Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno X - n. 2 > Documenti > Pag. 195
 
 
Crisi, morte presunta e resurrezione dello Stato-nazione
di Aurelio Musi
2008-2009: un biennio di lacrime e sangue, di stagflation, recessione e crisi generale nella globalizzazione. Le risposte delle istituzioni economiche e finanziarie sovrastatuali, sovranazionali sono apparse e appaiono incapaci a fronteggiare il disordine mondiale, insufficienti, per non dire balbettanti. Il Fronte Monetario Internazionale è peraltro fortemente squilibrato nei rapporti di potere interni: più che un’istituzione globale, esso si è presentato e si presenta ancora come profondamente egemonizzato dagli Stati Uniti d’America. La Banca Centrale Europea, in una condizione di incertezza e di difficile costruzione di un’Unione Europea che si avvia a tenere insieme ben trenta soggetti differenti, non è in grado di esprimere una linea convincente.
Ritornano così miracolosamente in vita quegli Stati-nazione che molti avevano dato per dispersi, in profonda crisi o, addirittura, per morti. E si riscoprono, si rivalutano l’intervento e il controllo più massicci dello Stato non solo nelle attività economiche ma anche nell’area del libero mercato finanziario che aveva sempre rivendicato la sua gelosa autonomia e che, a briglia sciolte, ci ha condotto verso un’economia drogata e di carta. La “vecchia” Europa, fatta dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, cioè a dire dai più antichi Stati-nazione, batte più di un colpo e dimostra di esserci: quella “vecchia” Europa a cui, negli anni di Bush junior, hanno guardato con sufficienza, per non dire con disprezzo, i neocon e il brain trust del presidente americano, salvando, ovviamente, solo l’Inghilterra per lo strategico rapporto di alleanza militare, tutti protesi a giustificare e a legittimare la guerra preventiva. E la “vecchia” Europa esprime, nei contesti internazionali, l’esigenza di tornare al primato della mediazione politica.
Il terzo millennio si era aperto con la gravissima crisi dell’11 settembre 2001. Lo sterminio mondiale, grazie al nesso stringente tra globalizzazione e terrorismo, rientrava, come scrisse allora Michel Vovelle, “nel regno del possibile”1. Non esistevano più bolle protette. Dalle vecchie forme della lotta di classe, tutto sommato incanalate entro argini controllabili, si passava alle nuove e più minacciose forme del conflitto verticale e globale tra ricchi e poveri. Anche le forme tradizionali della rappresentanza politica internazionale parevano entrare in crisi. “Guerra santa” e “nuova avanguardia delle masse” alla Bin Laden potevano legittimare e dare ragione a chi, già qualche anno prima, aveva identificato lo “scontro di civiltà” come il principale e il più diffuso canone del conflitto internazionale. Salvo poi, tuttavia, a postulare l’esistenza di “Stati canaglia”, cioè forme note di organizzazione politica, come serbatoi e rappresentanti del terrorismo internazionale.
Comunque, dopo l’11 settembre, dappertutto le élites intellettuali e politiche responsabili avanzarono l’esigenza di fare chiarezza, anche e soprattutto storica, su due concetti come Stato-nazione e Impero: premessa necessaria per cogliere sia il problematico ruolo del primo concetto, quello di Stato-nazione, nella congiuntura di allora, sia la smisurata dilatazione di senso che stava toccando in sorte al secondo concetto, quello di Impero, dopo la crisi del comunismo, la conseguente fine dei blocchi nel 1989 e, soprattutto, dopo l’11 settembre 2001. In effetti guerra e pace furono allora, in larghissima misura, affidati alla politica imperiale degli Stati Uniti d’America: le altre forme di integrazione sovrastatale e sovranazionale – Unione Europea, Nato, Onu, ecc. – versavano in una gravissima crisi di identità da cui stentavano – e forse stentano ancora – a riprendersi. La riflessione storica voleva dunque invitare a tornare al primato della politica come unico terreno possibile sia per un proficuo confronto e una produttiva collaborazione tra America ed Europa in una fase di laceranti incomprensioni, sia per rispondere efficacemente al terrorismo internazionale, sia per dare un senso non unilaterale agli stessi valori del pacifismo.
