consapevolezza che «ogni cultura è già multiculturale perché in essa sono riscontrabili sedimenti provenienti da luoghi e da popoli diversi»11.
Al concetto di multiculturalismo, Giuseppe Ricuperati, nei cui scritti più recenti viene espresso il bisogno di un «Illuminismo come progetto, che consenta specificità religiosa, integrazione culturale e universalismo della democrazia e della libertà»12, preferisce quello di pluralismo, vedendo in esso «una soluzione che integra, mentre il multiculturalismo tende a creare isole di specificità pericolose e inevitabilmente aggressive»13. Il pluralismo, tuttavia, o anche lo «sguardo cosmopolita», di cui parla Ulrich Beck come superamento dell’immaginario nazionale o micro-nazionale, che rischia di diventare e in qualche caso è già diventato «uno spettro sentimentale, un’abitudine retorica in cui gli impauriti e i confusi cercano un rifugio e un futuro»14, non comporta automaticamente la fine delle identità, di cui è diventato oggi uno sport molto praticato dimostrare la natura artefatta, a volte costruita o inventata anche in tempi abbastanza recenti. Lo stesso Francesco Remotti, un antropologo che, sulla base delle sue esperienze ‘sul campo’, ha scritto in maniera appassionata «contro l’identità», riconosce che essa è un’esigenza irrinunciabile, anche se «di sola identità si muore»15, per cui una soluzione al problema può essere cercata, al di fuori dell’alternativa tra l’abbandonarsi al flusso inesorabile del mutamento e il continuare a credere in maniera esclusiva nelle proprie forme identitarie, in una loro attenuazione, «così da renderle più disponibili alla comunicazione e agli scambi, alle intese e ai suggerimenti, alle ibridazioni e ai mescolamenti»16.
Questo apre un campo di lavoro enorme, che vede già all’opera operatori culturali, enti e associazioni, ma in forte ritardo la politica, sia sul piano della consapevolezza del problema sia su quello operativo. Tra le associazioni impegnate in questo campo va ricordata «Clio ’92», che riunisce insegnanti e ricercatori che si occupano di didattica della storia. Essa ha tenuto nel febbraio del 2007 il suo annuale convegno, dedicandolo proprio all’Educazione al patrimonio quale strumento per realizzare un dialogo costruttivo e un ‘sentire comune’ tra individui e comunità portatrici di istanze culturali diverse: convegno nell’ambito del quale sono state discusse delle Tesi per l’educazione al patrimonio, che sono state successivamente pubblicate17.
Il tema è anche al centro dell’attenzione dell’ISMU (Iniziative e studi sulla multietnicità), la fondazione milanese che dal 1991 promuove studi, ricerche e iniziative sulla società multietnica e multiculturale, individuando il contributo che il patrimonio culturale può dare ai processi di integrazione degli immigrati in una logica di educazione alla cittadinanza attiva. Nel marzo del 2005 ha organizzato un convegno su «Patrimonio culturale e integrazione. Quale dialogo con la scuola e il territorio», i cui Atti sono appena stati pubblicati nei «Quaderni ISMU» (2007/1)18. Il contributo che possono dare le Università è di due tipi: mettendo a disposizione le competenze disciplinari dei docenti e collaborando con le altre istituzioni culturali nell’elaborazione e nella realizzazione di progetti, e nella formazione di coloro che dovranno operare nell’ambito dell’educazione al patrimonio.
L’obiettivo è quello di produrre un grosso sforzo per sviluppare un sempre più forte spirito di appartenenza al luogo di residenza sia negli immigrati sia nel resto della popolazione, attraverso non solo i normali canali formativi, quale innanzitutto la scuola, ma anche con iniziative e progetti di altra natura, individuando elementi simbolico-espressivi, anche se di natura diversa, nei quali si possa riconoscere se non proprio la totalità, almeno la stragrande maggioranza dei residenti, al di là delle loro molteplici appartenenze e identità: elementi che vanno identificati sostanzialmente con i beni culturali e ambientali.
