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Se l’Italia si frantuma, dove va il Mezzogiorno? Riflessioni nella prospettiva della political economy.
di Domenico Maddaloni
In un suo recente lavoro Luciano Gallino ha impiegato la metafora dell’Italia in frantumi1 per evidenziare le conseguenze della globalizzazione economica, dell'innovazione tecnologica ed organizzativa, della deregolazione di mercato e rapporti di lavoro, della ristrutturazione di garanzie e tutele sociali, del decentramento delle competenze istituzionali, del cambiamento nel sistema politico, sul tessuto sociale del Paese. Un Paese, il nostro, che già vent’anni prima, allorché lo studioso piemontese ne esaminava la transizione “dal premoderno al neoindustriale”, gli era apparso segnato dall’ingovernabilità2 a causa della persistenza, in esso, di una pluralità di formazioni economico sociali che non andavano svanendo per effetto della modernizzazione e della crescita, ma che piuttosto tendevano a sovrapporsi e ad intrecciarsi in forme sempre più articolate e complesse. Dunque, ciò che ancora alla fine degli anni ’80 appariva “ingovernabile”, ma pur sempre parte di un medesimo contesto sistemico, dotato di quei connotati minimi di interdipendenza e di integrazione (di solidarietà, per dirla con Durkheim) che rendono un insieme di gruppi umani una società, sembra essere divenuto al volgere del secolo – se le parole hanno un senso condiviso – una realtà intimamente slegata, sul punto di subire la rottura di quei rapporti che, per quanto deboli, sotto almeno alcuni profili la rendono ancora identificabile come un’entità unitaria.
Un contesto sociale, insomma, nel quale, assai più che altrove tra i Paesi sviluppati, le spinte centrifughe rischiano di prevalere su quelle centripete. Ed è opportuno osservare che il riferimento alla secessione, di continuo minacciata dalla Lega Nord, è d’obbligo, ma è soltanto una parte del problema3. La questione della crescita delle diseguaglianze tra i segmenti della società italiana è infatti oggi al centro dell’attenzione, sia degli studiosi che si occupano di questa problematica, sia dell’opinione pubblica.



1. I sentieri del cambiamento4

Non c’è dubbio tuttavia che anche oggi, tra le dimensioni dell’ineguaglianza, quelle che si riferiscono alla diversità di percorsi e di condizioni dei contesti locali appaiano di straordinario rilievo per il nostro Paese: in primo luogo quella che nasce dall’opposizione di performance economiche, di condizioni sociali e di prospettive di sviluppo tra Centro Nord e Mezzogiorno. Un dato, quest’ultimo, di lungo periodo nella storia e nell’identità “di popolo” del nostro Paese5, ostinatamente sopravvissuto ad una stagione postbellica nella quale comunque molto è cambiato nelle regioni del Sud, in termini di livello e di qualità della vita, ed in cui la crescita economica del Mezzogiorno ha tenuto il passo, almeno fino a tempi recenti, con il ritmo impetuoso assunto da essa nei contesti del Centro e del Nord6.
In queste pagine mi propongo di affrontare la questione delle diseguaglianze territoriali senza riguardo per l’analisi di breve periodo, quale spesso è quella prodotta da agenzie come l’Istat, la Banca d’Italia o la Svimez, per cercare di riflettere sui fenomeni sottostanti agli andamenti dei principali indicatori dell’economia, dell’occupazione o delle condizioni sociali. Ciò con un riferimento temporale che risalga almeno al principio degli anni ’90, e cioè al momento in cui è apparsa evidente la difficoltà complessiva dell’economia italiana nel tenere il passo della competizione internazionale di fronte alle sfide, ed anche alle opportunità, richiamate in premessa. In particolare, considererò la questione delle diseguaglianze tra le regioni in una prospettiva di political economy, ovvero guardando alla struttura dell’occupazione non soltanto in sé, ma anche in quanto rappresentativa della struttura del potere economico in Italia, e dunque in quanto espressione di una varietà di interessi sottostanti all’elaborazione ed all’attuazione delle politiche pubbliche7.
A questo scopo ho impiegato i dati dei Censimenti dell’industria, del commercio e dei servizi al 1991 ed al 20018 per esaminare l’evoluzione dell’occupazione regolare non agricola nelle ripartizioni NUTS-1 del Paese (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole maggiori) nel corso degli anni ’90. In particolare, ho considerato l’ammontare e la distribuzione settoriale e territoriale degli addetti alle unità locali delle imprese e delle istituzioni economiche, universo senza dubbio rappresentativo della porzione più importante delle attività economiche9. In una prospettiva di political economy non ho considerato le variabili suindicate in se stesse, quali connotati distintivi del mercato del lavoro sul versante della domanda, ma anche in quanto indicatori della presenza di interessi sociali legittimi10 associati all’andamento dell’economia in generale e di uno specifico settore di attività o forma di organizzazione economica in particolare. Quindi le variabili in questione vengono considerate anche quali indicatori di influenza politica, nel senso di capacità di resistere alle decisioni politiche avverse in materia economica e sociale, o di promuoverne di favorevoli, ed eventualmente contrattare modifiche che producano una suddivisione differente dei costi e dei benefici associati a tali decisioni, a livello locale o a livello nazionale11. L’ipotesi su cui si fondano i rapporti di indicazione qui definiti è che, quanto più grandi le dimensioni del comparto economico/della ripartizione geografica, in rapporto a quelle degli altri comparti/delle altre ripartizioni – in termini di numerosità degli addetti alle imprese ed istituzioni non agricole –, tanto maggiore la sua forza relativa nella sequenza di conflitti e mediazioni politiche che conduce all’elaborazione ed all’attuazione di strategie e misure in campo economico e sociale. Filiere di attività che hanno, dietro di sé, un grande numero di attori direttamente, e legittimamente, interessati al “buon andamento” delle attività in oggetto (attori sociali la cui rilevanza politica è qui sinteticamente rappresentata dagli addetti alle unità locali delle imprese e delle istituzioni extragricole), avrebbero una maggiore probabilità di determinare o quantomeno di condizionare le decisioni politiche che più immediatamente le riguardano.
Dalla tabella 1 si ricava (punto 1.1) che nel periodo qui considerato, compreso tra i due Censimenti del 1991 e del 2001, la popolazione residente è stabile nel decennio sia nel suo ammontare assoluto (56,8 – 57,0 milioni di abitanti) che nella sua distribuzione territoriale. L’unico incremento di qualche significato (+2,5% nel periodo) è concentrato nelle regioni del Nord-Est. Invece gli addetti alle unità locali, ovvero l’occupazione regolare extragricola, ha nel decennio un incremento di 1,4 milioni di unità, passando da 18,0 a 19,4, con una crescita dell’8,0% a livello nazionale. Qui l’aumento è riscontrabile in tutte le ripartizioni, pur distribuendosi inegualmente tra i contesti territoriali (punto 1.2). Anche l’andamento dei tassi di occupazione può confermare il dato, beneficiando in termini relativi più il Nord-Est e il Centro, un po’ meno il Nord-Ovest e il Sud, e quasi per niente le Isole maggiori. E va ricordato che l’indice in questione si attesta su livelli compresi tra il 20% ed il 25% per le due ripartizioni meridionali, su livelli superiori al 35% per quelle centrosettentrionali.
Da simili dati si ricava la conclusione che nel corso degli anni ’90 l’occupazione cresce di più laddove c’è già più sviluppo (il Centro-Nord). Gli indici relativi alla distribuzione territoriale dell’occupazione regolare non agricola mostrano ciò (cfr. sempre il punto 1.2). Pur in presenza di un campo di variazione limitato, grazie – come si vedrà – all’effetto di riequilibrio causato dalla distribuzione dell’occupazione pubblica tra i contesti territoriali, la distanza tra il Centro-Nord e il Meridione aumenta ulteriormente, per quanto ancora non di molto negli anni ’90. Si prendano in considerazione le due ripartizioni collocate al vertice ed alla base della graduatoria territoriale sia nel 1991 che nel 2001, e cioè il Nord-Est e le Isole. È possibile constatare che il valore dell’indice di distribuzione territoriale degli interessi sociali legittimi rappresentati dall’occupazione regolare non agricola passa nel Nord-Est da 124,2 a 125,6, nelle Isole invece da 67,8 a 65,2.