Tra le tante testimonianze di questo clima voglio ricordarne solo una: il dibattito e la riflessione promossi in Italia dalla rivista Micromega2. In discussione furono due alternative. La prima tendeva a considerare lo Stato-nazione “stato barbarico”, come, secondo Antonio Negri, si era rivelato lo Stato-nazione da Verdun ad Auschwitz. Il processo di globalizzazione aveva comportato poi la fine della rappresentanza. Scriveva Negri: «Il ritiro dalla politica della rappresentanza è ormai completamente compiuto. E d’altra parte che significato ha più una rappresentanza a livello globale? Che vuole più dire: un uomo un voto? Provate ad applicarlo a livello della globalizzazione: non significa più niente»3. Contro tutte le istituzioni rappresentative – sono ancora parole di Negri, – «una nuova sinistra sarebbe potuta nascere solo dal movimento di Seattle, da un movimento che considera l’azione politica come una costruzione di vita oltre la rappresentanza»4.
La seconda alternativa fu espressa da Salvatore Veca e Roberto Esposito. Era un invito a ripensare le istituzioni e la politica come mediazione. Scriveva Esposito:
Il mezzo, la risorsa, il linguaggio per uscire dal vicolo cieco sta nella politica. In ogni tipo di politica. Quella, certo residua, ma non scomparsa, degli Stati; ed è evidente – aggiungeva Esposito – che un successo durevole nella costituzione di uno Stato palestinese vale più della cattura di dieci Bin Laden. Quella degli organismi internazionali. Ma, più in generale, quella costituita da ogni azione collettiva capace di creare spazio, forme, mediazioni in un mondo sempre più affidato alla nuda mediazione dei contrasti5.

E Veca aggiungeva:
La questione è se si debba rinunciare del tutto a ragionare sulle istituzioni, e dunque saltare sulla carretta o fare i libertini, a seconda dei gusti, oppure no. Io non credo. – continuava Veca – benché le istituzioni siano sciupate, sono convinto che continui ad avere senso il tentativo di ripensarle, di saggiarne la possibilità di riforma, e dare ragioni per rimodellarle6.

Così, anche in un clima di profonda sfiducia verso la salute delle istituzioni statuali – per Esposito quasi un reperto storico residuale, per Veca un organismo ormai sciupato – l’esigenza di non distruggerle costituiva il leit motiv dei soggetti più responsabili del dibattito. Anzi Esposito vedeva nella creazione di uno Stato palestinese – ma non aveva detto che lo Stato era “residuale”? – un valore di gran lunga superiore a quello della cattura di “dieci Bin Laden”.
Su un altro versante, ci si poneva la domanda: era possibile una connotazione positiva di impero? cioè, era possibile liberare gli imperi come forme di organizzazione politica da tutti quegli elementi negativi che li avevano storicamente caratterizzati? A queste domande cercava di rispondere Massimo Cacciari in un saggio apparso ancora su Micromega. Scriveva Cacciari: «Deve tramontare l’Europa degli Stati separati, quella che ha saputo metaforizzare Roma unicamente in senso assolutistico o autocratico o imperialistico: solo così sarà possibile pensare ad un’Europa soggetto di una nuova e diversa globalizzazione»7. E allora «l’impero dovrebbe configurarsi come una sorta di governance mondiale proprio perché esso rifiuta ogni rappresentanza politica tradizionale e, dunque, ogni determinazione di luoghi autonomi del Politico e il suo dominio è quello informale della capillare subordinazione delle parti al tutto, della perfetta in-formazione delle parti da parte del linguaggio unico del mondo»8. Anche in questo caso il ricorso all’impero come governance mondiale era considerato una via d’uscita quasi obbligata per la crisi e lo svuotamento della “rappresentanza politica tradizionale”. Dalla prima articolazione del ragionamento, l’impero come governance mondiale, Cacciari passava alla seconda: «In che senso possiamo oggi parlare della forma-impero? È chiaro quale presente stia inesorabilmente tramontando, quello degli organismi statuali tradizionali separati, dei nazionalismi imperialistici, del diritto internazionale come prodotto delle sovranità statuali territorialmente determinate. Ma in nessun modo questo processo ha l’impero come suo destino»9. Per Cacciari si doveva reagire in termini adeguati all’unica forma di globalizzazione realizzata, il terrorismo che agiva localmente ma pensava globalmente. Cacciari proponeva allora un nuovo ordine federativo:
una globalizzazione costruita per grandi spazi e autentiche polarità culturali. Io credo – egli scriveva – che il nuovo ordine della terra o saprà essere autenticamente federativo o diventerà inevitabile quell’apocalittico scenario che alcuni dei più grandi realisti politici del Novecento avevano disegnato decenni fa: una sola grande potenza, un solo impero e immerso in miriadi di conflitti locali, naturale humus di disperato e globale terrorismo10.