Nell’ambito della ricerca scientifica, e di quella sociologica in particolare, è già da tempo acquisito che la loro rilevanza simbolico-espressiva è legata al modello culturale complessivo di una determinata collettività, per cui, se questo varia, essa si attenua o si annulla del tutto con conseguenze negative per il sentimento di appartenenza dei suoi membri19. È un processo in atto da tempo nelle nostre città e che l’immigrazione ha soltanto contribuito ad accelerare. Quello che bisogna fare – con fatica sempre maggiore quanto più si tarda ad intervenire – è molto chiaro: suscitare e consolidare il senso di appartenenza, riproponendo con opportune politiche di intervento la rilevanza simbolica e l’importanza sociale di tali beni: ma quali in particolare?
La scelta ovviamente non è neutra, ma è legata al complesso dei modelli di valore della collettività: modelli che possono variare nel corso del tempo sotto la spinta di motivazioni diverse e che i leader della collettività, in base alla loro sensibilità e cultura, si assumono la responsabilità di recepire o di contrastare in base alla valutazione che ne fanno in vista del consolidamento negli individui membri del sentimento di appartenenza. Così i beni che a tal fine hanno un significato simbolico sono nella Sicilia costiera meridionale, da sempre aperta agli scambi e alle ibridazioni con la costa settentrionale dell’Africa, diversi da quelli che possono svolgere una funzione analoga nelle comunità delle vallate alpine e prealpine, i cui processi di formazione nel tardo Medioevo sono stati di recente ricostruiti in maniera esemplare da Massimo Della Misericordia in un ponderoso volume, che fornisce non pochi elementi di riflessione20.
Il giovane studioso costruisce il suo lavoro su una ricchissima base documentaria e con una raffinata strumentazione di carattere storiografico-metodologico, giungendo a ricostruire in maniera convincente la complessità e la molteplicità dei percorsi che nel tardo Medioevo portarono al formarsi dei comuni rurali in Valtellina e nella montagna lombarda. Indipendentemente dall’impulso iniziale da cui è partito il progetto di ricerca, è indubbio che dell’esito di esso si può fare anche un uso sociale; ma quale? La peculiarità o se vogliamo l’unicità di quel ‘divenire comunità’ fornirà argomenti a chi continua a credere in maniera esclusiva nelle proprie forme identitarie, facendone un ‘vicolo cieco mentale’, o a chi cerca di alleggerirle, partendo dalla forma di identità costruita in età moderna per risalire a ritroso nel tempo, fino al momento in cui c’era ancora un ventaglio di possibilità, poi scartate21, e ciò grazie anche al concorso di gruppi e individui di altra provenienza?
L’autore della ricerca avrà un’idea al riguardo, ma essa, come è giusto che sia, non traspare dal testo. Quello che invece è sicuro è che da questo lavoro vengono conoscenze e, per chi sappia e voglia utilizzarle, elementi per consolidare o per suscitare il sentimento di appartenenza, facendo leva sulla rilevanza simbolica non tanto di beni culturali intesi nella forma tradizionale di monumenti o manufatti, quanto piuttosto di quel bene particolare che è l’organizzazione del territorio nel suo complesso, nei suoi valori storici e ambientali: valori che forse è più facile far sì che possano diventare condivisi e quindi essere interiorizzati in tempi brevi.
Il problema è allora quello della scelta dei beni sui quali si intende puntare: scelta, come si è detto, legata al contesto geografico e territoriale, alla tradizione culturale, ma anche alle condizioni dell’ambiente sociale. In città sono inevitabilmente destinati a giocare un ruolo prevalente i beni culturali, ma quali in particolare? In una strategia complessiva di intervento giocheranno certamente un ruolo importante anche gli edifici religiosi, ma a mio parere in questa fase le cure principali vanno riservate agli spazi della vita associata e ai luoghi della mescolanza etnica, quali ad esempio le piazze, i mercati, le aree portuali, i lungomari e i lungofiumi, i parchi urbani, che spesso sono già elementi forti dell’immaginario urbano, ma sui quali si può fare ulteriormente leva per sviluppare il senso dell’appartenenza. Si pensi, limitandoci a qualche caso particolarmente famoso, alla piazza del campo di Siena, all’area portuale di Genova (specie dopo l’intervento di Renzo Piano in occasione delle celebrazioni colombiane del 1992) o alla piazza del Mercato a Napoli.