Ma questo è soltanto un livello più generale di analisi del mutamento nelle strutture economiche delle singole ripartizioni. In una prospettiva di political economy è opportuno, come si è detto, considerare i mutamenti nei rapporti di forza tra specifiche costellazioni di interessi, che possono risultare di grande rilievo dal punto di vista dell’influenza esercitata dagli interessi in questione nell’arena politica, in vista della determinazione e dell’attuazione di strategie e misure economiche e sociali. A questo scopo ho distinto l’occupazione regolare non agricola in 7 comparti: il sistema dell’edilizia, l’industria tradizionale, l’industria moderna, l’economia postindustriale12, il sistema del welfare, il sistema politico, più un settore costituito da attività economiche non altrimenti classificate13. Il prospetto 1 riporta i settori ed i rami di attività che ricadono in ciascuno dei comparti sopra individuati.
I risultati dell’elaborazione vengono sinteticamente riportati nella tabella 2, che ricostruisce l’andamento 1991-2001 dell’occupazione regolare extragricola nelle ripartizioni geografiche per comparti economici. Guardando alle cifre assolute (punti 2.1, 2.2, 2.3), la tabella consente di evidenziare in primo luogo l’enorme crescita dell’economia postindustriale (un milione di addetti in più) e, in secondo luogo, del sistema dell’edilizia (più 0,5 milioni), seguito a distanza dal sistema del welfare (più 0,3 milioni), che compensano ampiamente la flessione dell’industria tradizionale e delle altre attività e la stagnazione riscontrata dall’industria moderna e dal sistema politico. Ma la tabella mostra anche (punto 2.4) come il dinamismo della struttura dell’occupazione nei comparti in ascesa sia imputabile assai largamente alle tre ripartizioni centrosettentrionali, che mostrano tassi di crescita uguali o superiori alla media del Paese. Un andamento opposto si riscontra a proposito delle due ripartizioni meridionali, che evidenziano una minore crescita dell’occupazione in questi settori14. All’opposto, nel corso degli anni ’90 il settore dell’industria tradizionale sembra subire un autentico crollo nelle ripartizioni centrosettentrionali, a fronte di una flessione molto più contenuta in quelle meridionali. Una redistribuzione dell’occupazione più trasversale rispetto alla variabile geografica si verifica invece per l’industria moderna, che si contrae nel Nord Ovest e nelle Isole ed aumenta invece con grande impeto nel Nord-Est. Quanto invece alla distribuzione settoriale (punto 2.5) ed a quella territoriale (punto 2.6) dell’occupazione, colpisce il rafforzarsi della specializzazione dell’economia regolare nelle ripartizioni meridionali nei comparti welfare e sistema politico. Ciò proprio mentre il Nord-Ovest si qualifica, nonostante le perdite subite in questo settore, come centro dell’industria moderna e in misura minore dell’economia postindustriale, il Nord-Est conferma la sua specializzazione nei comparti dell’industria in generale – a ragione dunque può essere ritenuto il “motore” produttivo dell’economia nazionale –, ed il Centro riesce a compensare il declino dell’industria tradizionale con una nuova dinamica del comparto postindustriale.



2. La deriva dei territori

    A questo punto è possibile delineare un quadro di sintesi. È possibile cioè interrogare i risultati conseguiti dall’esercizio per ricavarne alcune osservazioni più generali in merito al cambiamento dell’economia e dell’occupazione nel nostro Paese, ed alle conseguenze di ciò sulla configurazione degli interessi costituiti. In quale maniera è possibile rappresentare la struttura dell’occupazione nelle ripartizioni territoriali? Quali sono state le sue principali direttrici di mutamento nel corso degli anni ’90? I cambiamenti intervenuti descrivono dei modelli distinti di mutamento economico e sociale? Come ciò contribuisce a plasmare gli scenari delle riforme istituzionali e delle politiche economiche e sociali italiane?
    Per quanto riguarda il primo quesito – “in quale maniera è possibile rappresentare la struttura dell’occupazione nelle ripartizioni territoriali?” – si può affermare che i risultati dell’esercizio tendono a confermare la validità delle interpretazioni dualistiche dello sviluppo italiano. La tabella 3 rappresenta, in ordine decrescente, le graduatorie dei valori riportati al 2001 e al 1991 dagli indici di distribuzione territoriale dell’occupazione regolare non agricola per comparto di attività e per ripartizione geografica, e quindi, in linea con l’ipotesi di political economy in precedenza delineata, dell’influenza di ciascun settore sulla politica nazionale. Essendo i comparti considerati nell’esercizio 7 e le ripartizioni 5, ne risulta una graduatoria articolata in 35 posizioni relative alle attività presenti nel comparto a della ripartizione x. Al 2001 le prime 17 posizioni in classifica, ad eccezione dell’occupazione in politica nella ripartizione Isole (al 12° posto) appartengono ad attività che si svolgono nelle ripartizioni centrosettentrionali. Non soltanto, ma nel 2001 otto dei primi 11 posti si rivelano occupati da attività relative al Nord-Ovest o al Nord-Est, le eccezioni essendo i comparti politico e postindustriale del Centro. Al contrario, sia nel 1991 che nel 2001 gli ultimi 10 posti in classifica sono occupati da attività che si svolgono nel Mezzogiorno continentale e nelle Isole.
L’unica porzione della graduatoria nella quale si mescolano attività presenti al Sud, al Centro o al Nord è quella costituita dalle posizioni di rincalzo, tra il 18° e il 25° posto nella classifica relativa al 2001. In 6 casi su 8 esse si riferiscono all’occupazione nel comparto della politica o nel sistema del welfare, che appaiono pertanto i generatori di un effetto di perequazione tra le condizioni sociali e del mercato del lavoro nelle ripartizioni. Ora, come è noto, nei due comparti suindicati gran parte della domanda di lavoro regolare è espressa dalle istituzioni pubbliche, che definiscono il “circuito secondario” dell’economia15. Si può pensare tutto il male possibile delle pubbliche amministrazioni e dei servizi pubblici nel nostro Paese, ed a giusta ragione, se si guarda soprattutto all’inefficienza ed all’inefficacia del funzionamento di questi, o agli effetti di distorsione da questi indotti sulle preferenze e sui comportamenti degli attori sociali, dagli imprenditori “assistiti” alle persone in cerca di lavoro16. Ma sembra giusto anche notare che nel secondo dopoguerra la crescita dell’occupazione nel settore pubblico – e quindi in primo luogo nei comparti della politica e del welfare – ha prodotto, tanto in maniera diretta che indiretta, e pur senza alterare la struttura delle diseguaglianze, un avvicinamento tra le condizioni medie di vita e di lavoro delle regioni meridionali e insulari e quelle del Centro-Nord. Fungendo, insieme con alcune delle “altre attività” – ad esempio il commercio al dettaglio –, da “spugna” di una parte della disoccupazione dell’Italia meridionale, l’occupazione nel settore pubblico avrebbe garantito un equilibrio di lungo periodo, non soltanto al livello locale ma anche nel sistema nazionale nel suo insieme, in particolare ampliando gli spazi di inserimento e di mobilità sociale per i ceti medi17. Al tempo stesso ciò avrebbe garantito, in nome di un meridionalismo “risarcitorio”18 o “sudismo”, gli assetti economici, sociali e istituzionali locali e gli equilibri politici nazionali19. Questa situazione, a partire dagli anni ’90, viene messa in crisi dai vincoli sempre più stringenti imposti al bilancio pubblico dalla congiuntura internazionale, un fattore questo che finisce per gravare in maniera diversificata sulle ripartizioni, colpendo più duramente l’economia, l’occupazione e la società nel Mezzogiorno continentale.
Passando a considerare la seconda domanda – “quali sono state le principali direttrici di mutamento della struttura dell’occupazione nel corso degli anni ‘90?” – è possibile osservare che una risposta più generale ad essa emerge dal paragrafo precedente. Stando ai dati qui presi in esame, nel decennio aumenta l’occupazione regolare nell’economia postindustriale, nel sistema dell’edilizia e nel sistema del welfare, in questo ordine di grandezze assolute; si mantiene stabile l’occupazione regolare nell’industria moderna e nel sistema politico; si riduce l’occupazione regolare nell’industria tradizionale e nel comparto residuale di attività. Perdipiù ciò avviene nel contesto di una diffusa, e crescente, parcellizzazione della struttura dell’occupazione, con (a) l’arresto dell’espansione delle istituzioni pubbliche, (b) la drastica riduzione della presenza delle grandi imprese, in particolare per il notevole ridimensionamento del sistema delle partecipazioni statali, e (c) la scarsa volontà delle medie e piccole imprese di procedere verso un aumento di complessità strutturale20. Il quadro che ne risulta è di certo quello di una transizione avanzata alla “società dei servizi”, ma anche in questo caso “all’italiana”, che fa ancora più risaltare le battute d’arresto nel processo di sviluppo dell’apparato industriale, e dunque l’incipiente (nel periodo in questione) perdita di competitività del sistema produttivo del nostro Paese nell’economia globale21.
