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La memoria del socialismo autonomista
di Sara Battaglia
Il volume di Giovanni Pieraccini e Fabio Vander, Socialismo e riformismo. Un dialogo fra passato e presente, presentato recentemente a Roma in un convegno cui hanno partecipato tra gli altri Giovanni Sabbatucci e Giuliano Vassalli, è un libro, insieme, di storia e di memoria. Ripercorre le vicende di quel controverso partito che fu il socialista, nel suo intrecciarsi, tra rifiuto e abbraccio, con l’idea di riformismo e con le vicende, in particolare, del riformismo italiano. E ripercorre queste vicende sulla base di una testimonianza che è, senza dubbio, quella di un protagonista.
Giovanni Pieraccini partecipò giovanissimo alla Resistenza, fu condirettore del «Nuovo Corriere» e membro eminente delle corrente autonomista del partito nel periodo, pur lungo, che segnò il progressivo allontanamento dalle posizioni frontiste. Fu poi direttore dell’ «Avanti!» nella stagione che preparò il primo governo di centro-sinistra e divenne in esso Ministro dei Lavori Pubblici e poi Ministro del Bilancio e della Programmazione, in anni veramente cruciali. Uscì dalla vita politica attiva nel 1976, poco dopo l’elezione di Craxi alla segreteria del PSI.
Fu dunque a lungo al cuore della politica italiana; e narra le vicende del partito dal suo punto di vista di esponente di una corrente che ebbe parte rilevante in una storia di divisioni, di errori e di scelte infine coraggiose. Pur nella incapacità di cambiare il senso della democrazia bloccata, esse permisero alla democrazia italiana di fare un passo avanti verso una politica che guardasse ai cambiamenti intervenuti nella società italiana, e tentasse di dar loro il passo: una politica più moderna anche dal punto di vista del funzionamento della democrazia.
Il volume si articola in uno scambio di domande e risposte tra i due autori. E non può sfuggire l’impressione che vi sia tra essi una certa divergenza di visione su ciò che abbiano rappresentato socialismo e riformismo nella società italiana, pur pervenendo essi, paradossalmente, ad un avvicinamento, quando entrambi si rivolgono al futuro, e alla proposta di partito democratico che oggi agita la nostra scena politica. Pieraccini è critico - e Vander forse ancor di più – all’idea che il socialismo possa oggi essere liquidato come qualcosa che appartiene al passato, essendo il mondo cambiato e globalizzato. Entrambi hanno riserve alla proposta che la nuova forza riformista debba essere un indifferenziato “partito democratico”. Ritengono essenziale una forza che faccia valere i “valori sociali” e gli “interessi collettivi”, di stimolo ad una politica che non corrisponda alla pura accettazione della «ideologia dell’economia di mercato» che sembra a Pieraccini dominante. In questo senso è un libro “politico” in senso pieno: un tentativo di influire per quanto possibile ancora sulla politica attiva, e sulle scelte che il riformismo deve compiere oggi per proiettarsi nel terzo millennio.
Allo stesso tempo, è un libro di storia: sia dell’Italia postbellica sia del partito socialista, di cui si ripercorre rapidamente la storia dalla sua fondazione, nel 1893, al 1991, quando scomparve come forza politica protagonista del panorama italiano. L’una specchio e parallelo dell’altro, se è vero che quel “deficit di riformismo” che viene individuato come uno dei mali della nostra storia politica nasce proprio all’indomani della fine della guerra, con la scelta frontista del partito socialista e il suo ripiegamento su posizioni inevitabilmente subordinate al PCI: tutto ciò che rese le posizioni “terze”, dichiaratamente riformiste, minoritarie e perdenti nel nostro panorama politico.
La scelta di “autonomismo” - non solo e non tanto come distacco completo da leninismo e stalinismo, ma come «convinzione profonda che la causa del socialismo non poteva dissociarsi dalla libertà democratica, anzi che il socialismo fosse la realizzazione di profonde riforme nella società» - fu infine quella vincente. Ma è pur vero che essa fu di lenta realizzazione nella evoluzione del pensiero del partito. E portò in definitiva alla creazione del primo governo di centro-sinistra proprio in un momento in cui le condizioni economiche non erano più quelle necessarie ad attuare le serie riforme per cui il centro-sinistra era stato creato.
La posizione di Vander è chiara: il partito socialista è stato sempre diviso al suo interno tra posizioni riformiste e “rivoluzionarie”; ed è sempre stato contrassegnato da una carenza di egemonia che ne ha impedito l’azione e frenato la carica. Vander sembra individuare nelle scelte riformiste dei socialisti sempre e comunque un cedimento “centrista”, più che una proposizione autonoma di valori; dimentica, in questo senso, che quelle scelte trovavano corrispondenza forse nelle concezioni di altri riformisti, e anche della Democrazia Cristiana. È dunque, la sua, una posizione curiosa, che sembra ricalcare oggi le stesse accuse al riformismo così tipiche della nostra storia politica, e che sembra lo specchio della difficoltà tutta italiana nel definirsi “riformisti”. Pieraccini, al contrario, privilegia il momento del riformismo, dell’idea delle «conquiste progressive» e dell’inscindibile unione del socialismo con i valori di democrazia e libertà. E rivendica, al di là delle critiche, la pregnanza delle riforme varate con l’impegno del partito socialista (dallo Statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, al divorzio, all’attuazione del sistema regionale). Così un indubbio pregio del libro è il suggestivo racconto, dall’interno, della storia di un partito di cui oggi si fatica a dare una valutazione storica oggettiva, stretta com’è tra l’antica incapacità di valutare il “riformismo” come elemento positivo della sinistra, e la ritrosia della Seconda Repubblica a riconoscere al socialismo i meriti che indubbiamente ebbe.
Una questione rimane pur tuttavia poco esplorata nel volume, ovvero se vi sia stata, sia nel decennio che portò alla creazione dei primi governi di centro-sinistra sia nella prova di governo, la elaborazione di una compiuta cultura riformista, che andasse al di là della affermazione dell’autonomismo. Rimane cioè troppo sfumata, e forse non è un caso, la linea di separazione che esiste nei fatti tra autonomismo e riformismo, che in sé sono due posizioni differenti.
In realtà una corrente riformista, che si richiamava al grande riformismo degli inizi, esistette nel PSI anche dopo la scissione socialdemocratica che ne portò via gran parte. Ma la crescita dell’autonomismo socialista rispetto al PCI, maturata dopo l’“indimenticabile” 1956 e le prime esplosioni della crisi nel mondo comunista, si sovrappose a quella corrente e si confuse con essa: senza che si ponesse altro che un problema, appunto, di autonomismo politico e senza alcun approfondimento programmatico sulla linea del riformismo che tanti successi segnava nei paesi del nord-Europa. Non è casuale, in certo senso, che il capo di questo movimento in seno al PSI sia stato Pietro Nenni: che non era un riformista né per concezione né per cultura né per propensioni; e che l’altro esponente di punta della corrente autonomista sia stato Riccardo Lombardi, che caricava il concetto di riforma di struttura di valenze ideologiche ben lontane da un’idea di riformismo moderno e che vedeva nella “politica di piano” una tappa nella «via italiana al socialismo».
Politica di riforme e riformismo sono concetti diversi e confonderli oscura il problema storiografico: quello di tracciare il lungo percorso della tradizione riformista che, in fondo, neppure Craxi rappresentò. Ma questo è tutto un altro problema che non riguarda l’interessante memoria di Pieraccini.
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