Quest’ultima, per secoli luogo per eccellenza della mescolanza etnica e teatro di eventi decisivi per la storia della città, versa da alcuni decenni in uno stato di sostanziale degrado, il che, contribuendo a tenere basso il valore degli immobili, vi ha favorito l’inserimento di immigrati, che hanno fondato anche una moschea ed un attivo centro culturale islamico. Di essa ho avuto occasione di occuparmi studiando, nell’ambito dei miei interessi di ricerca, l’ospedale di Sant’Eligio, detto appunto al Mercato, che dalla fondazione nel 1270 agli inizi del Novecento, quando fu soppresso, fu il principale polo urbanistico e assistenziale della piazza e dell’intero fronte a mare della città22. In questo caso, diversamente che a Siena e a Genova, non si tratterebbe di potenziare ulteriormente il valore simbolico-espressivo di un bene già percepito come tale, bensì di riadditarlo per questa funzione, operando in una prospettiva non tanto di conservazione quanto piuttosto di mutamento sociale e culturale23. Anche qui, come nel caso del lavoro di Della Misericordia, una ricerca storica mossa solo dalla libertà della memoria, ma i cui risultati possono essere usati, dall’autore o da altri, a fini sociali e all’insegna di quel ripristino della memoria plurale di cui parlavo poco fa.
Al di fuori dei centri urbani possono forse avere maggiore rilevanza simbolica i beni ambientali, sia quelli intesi come aree naturali in senso stretto sia quelli risultanti dal lavoro dell’uomo, come ad esempio la Costiera amalfitana o la campagna toscana24. Come pure è possibile puntare su un tipo di intervento capace di utilizzare sia i beni culturali sia quelli ambientali, come nel caso dei tanti centri abitati dell’Italia nei quali monumentali impianti difensivi o santuari di grande richiamo si inseriscono in contesti paesaggistici di particolare suggestione.
Qualunque sia il tipo di bene che si vuole potenziare o rilanciare per rafforzare e/o suscitare il sentimento di appartenenza degli individui ad una collettività, l’apporto degli storici medievisti è di fondamentale importanza, perché la maggior parte del patrimonio storico-artistico e ambientale dotato di rilevanza simbolica si è formato nel Medioevo e solo essi sono in grado di capirne appieno il messaggio.
Una delle città nelle quali l’impegno dei medievisti trova una larga rispondenza nella comunità cittadina e nelle istituzioni culturali è non a caso Bologna, sebbene anch’essa, a quel che sembra, abbia ora non facili problemi di tenuta del suo tradizionale modello culturale basato sull’accoglienza, la tolleranza e la solidarietà, non riuscendo più a suscitare negli immigrati il sentimento dell’appartenenza con un ritmo idoneo a mantenere sempre alto il tasso di coesione sociale. In questo contesto è da guardare con grande interesse all’iniziativa della festa della storia, che ogni anno e per un’intera settimana organizza, a partire dal 2002, Rolando Dondarini con una grande capacità di mobilitazione e di coinvolgimento. I temi trattati vanno dalle radici dell’Europa ai diritti umani a partire dal Liber Paradisus, dall’agricoltura ai mercati. Su un piano diverso, tra ricerca scientifica ed educazione al patrimonio, si colloca il grandioso progetto di Francesca Bocchi di rendere accessibile al pubblico la storia di Bologna attraverso le applicazioni informatiche di realtà virtuale, che consente al visitatore di navigare a suo piacimento nello spazio e nel tempo25: progetto che è stato possibile concepire e avviare a realizzazione perché ha alle spalle una lunga e prestigiosa storiografia urbana, ma che inevitabilmente avrà dei riflessi anche sul piano strettamente scientifico-disciplinare, dato che le applicazioni informatiche finiranno inevitabilmente per evidenziare una serie di problemi di carattere interpretativo che costringeranno a nuove indagini.
Un’altra esperienza di ricerca in corso già da tempo, e precisamente dal 1999, investe invece un’area rurale, l’interno del Molise, e competenze disciplinari non solo strettamente storiche: esperienza anch’essa con forti ricadute sociali. Si tratta degli scavi presso l’abbazia di San Vincenzo al Volturno, avviati e portati avanti ad intermittenza da archeologi inglesi, ma ora affidati ad un presidio scientifico permanente in loco diretto da Federico Marazzi, il quale sta dando un prezioso contributo per trasformare, attraverso la realizzazione di un’area archeologica con relativo museo, un’importante scoperta scientifica in un bene accessibile al grande pubblico e quindi in un rilevante strumento di marketing territoriale26.