Ma la risposta alla domanda precedente può risultare meglio articolata se si introduce nell’analisi un’adeguata considerazione per la dimensione territoriale. In questa prospettiva, la tabella 4, rivolta ad un confronto 1991-2001 tra gli indici di distribuzione settoriale dell’occupazione regolare non agricola a livello di ripartizione, può consentire di evidenziare una notevole diversificazione dei sentieri del mutamento economico tra i singoli contesti territoriali. In particolare, il Nord Ovest sta virando dalla dominanza industriale a un’egemonia più limitata all’industria moderna ma con una presenza sempre più consistente per il postindustriale (punto 4.1), mentre il Nord-Est si rivela, con l’avanzata proprio dell’industria moderna, il nuovo motore produttivo del Paese ma con un ruolo di grande rilievo anche per il sistema dell’edilizia (punto 4.2). Il Centro appare ancora legato ai due comparti “secondari” in precedenza definiti, il sistema politico e il sistema del welfare, con una battuta d’arresto per l’economia postindustriale che pur rimane forte (punto 4.3). La ripartizione con il modello più eterogeneo è il Meridione, con l’edilizia e il sistema politico in flessione ma ancora “pesanti”, l’industria tradizionale in crescita e un ruolo di rilievo anche per il sistema del welfare (punto 4.4). Infine, cambiamenti altrettanto rilevanti si possono notare a proposito delle Isole, ma in questa circostanza un ruolo di punta è riservato ai due comparti di attività “secondari”, la politica e il welfare, mentre tra i “primari” una funzione di rilievo ma in profondo declino, nel corso degli anni ’90, spetta ancora al sistema dell’edilizia (punto 4.5). La transizione avanzata alla società dei servizi, di cui si parlava in precedenza, è dunque ben presente nella Prima Italia, che – disfacendosi di funzioni obsolete dal punto di vista del big business – sembra avere associato a sé il Nord-Est e alcune parti del Centro nel ruolo di motore produttivo, per quanto come si è visto in cerca di una nuova identità tra crisi dell’industria tradizionale, impasse dell’industria moderna e crescita squilibrata del sistema dell’edilizia. Questo modello ha qualche propaggine nel Mezzogiorno continentale, pur se limitata all’industria di trasformazione tradizionale (ed al sistema dell’edilizia). Invece la funzione di fulcro politico e amministrativo del Paese è ancora del Centro, e quindi di Roma, che sembra tuttavia essere in difficoltà nella corsa per restare al passo con i sistemi urbani del Nord in quanto sede di un potere economico non limitato al “circuito secondario” dell’economia. Con qualche parziale eccezione locale, concentrata come è noto soprattutto nelle regioni sottopopolate dell’Abruzzo, del Molise, della Basilicata e della Sardegna22, l’Italia del Sud è tagliata fuori da questo processo di riallocazione delle attività e del potere economico a queste associato, e con riferimento al big business comincia a scontare, nel periodo in questione, una perdita di autonomia23 che ne sottolinea l’esclusione dalle direttrici più importanti del mutamento strutturale.
    In conclusione, i risultati dell’analisi paiono innanzitutto sostenere l’ipotesi che a partire dagli anni ’90 si sia avviato un sostanziale riallineamento della struttura dell’occupazione lungo le linee di un nuovo dualismo, che sta concentrando il potere economico delle grandi imprese del settore privato, e l’occupazione relativa, in pochi sistemi urbani del Nord-Ovest e del Nord-Est. In secondo luogo, questo dualismo fa di gran parte, pur se non di tutte, le ripartizioni in oggetto un’estensione produttiva funzionale alla sua stabilità ed alla sua riproduzione nel nuovo contesto economico globale, con propaggini nell’Italia centrale e nel Meridione ma sostanzialmente limitate all’industria tradizionale. In terzo luogo, esso tende ad emarginare, probabilmente, svariati contesti locali anche nel Centro-Nord – l’“osso”, la Liguria, il Lazio –, colpiti sia dalla crisi di competitività che negli anni ’90 già attraversa l’industria tradizionale ed alcuni settori di quella moderna (in particolare l’automobile), sia dai vincoli al bilancio pubblico che impediscono di sostenere ulteriormente i comparti di attività e le singole iniziative ad esso legate, nell’industria pubblica, drasticamente ridimensionata, e nel sistema dell’edilizia. In quarto luogo, queste tendenze di mutamento strutturale lasciano ancora al Centro le più rilevanti funzioni di direzione politico-amministrativa concernenti gli apparati pubblici, e le consistenti quote di occupazione a ciò legate, ma la crisi di legittimità di queste funzioni ed apparati sembra aggravarsi24, il che può essere interpretato come indicatore di una crescente tensione tra la “sfera primaria” e i “circuiti secondari”. Infine, il nuovo dualismo esclude dallo sviluppo italiano parte del Sud (in particolare la “polpa” delle aree metropolitane) e le Isole, regioni lasciate a baloccarsi con ipotesi di crescita o dell’industria locale, e come si è visto con qualche successo, o dell’economia postindustriale – gli anni ’90 vedono l’ascesa della retorica dello sviluppo turistico “per il riscatto del Mezzogiorno” –, con riscontri invece assai minori.
Tutto ciò mentre si intensifica la competizione economica globale, che per di più a partire dagli anni ’90 va affrontata senza i paracadute in cui da tempo si riassumono la politica di sviluppo, economica e industriale del nostro Paese. La svalutazione competitiva è impossibile perché nel periodo in questione la valuta nazionale è ormai pienamente ancorata al Sistema Monetario Europeo, in vista della creazione della moneta unica. La crescita del debito pubblico è impossibile sia per l’obbligata adesione dell’Italia al processo di Maastricht, sia per la vigilanza esercitata dai mercati finanziari globali. E una nuova politica di sviluppo, orientata che sia in senso neokeynesiano, neolistiano, neosocialista, non viene tentata. Errori di valutazione del ceto imprenditoriale e della classe politica, e carenza di risorse appropriabili dal settore pubblico nel contesto di una crisi sempre più profonda della sua legittimità ad esistere ed operare, concorrono ad impedire un simile sbocco. In sintesi, dunque, stando ai dati nel corso degli anni ’90 il nuovo dualismo produce una deriva dei territori che, nonostante la stagione della “nuova programmazione”, non sembra trovare più nella politica opportunità di riequilibrio o di compensazione.



3. Scenari politici per il presente e per il futuro

    Con ciò giungiamo finalmente all’ultima tra le domande poste in precedenza: “come ciò contribuisce a plasmare gli scenari di economia politica delle riforme istituzionali e delle politiche economiche e sociali italiane?”. Prima di rispondere ad essa, è doveroso premettere innanzitutto che delineare potenziali scenari politici a partire dalla struttura degli interessi materiali non implica negare la rilevanza di linee di divisione o di ricomposizione delle political constituencies fondate su valori, principi, ideali. Come è noto, i fattori in questione assumono una grande importanza anche nel nostro Paese, la cui storia politica recente è apparsa profondamente segnata dalla presenza del Vaticano e dalla “questione cattolica”. Allo stesso modo, in una società che inizia a divenire multietnica senza avere mai del tutto superato i particolarismi regionali, il tema dell’identità culturale della nazione, dei suoi confini “etnici”, e persino “razziali”, può divenire – come la cronaca di questo 2008 sta ampiamente mostrando – fondamento di dinamiche politiche non riconducibili alla configurazione degli interessi che scaturiscono dalla distribuzione territoriale e settoriale dell’occupazione.
Inoltre, occorre anche ricordare che la deriva dei territori di cui si parlava in precedenza non è l’unico fenomeno che interviene a cambiare la struttura degli interessi. Accanto ad esso è opportuno collocare la crescente rilevanza delle rendite finanziarie, e monopolistiche in generale, sui profitti derivanti da investimenti produttivi nell’economia “reale” ed in mercati “aperti”, fenomeno tipico dei periodi di declino nei cicli economici di lungo periodo25. Ancora più noto è il divario crescente che si riscontra nel mercato del lavoro post-fordista tra attività qualificate e lavori non qualificati, e tra core workers e lavoratori precari26. Nel nostro Paese sembra che ciò finisca per rendere più stridenti i conflitti spaziali e sociali intorno all’allocazione delle risorse: tra settori protetti e non protetti dalla concorrenza; tra capitale e lavoro; tra knowledge workers e lavoratori non qualificati; tra occupati stabili e lavoratori precari; tra la sfera primaria e quella secondaria del sistema economico; ed infine anche tra Nord, con parti di Centro, “laborioso” e Sud, con parti di Centro, “parassita”. Le vicende economiche, sociali, politiche degli anni ’90 rendono le parti deboli nei conflitti in questione ancora più deboli, aumentando le tendenze all’entropia sociale e sistemica presenti nella società italiana27. E riducono anche i margini di mediazione e di utile compromesso: il che spiega la fortuna della metafora citata in premessa, dell’Italia come di un corpo sociale che sembra andare in frantumi; e la sensazione di smarrita rassegnazione con la quale buona parte dell’opinione pubblica sembra convivere con questa percezione28.
Le premesse di cui sopra definiscono i limiti di validità di una riflessione sugli scenari più plausibili delle riforme istituzionali e delle politiche economiche e sociali condotta sulla sola base dell’analisi delle diseguaglianze territoriali nella struttura degli interessi materiali. Ma è anche da sottolineare che una simile configurazione è parte essenziale della struttura sociale italiana29; e che senza un’adeguata considerazione di essa non è possibile produrre delle analisi ben fondate in merito al mutamento economico e sociale nel nostro Paese e delle riflessioni ben argomentate riguardo alle sue future prospettive di sviluppo.
Ciò premesso, dunque, quale tra i conflitti elencati nelle premesse può risultare la causa principale di un mutamento profondo degli assetti istituzionali, politici, sociali del Paese? A mio parere, soltanto il contrasto tra Nord(-Centro) e (Centro-)Sud ha queste potenzialità eversive. Infatti in tutti gli altri “campi di battaglia” i contendenti si rivelano comunque legati da consolidati vincoli sistemici: dopotutto, è Marx a notarlo, non ci può essere capitale in assenza di lavoro salariato; non si può fare a meno di almeno un po’ di Stato, osserva Bentham; le ferrovie, o la televisione commerciale, vendono servizi ad industrie pienamente coinvolte nella competizione globale; e anche calciatori, stilisti e ballerine hanno necessità di guardie del corpo, cameriere ed autisti. I vincoli sistemici risultano invece alquanto indeboliti se li si osserva dal punto di vista territoriale. Il processo di unificazione economica dell’Europa, e ancor più la globalizzazione, paiono avere incrinato in profondità il circuito economico che faceva del Meridione un mercato di sbocco per i prodotti dell’industria delle regioni sviluppate del Centro-Nord, costituendo dunque una base importante per il processo di accumulazione, di crescita e di sviluppo in queste regioni30. Tutto ciò in cambio di un po’ di trasferimenti diretti o indiretti, in forma di indennità di disoccupazione, di pensioni di invalidità, di lavori pubblici, di consulenze professionali, di posti di lavoro nel settore pubblico o nelle grandi industrie a partecipazione statale o sovvenzionate dallo Stato: talvolta occupazione regolare e davvero socialmente utile, talvolta sinecura, talvolta condivisibile assistenza, talvolta criticabile sussidio, ma quasi sempre con modalità familistiche o clientelari di regolazione che conducevano, e tuttora conducono, alla costituzione di fortune economiche notevoli nello scambio tra affari e politica. Ma a partire dalla metà degli anni ’80 i costi dei trasferimenti cominciano a superare i benefici31: in assenza di ostacoli alla penetrazione commerciale delle imprese straniere, i sussidiati meridionali comprano sempre più spesso merci di provenienza non nazionale, ovvero non centrosettentrionale32. E poiché l’appropriazione/redistribuzione a favore delle “regioni depresse” si verifica attraverso i medesimi meccanismi di appropriazione/redistribuzione a favore delle istituzioni e delle imprese pubbliche, la polemica contro il Meridione parassita si salda a quella contro Roma ladrona e lo Stato che opprime cinicamente gli operosi cittadini delle regioni sviluppate33. È vero che, nel corso degli anni ’90, ed ancor più nel corso di questo decennio, si è in parte riattivato il secondo dei circuiti che connettevano la società meridionale all’economia del Nord, quello basato sulla mobilità territoriale della forza lavoro34. Ma, come si è detto, sia negli anni ’90 che nel decennio in corso l’effetto complessivo di simili mutamenti si rivela ancora modesto, e perdipiù – dal punto di vista dei datori di lavoro delle regioni sviluppate – la manodopera proveniente dal Mezzogiorno, in particolare quella con scarsa qualificazione, può essere almeno parzialmente sostituita dagli immigrati extracomunitari, con minori aspettative e minori diritti.
Ed ecco che il quadro comincia a comporsi. Nel 2001 la coalizione di centrosinistra allora al governo realizza, con la riforma del titolo V della Costituzione, ciò che definisce federalismo “solidale”, avviando lo spostamento delle risorse e delle competenze del settore pubblico dal livello centrale alle autonomie territoriali. Il centrodestra, proseguendo l’opera, una volta al governo propone le gabbie salariali e la “devoluzione” alle Regioni di ulteriori competenze statali in materia di welfare e di sicurezza, per poi concentrarsi, nella legislatura che si è aperta con le elezioni del 2008, sulla questione del federalismo fiscale, e quindi sul decentramento per via ordinaria di risorse e competenze pubbliche. Non importa qui che le proposte in oggetto vengano effettivamente realizzate, ed in quale misura: del resto, le pagine dei resoconti parlamentari su queste materie sono piene di discorsi sull’opportunità di modifiche e correttivi a favore delle parti più arretrate del Paese. Ciò che conta è che durante gli anni ’90, ed ancor più nel decennio in corso, nel dibattito politico e nelle scelte di riforma e di governo si afferma una versione del “principio di sussidiarietà” per la quale ogni “comunità locale” (Comune? Regione? Ripartizione territoriale?) è legittimata a tenersi le sue risorse, salva la possibilità di una “perequazione” a favore di quelle più povere. Usando i termini impiegati a più riprese nei paragrafi precedenti, il senso dei cambiamenti già attuati e di quelli che paiono in itinere può essere scorto in un deciso riallineamento della struttura territoriale del potere economico nei circuiti secondari a quella emersa nel corso degli anni ’90 nella sfera primaria. I circuiti secondari dell’economia si riferiscono al sistema politico ed al sistema del welfare, e quindi anche agli unici ambiti di attività economica nei quali le regioni del Sud e delle Isole possono vantare dei livelli e delle condizioni di occupazione ancora oggi paragonabili a quelle delle regioni del Centro e del Nord.
Nel lungo periodo, e cioè una volta andati in pensione gli attuali occupati regolari permanenti a tempo pieno in questi settori, i cui interessi consolidati per ragioni di opportunità politica non potranno che essere salvati35, ne dovrebbe derivare un effetto aggregato di ulteriore divaricazione territoriale a beneficio della parte più sviluppata del nostro Paese. Le regioni “laboriose” si riprendono, in nome di questa versione del principio di sussidiarietà, ciò che è loro in termini di risorse, e quindi di capacità di agire, di promuovere la crescita economica e garantire nel contempo anche forme estese di protezione sociale. Le regioni “parassite” finiscono punite, con una riduzione di trasferimenti diretti e indiretti che si ripercuote sul potere d’acquisto e sulla domanda aggregata locale, ma anche sugli standard di protezione sociale. Nelle fantasie dei divulgatori del verbo neoclassico ciò si tradurrebbe in una riduzione dei livelli salariali (ma non dicono di quanto: del 20%? Del 40%? Del 60%? Dell’80%?) che renderebbe appetibili gli investimenti al Sud e pertanto farebbe ripartire la crescita e rilanciare l’occupazione. La realtà la vediamo già oggi nelle periferie di Napoli, di Bari, di Reggio Calabria, di Catania o di Palermo, in cui il crollo delle aspettative di vita connesse all’economia legale si traduce nell’esplosione della marginalità e della devianza, con conseguenze disastrose sulla capacità di attrarre investimenti dall’esterno. E nella migliore delle ipotesi è possibile che si traduca nel ritorno dell’emigrazione verso le regioni del Centro-Nord, di cui come si è detto si cominciano in effetti ad intravedere dei prodromi, generati soprattutto dalle forze di lavoro meridionali in possesso di elevate competenze36. Quanto alla persistenza dell’industria tradizionale nel Sud degli anni ’90, una persistenza non priva di episodi di autentico sviluppo locale, che la letteratura sui sistemi locali del lavoro ha opportunamente segnalato37 e che ha generato aspettative di rilancio economico dell’intero Meridione a partire proprio da questo comparto, è opportuno ricordare che, come è noto, questa ha subito nel decennio in corso l’impatto crescente della concorrenza internazionale, di provenienza sia cinese che europea orientale, con esiti ancora incerti ma comunque apparentemente negativi38.