Il ragionamento di Cacciari si prestava a numerosi rilievi critici. Tre domande, in particolare, rimanevano senza risposta: quali erano esattamente la natura e l’identità di quel patto federativo vagheggiato da Cacciari? chi sarebbero dovuti essere i soggetti del foedus? e infine, erano proprio così ineluttabili il tramonto della rappresentanza cosiddetta tradizionale e la fine dello Stato-nazione?
La guerra in Irak, scoppiata nel 2003, non andava certo nella direzione vagheggiata da Cacciari. Anzi era, per molti, la conferma dell’unilateralismo imperiale. Se lo Stato moderno era soprattutto il monopolio nell’uso della forza legittima, gli Stati Uniti avevano operato uno slittamento di termini: dal monopolio della forza legittima erano passati al monopolio legittimo della forza. Significava che il conflitto diventava la norma nel mondo globalizzato; il conflitto militare andava a riempire un vuoto di legittimità. Geminello Preterossi rifletteva su questo nel volume L’Occidente contro se stesso. A proposito della guerra preventiva in Irak, egli scriveva: «In nome dell’Occidente si è avviato un meccanismo di grave delegittimazione dei suoi principi e, innanzitutto, dell’idea moderna di diritto»11. Lo «stato di eccezione globale» traduceva l’uso politico del concetto di civiltà e di «stato di emergenza della civiltà»12. La guerra preventiva veniva identificata con la guerra giusta, dove «la forza ha sempre ragione, anzi crea la ragione»13. E, significativamente, così concludeva Preterossi: «La democrazia non si inventa, perché ha molti presupposti, né tanto meno si esporta, perché significa metterla in contraddizione con se stessa, ed esporla a tragici fallimenti»14.
Dal 2003 ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti, per così dire. Lo stesso Bush ha dovuto riconoscere gli errori commessi in Irak. Il gruppo neocon, che aveva preparato culturalmente e legittimato la logica della “guerra preventiva”, è stato spazzato via. Solo uno Stato-nazione prima e più che impero, costruito sulle solide fondamenta di una rivoluzione costituzionale, poteva approdare al radicale cambiamento rappresentato dall’elezione di Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
Oggi, più che mai, si impone dunque una nuova riflessione sullo Stato-nazione. Propongo di articolarla in quattro passaggi:
1.L’esigenza di una precisa definizione.
2.Processi di decolonizzazione e Stato-nazione dal secondo dopoguerra al 1989.
3.Mondializzazione e globalizzazione: fine dello Stato-nazione?
4.La resurrezione e la rivincita degli Stati-nazione oggi.

1.    La definizione
La definizione è composta da tre nuclei concettuali, che, ad un primo livello di approssimazione, è bene tenere distinti, anche se poi si impone una loro connessione finale: dunque Stato, Nazione, Stato-nazione. Nei problemi di definizione entrano sia il livello della storia sia il livello della struttura. Stato per me è Stato moderno: la sovranità unica e indivisa, la progressiva espansione delle funzioni pubbliche, il protagonismo della nuova forma di organizzazione politica nelle relazioni internazionali15. Questa forma ha la sua genesi in Europa nel periodo compreso tra il XIV e il XV secolo, vive una fase di sviluppo tra il XVI e il XVII secolo, un passaggio ulteriore verso l’affermazione della sovranità, quindi della concentrazione del potere – “il plenilunio delle monarchie” (Maiolino Bisaccioni) – nella seconda metà del Seicento, il primato nelle relazioni internazionali durante il XVIII secolo. Nell’Ottocento riemergono gli imperi: é una nuova “ora favorevole” (Braudel), dopo il Cinquecento, alle grandi formazioni politiche. Tutto il XIX secolo vivrà una dialettica tra Stati e Imperi. Quello dello Stato è il paradigma evolutivo della modernità, secondo quelle argomentazioni e scansioni egregiamente illustrate da Giuseppe Galasso nel recentissimo volume Prima lezione di Storia moderna16.