Un’impresa del genere, richiedendo un collegamento stretto con le istituzioni politiche a livello locale (Comune, Provincia e Regione), comporta un altro tipo di problema: il pericolo di un condizionamento nell’impostazione e nelle conclusioni della ricerca nonché quello di abbandonare o trascurare un promettente filone di indagine, per assecondare le sollecitazioni che vengono dalla committenza esterna. Non posso escludere che ci siano stati e ci siano casi del genere, ma le esperienze a me note vanno nella direzione di una perfetta convergenza tra rigorosi percorsi scientifici, basati su consolidate tradizioni di ricerca, e collaborazione con enti pubblici: convergenza che si è rivelata vantaggiosa per tutti. I ricercatori ne hanno tratto attenzione per il loro lavoro, ma soprattutto finanziamenti per la ricerca; gli enti pubblici supporto per l’azione politica e amministrativa. Il pensiero va alla collaborazione con la Regione Veneto avviata da Giorgio Cracco e ora continuata da Gian Maria Varanini, Sante Bortolami e Dario Canzian per l’edizione delle «Fonti per la storia della terraferma veneta» e all’attività dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, nato nel 1973 come emanazione della Provincia autonoma di Trento; il che non ha impedito ad esso né di diventare sede di lavoro scientifico assai qualificato, producendo storiografia e non ospitandola soltanto in occasione di convegni, né di ridefinire nel corso del tempo, e in presenza di un nuovo soggetto politico come l’Unione Europea, le sue originarie finalità culturali di semplice ponte tra le regioni alpine al di qua e al di là delle frontiere, orientandosi in senso decisamente europeistico e recuperando l’identità politico-sociale di una città e di un territorio, che nel contesto della globalizzazione in atto può configurarsi, per dirla con Arnaldo Bagnasco, come «un’isola (felice) nella corrente»27.
Di tutt’altro genere e di dimensioni molto più circoscritte, ma non per questo meno importante, anzi esemplare di un collegamento tra ricerca storica e domanda sociale, è l’esperienza dello Schedario storico-territoriale dei comuni piemontesi, progettato da Renato Bordone e portato avanti da un gruppo di lavoro allargato a modernisti, contemporaneisti e geografi storici28. Nato dalla richiesta dell’Ente Regione al Dipartimento di Storia dell’Università di Torino di una consulenza storica per la determinazione dei confini tra due Comuni, ha dato origine ad una vasta ricerca, giunta ora all’incirca alla metà del suo percorso, sulla formazione storico-territoriale dei Comuni del Piemonte nell’arco di circa mille anni, accreditando gli studiosi che lo stanno realizzando come validi interlocutori degli amministratori locali e dei professionisti, della cui consulenza ci si avvale nel governo del territorio.
Probabilmente sono in atto tante altre esperienze a me non note che vedono un esemplare collegamento tra finalità scientifiche e ricadute di carattere sociale, alle quali le Società degli storici del Medioevo, dell’Età moderna e dell’Età contemporanea sarebbe auspicabile che dessero il massimo sostegno, magari promuovendo una qualche forma di collegamento tra quelle che rivelano una maggiore omogeneità.