Guardiamo adesso a questo scenario dal punto di vista delle classi dirigenti nelle due ripartizioni territoriali. Per quella del Nord (con porzioni di Centro), in cui come si può ricavare dall’analisi precedente è assai più rilevante il peso degli interessi che emergono dai comparti privati dell’economia, i mutamenti suindicati possono consentire di scaricare sulla solidarietà territoriale i costi sempre più notevoli della competizione internazionale, ma salvando almeno la coesione sociale e spaziale interna, e con esse la legittimità a governare: per quanto su una base territoriale più ristretta, il che implica la rinuncia a svolgere un ruolo economico e politico di rilievo nel contesto del sistema europeo e ancor più globale. La classe dirigente del Sud, con qualche porzione di Centro, che invece fonda la propria supremazia sociale essenzialmente sul controllo della sfera secondaria dell’economia39, all’esterno della sua area di riferimento non sembra ricavare nulla da tali processi, anzi sconta una radicale riduzione della sua rilevanza nelle vicende politiche del Paese40. Ma, a parziale compensazione di ciò, all’interno può ricavare un relativo beneficio dall’espansione della fascia della povertà e dell’emarginazione conseguente alla riduzione dei trasferimenti di reddito diretti e indiretti dalle regioni avanzate a quelle arretrate. Come pure dall’incremento dell’importanza relativa delle “sue” attività in un contesto nel quale si è assistito ad un profondo declino della grande industria e gli investimenti dall’estero si rivelano pressoché inesistenti41. Da una parte, infatti, la “stagione delle riforme” che si è aperta negli anni ’90 riduce le risorse a disposizione della classe dirigente meridionale, colpita dai vincoli imposti alla crescita della spesa pubblica, pur in parte compensati sia dal maggiore ricorso ai fondi strutturali dell’Unione Europea che dai maggiori margini di autonomia indotti dal decentramento delle competenze42; ma dall’altra ciò avviene in un contesto nel quale si riducono le opportunità di occupazione stabile in numerosi segmenti del settore privato, e cioè proprio della “sfera primaria” che non dipende direttamente e/o totalmente dal potere pubblico che costituisce invece la risorsa principale della classe dirigente del Sud.
Nello stesso tempo, il tendenziale declino degli investimenti pubblici in istruzione e formazione e l’assenza di una politica di sostegno pubblico alla mobilità territoriale dei cittadini residenti – in primo luogo di una politica della casa – si traducono, come si è notato, in un'incipiente divaricazione degli orientamenti della popolazione meridionale nei confronti della mobilità lavorativa e residenziale: semplificando drasticamente, i figli delle classi elevate e dei ceti medi se ne vanno, quelli della piccola borghesia, delle classi lavoratrici e degli strati marginali restano: il che aumenta l’incidenza relativa delle fasce deboli sul totale della popolazione, e del corpo elettorale, del Sud. Non soltanto, ma la diffusione dei rapporti di lavoro atipici nei comparti del pubblico impiego, e l’estensione del principio della delega ad imprese private e no profit nella gestione dei servizi pubblici, offrono alla classe dirigente del Mezzogiorno la possibilità di mutare tattica senza cambiare la strategia per l’acquisizione di consenso politico a breve termine. Se in passato ciò che veniva scambiato nel mercato politico, in cambio del voto, non era già più il posto di lavoro, bensì la promessa di ottenerlo43, in particolare in ciò che ho definito “sistema del welfare” e “sistema politico”, ora oggetto dello scambio diviene un’opportunità di lavoro a termine, che vincola il beneficiario attuale o potenziale – sia esso un singolo o invece un’impresa – a sostenere attivamente il candidato che l’ha procurata – e il grumo di tecnici e di affaristi che si coagula intorno a costui –, pena la sua sostituzione con altri potenziali beneficiari, legati ad altri candidati44. Ciò dovrebbe infine tradursi in un’incidenza sempre più elevata del voto di scambio: e pertanto consoliderebbe, piuttosto che incrinare, gli spazi di manovra del ceto dirigente, rendendolo di fatto legibus solutus (per quanto, naturalmente, simili mutamenti non lo aiutino a conquistare un reale, condiviso e stabile mandato a governare, anzi lo rendano ostaggio di poteri criminali e moti di piazza)45. Non è chiaro, tuttavia, come sia possibile giungere ad una qualche sintesi tra gli interessi ancora comuni a due porzioni così lontane della stessa compagine statale. Il tema, peraltro, esula dai confini del presente lavoro, per cui ci si limiterà a richiamare qui l’etichetta di secessione temperata dalla tirannia (o si trattava invece di tirannia temperata dalla secessione?) proposta da Giovanni Sartori a proposito di alcuni progetti di revisione costituzionale.



Conclusioni. Quali alternative?

Lo scenario emergente da questo esercizio è abbastanza deprimente. Al lettore incredulo conviene ricordare i caveat enunciati nei capoversi iniziali di questa sezione: l’esistenza di molteplici linee di scontro politico apre la strada ad una grande varietà di mediazioni e di compromessi tra interessi sostanzialmente opposti; e così le tendenze di fondo possono trovare dei fenomeni di controtendenza che mutano il quadro qui sopra delineato. Ma conviene anche ricordare che i processi e gli effetti qui richiamati si sono già verificati in alcuni Paesi del Sud del mondo colpiti dalla “crisi del debito” e dalle conseguenti politiche di aggiustamento strutturale e di stabilizzazione macroeconomica consigliate dalle istituzioni internazionali46. Perdipiù senza nessun Nord interno disposto ad elargire beneficenza o contributi di solidarietà: e spesso, pertanto, con conseguenze catastrofiche.
È possibile immaginare una prospettiva diversa (a partire dai medesimi dati del problema)? Il sentiero argomentativo più frequentato dagli studiosi italiani in proposito evidenzia, innanzitutto, che l’immagine di un Meridione “a macchia di leopardo” corrisponde ai dati della storia economica delle regioni del Sud47, per ricordare il rovesciamento dei divari interni al Mezzogiorno durante il periodo repubblicano48, e passare quindi ad esaminare le procedure ed i risultati non sempre negativi delle politiche di sviluppo locale e le trasformazioni verificatesi nei contesti economici locali49, non senza ricordare che il clientelismo non è necessariamente un fenomeno dannoso, e può persino avere effetti positivi sui percorsi di crescita50. La linea di riflessione proposta da questi studiosi ha certamente il merito di richiamare l’attenzione generale su quanto di buono è stato fatto, nelle regioni del Sud, sia nei comparti privati che nel settore pubblico, dall’epoca dell’intervento straordinario a quella della “nuova programmazione”; sulla presenza di un tessuto di piccole e medie imprese dinamiche; sulla persistente vitalità di forme economiche non necessariamente antiquate, o “banali”, o confinate all’ambito locale – dall’agricoltura biologica all’industria dei salotti, dall’artigianato artistico al turismo di lusso –, in grado di rinnovarsi e di offrire opportunità di crescita e di occupazione; sul generale innalzamento dei livelli di istruzione e di competenze professionali; sull’effettivo conseguimento di livelli relativamente elevati di reddito pro capite in alcune regioni – Abruzzo, Molise, Basilicata, Sardegna –, non a caso già oggi collocate dall’Unione Europea al di fuori dell’area “obiettivo 1” (ora Obiettivo Convergenza), ed in svariati contesti locali. Ma trascura forse troppo il versante negativo del bilancio, che si esprime ad esempio negli enormi sprechi di risorse pubbliche per finalità diverse dalla promozione della crescita economica o dello sviluppo umano della popolazione; nella generale sottodotazione di infrastrutture e servizi pubblici; nell’enorme quantità di risorse umane sprecate nella sottoccupazione, nell’inoccupazione o in un’inattività sostanzialmente forzata; nel degrado ambientale e sociale delle metropoli e dei centri urbani di media grandezza (con qualche eccezione: Salerno, Lecce), i quali rappresentano pur sempre una quota preponderante della popolazione e che, per le ragioni sopra elencate, drenano improduttivamente risorse tuttora considerevoli; nel fatto che quasi nessuno degli episodi di sviluppo locale che vengono citati ed esaminati dalla letteratura, si colloca nella parte della graduatoria dei distretti economici stabilmente presidiati dalle aree del Centro-Nord (e ciò anche se appartengono alle regioni fuoriuscite dalla zona “obiettivo 1”); nella penetrazione della criminalità organizzata nell’ economia, nella politica e nella società delle regioni meridionali51, e non soltanto meridionali. Insomma, una spinta verso il rilancio delle prospettive economiche e sociali del Mezzogiorno non può venire soltanto da questi episodi di sviluppo locale: pur se questi indicano, nella creazione di un reticolo di attori istituzionali e di soggetti collettivi motivati al sostegno della crescita, un fattore di grande rilievo sia per lo sviluppo di piccola impresa o per l’attivazione di un nuovo flusso di investimenti dall’esterno, sia per la riqualificazione delle politiche e dei servizi pubblici, sia per la ricostituzione del legame sociale e della civicness.