La nazione è il secondo nucleo della definizione. Bisogna prestare attenzione al fatto che è esistita una nazione prima della nazione romantica. Federico Chabod, nel suo splendido studio storico-lessicale17, l’ha vista operante nel trinomio patria, nazione, Stato moderno della letteratura politica tra il Quattro e il Cinquecento. È una storia che ha avuto come protagoniste alcune realtà politico-istituzionali italiane: esse hanno offerto un contributo importante allo sviluppo del termine nazione18. Alla sua origine, una dimensione corporativa, privilegiata, chiusa: la natio delle comunità straniere operanti nelle città, degli studenti universitari, ecc. Poi l’evoluzione settecentesca: il “corpo della nazione”, la nazione dei ceti rappresentati. Quindi l’età napoleonica, che traduce nello specifico politico-istituzionale dei diversi paesi investiti dal ciclo rivoluzionario francese, il nuovo senso: il trinomio patria-nazione-libertà come unità, coscienza, autodeterminazione. È una nuova costellazione concettuale, con nuovi riferimenti simbolico-normativi. È stato giustamente scritto da Campi che
la parabola ottocentesca del concetto di nazione, nei suoi differenti significati, merita probabilmente di essere compresa su uno sfondo concretamente storico-politico, di essere valutata nelle sue implicazioni politico-istituzionali e nei suoi rapporti con la sfera dello Stato e della lotta politica, piuttosto che analizzata, secondo interpretazioni oggi molto diffuse, alla stregua di un modulo retorico-narrativo o di un costrutto ideologico imposto dall’alto per fini e obiettivi diversi da quelli che i fautori della nazione hanno sempre proclamato19.

E allora Stato-nazione risulta un’endiadi che mette insieme, in un unico nesso, due processi storici.
Ma a me piace riferirmi anche ad un’idea di Stato-nazione non collegata direttamente e immediatamente al suo processo storico di affermazione. Mi riferisco al concetto politologico: un processo cioè ben equilibrato di State-building e di Nation-building20. Da questo punto di vista Stati-nazione in senso proprio sono molto pochi: sono solo quelli in cui si è creato un ben riuscito accordo sui fondamenti del vivere in comunità. Lo Stato-nazione è esattamente questo: un processo che, ovviamente, è ricostruibile dal punto di vista storico, ma non è collocabile in un punto preciso della storia. Vi sono allora comunità politiche che sono riuscite a fondare il vivere in comunità su presupposti e accordi più precoci e più efficaci rispetto ad altre comunità. Da questo punto di vista gli Stati-nazione pienamente realizzati sono davvero assai pochi: la “vecchia” Europa e il “nuovo mondo” degli Stati Uniti d’America.

2. Decolonizzazione e Stati-nazione
I processi di decolonizzazione dopo la seconda guerra mondiale hanno introdotto significativi elementi di novità in un quadro storico che, pur tra non pochi cambiamenti, ha visto la conservazione fondamentale dei suoi caratteri di base. I processi di decolonizzazione hanno creato la spinta verso la creazione di nuovi Stati-nazione. Nati e sviluppati dopo lo sgretolamento dei vecchi imperi coloniali europei, essi hanno presentato connotati particolari. Certo molto della “vecchia” Europa è passato in questi nuovi modelli di Stato-nazione. Le condizioni in cui si sono sviluppati sono vertiginose per i tempi di attuazione21. I nuovi Stati-nazione hanno riproposto alcuni elementi tipici della genesi e dell’affermazione degli Stati-nazione classici, per così dire, ma essi si sono sviluppati in una condizione di accentuato bipolarismo e dissociazione fra Stato e Nazione. In alcuni casi c’è stata un’accelerazione della costruzione politica rispetto alla costruzione nazionale e viceversa: scompensi che i nuovi soggetti politici e l’ordine mondiale hanno pagato, pagano oggi e pagheranno ancora nel futuro. Tutto questo, però, ci dice una cosa assai importante. Ci dice della straordinaria capacità dell’Europa che, mentre muore come insieme di grandi potenze, è capace di esportare valori e modelli fuori dell’Europa stessa. In particolare l’Europa ha dimostrato la straordinaria capacità di esportare un elemento decisivo, nato nel cuore della sua civiltà: l’elemento dell’autodeterminazione. La mia generazione, quella