NOTE
* Il testo è parte della relazione tenuta alla prima assemblea della Società italiana degli storici medievisti, svoltasi a Roma il 23-24 marzo 2007.^
1 F. Benigno, Gli affanni della memoria. Un momento di riflessione nella storiografia italiana?, in «Storica», 2005, n. 3 pp. 95-117.^
2 G. Ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 39 sgg.^
3 G. Miccoli, Prefazione a G.G. Merlo, Nel nome di San Francesco, Padova, 2003, pp. XV-XVI.^
4 G. Chittolini, Un paese lontano, in «Società e storia», 2003, nn. 100-101, pp. 331-354, p. 352.^
5Al «difficile» del titolo del citato libro di Ricuperati mi è sembrato ovvio aggiungere il «bellissimo» usato da G. Miccoli, Una storiografia inattuale?, in Una storiografia inattuale? Giovanni Miccoli e la funzione civile della ricerca storica, a cura di G. Battelli e D. Menozzi, Roma, Viella, 2005, p. 16.^
6N. Zemon Davis, La passione della storia. Un dialogo con Denis Crouzet, a cura di A. Arru e S. Boesch Gajano, Roma, Viella, 2007, p. 121.^
7G. Galasso, Identità e appartenenza, in ^
8G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Bari, Laterza, 1978, pp. 23 ss.; G. Vitolo, Napoli mediatrice di culture, in L. Di Mauro, G. Vitolo, Storia illustrata di Napoli, Pisa, Pacini 2006, pp. 12 ss.^
9I. Russo, Un’esperienza di multiculturalismo ante litteram. Il caso dell’identità campana, in Competitività territoriale. La Campania, a cura di E. Giustino, Napoli, Alfredo Guida, 2006, pp. 81-113, qui p. 103.^
10Le ‘nationes’ universitarie medioevali di Padova: comunità forestiere o realtà sovranazionali?, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, a cura di G. Petti Balbi, Napoli, GISEM-Liguori2001, pp. 41-65, qui p. 65. Sulla nationes in generale e non solo su quelle universitarie si veda anche il volume della stessa Petti Balbi, Negoziare fuori patria. Nazioni e Genovesi in età medievale, Bologna, Clueb,2005.^
11I. Russo, Un’esperienza di multiculturalismo ante litteram…, cit., p. 102. ^
12G. Ricuperati, Apologia…, cit., p. 206.^
13Ivi, p. 204.^
14 U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Roma, Carocci, 2005, p. 225.^
15 F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 57.^
16Ivi, p. 104.^
17 A. Bortolotti, M. Calidoni, S. Mascheroni, I. Mattozzi, Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, a cura di «Clio ’92», Milano, 2008.^
18 Tra gli autori E. Besozzi dell’Università Cattolica di Milano e S. Mascheroni, esperta in pedagogia del patrimonio culturale e didattica museale, che hanno tenuto relazioni anche al convegno di «Clio ’92».^
19 G. Pollini, Appartenenza e identità. Analisi sociologica dei modelli di appartenenza sociale, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 282 ss.^
20 M. Della Misericordia, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano, 2006.^
21 F. Remotti, Contro l’identità…, cit., p. 66.^
22 G. Vitolo, La piazza del Mercato e l’ospedale di S. Eligio, in G. Vitolo – R. Di Meglio, Napoli angioino-aragonese. Confraternite, ospedali, dinamiche politico-sociali, Salerno, Carlone, 2003, pp. 39 sgg.^
23 G. Pollini, Appartenenza e identità…, cit., p. 284.^
24 Esemplare a tal riguardo il volume di F. Scarpelli, La memoria del territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, Pisa, Pacini 2007 (Percorsi di antropologia e cultura popolare, 1).^
25 F. Bocchi, Nuove tecnologie per la rappresentazione della città storica, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV, a cura di B. Saitta, Roma, Viella, 2006, pp. 51-65.^
26 Lo stesso Marazzi ha curato nel 2006 tre volumetti, editi dalla Soprintendenza Archeologica del Molise, che consentono ad un più largo pubblico di conoscere il risultato del lavoro svolto fino ad allora: La Terra di San Vincenzo. Archeologia e storia della valle del Volturno nel Medioevo; San Vincenzo al Volturno. Guida agli scavi; San Vincenzo al Volturno. La vita quotidiana di un monastero altomedievale vista attraverso i suoi reperti.^
27 G. Cracco, L’Istituto storico italo-germanico in Trento: un progetto per l’Europa, in Italia e germania 1945-2000. La costruzione dell’Europa, a cura di G. E. Rusconi e H. Woller, Bologna, il Mulino, 2005, pp. V-XIII. Di Bagnasco viene richiamata nel testo la prolusione da lui tenuta per l’inaugurazione dell’a.a. 2004-2005 dell’Università di Torino, dal titolo Isole nella corrente: regioni e città nei processi di globalizzazione, che ho potuto leggere prima della pubblicazione per la cortesia dell’Autore.^
28 Il gruppo ha fatto un bilancio della prima fase del lavoro in un convegno svoltosi ad Alessandria nei giorni 26-27 novembre 2004: Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi, a cura di R. Bordone, P. Guglielmotti, S. Lombardini, A. Torre, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007.^
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