A parere di chi scrive, perdurando per le ragioni suindicate le difficoltà dello Stato centrale – e quindi della classe dirigente nel suo insieme – nell’individuare un percorso di riforma e di iniziativa politica suscettibile di rilanciare e sviluppare l’unità nazionale, un percorso alternativo più plausibile può consistere in un rilancio del processo di integrazione economica e di costruzione politica dell’Unione Europea, che già sembra avere avuto meriti di qualche rilievo nelle riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare, della giustizia e delle medesime politiche di sviluppo regionale52. In questa ottica appare indubbio che la coesione regionale sia un problema cruciale per le prospettive di crescita economica, di sviluppo e di successo competitivo dell’intera Unione, in particolare di fronte alla questione dell’allargamento ai Paesi dell’Est53. È dunque al livello dell’Unione Europea che dovrebbero essere reperite risorse in grado di sostenere l’economia, l’occupazione e il sistema del welfare nelle regioni depresse che, come ho cercato di mostrare più sopra, appaiono ormai emarginate dal potere economico e rischiano una notevole caduta nel livello e nella qualità della vita. A patto di riformare gli strumenti di sostegno in maniera da impedire che le risorse economiche così reperite vengano sprecate, come spesso si è verificato sia nel periodo dell’intervento straordinario che in questo più recente, segnato dal ricorso ai fondi strutturali ed alla “nuova programmazione”, in “cattedrali nel deserto”, in opere e lavori di pubblica inutilità, in moleste campagne di comunicazione sul nulla, o ancora in privilegi e sussidi da elargire agli incapaci e agli immeritevoli, spesso nella forma di trasferimenti diretti ad imprese fuori mercato quando non addirittura inesistenti, o della creazione diretta di occupazione pubblica socialmente inutile54. Ma vengano invece concentrate, con le modalità emergenti dalle buone prassi di sviluppo locale sperimentate nella stagione più recente ed evidenziate dalla ricerca sull’argomento, in attività più suscettibili di contribuire ad alzare livello e qualità della vita e per questa via promuovere la crescita economica e lo sviluppo civile. Mi riferisco, in sostanza, alla tutela ambientale, all’igiene, alla sanità, ai servizi sociali, ai trasporti pubblici, all’istruzione e formazione, alla ricerca scientifica55; ed anche e soprattutto alla sicurezza delle persone, delle imprese e degli scambi, dal momento che la garanzia della legalità, in un contesto nel quale questa è apparsa troppo a lungo debole56, appare il fondamento indispensabile per la ripresa degli investimenti nel circuito primario dell’economia.
Un possibile scenario politico alternativo consiste quindi nel lasciare che la vicenda dell’Italia confluisca in quella più ampia dell’Europa unita, così come a suo tempo, secondo Croce, la vicenda del Meridione è confluita in quella più vasta del Regno d’Italia57. Rimane aperta una questione importante: il punto a favore di questo scenario è che trasferisce ad un livello territoriale più elevato responsabilità che la classe dirigente del Nord(-Centro) sembra voler rifiutare. Ma il punto debole di esso consiste nel fatto che rischia di sottrarre alla classe dirigente del (Centro-)Sud gli strumenti principali mediante i quali essa esercita il suo potere e ricava la sua opulenza58. Per evitare, allora, di ingrassare i soliti gatekeeper della spesa pubblica nelle regioni meridionali non finiremo per invocare una qualche forma di “ingerenza umanitaria” della Grande Europa che ci salvi da noi stessi?

Domenico Maddaloni*

(Per le tabelle dell'articolo di Domenico Maddaloni si rinvia al cartaceo)



NOTE
1 Cfr. L. Gallino, Italia in frantumi, Roma-Bari, Laterza, 2006.^
2 Cfr. L. Gallino, Dell’ingovernabilità. La società italiana tra premoderno e neoindustriale, Torino, Comunità, 1987.^
3 Basti pensare alla crescita dei divari tra i gruppi sociali, che sembra emergere dalle ricerche sui patrimoni, i redditi e i consumi degli aggregati domestici, o anche da quelle sulla mobilità sociale a lungo termine (il cui esempio paradigmatico nella sociologia italiana è forse il libro di Schizzerotto, a cura di, Vite ineguali. Diseguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, Bologna, il mulino, 2002), e che ha generato un dibattito sul declino dei ceti medi e la riduzione delle occasioni di mobilità sociale per i giovani. Da citare al riguardo anche i rapporti sul cambiamento sociale in Italia curati dall’Osservatorio del Nord Ovest. Nel terzo di essi, in particolare (L. Ricolfi, a cura di, Le tre società. E’ ancora possibile salvare l’unità dell’Italia? Italia 2006: III rapporto sul cambiamento sociale, Milano, Guerini e associati, 2007), proprio a partire dalle analisi di Gallino citate in premessa si avanzano alcune considerazioni sulla divisione del nostro Paese in tre “società”, quella “delle garanzie”, quella “del rischio” e quella “della forza”, ciascuna dotata di una specifica, benché non esclusiva, base territoriale (rispettivamente il Nord Ovest, il Nord Est-Centro, le regioni meridionali).^
4 In questa sezione riprendo i risultati di un’indagine sul mutamento delle strutture economiche nelle ripartizioni del Paese di cui ho discusso più estesamente in un mio precedente lavoro (D. Maddaloni, L’occupazione regolare non agricola e le diseguaglianze territoriali in Italia tra il 1991 e il 2001, in E. Pugliese, a cura di, Nord e Sud. Rapporto IRPPS-CNR sullo Stato sociale in Italia, Roma, Donzelli, 2006).^
5 Cfr. A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Torino, Einaudi, 1998, pp. 60-96; G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione”a “problema aperto”, Lacaita, Manduria, 2005, pp. 15-37.^
6 Cfr. A. Graziani, Mezzogiorno oggi, in «Meridiana», 1/1987; al riguardo cfr. anche P. Sylos Labini, Scritti sul Mezzogiorno 1954-2002, a cura di G. Arena, Manduria, Lacaita, 2003.^
7 L’ipotesi presume che l’elettore sostenga la coalizione, il partito o il candidato che interviene in difesa degli interessi economici suoi, del suo comparto di attività o della sua località di residenza. Allo stesso modo, l’ipotesi presume che il decisore politico tenga conto della struttura degli interessi economici, sul versante sia del capitale che del lavoro, nel definire ed attuare le scelte pubbliche. Ma la ricerca sui gruppi di interesse e le politiche pubbliche induce a ritenere ancora più ragionevole che questi interessi risultino tanto meglio difesi quanto più le organizzazioni ed i gruppi che li sostengono possono vantare un’ampia platea di soggetti coinvolti e potenzialmente mobilitabili (cfr. I. Regalia, Capire le politiche pubbliche, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 316-365).^
8 In proposito è da notare che la mancanza di dati più recenti di fonte analoga riduce l’ambito di validità dell’esercizio e delle riflessioni ad esso associate. Dove necessario, tuttavia, farò riferimento anche ai risultati di indagini statistiche più recenti (cfr. in particolare Svimez, Rapporto Svimez 2008 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 2008), allo scopo di aggiornarne i risultati agli anni ’00 e corroborare le ipotesi interpretative da me avanzate.^
9 Nell’universo così definito infatti rientra anche l’economia parzialmente sommersa nei comparti extragricoli di attività, che costituisce in realtà una quota preponderante dell’economia sommersa (G. Roma, L’economia sommersa, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 62-90).^
10 Con il termine “legittimità” intendo il riconoscimento, da parte dei soggetti che contribuiscono a individuarla, che nell’arena politica così definita l’attore x ha eguale diritto ad esistere; a considerare con ragionevolezza opportunità e vincoli, costi e benefici dei corsi di azione possibili in ciascun istante di tempo; e ad adottare comportamenti che interferiscono con la soddisfazione dei legittimi interessi degli altri attori sociali presenti nella stessa arena. Questi comportamenti possono consistere in decisioni assunte in prima persona (ad esempio lo spostamento di un’attività da un luogo di produzione ad un altro), o in richieste avanzate all’autorità politica (per esempio, circa uno sgravio fiscale) o ad altri attori (per esempio, circa gli orari di lavoro), o in decisioni circa le richieste avanzate dalla prima o dai secondi.^
11 Ciò non implica che questi siano gli unici attori collettivi rilevanti per la decisione – ad esempio, in un Paese in rapido invecchiamento l’importanza dei pensionati e delle organizzazioni che li rappresentano non può certamente essere trascurata –, ma soltanto che l’analisi qui presentata delinea una rassegna delle forze che si agitano sullo scenario dell’economia reale, di certo assai importante sia per le c. d. “riforme istituzionali” che per le misure di politica economica e sociale.^
12 L’“economia postindustriale” è un comparto definito a partire dalle nozioni più comuni di attività nel contesto delineatosi nelle società avanzate a partire dalla crisi del 1973, ed i cui effetti sembrano perdurare ed approfondirsi nel tempo (cfr. K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società postindustriale alla società postmoderna, Torino, Einaudi, 2000; C. Crouch, Sociologia dell’Europa occidentale, Bologna, il Mulino, 2001). Rientrano dunque in questa definizione l’editoria, la pubblicità e le imprese di comunicazione, ma anche il riciclaggio e lo smaltimento dei rifiuti; le attività creditizie e assicurative ma anche quelle ricreative, culturali e sportive; i trasporti a lunga distanza e le imprese turistiche ma anche le public utilities; le attività di consulenza, compresa l’informatica, e la ricerca e sviluppo (cfr. anche il prospetto 1). È opportuno ricordare che il concetto di “economia postindustriale” qui impiegato ha un’estensione più ampia di quello, adottato in svariate indagini sulla dinamica dell’occupazione nei Paesi membri dell’Unione Europea, di “economia della conoscenza”, ed appare invece più vicino a quello di “società dei servizi”.^
13 Si tratta di alcuni comparti dell’industria estrattiva, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dei pubblici esercizi, dei trasporti non aerei. Per ragioni inerenti al processo di costruzione dei dati non è stato possibile separare, all’interno del comparto residuale in questione, le attività della grande distribuzione commerciale, riconducibili in sostanza all’economia postindustriale, e quelle relative ai trasporti collettivi, che si sarebbe potuto agevolmente collocare nel sistema del welfare.^
14 L’unica eccezione al riguardo è costituita dal sistema del welfare, per il quale si riscontra una crescita inferiore alla media al Centro ed una invece superiore nelle Isole maggiori.^
15 Il “circuito secondario” dell’economia è formato dal settore pubblico e da quello no profit, nella misura in cui non producono, ma si appropriano di una quota del prodotto interno e la redistribuiscono (cfr. E. Wolleb - G. Wolleb, Divari regionali e dualismo economico, Prodotto e reddito disponibile nelle regioni italiane nell’ultimo ventennio, Bologna, il Mulino, 1990). Ciò non significa che i settori pubblico e no profit, correlati in larga misura con i comparti “del welfare” e “politico” esaminati nel paragrafo 1, fungano da parassiti della “buona” economia fondata sull’interesse materiale dei privati, da ostacoli che la società civile si ritrova lungo la strada della crescita “virtuosa”. Da una parte, infatti, le attività di redistribuzione, i settori pubblico o no profit e la produzione di servizi hanno a che vedere con i fini di un processo di sviluppo, ovvero con la possibilità di aumentare il livello e la qualità della vita del maggior numero di persone, e con essi la libertà, per il singolo, di scegliere lo stile di vita più consono alla propria idea di “star bene”. Dall’altra questi fenomeni costituiscono un mezzo indispensabile allo sviluppo medesimo, nel senso che forniscono alla crescita economica, effetto aggregato della crescita del fatturato e delle dimensioni delle attività del settore privato, una serie di input non sostituibili attraverso l’iniziativa “libera e spontanea” degli individui (A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perchè non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000, pp. 40-58 e pp. 116-149).^
16 Per il mercato del lavoro un riferimento sociologico classico in questo senso è al volume di A. Accornero - F. Carmignani, I paradossi della disoccupazione, Bologna, il Mulino, 1986.^
17 A questo riguardo il riferimento classico nel dibattito sociologico è il saggio di A. Pizzorno, I ceti medi nei meccanismi del consenso, in Id., I soggetti del pluralismo. Classi, partiti, sindacati, Bologna, il Mulino, 1980.^
18 L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 50-61.^
19 F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Torino, Einaudi, 1994.^
20 Rimando qui al mio saggio già citato su L’occupazione regolare non agricola e le diseguaglianze territoriali in Italia tra il 1991 e il 2001, nel quale la questione è affrontata in maniera più estesa.^
21 Fenomeno segnalato, per gli anni ’90 e per gli anni ’00, dal declino della quota dell’Italia sul totale delle esportazioni mondiali, o dalla crescita della produttività del lavoro, inferiore a quella di quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale.^
22 A proposito dello sviluppo dell'Abruzzo e del suo dipendere soprattutto dal depauperamento delle risorse umane locali dovuto ai fenomeni migratori, cfr. le considerazioni a più riprese avanzate da Giuseppe Galasso nel suo Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto” Manduria,Lacaita, 2005.^
23 Dato a più riprese documentato, e denunciato, dagli studiosi che hanno continuato a muoversi nella prospettiva del meridionalismo: cfr. per tutti il già citato lavoro di G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”. In questa prospettiva si può ritenere emblematico il caso della città di Napoli, che ha visto nel corso degli anni ’90 la scomparsa di tutti i maggiori centri di potere economico non dipendenti dall’esterno (l’Isveimer, il Banco di Napoli, la SME) ed anche di alcuni tra i maggiori nodi della rete del potere economico in Italia (l’Ilva, l’Olivetti). Perfino il maggiore quotidiano della città, «Il mattino», è dai primi anni ’90 di proprietà di gruppi industriali ad essa estranei.^
24 Come è evidenziato dal successo elettorale dei partiti “antisistema”, dalla frequente presenza di “impolitici” (Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi) quali leaders governativi e dai frequenti tentativi di “riforma istituzionale”.^
25 Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il saggiatore, 1996.^
26 Cfr. D. Cohen, Ricchezza del mondo, povertà delle nazioni, Milano, Comunità, 1999; L. Gallino, Globalizzazione e diseguaglianze, Roma-Bari, Laterza, 2000.^
27 Cfr. A. Bagnasco, L’Italia in tempi di cambiamento politico, Bologna, il Mulino, 1996.^
28 Cfr. A. Schiavone, Italiani senza Italia, cit., pp. 3-20. Di “incapacità simmetriche” parla invece A. Scotto di Luzio, Napoli dei molti tradimenti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 95-96.^
29 Cfr. M. Paci, La struttura sociale italiana. Costanti storiche e trasformazioni recenti, Il mulino, Bologna, 1982; G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, cit.^
30 Cfr. A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale nello sviluppo italiano, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 33-111.^
31 Vi è una singolare coincidenza temporale tra la firma dell’Atto Unico Europeo, nel 1986, e l’elezione del primo rappresentante in Parlamento della Lega Nord (allora ancora soltanto Lombarda), che avviene nel 1987.^
32 Vale forse la pena di notare che, nel dibattito politico sulla finanziaria 2005, l’argomento più usato dagli analisti economici contro la riduzione governativa dell’Irpef si riferiva al fatto che l’ipotetico rilancio dei consumi sarebbe andato largamente a beneficio delle importazioni.^
33 Cfr. A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Milano, Feltrinelli, 2008.^
34 Sul carattere strutturale di questo legame tra i sistemi sociali del Centro-Nord e del Sud Italia, cfr. A. Bagnasco, Tre Italie…, cit., pp. 33-111. A proposito dei fenomeni migratori più recenti piuttosto eloquenti i dati presentati dalla Svimez nel già citato Rapporto Svimez 2008 sull'economia del Mezzogiorno, pp. 169-193.^
35 Poiché al momento in cui scrivo (autunno 2008) l’età media dei dipendenti pubblici è stimata intorno ai 45-50 anni, e l’età della pensione intorno ai 60-65, è possibile ritenere che il “lungo periodo” in questione sia un arco di tempo di circa 15-20 anni.^
36 Cfr. le parti del Rapporto Svimez 2008 sull’economia del Mezzogiorno già citate alla nota 34.^
37 Due tra gli ultimi esempi a questo riguardo: D. Farinella-F. Parziale, Processi di terziarizzazione e diseguaglianze socio-occupazionali in Italia: un’analisi a partire dal locale, Università degli studi di Messina, Centro interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del diritto e delle istituzioni giuridiche, working paper n. 30, 2007; G. Viesti, a cura di, Le sfide del cambiamento. I sistemi produttivi nell'Italia e nel Mezzogiorno d'oggi, Roma, Donzelli, 2007.^
38 Cfr. F. Pirro, Mezzogiorno e industria: tra passato e futuro, «L'Acropoli», 7 (2006). Di recente la crisi dei sistemi locali sembra essersi persino aggravata: cfr., per il caso della Basilicata, G. Visetti, La regione chiusa con un fax, «La repubblica», 25 novembre 2008.^
39 Come riconosciuto anche, implicitamente, da Fabrizio Barca in un suo recente accenno ad una political economy delle riforme istituzionali e delle politiche di sviluppo (Id., Un commento a Galasso: in tema di “progetto silenzioso” per il Mezzogiorno, «L'Acropoli», 9 (2008).^
40 Forse non è casuale che proprio a partire dal 1992-1993 la classe politica del Sud perda, in termini di presenza nella compagine governativa, quella parità che aveva strappato grazie tanto alla retorica dell’arretratezza “sudista” che al suo rappresentare importanti interessi economici, con ricadute significative in termini di consenso elettorale e dunque di sostegno al governo.^
41 Stando agli ultimi rapporti della Svimez, il Mezzogiorno ha attratto tra lo 0,6 e lo 0,7% del volume totale degli investimenti diretti esteri (IDE) nel nostro Paese, che peraltro attira, nel suo insieme, una quota degli IDE minore della media europea – meno della metà, in termini di rapporto tra IDE e PIL (cfr. al riguardo il già citato Rapporto Svimez 2008 sull’economia del Mezzogiorno).^
42 Cfr. A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 351-372.^
43 Cfr. F. Cazzola, L’Italia del pizzo. Fenomenologia della tangente quotidiana, Torino, Einaudi, 1992. La ragione è che mentre la concessione del posto definisce un accordo di scambio politico che vincola soltanto gli effettivi beneficiari, l’elargizione della promessa consente di espandere la platea dei potenziali interessati all’accordo a tutti i candidati alla copertura del posto. È per questo motivo che, nel corso degli anni ’80, quando questa prassi si era ormai consolidata e diffusa, i concorsi pubblici negli enti locali e nelle agenzie controllate venivano avviati, ma conclusi soltanto se strettamente necessario.^
44 Uno storico potrebbe facilmente osservare che un simile adattamento istituzionale non costituisce un’innovazione, bensì un ritorno ad una situazione già osservata e denunciata da Gaetano Salvemini nelle sue analisi relative al clientelismo ed ai poteri locali nel Mezzogiorno. Un sociologo potrebbe ricordare le riflessioni anticipatrici di Ugo Ascoli (in Id., a cura di, Azione volontaria e Welfare State, Bologna, il Mulino, 1987) intorno al potenziale di collusione, di clientelismo e persino di corruzione generato dalla tendenza delle istituzioni pubbliche a delegare totalmente la responsabilità delle politiche sociali al volontariato ed alle organizzazioni no profit.^
45 Il che può forse contribuire a spiegare perché siano andate finora deluse le aspettative riposte da molti studiosi (tra i quali ad esempio C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche per il Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 1992) nel decentramento delle competenze citato in precedenza. Al riguardo cfr. anche P. Craveri, Nord Est e Mezzogiorno, «L’Acropoli», 9 (2008), che lamenta la mancanza di qualunque segno di ripresa di efficacia delle istituzioni politiche e amministrative nel Sud.^
46 Cfr. M. Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, Torino, Gruppo Abele, 1998.^
47 Cfr. P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Dall’Ottocento ad oggi, Roma,Donzelli, 1993.^
48 Cfr. G. Bottazzi, I Sud del Sud. I divari interni al Mezzogiorno e il rovesciamento delle gerarchie spaziali, in «Meridiana», 10/1990.^
49 Cfr. P. De Vivo, Sviluppo locale e Mezzogiorno. Piccola impresa, territorio e azione pubblica, Milano, Angeli, 1997; G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 2003; C. Trigilia, Sviluppo locale. Un progetto per l'Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005.^
50 Cfr. A. Mutti, Sociologia dello sviluppo e questione meridionale oggi, in «Rassegna italiana di Sociologia»,1991, n. 2; S. Piattoni, Il clientelismo. L’Italia in prospettiva comparata, Roma, Carocci, 2005.^
51 Cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”…, cit.; N. Rossi, Mediterraneo del Nord…, cit.^
52 Per il primo settore, cfr. M. Ferrera-E. Gualmini, Salvati dall'Europa?, Bologna, il ;Mulino, 1999; per il secondo, cfr. invece S. Lodato-R. Scarpinato, Il ritorno del Principe…, cit.; per il terzo, cfr. A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno…, cit., pp. 255-349; al riguardo cfr. anche, per quanto in un’ottica orientata ad evidenziare tanto i punti di forza quanto le carenze dell’azione di Bruxelles,. M. Lo Cicero, Politiche europee e crescita meridionale. Limiti analitici e vincoli istituzionali alla “nuova programmazione”, «L’Acropoli», IV (2003).^
53 Cfr. G. Ponzini, Il sistema di welfare nel Mezzogiorno tra marginalità e modernizzazione, in E. Pugliese (a cura di), Nord e Sud…, cit.^
54 A parte la letteratura giornalistica sulla “casta”, che sembra ormai persino troppo ampia perché se ne possa rendere adeguatamente conto, svariati esempi di questa deriva delle politiche per il Mezzogiorno e nel Mezzogiorno, specialmente nell’ultima stagione, si possono trovare in N. Rossi, Mediterraneo del Nord. Un'altra idea del Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 53-82. Ancora più efficace, pur se riferito in prevalenza al “fallimento della politica” nella più grande città del Sud, ed alle opzioni culturali che la sostenevano, già citato libro di A. Scotto di Luzio, Napoli dei molti tradimenti.^
55 Cfr. N. Rossi, Mediterraneo del Nord, cit.; C. Donolo, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Milano, Bruno Mondadori, 2007.^
56 Cfr. A. La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 2005; cfr. anche al riguardo, ma su posizioni più radicali, il già citato Il ritorno del Principe di Lodato e Scarpinato.^
57 Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Milano, Adelphi, 1992. E forse qui va ricordato come anche Aldo Schiavone (nel già citato Italiani senza Italia, pp. 3-20) rilevi che nel percorso storico dell’Italia unita le discontinuità vengano determinate da fattori esogeni alla società italiana: la I Guerra Mondiale e il “biennio rosso”; la II Guerra Mondiale, la sconfitta e la Resistenza; il crollo del comunismo e l’innesco del processo di integrazione economica e politica dell’Europa.^
58 Con il rischio di ricadere in un nuovo “sviluppo senza autonomia” quale prezzo da pagare per ridurre le interferenze della classe dirigente meridionale sulle politiche sociali e per la crescita economica. D'altro canto, il ruolo positivo dell'Unione Europea nell'influenzare la legislazione nazionale rallentando potenziali derive “latinoamericane” è stato già evidenziato per quanto riguarda due settori importanti quali il welfare e la giustizia (cfr. sopra nel testo). In questa prospettiva occorrerebbe dunque una traslazione di questa attività al livello delle autonomie regionali e locali. Alla classe dirigente del Mezzogiorno non resterebbe che l'avventura della secessione e della trasformazione delle regioni del Sud in un immenso porto franco per traffici e mercati di ogni tipo, un progetto questo che non casualmente sembra essere stato ventilato dalla mafia siciliana sia nel secondo dopoguerra che negli anni delle stragi (cfr. S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Principe, cit., pp. 287-297).^
*Ringrazio gli amici e colleghi, di svariate provenienze disciplinari, che hanno letto precedenti versioni di questo lavoro (con una menzione speciale per Paola De Vivo, Giuseppe Galasso, Lidia Greco, Aurelio Musi, Fiorenzo Parziale, Massimo Pendenza, Francesco Pirone). Mia, ovviamente, rimane la responsabilità per le opinioni qui espresse e per le procedure di analisi qui adottate.^
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