del Vietnam, ha vissuto drammaticamente la difficoltà di conciliare il valore dell’autodeterminazione con il principio della divisione bipolare del mondo. Ricordo la mia partecipazione nel 1967 al congresso nazionale della Federazione Giovanile Repubblicana a Perugia. Insieme con altri amici della federazione di Salerno ascoltavo l’intervento conclusivo del segretario del PRI, Ugo La Malfa. Ad un certo punto lo interrompemmo e gli gridammo: “Ho-Chi-Minh! Ho-Chi-Minh”. La contestazione era diretta al leader politico che ci stava spiegando come la conservazione dell’equilibrio mondiale fosse un valore superiore anche a quello dell’autodeterminazione dei popoli: un valore, questo dell’autodeterminazione dei popoli, sacrosanto certamente, ma fortemente condizionato, perciò manipolato, in quella congiuntura internazionale, dal polo comunista e, complessivamente, dall’assetto bipolare del mondo. Esso entrava in rotta di collisione con la conservazione dell’equilibrio mondiale che, se il Vietnam fosse caduto per intero nelle mani comuniste, si sarebbe irrimediabilmente incrinato e avrebbe compromesso le stesse sorti della civiltà occidentale. Per La Malfa, dunque, l’equilibrio politico internazionale valeva bene il prezzo dell’autodeterminazione del popolo vietnamita. È inutile dire che noi giovani non potevamo capire: e infatti non capimmo. Da allora cominciò la diaspora da un partito laico e democratico come il PRI, che pure svolgeva un ruolo modernizzante di primo piano in una città di provincia bigotta, reazionaria, clerico-fascista come Salerno. E così una parte di quei giovani contestatori si rivolse ai partiti di sinistra, un’altra parte addirittura alla sinistra extraparlamentare.

3. Mondializzazione e globalizzazione: fine dello Stato-nazione?
Vorrei prendere le mosse, per svolgere questa terza articolazione del ragionamento, da una vecchia conferenza di Serge Latouche che risale al 28 agosto 199622. Com’è noto, Latouche è uno dei maggiori e più severi critici della globalizzazione. In quella conferenza egli individuava nel processo di mondializzazione – allora si usava questo termine – la fine della politica come fine dello Stato-nazione. La prima questione, affrontata da Latouche è l’affermazione del villaggio-mondo in connessione con la fine dello spazio nazionale. Diceva Latouche:
La scomparsa delle distanze crea la fine dello spazio nazionale e il riemergere di questo caos interiore che distrugge le basi dello Stato-nazione e genera fenomeni di decomposizione. L’assorbimento del politico da parte dell’economia fa riapparire lo Stato di guerra di tutti contro tutti. La competizione, legge dell’economia, diventa la legge della politica. C’è un ripiegamento che fa sorgere un nuovo feudalesimo e fa scoppiare nuove guerre e conflitti. Il feudale e il privato vanno di pari passo e ci sono volute la Monarchia, gli Stati nazionali e la rivoluzione perché si superasse questo conflitto privato. E tuttavia si vede questo suo risorgere in Libano, Jugoslavia, Cecenia.

Questo primo passaggio mi sembra molto importante: quindi villaggio-mondo e fine dello Stato-nazione; primato dell’economia e fine della sovranità dei cittadini. Secondo aspetto, già alluso in precedenza, ma che nel luogo seguente viene meglio esplicitato:
Si vede così – dice Latouche – come le leggi dell’economia privino i cittadini della loro sovranità ed appaiano sempre di più come una costrizione che si può amministrare, ma in nessun modo eliminare. I cittadini perdono così la padronanza del loro destino. Con l’espressione fine del politico si intende la fine di questa categoria come istanza autonoma rispetto all’economia. Ancora una volta ricchezza e potenza tendono a fondersi. Come dichiara il dirigente di una multinazionale, noi non vogliamo dominare il mondo, vogliamo semplicemente possederlo.

Per Latouche, fine del politico significa anche crollo del sociale. E siamo al terzo passaggio: «Vista dal basso – è ancora Latouche – fine del politico si traduce nel crollo del sociale, nel termine della società stessa». Di qui una doppia via di fuga: nel fondamentalismo o nel ripiegamento interiore. Per evitarle entrambe, bisogna costruire, ancora secondo le parole di Latouche, un «contropotere mondiale».
