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Il debito pubblico di Stati e città
di Luigi Alonzi
Negli ultimi anni i sistemi fiscali e finanziari delle città e degli Stati sono stati oggetto di crescenti attenzioni da parte di una storiografia che si è spesso contraddistinta per l’adozione di un taglio di lungo periodo, intercorrente dai primi secoli dopo il Mille fino all’Ottocento; in connessione con quanto si andava mettendo in luce per altri aspetti dell’annosa questione relativa al processo di formazione dello Stato moderno (di carattere socio-politico e giuridico-istituzionale), sono state indagate le ripercussioni delle tecniche e dei sistemi di gestione fiscale e finanziaria delle città tardo medievali sulle strutture degli incipienti Stati moderni. In un colloquio tenuto a Gand il 23-24 novembre 2001, promosso da un gruppo di ricerca fiammingo–olandese, questi temi sono stati al centro delle relazioni raccolte poi nel volume che qui si analizza: M. Boone, K. Davids, P. Janssens (eds.), Urban Public Debts. Urban government and the Market for Annuities in Western Europe (14th – 18th centuries) (Studies in European Urban History (1100-1800), III), Brepols, Turnhout 2003. Rispetto alle interpretazioni tradizionali della problematica, gli organizzatori hanno voluto portare l’attenzione soprattutto sui riflessi socio-politici del mercato delle rendite che animava i debiti pubblici cittadini, lungo una linea che aveva avuto un importante precedente, sul piano storico e storiografico, negli studi condotti dal gruppo organizzato da Rolf Sprandel sulle città hanseatiche nel periodo tardo medievale; in specie sono stati esaminati ruoli e funzioni delle città e delle élites locali, nonché i livelli intermedi di mediazione finanziaria tra centro e periferia, privilegiando le reti di relazioni ed i flussi di risorse entro l’ambito pubblico/privato.
Il volume si apre con un’introduzione di James Tracy, autore del noto libro sulla rivoluzione finanziaria olandese, che mette a fuoco due distinte origini dei debiti cittadini a lungo termine nell’Europa medievale: nella Francia del Nord, specialmente nei territori della vecchia Lotaringia, ove nel corso del XIII secolo si diffuse un mercato urbano delle rendite che ripeteva i modelli degli enti ecclesiastici, e nei Comuni dell’Italia del Nord, che adottarono la forma dell’appalto a consorzi di creditori per poi ricorrere, dalla fine del XII secolo, a prestiti forzosi fondati su determinati cespiti di entrate. Rispetto al giudizio presente implicitamente nella sua precedente monografia, ora Tracy sfuma questa distinzione insistendo su una premessa comune che avrebbe reso possibili le due forme di debito: la stabilità monetaria.
La prima sezione del volume, dedicata a Cities, Provinces, States and Public Debt, è aperta da Manuel Sánchez Martínez che, dando sistemazione a dati ancora disomogenei, mostra comunque la pervasività socio-politica del debito pubblico nel fiorente territorio tardo-medievale aragonese; ivi le città fin dall’inizio del Trecento iniziarono a vendere titoli di rendita pubblica vitalizi e perpetui (ambedue redimibili), per far fronte alle richieste sempre più pressanti della Corona, fino a raggiungere a metà secolo una vasta e capillare diffusione, cui fece seguito l’adozione di misure simili da parte della Diputación del General della Catalogna. In particolare, fu l’aggravamento della situazione negli anni Quaranta che portò in Catalogna a un cambiamento nei metodi di reperimento del denaro, fino ad allora ottenuto con prestiti forzosi a breve termine o con il credito di privati (ebrei, mercanti–banchieri, importanti membri del patriziato locale), spalancando le porte al debito pubblico a lungo termine attraverso forme di vendita delle rendite già praticate fra i privati, violarios (rendite vitalizie) e censales (rendite perpetue); ciò che si staglia in primo piano è il ruolo attivo avuto dalla Corona nella ripartizione delle imposte al fine di privilegiare questa forma di debito pubblico, un fenomeno veramente notevole di intervento nella gestione degli affari locali, con risvolti sul piano del consenso e degli interessi socio-economici che potevano produrlo.
Di grande importanza per l’articolazione dei poteri pubblici è l’emissione di titoli di rendita da parte delle Diputaciones del General d’Aragona, di Catalogna, di Valenza, a seguito della guerra castigliano-aragonese (1356-1365), poiché contribuì in maniera determinante al consolidamento ed alla stabilizzazione delle Cortes, che si dotarono di un sistema fiscale–finanziario autonomo ponendosi come organismo di intermediazione tra gli interessi locali e la Corona. Il profilo tracciato dal Sánchez Martínez consente dunque, da una parte, di avere un quadro sintetico e chiaro dello stato dei lavori e, dall’altra, profila le piste di ricerca da seguire, a partire da una conoscenza appropriata della esatta natura delle rendite vendute per giungere infine a cogliere i mutamenti socio-politici, anche attraverso ricostruzioni prosopografiche, tenendo conto, nel contesto delle variabili geografiche e cronologiche, della originalità e della precocità dell’azione svolta dalle Diputaciones.
Il contributo di Vanessa Harding analizza il caso della città di Londra, studiato procedendo a ritroso dalla crisi finanziaria della fine del XVII secolo. La capitale inglese, nota per le sue dimensioni demografiche e per la relativa ricchezza dei suoi abitanti, esprimeva invece un’amministrazione finanziaria tanto élitaria quanto a lungo andare deficitaria. Tra i caratteri strutturali che avrebbero contribuito a far emergere il vuoto delle casse comunali, l’Autrice sottolinea la cattiva gestione delle risorse degli orfani amministrate dalle autorità cittadine. Pur in mancanza di una documentazione adeguata è stato possibile rilevare che questi fondi non venivano gestiti separatamente, ma confluivano nell’amministrazione degli affari correnti, per cui non era possibile avere un prospetto adeguato di questa sezione del budget comunale, tant’è che il “finding money”, cioè il pagamento delle rendite agli orfani, finì con il superare abbondantemente le possibilità di saldo consentite dai capitali a disposizione.
Un quadro di efficienza e di funzionalità emerge invece dalla gestione finanziaria della Repubblica di Venezia nello stesso periodo di tempo, in base al profilo tracciato da Luciano Pezzolo facendo ricorso alla messe di dati fornita dalla storiografia sulla città lagunare. Il sistema del debito forzoso, adottato fin dal XII secolo, si rivelò inadeguato a coprire le crescenti spese di guerra cui il governo dogale dovette far fronte nel corso del XV secolo, a proposito del quale l’Autore si chiede quale sia la valenza effettiva del termine “pubblico”, dal momento che mancava una libera scelta degli investitori e, dunque, un mercato primario dei titoli. Ad ogni modo, la reazione del governo veneziano a queste difficoltà si concretizzò, nel secondo quarto del XVI secolo, nell’abbandono progressivo del debito forzoso e nella concessione di titoli di rendita sul mercato aperto attraverso il Monte del Sussidio (1526) e, soprattutto, i Depositi di Zecca del 1528 e del 1532, cui fecero seguito nel 1538, durante la guerra contro i turchi, i Depositi sopra la vita, una forma di credito basata sulla concessione di rendite vitalizie.
La reputazione guadagnatasi dal governo della Repubblica nella gestione del debito rese tali titoli di rendita appetibili, anche se il livello di remunerazione poteva risultare basso rispetto ad altre forme di investimento, per cui nel corso del XVII secolo si allargò la partecipazione sia da parte degli onnipresenti finanzieri genovesi, che avevano di certo il polso della situazione internazionale, sia degli abitanti della Terraferma veneta, sempre più legati ai destini della città lagunare. L’Autore rileva che il flusso dei contributi fiscali non si risolveva unicamente nel drenaggio delle risorse finanziarie della popolazione nelle tasche di pochi ricchi, ma metteva in moto dei meccanismi più complessi che sfociavano anche in politiche di assistenza e di incremento dei servizi pubblici. Il profilo “pubblico” dell’amministrazione repubblicana veneziana si constata anche a confronto con il governo mediceo fiorentino, che vincolò invece i cespiti del sistema fiscale/finanziario alla costruzione ed al consolidamento di un sistema di patronage intorno alla famiglia regnante.
Secondo James Tracy la gestione del debito da parte delle autorità provinciali olandesi fu uno degli strumenti determinanti per la nascita di un’altra Repubblica, quella delle Province Unite. Alla principale di queste province, quella olandese, ed alla sua capitale, Amsterdam, è dedicato l’articolo di Wantje Fritschy. Egli parte dalla constatazione che mentre nel XVI secolo il debito della città superava quello della Provincia, nel XVIII secolo i rapporti si erano invertiti. Ne consegue che se il debito pubblico è stato rilevante per il processo di formazione statale, nel tardo Cinquecento, ciò era dovuto in gran parte al credito urbano, mentre dopo tale periodo il credito provinciale divenne sufficientemente importante per sostenere il finanziamento delle imprese belliche. L’Autore nota che, durante la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, il reperimento delle risorse finanziarie necessarie alla formazione statale delle Province Unite avvenne soprattutto attraverso l’inasprimento fiscale (ottenuto anche tramite nuove imposte dirette, verponding, che rimasero comunque minoritarie rispetto ai “common means”), piuttosto che con il debito pubblico, fosse esso urbano o provinciale. Secondo Fritschy, la gestione dei “common means” da parte delle autorità provinciali consentì di integrare maggiormente le città nell’organizzazione del sistema tributario e, quindi, di attenuare i possibili particolarismi che potevano derivare da un’eccessiva autonomia delle finanze locali. Il debito pubblico della Provincia di Olanda era nettamente superiore a quello delle altre Province, ma la sua incidenza rispetto alle entrate era inferiore.
Un utile confronto, a questo proposito, sarebbe utile effettuare con la situazione rilevata nello Stato Pontificio nel 1700; tuttavia, nel corso del XVIII secolo, il rapporto divenne più favorevole alla Camera Apostolica, soprattutto per quanto riguarda l’incidenza pro-capite del rapporto fra debito ed entrate. Ciò era dovuto fra l’altro alla maggiore crescita demografica della città capitolina, come ha mostrato Fausto Piola Caselli nel suo contributo, che approfondisce ed amplia il quadro tracciato nel corso delle sue ricerche sulle finanze pontificie; anche Roma, come Amsterdam e le altre capitali europee, era cresciuta in misura notevole rispetto alle altre città dello Stato nel corso dell’età moderna, ma qui a differenza che altrove tale propensione era accentuata dal fatto di essere la sede del governo pontificio, il che permetteva di raccogliere i flussi finanziari provenienti dall’intero orbe cattolico e propiziava la presenza di sfarzose corti cardinalizie e di mercatores romanam curiam sequentes.
Il mercato delle rendite romano (sia urbano, sia baronale, sia statale) era piuttosto articolato e si giovava della mediazione di mercanti-banchieri tecnicamente qualificati, provenienti spesso da Firenze e da Genova; i prestiti allo Stato avvenivano generalmente nella forma di luoghi di monte non vacabili (rendite perpetue redimibili) e di luoghi di monte vacabili (rendite vitalizie), mentre sul piano privato erano stipulati contratti simili come il censo consegnativo. Per quanto riguarda la stratificazione sociale dei titolari di rendita si segnala la declinante presenza dei nobili dopo l’ultimo quarto del Seicento, che il Piola Caselli pone in relazione con il venir meno della pratica del nepotismo, e per converso la partecipazione crescente di istituti religiosi ed assistenziali; ma al di là di questi aspetti, che si inseriscono in un’evoluzione socio-politica più complessa, la partecipazione popolare all’acquisto di titoli del debito pubblico, anche attraverso associazioni di persone, è il dato più caratterizzante, che si riflette naturalmente nella scarsa concentrazione del credito, al quale contribuivano in misura significativa anche le donne (presumibilmente nella forma di rendite nuziali o vedovili). Nonostante un prezzo dei titoli di rendita tendenzialmente elevato (cioè un tasso d’interesse basso), la domanda si mantenne sostenuta poiché i luoghi di monte erano facilmente negoziabili sul mercato, erano tassati in maniera moderata ed erano pagati regolarmente grazie ai piani di rimborso stabiliti fin dall’origine, basati soprattutto sulle gabelle (imposte indirette) della capitale, che contribuiva al finanziamento del debito in misura nettamente superiore rispetto alla periferia.
La seconda sezione del volume (Urban Governments, Public Debt and Annuity Markets) approfondisce l’analisi della gestione del mercato delle rendite e del debito pubblico da parte delle amministrazioni urbane. A Zutphen, una città dell’Olanda orientale, la vendita di rendite vitalizie nella prima metà del XV secolo veniva spesso effettuata per ridimensionare il peso delle rendite perpetue, le quali pur godendo di un tasso di remunerazione inferiore gravavano progressivamente sul bilancio comunale, come risulta dall’indagine condotta da Remi van Schaïk, che si è servita di una documentazione contabile ottimamente conservata. Il periodo di massimo sforzo finanziario si ebbe a cavaliere dei secoli XV e XVI, in virtù tra l’altro delle spese sostenute per il raggiungimento dell’indipendenza da parte del ducato di Gheldria, e non a caso in questi anni si ebbero pressioni per una maggiore partecipazione popolare nelle istituzioni rappresentative urbane. Dopo la sommossa del 1526, causata da un’imposizione fiscale senza previa consultazione nel villaggio di Warken, e la rivolta del 1528 a Zutphen, che portò al momentaneo riconoscimento delle richieste avanzate dalle corporazioni e dai ceti popolari, i patrizi sostenuti dalla monarchia asburgica riuscirono ad imporre un governo oligarchico delle finanze comunali ed a riprendere la politica delle rendite che era contrastata dagli altri ceti sociali.
La stessa ostilità popolare contro le rendite la ritroviamo nel parere espresso da Job Vener in merito alla bolla Regimini universalis emanata da Martino V ed in altre espressioni di malcontento con le quali esordisce l’articolo di Hans-Jörg Gilomen, che intende penetrare nei meccanismi socio-psicologici, prima che razionali, attraverso i quali si realizza il decision making process in materia di emissione di prestiti da parte delle autorità comunali, nel XV secolo, nei territori dell’attuale Svizzera. Secondo l’Autore la decisione di emettere titoli di rendita non era motivata da calcoli fondati su leggi economiche, come accade nelle moderne società di assicurazioni, quanto piuttosto dal timore di agitazioni sociali, il che risulterebbe in contrasto con l’ostilità popolare verso le rendite appena rilevata; peraltro, gli investitori non corrisponderebbero alla figura del capitalista in cerca di facili profitti, ma sarebbero in genere dei benestanti che intendevano assicurarsi una pensione per la vecchiaia oppure donne (spesso monache o vedove). In base ai dati elaborati dal Gilomen, le emissioni di rendite vitalizie furono di fatto più vantaggiose per le casse comunali, ma le autorità preposte alla gestione del debito cittadino ignorando tale rapporto favorirono nella seconda metà del XV secolo l’acquisto di rendite perpetue redimibili.
Anche a Huy, città del principato ecclesiastico di Liegi sulla cui gestione finanziaria seicentesca si sofferma Denis Morsa, il ricorso ai prestiti pubblici non avveniva sulla base di una programmazione pianificata della tesoreria, ma era dettato piuttosto dall’esigenza di far fronte alle necessità urgenti dell’erario, soprattutto in occasione degli avvenimenti militari provocati dalla politica aggressiva di Luigi XIV. Allo stesso modo, particolare attenzione veniva rivolta dagli amministratori locali all’acquisto di rendite da parte di forestieri, che erano talvolta individuati e contattati da appositi procuratori comunali per raggiungere accordi ad hoc; la presenza di stranieri indicava in tal caso una situazione precaria e rendeva ancora più debole il già carente finanziamento degli investimenti produttivi e della spesa in loco. Insomma, nella Huy del XVII secolo così come nella Basilea del XV secolo, la gestione del debito pubblico non si inseriva nel quadro di una politica finanziaria ben definita, ma era piuttosto frutto di espedienti e di decisioni assunte per superare difficoltà momentanee, estranee ad un vero e proprio piano di ammortamento delle uscite. Gli articoli sin qui considerati costituiscono la cornice entro la quale prendere in esame i case-studies presentati nell’ultima sezione (Cities and Annuity Buyers), riguardanti importanti città dell’area fiammingo–olandese.
Come rileva Laurence Derycke, anche a Bruges, che nel XV secolo era stato un centro di attrazione finanziaria internazionale e di gerarchizzazione degli scambi regionali, dopo l’ascesa al potere di Carlo il Temerario e la guerra civile, che fece seguito al conflitto con Massimiliano d’Austria, le autorità cittadine adottarono una politica finanziaria tendente ad escludere l’intervento di forestieri nel debito, giungendo perfino a riscattare le loro rendite per rivenderle ad abitanti locali; ciò era dovuto inoltre al fatto che i cittadini erano considerati responsabili collettivamente ed individualmente del debito pubblico, per cui rischiavano di essere catturati quando si recavano in viaggio, qualora vi fosse insolvenza da parte dei magistrati urbani. D’altra parte, i mercanti internazionali residenti da lungo tempo nella città fiamminga (soprattutto hanseatici, portoghesi ed italiani) partecipavano molto attivamente all’acquisto di rendite vitalizie, trovando così un ulteriore elemento di integrazione nella sfera socio-politica locale, che era caratterizzata da una struttura oligarchica composta principalmente da membri delle corporazioni, da cittadini benestanti e privilegiati (poorters) e da nobili; questi ceti risultavano i più attivi sul mercato delle rendite e riuscivano ad imporsi su una popolazione che pure, dall’inizio del ‘300, aveva goduto di larghi accessi alle cariche pubbliche. Pertanto, a Bruges, come a Zutphen, tra XV e XVI secolo si riscontra una chiusura oligarchica delle élites urbane che ha un profondo significato politico, sociale, culturale ed economico; essa per molti versi deve essere posta in relazione con lo stato di bellum perenne e con il processo di formazione dello Stato moderno, che portarono ad un rafforzamento dei legami tra centro e periferia anche per far fronte alla crescente pressione fiscale.
La prospettiva di indagine scelta da Manon van der Heijden, che si concentra sul mercato delle rendite a Dordrecht nel periodo critico 1555-1572, consente di proseguire il discorso avviato da James Tracy e ripreso, tra gli altri, da Marjolein ‘t Hart e da Wantje Fritschy; tale case-studie è di estremo interesse per penetrare nei complessi meandri della fedeltà politica in età moderna, poiché il governo di Dordrecht, pur esprimendosi a favore dei rivoltosi orangisti, continuò ad emettere rendite in nome del Re, rimanendo ancora saldo il principio della legittimità monarchica. Entro la stessa cornice costituzionale i cambiamenti effettivi erano però notevoli, come si evince peraltro dai mutamenti che si registrano nella partecipazione al mercato delle rendite nell’anno di grazia 1572, con un calo netto degli investimenti effettuato dai mercanti esteri e, per converso, un intervento massiccio da parte dei magistrati urbani. Ancor più eclatante il caso di Amsterdam, analizzato da Martijn van der Burg e da Marjolein ‘t Hart, città che rimase fedele al Re Cattolico fino al 1578, con un ingente dispendio finanziario; dopo la resa ai rivoltosi, l’ingrossamento del debito pose il governo cittadino davanti alla malaugurata eventualità di fare bancarotta, ma per non perdere credito si decise di operare un ammortamento mediante pagamenti forfaitari e riduzione dei tassi d’interesse. Comunque, la capitale olandese riuscì ben presto a recuperare credibilità, potendo contare, oltre che sul sostegno della propria élite finanziaria, anche sulla partecipazione di piccoli e medi risparmiatori, nonché, come a Londra, sull’amministrazione dei beni degli orfani; all’inizio del Seicento, com’è noto, divenne la sede della Compagnia delle Indie Orientali, della borsa e della banca di Amsterdam, assumendo il ruolo che era stato svolto dalle fiere di Piacenza, sotto il controllo dei finanzieri genovesi, nella regolazione dei pagamenti e dei cambi internazionali.
Nel complesso, mi pare di poter concludere che il mercato delle rendite costituisca una chiave di lettura fondamentale per comprendere, non solo l’economia, ma l’intera evoluzione politico–costituzionale e socio–culturale dell’Europa medievale e moderna; negli studi del prossimo futuro, sarebbe auspicabile un maggiore approfondimento dei meccanismi di alienazione delle rendite in ambito pubblico e privato, che tenga conto di un insieme di variabili, dalla contrattualistica agraria alla negoziabilità dei titoli, dalla riflessione teologico–canonistica alle testimonianze del diritto comune e consuetudinario, dal rapporto con altri istituti economici alla evoluzione nel tempo e nello spazio.
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