Tutto il ragionamento di Latouche si ritrova, negli stessi termini o con articolazioni appena mutate, nella temperie politico-culturale dell’estrema sinistra della seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso. Qui sono le radici dei movimenti no-global, pur con sfumature, differenziazioni e interpretazioni diverse interne ai movimenti. In tale orizzonte culturale non compare ancora il fondamentalismo: in quegli anni faceva paura ma non emergeva ancora all’ordine del giorno come terrorismo internazionale. Dopo l’11 settembre 2001 globalizzazione e terrorismo si fondono: guerra “contro un nemico invisibile” e “scontro di civiltà” fanno completamente scomparire dall’orizzonte politico la categoria e la forza dello Stato-nazione. Semmai, in connessione con la logica del bene contro il male, dello scontro di civiltà, lo Stato, svuotato di qualsiasi altra funzione, si presenta come nuda potenza e come missione. Dunque il nuovo trinomio imperante è: Stato-potenza-missione. Il nemico numero uno sono gli Stati-canaglia: il nemico invisibile che si fa visibile nell’involucro conosciuto della vecchia forma politica. La ricchezza storico-semantica del termine Stato si disperde completamente. È la rappresentazione nello specifico linguistico dello spirito del tempo.

4. La resurrezione e la rivincita degli Stati-nazione
La storia degli ultimi anni ha dunque oscillato continuamente fra crisi, morte presunta e resurrezione degli Stati-nazione. Ma il pendolo delle oscillazioni si sta fermando su una loro indubitabile rivalutazione. Del resto, non solo nelle relazioni diplomatiche internazionali, ma anche negli stessi atti di guerra la logica dello Stato-nazione ha pesato e pesa. Persino Bush ha utilizzato, prima di entrare nella guerra contro l’Iraq, uno strumento tipico delle relazioni fra gli Stati: l’ultimatum. L’ultimatum non è il riferimento ad una volontà esclusiva di sopraffazione. Esso è piuttosto il riferimento estremo al principio di legittimità. Nel mondo attuale pace e guerra, dunque, sono due prospettive che implicano gli Stati-nazione. Essi continuano a costituire elementi essenziali e forse unici per il rilancio pacifico delle relazioni internazionali. Al tempo stesso, e in una più drammatica condizione, la storia del passato recente e attuale dimostra che la guerra è dialetticamente necessaria e forse ineliminabile per consentire la costruzione e lo sviluppo degli Stati-nazione, cioè per realizzare autodeterminazione e accordo sui fondamenti del vivere in comunità. Certo molto spesso oggi la guerra etnica scoppia laddove assai complessi e pressoché inesistenti sono stati i processi di costruzione nazionale. Essi sono stati affrettati anche con le complicità dell’Occidente, che spesso ha favorito la nascita di Stati-nazione fantasma per motivi strumentali. Basti pensare a tutto quel che è seguito alla disintegrazione del sistema imperiale sovietico o alla disgregazione della Jugoslavia. L’Occidente si trascina responsabilità pesanti nell’aver favorito la creazione degli Stati-nazione fantasma. Le guerre etniche sono anche dentro questo processo.
La guerra ha svolto sempre una funzione importantissima, soprattutto dal secolo XVI in poi, nella storia mondiale. Molti storici delle relazioni internazionali ritengono che le guerre e non i trattati di pace siano il momento costituente delle relazioni internazionali23. Certo la novità del mondo attuale è costituita dal fatto che la guerra sta diventando o rischia di diventare la norma assoluta. Il valore costituente della guerra è cosa ben diversa dal suo valore normativo. Valore costituente significa che la guerra è un motore di accelerazione nei processi costitutivi della storia. Valore normativo significa ben altro: significa che senza guerra non c’è storia. Abbiamo tutti vissuto drammaticamente la guerra in Iraq proprio perché a molti è apparsa come il tentativo di riempire il vuoto di legittimità.
La visione del conflitto internazionale come scontro di civiltà appare sempre più in crisi. L’Islam non è solo civiltà. È un insieme complesso di Stati-nazione. Nello stesso equilibrio mediorientale il loro ruolo e il loro peso saranno decisivi nei prossimi anni. Non solo l’Iran, che sta cercando di conquistare uno spazio geopolitico rilevantissimo nella sua sfera di influenza, ma anche Egitto, Siria, l’Iraq stesso sono entrati in un nuovo sistema di competizione internazionale, impensabile fino a qualche anno fa. Impensabile anche agli occhi degli strateghi della seconda guerra del Golfo. In uno dei primi documenti riservati veniva così esplicitata la mission degli Stati Uniti: «nel 1991 andammo in Iraq per ristabilire lo statu quo, nel 2003 andiamo per creare un nuovo ordine politico». Dunque non era il petrolio la priorità, come pure in molti crederono. Oggi comprendiamo come il nuovo ordine politico in quell’area non sarà creato solo dagli Stati Uniti, ma da un complesso sistema di relazioni fra i più forti Stati-nazione che agiscono in Medio Oriente. E lo stesso conflitto israelo-palestinese è, in definitiva, un conflitto tra Stati-nazione.
L’ultimo esempio riguarda la formazione delle nuove gerarchie mondiali. La potenza economica e politica di Cina e India, destinate a diventare il secondo e il terzo polo protagonisti della scena storica internazionale, non è forse la prova che a raggiungere un tale strabiliante risultato siano stati i due paesi che, pur tra mille difficoltà e per vie completamente differenti, hanno affrontato il processo di decolonizzazione rafforzando la loro compagine statuale e nazionale?
L’Unione europea può forse aspirare ancora a diventare il quarto polo del nuovo ordine mondiale. Ma, certamente, non per il numero esorbitante e squilibrato delle sue componenti. Quanto piuttosto per la forza decisiva che ancora avranno, all’interno dell’Unione, i quattro più antichi Stati-nazione: Inghilterra, Germania, Francia e Spagna.
La resurrezione degli Stati-nazione non potrà certo significare la chiusura protezionistica, l’esaltazione degli egoismi e del “si salvi chi può”, delle conflittualità, della miope difesa dei gretti interessi locali: anche perché così non si salverà nessuno. Ma sicuramente le modalità e i tempi di uscita dalla tremenda crisi economica attuale, che richiederanno il massimo della concertazione e della collaborazione, non potranno fare a meno, soprattutto nella “vecchia” Europa, dello sviluppo di una meno incerta e più solida identità nazionale civile e politica.



NOTE
1 Cfr. A. Musi, Globalizzazione, terrorismo, pacifismo, in «Scienze Politiche», 2001, pp. 7-14.^
2Cfr. «Micromega. Almanacco di filosofia», 5 (2001).^
3 R. Esposito, T. Negri, S. Veca, Dialogo su Impero e Democrazia, in «Micromega. Almanacco di filosofia», 5 (2001), pp 117 e 125.^
4Ivi, p. 129.^
5Ivi, p. 127.^
6Ivi, p. 130.^
7 M. Cacciari, Digressioni su Impero e tre Rome, in «Micromega. Almanacco di Filosofia», 5 (2001), p. 57.^
8Ivi, p. 44.^
9 Ivi, p. 55.^
10Ivi, p. 60.^
11 G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. X.^
12Ivi, p. 37.^
13Ivi, p. 67.^
14Ivi, p. 123.^
15 La letteratura sul tema è sterminata, ma si vedano per molte articolazioni del ragionamento qui proposto A. Musi, L’Europa moderna fra Imperi e Stati, Milano, Guerini e Associati 2006; L. Barletta-G.Galasso (a cura di), Lo Stato moderno di ancien Régime, Atti del convegno di studi di San Marino 6-8 dicembre 2004, Scuola Superiore di Studi Storici,San Marino, Aiep Editore, 2007.^
16 G. Galasso, Prima lezione di Storia Moderna, Roma-Bari, Laterza, 2008.^
17 F. Chabod, Alcune questioni di terminologia: Stato, nazione e patria nel linguaggio del Cinquecento, in L’idea di nazione, Bari, Laterza, 1961, pp. 141-186.^
18 Cfr. A. Musi, Le “nazioni” prima della nazione, in «Scienza e Politica», 1999, n. 20, pp. 49-66.^
19A. Campi, Nazione, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 129-130.^
20 A. Musi, L’Europa moderna, cit.^
21 Cfr. G. Galasso, Nazione, in Enciclopedia del Novecento Treccani, vol. XI, supplemento II, Roma, 1988, pp. 309 ss.^
22 Non ho ritrovato il testo di questa conferenza da me ascoltata e che cito qui dai miei appunti. Per le più recenti posizioni di S. Latouche si vedano soprattutto: La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo, Milano 2003; Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia globalizzata, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005; La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007; Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.^
23 Cfr., per esempio, L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, Le relazioni internazionali. Cinque secoli di storia: 1521-1989, Milano, Bruno Mondadori, 1997.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft