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Nicola Matteucci e la difficile religione della libertà
di Eugenio Capozzi
1. Cercando il valore nella storia: l’eredità di Battaglia e di Croce

Se una data può sintetizzare emblematicamente gli elementi fondamentali nella formazione culturale di Nicola Matteucci, questa è forse il 1949. In quell’anno egli – ventitreenne, appena laureato in giurisprudenza all’università di Bologna con una tesi su Il diritto nella filosofia dello Spirito di Benedetto Croce, relatore Felice Battaglia, ed in procinto di laurearsi in filosofia nello stesso ateneo – si recava a Napoli come borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, da poco fondato dallo stesso Croce.
L’interesse per il filosofo napoletano era maturato in Matteucci proprio sotto l’influenza di Battaglia, impegnato allora in un tentativo di connessione tra la sua impostazione idealistica di ascendenza gentiliana e la tensione verso una filosofia dei valori di impronta cattolico-spiritualista. Il punto di equilibrio elaborato da Battaglia era stato il superamento della riduzione immanentistica del valore al fatto, conseguito attraverso una concezione del diritto come perno della vita pratica, depositario di contenuti morali universali ed incentrato sulla persona umana; e quindi un interesse precipuo per la progressiva elaborazione concreta di quei contenuti nella storia attraverso le forme normative e istituzionali1. Sulla sua scia, il giovanissimo Matteucci ricercava in Croce gli elementi che consentissero di sottrarre il diritto alla originaria “chiusura” nella sfera dell’economia, per caricarlo di autonomia e spessore etico.
I punti di riferimento in proposito, per lui come per molti altri giovani formatisi nella temperie spirituale degli ultimi anni del fascismo, non potevano che essere le opere crociane della fase di opposizione allo “Stato etico” e al regime fascista, ed innanzitutto la Storia d’Europa e La storia come pensiero e come azione. Ma agli occhi di Matteucci rimaneva ancora uno iato da superare tra il Croce grande maestro della libertà come suprema istanza morale e la posizione subordinata che nel “sistema” crociano mantenevano le “tecniche” concrete della libertà, il diritto e le istituzioni politiche2.
Si può, allora, immaginare il giovane studioso bolognese nelle stanze di Palazzo Filomarino, attento soprattutto a cogliere nelle “conversazioni” dell’anziano filosofo ogni appiglio che potesse contribuire a colmare quel vuoto, a dare un volto politico e giuridico alla “religione della libertà”, mentre il mondo ancora stava uscendo dal conflitto apocalittico scatenato dal nazismo e dal fascismo, e già erano calate sull’Europa le ombre della guerra fredda e della rinnovata minaccia totalitaria incarnata dall’Unione Sovietica. Si può dire che tutta la vita di Matteucci sarebbe stata, in seguito, dominata da questo problema: che era quello di innestare il liberalismo etico sulla base di una definizione filosofica coerente dei diritti fondamentali dell’individuo, senza al contempo sacrificare la concezione realistica – machiavelliana, hegeliana, crociana – della politica.
Una questione che avrebbe trovato la sua successiva formulazione già nella tesi redatta da Matteucci per la sua seconda laurea, quella in filosofia conseguita nel 1950, e intitolata Antonio Gramsci e la filosofia della prassi. Gramsci – come, per altri versi, Gentile – veniva ad incarnare infatti per Matteucci uno storicismo totalizzante, un immanentismo assoluto che pretendeva di esaurire senza residui nel processo dialettico della storia ogni aspetto dello spirito umano, sacrificando ad un logos ferreo ogni sua concreta manifestazione individuale3.
Negli stessi anni il confronto con il magistero crociano poneva un problema per molti versi analogo ad un filosofo del diritto un po’ meno giovane di Matteucci, già entrato a pieno titolo nel mondo accademico, e che aveva avuto modo di attraversare un tormentato percorso politico dall’obbedienza al regime all’opposizione antifascista nelle file di “Giustizia e libertà”: Norberto Bobbio. Anch’egli, dal suo punto di vista, faceva i conti con la discrasia tra il riferimento fondamentale offerto alla sua generazione dal liberalismo etico di Croce, e l’esigenza di integrarlo con una “tecnica” giuridica e politica della libertà: la sua riflessione in tal senso sarebbe sfociata di lì a poco nel saggio Benedetto Croce e il liberalismo, inserito nel volume Politica e cultura4. La soluzione elaborata da Bobbio sarebbe stata quella di sottolineare in primo luogo la genesi integralmente storica dell’idea dei diritti soggettivi e la integrale coincidenza di questi ultimi con l’elaborazione concreta del diritto positivo su impulso delle forze protagoniste dei processi di modernizzazione, rifiutando qualsiasi ipostatizzazione astratta di essi5. Il tentativo di Matteucci, viceversa, sarebbe stato costantemente quello di ricondurre quel processo storico concreto di elaborazione normativa ad un orizzonte prescrittivo, costituito dalla rivendicazione – maturata nel corso della storia della civiltà occidentale, ma come esito di un processo comune all’intera civiltà umana – di spazi di libertà sottratti all’arbitrio del potere politico e sociale.
La frequentazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici riveste un’importanza decisiva per la biografia intellettuale di Matteucci anche sotto un altro aspetto: in quella sede, infatti, egli conobbe Vittorio de Caprariis, borsista di un anno più anziano, con il quale avrebbe stretto una profonda amicizia, ed un legame intellettuale di grande influenza nel successivo evolversi dei suoi studi. Su entrambi all’epoca si fece sentire, dal punto di vista del metodo e degli oggetti d’indagine, l’influsso determinante di Federico Chabod, allora direttore dell’Istituto, che indirizzò i loro studi verso il pensiero politico e le istituzioni della Francia in epoca moderna6. Lo storico napoletano, che stava attendendo ad un volume sul rapporto tra storiografia e pensiero politico in Guicciardini, intraprese un progetto di ricerca sui libertini francesi, che sarebbe sfociato in uno studio complessivo del dibattito ideologico durante le guerre di religione del Cinquecento7. Le successive ricerche dello studioso bolognese, invece, sarebbero state indirizzate verso il Settecento, indagando in particolare le posizioni liberali nel dibattito dell’epoca illuministica e poi di quella rivoluzionaria. Per realizzare quei progetti sia de Caprariis che Matteucci avrebbero trascorso lunghi soggiorni di studio in Francia negli anni successivi, beneficiando di una borsa di studio della fondazione Rockefeller.
Le rispettive scelte, pur nell’ambito di un campo largamente affine, rispecchiavano, in tutta evidenza, la provenienza culturale dei due storici e le domande fondamentali con le quali si erano affacciati alla ricerca. De Caprariis, sulla scorta di Croce, guardava soprattutto al periodo dell’emergere dello Stato moderno e alla Restaurazione postnapoleonica: percorso che presto lo avrebbe condotto allo studio del pensiero di Tocqueville8. Matteucci, viceversa, era condotto naturalmente dall’interesse di Battaglia per il razionalismo illuministico a indagare in quel contesto la varietà e rilevanza delle teorie antiassolutistiche.
Una maturazione parallela e insieme convergente (grazie alla catalizzazione operata da Chabod) che favorì un reciproco costante influsso culturale tra i due. Nell’ambito del quale va collocata negli anni successivi la progressiva assunzione da parte di entrambi, come oggetto principale di interesse storiografico, del costituzionalismo moderno, interpretato come la progressiva sedimentazione di strumenti per la razionalizzazione, il controllo e la limitazione del potere in un’ottica liberale9.
Nel frattempo la comune preoccupazione per la collocazione del patrimonio liberale nel contesto del nuovo quadro politico italiano, in anni di polarizzazione ideologica a livello mondiale tra liberaldemocrazie occidentali e comunismo sovietico, spingeva entrambi in prima linea anche nel campo delle nuove iniziative di dibattito culturale. Nel 1951 Matteucci partecipava, insieme ad altri intellettuali bolognesi di varia estrazione, alla fondazione di un’associazione che si prefiggeva di elaborare strumenti intellettuali atti a leggere con occhi nuovi, non tributari di impostazioni ideologiche superate dai tempi, la società italiana e il sistema democratico: il gruppo della rivista «Il Mulino», dal quale avrebbe poi preso vita nel 1954 l’omonima casa editrice10. Due anni prima, nel 1949, de Caprariis aveva invece preso parte, con il circolo di liberali-radicali consolidatosi intorno a Mario Pannunzio, alla fondazione della rivista «Il Mondo». Le due iniziative avevano molti punti di contatto e si situavano in un ambiente per molti versi contiguo (de Caprariis sarà infatti molto presente anche sulle pagine de «Il Mulino»); ma il cenacolo bolognese era più specificamente caratterizzato dall’obiettivo di costruire un ponte di dialogo tra liberali, socialisti riformisti e cattolici democratici, mentre nel «Mondo» (che pure si sarebbe battuto per l’alleanza tra Dc, laico-liberali e sinistra riformista) prevaleva nettamente l’anticlericalismo militante. Nel 1954, infine, de Caprariis avrebbe creato – insieme a Francesco Compagna, Renato Giordano e altri giovani intellettuali meridionali – la rivista «Nord e Sud», che da un lato si configurava come la “costola” meridionalista de «Il Mondo», ma dall’altro – in virtù della linea politica di La Malfa e Compagna, e anche grazie anche ai rapporti tra de Caprariis e Matteucci – avrebbe intrattenuto con «Il Mulino» rapporti di partnership ben più organica rispetto al settimanale di Pannunzio.
A quella stagione di instancabile dibattito ed elaborazione critica nel mondo liberale italiano Matteucci avrebbe fornito l’apporto peculiare di un intransigente argine rispetto alle propensioni “neo-azioniste” di un riformismo accentuatamente costruttivistico, dalle quali molti appartenenti a quell’area (incluso in parte lo stesso de Caprariis) furono pervasi rispetto alla società italiana, man mano che si avvicinava la nuova stagione del centrosinistra11.


2. La tradizione costituzionalista contro il positivismo giuridico “democratico”.

Gli anni Cinquanta sono allora per Matteucci da un lato quelli dei pionieristici esordi de «Il Mulino», dall’altro quelli dei lunghi studi sulla genesi del liberalismo e della dottrina dell’equilibrio tra i poteri nella Francia moderna: temi che saranno alla base dei volumi dedicati a Jacques Mallet-du Pan (1957) e a Jean Domat. Un magistrato giansenista (1959)12.
Ma in quel periodo lo studioso bolognese seguiva anche con attenzione il dibattito filosofico-politico e filosofico-giuridico, che vedeva soprattutto la contrapposizione tra il normativismo di scuola kelseniana, predominante tra gli intellettuali laici (compresi quelli di ascendenza storicista), e il revival del giusnaturalismo, originato in ambito cattolico, ma che si stava guadagnando una significativa influenza anche in aree culturali non confessionali, sull’onda del trauma totalitario e dell’esigenza, diffusamente avvertita, di rifondare su basi solide gli ordinamenti politici e giuridici occidentali in nome della difesa della dignità umana13.
Nel dibattito tra neopositivisti e giusnaturalisti Matteucci avvertiva fortemente la tensione tra le sue due “anime” – quella storicista e quella di una filosofia dei valori di ispirazione religiosa – e tra le due speculari, corrispondenti esigenze di una lettura descrittiva o prescrittiva della storia politico-istituzionale. Egli respingeva nettamente, da un punto di vista culturale ma anche civile, l’impostazione formalista del normativismo, che gli appariva indifferente al problema della libertà, e funzionale esclusivamente al rafforzamento del potere costituito, qualsiasi esso fosse. Ma, d’altra parte, la sua formazione storicistica gli impediva anche di dare credito ad una concezione sovrastorica, puramente teologica del diritto naturale. Un dilemma molto simile a quello che nello stesso periodo veniva affrontato da un altro filosofo liberale, di più ortodossa formazione crociana e anch’egli fortemente impegnato sul piano politico-ideologico, Carlo Antoni, nei saggi poi raccolti nel volume La restaurazione del diritto di natura (1959)14.
Quel dilemma, peraltro, era avvertito con pari intensità, sebbene in termini meno teoretici e più specificamente storico-politici, anche da de Caprariis, preoccupato soprattutto di individuare un minimo comune denominatore culturale in grado di rinsaldare le istituzioni politiche del “mondo libero” davanti alla minaccia ideologica e politica comunista, in un momento in cui, dopo la morte di Stalin, il confronto della guerra fredda sembrava essersi attenuato d’intensità, ma la strategia politico–militare e propagandistica sovietica, giovandosi proprio di un’apparente minore temibilità, guadagnava terreno, di fronte a società occidentali che invece apparivano sempre meno coscienti dei princìpi etico-politici che le tenevano insieme.
La risposta a quell’esigenza sarebbe stata individuata da de Caprariis nell’indagine sistematica sui fondamenti culturali della tradizione costituzionale occidentale, che di quel “mondo libero” da consolidare gli appariva il nucleo più omogeneo e stabile. E, in particolare, nella riscoperta del costituzionalismo anglosassone, imperniato sull’autonomia della giurisdizione e sulla judicial review, che, attraverso una lunga sedimentazione di riferimenti normativi, aveva conformato la cultura delle libertà in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti; laddove lo Stato moderno in Europa continentale si era retto soprattutto sul criterio giuridico di origine romana-giustinianea del Quod principi placuit legis habet vigorem, facendo nettamente prevalere l’istanza dell’ordine e della gerarchia su quella dei diritti soggettivi dei governati. Un riferimento che trovava la sua fonte primaria nell’opera dello storico statunitense Charles Howard McIlwain, del quale proprio de Caprariis traduceva nel 1956 per Neri Pozza Constitutionalism: ancient and modern, del 1940, e importanti agganci nelle opere prodotte in quegli anni da giusfilosofi come Carl Joachim Friedrich o Edwin Corwin15.
Si trattava di un’indicazione filosofica, storiografica e ideologica nata proprio dal costante confronto con Matteucci, che – proprio sulla scorta della lezione di Battaglia – nella tradizione del costituzionalismo trovava una risposta adeguata alla sua urgenza di rafforzare l’istanza di un diritto impermeabile alla strumentalizzazione politica e non riducibile ai rapporti di forza. Quella tradizione veniva ad assumere per lui il significato di un’indispensabile terza via tra positivismo giuridico e giusnaturalismo clericale, o astrattamente metastorico.
Ma l’attenzione di de Caprariis alla crescita del costituzionalismo nel contesto politico-culturale anglosassone ebbe a sua volta una profonda influenza su tutto il successivo percorso intellettuale di Matteucci, contribuendo a ridefinire i suoi punti di riferimento teorico e i suoi oggetti d’interesse storiografico. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, parallelamente alla grande operazione culturale-editoriale concepita da de Caprariis attraverso l’introduzione in Italia dei grandi testi della cultura politica e della storiografia anglosassone, anche la riflessione di Matteucci si sarebbe indirizzata innanzitutto ai modelli anglosassoni del “governo misto” e alla tradizione della common law, in una linea che collegava i costituzionalisti rivoluzionari del Seicento, Edward Coke, John Locke, Edmund Burke e gli autori del «Federalist», configurandosi ai suoi occhi come un’alternativa complessiva rispetto a quella tradizione dello Stato assoluto che nel XIX e XX secolo era sfociata nel nazionalismo autoritario prima, nel totalitarismo poi.
I primi frutti di quella evoluzione sarebbero stati l’introduzione all’antologia degli scritti politici di Montesquieu, pubblicata nel 1961, e i saggi sui costituzionalisti inglesi pubblicati tra il 1961 e il 196216. Ma la più matura e organica formulazione filosofico-politica matteucciana nata intorno alla categoria del costituzionalismo sarebbe stata il lungo saggio Positivismo giuridico e costituzionalismo, uscito nel 1963 sulla «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile»17. In quella sede Matteucci proponeva una contrapposizione radicale tra tutte le filosofie politiche fondate essenzialmente sulla determinazione della sovranità, e, dall’altra parte, una visione dell’ordine politico imperniata sulla priorità del diritto rispetto al potere.
L’obiettivo polemico principale delle argomentazioni matteucciane era incarnato innanzitutto da Norberto Bobbio, proprio nella fase della sua riflessione in cui egli tentava di superare in senso democratico l’assolutismo statualistico del positivismo giuridico tradizionale attraverso il normativismo kelseniano. Ad avviso di Matteucci tutti gli sforzi dell’istituzionalismo e della “dottrina pura” del diritto – adottati da gran parte dei giuspubblicisti di formazione laica e antifascista, ed in primis da Bobbio, nell’Italia del dopoguerra – non erano in grado di superare realmente le basi del positivismo giuridico: di fondare filosoficamente, cioè, un sistema politico-istituzionale in cui i diritti della persona venissero efficacemente garantiti rispetto a poteri autoritari o totalitari. Ciò soprattutto perché qualsiasi formulazione puramente avalutativa e descrittiva del diritto tende inevitabilmente a identificare la validità della norma con l’esistenza di un ordinamento in grado di rendere effettiva una sanzione; quindi, ancora una volta, a fondare il diritto sulla forza, piuttosto che sulla razionalità della norma o sulla sua funzionalità ad assicurare determinate prerogative proprie dei soggetti giuridici18.
L’unica alternativa a tale aporia, che in termini di filosofia politica conduceva per lui alla riduzione “giacobina” della democrazia alla pura radice della sovranità popolare e della regola di maggioranza, stava ad avviso di Matteucci in una concezione prescrittiva del diritto, fondata non sullo jussum ma sullo justum, ossia su alcuni standards riconosciuti di sacralità della persona umana rispetto al quale le norme e le istituzioni venissero concepite esclusivamente come subordinate:
il potere trova un limite in quella legge che lo rende tale, e cioè lo trasforma da mera forza in potere legittimo e autorevole: ma qui è la legge ad essere all’apice del sistema; e non si risolve il problema di dare un ulteriore fondamento a questa legge, se non rinunciando all’immotivato ostracismo nei riguardi del diritto naturale, o almeno di quel diritto naturale […] che vedeva nel diritto positivo, sia codificato che consuetudinario, immanente una generalità e una razionalità e non lo riduceva alla mera espressione di una volontà […]. Insomma schematicamente: nella ciceroniana recta ratio piuttosto che nella bodiniana puissance dobbiamo cercare il fondamento ultimo del diritto19.

Era l’esigenza rappresentata soprattutto, nella cultura del dopoguerra, dal revival del giusnaturalismo. Ma quell’esigenza agli occhi di Matteucci poteva trovare adeguata realizzazione soltanto incarnandosi in una vicenda storica attraverso la quale quei princìpi si traducessero in formulazioni normative ed istituzioni politiche concrete. Proprio questo era il senso della tradizione costituzionalistica, che all’istanza giusnaturalistica aveva dato realtà e forza effettiva. In particolare attraverso il consolidamento, avvenuto a partire dal Medioevo inglese, della distinzione tra la jurisdictio (la sfera dei diritti e della loro attribuzione) e quella del gubernaculum (la sfera dell’amministrazione e gestione di un ordinamento politico, necessariamente sottratta in alcuni casi al dominio della giurisdizione, ma ad essa subordinata per quanto riguarda i fini generali); e attraverso il progressivo prevalere di una produzione essenzialmente giurisdizionale della norma, contrapposta alla normazione di pura origine legislativa, per sua natura sempre sottoposta al condizionamento del potere politico vigente. Ma soprattutto grazie alla judicial review, ossia al controllo sulla rispondenza della legislazione ai princìpi ispiratori dell’ordinamento costituzionale, nata con la tradizione di indipendenza dei tribunali inglesi di common law rispetto alla Corona e sviluppatasi poi pienamente, secoli dopo, nella costituzione degli Stati Uniti con la funzione svolta dalla Corte Suprema.
Si trattava di una concezione del diritto che inevitabilmente si poneva in polemica, svalutandola, con ogni visione “rousseauiana” della sovranità popolare, riscontrabile nella retorica dei partiti di tradizione antifascista quando veniva proposta la contrapposizione assiologica tout court tra democrazia e dittatura, subordinando i contenuti dei regimi politici alla forma di essi (la legittimazione da parte del “popolo”). La democrazia intesa in senso astratto non rappresentava per Matteucci, dal punto di vista del costituzionalismo, una caratterizzazione tipologica sufficientemente definita: infatti il “potere del popolo” – era questo il nocciolo di tutto il costituzionalismo liberale, che egli riproponeva con forza come discriminante primaria nell’epoca dei regimi politici di massa – può essere compatibile sia con un ordinamento politico e con un assetto giuridico rispettosi delle libertà individuali, sia, al contrario, con ordinamenti dispotici.
La categoria di costituzionalismo, insomma, implicava per Matteucci un approccio ermeneutico allo studio del diritto e della politica che ponesse come oggetto non tanto la neutrale conoscenza della logica intrinseca a qualsiasi ordinamento di diritto pubblico, quanto la ricostruzione di un tracciato storico attraverso il quale la rivendicazione di sfere escluse dall’intrusione arbitraria del potere si era via via incardinata in formule di diritto, dottrine e istituti, raggruppabili intorno a due grandi poli: quello dei checks and bilance e quello del rule of law – eredità ed evoluzione quest’ultima del principio, tipico già degli ordinamenti cetuali medioevali, della lex supra regem. Il tutto a partire da una concezione condivisa della natura umana come soggetto razionale e della coscienza individuale come patrimonio indisponibile: una concezione nata nel medioevo cristiano e nella scolastica, e propagatasi nel moderno razionalismo occidentale, a partire dall’umanesimo, assimilando il pluralismo religioso, la categoria di tolleranza, la secolarizzazione20.
Dal punto di vista del normativismo bobbiano, ovviamente, una lettura della storia occidentale fondata sulla discriminante costituzionalistica non poteva che apparire, invece, come una rinuncia all’avalutatività della scienza giuridica, e un’indebita sostituzione di pregiudiziali morali e ideologiche ad uno studio obiettivo degli ordinamenti costituzionali. Contro le quali Bobbio rivendicava l’esigenza di recuperare una rigorosa distinzione tra scienza e ideologia, che per quanto riguardava il diritto costituzionale si sintetizzava nell’idea antica per cui il titolo di “costituzione” non si applica soltanto ad una tipologia di ordinamento politico-giuridico rispondente a determinati criteri, ma più in generale a qualsiasi regime baricentrato intorno ad un principio di sovranità.
Tale critica, peraltro, fu da lui mossa direttamente, con argomentazioni molto chiare, a Matteucci in una lettera personale:
l’uso del termine ‘costituzione’ in significato non neutrale, cioè per indicare solo le costituzioni che noi preferiamo, è fuorviante. Tutti gli Stati hanno una costituzione, per il semplice fatto che tutti gli Stati hanno delle norme fondamentali […]. Il fatto che lei preferisca la costituzione degli Stati Uniti a quella della Cina di Mao, non toglie che anche la Cina di Mao abbia una costituzione […]. Con ciò non voglio assolutamente impedirle di preferire la costituzione degli Stati Uniti a quella della Cina: voglio semplicemente invitarla a mettere da parte le sue preferenze quando si mette a fare delle ricerche scientifiche. (…) Al di sopra del potere supremo (e un potere supremo o più poteri supremi in concorrenza tra loro ci devono bene essere) non ci sono che vaghe aspirazioni dei singoli e dei gruppi, oppure regole morali e religiose che non fanno parte dell’ordinamento21.

L’obiezione di Bobbio spiega eloquentemente quanto grande fosse la distanza tra l’approccio matteucciano e quello kelseniano. Ma, soprattutto, spiega quanto poco Bobbio e i neopositivisti comprendessero il senso della dottrina costituzionalista che Matteucci articolava a partire dalla propria concezione liberale, storicista e religiosa della realtà umana. Dal punto di vista di quest’ultimo non si trattava, infatti, di subordinare la ricostruzione storica e l’analisi giuspubblicistica degli ordinamenti a “preferenze” ideologiche o morali. Si trattava, piuttosto, di attribuire adeguata rilevanza scientifica al fatto che nell’Europa medioevale e moderna, e poi nelle colonie nordamericane, i termini “diritto” e “costituzione” fossero andati assumendo proprio un’accezione prescrittiva, in relazione dialettica al nascere e svilupparsi dello Stato moderno, come rivendicazione di una serie di argini rispetto alle forze e ai poteri dominanti.
L’emergere di tale accezione prescrittiva non era per lui una preferenza, ma un fatto, in base al quale nella ricostruzione storiografica la storia dell’Occidente acquista un senso razionale ed una sua unità. Rifiutare di riconoscere la storia del costituzionalismo occidentale come una vicenda internamente omogenea, in nome di una presunta equivalenza tra qualsiasi fenomeno politico-istituzionale o giuridico, significava insomma per Matteucci precludersi la comprensione effettiva di un complesso di fenomeni storici, in nome di un pregiudizio (quello, sì, arbitrario ed antiscientifico) per cui ogni forma organizzativa del potere può essere considerata allo stesso titolo, e le rivendicazioni di diritti possono essere rubricate come fenomeni puramente empirici, tenendo artificiosamente distinti gli istituti connessi alla jurisdictio e il patrimonio culturale complessivo che sta alla base delle sue varie manifestazioni22.


3. Habeas mentem: una filosofia della libertà contro il “dispotismo paterno”.

Tra gli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo nell’opera di Matteucci l’indagine storiografica e la riflessione filosofica sul costituzionalismo si andavano progressivamente saldando nel grande disegno di una storia complessiva (includente politica, diritto, istituzioni, dottrine e ideologie) della moderna civiltà occidentale dal punto di vista del rapporto tra libertà e potere. Le tappe principali di questo percorso sono la lunga introduzione all’edizione italiana (voluta da de Caprariis, e completata da Matteucci poco dopo la sua morte) del volume di McIlwain La rivoluzione americana. Un’interpretazione costituzionale, e i due capitoli destinati alla Storia delle idee politiche e sociali curata da Luigi Firpo, che confluiranno nel 1976 nella sintesi di Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno23. Se nel primo scritto emergeva già con evidenza l’accentuazione della centralità della judicial review nella costruzione del costituzionalismo moderno, come approdo del processo e criterio attraverso il quale è possibile offrirne un’interpretazione, il lungo lavoro intorno alla storia del costituzionalismo moderno culminante nel volume del 1976 si sarebbe configurato per Matteucci appunto come il più ambizioso tentativo di tratteggiare la vicenda costituita dalle svariate manifestazioni dell’esigenza della limitazione del potere in base al diritto: dai legisti inglesi ai monarcomachi e ai politiques francesi, dai puritani e repubblicani della prima rivoluzione d’Oltremanica ai whigs della seconda, dai liberali conservatori a quelli radicali tra Sette e Ottocento, dal costituzionalismo organicistico medioevale a quello individualistico contemporaneo.
Si trattava di un disegno in cui si poteva ancora riconoscere palesemente la continuità con la profonda solidarietà intellettuale che aveva unito Matteucci a de Caprariis: una continuità racchiusa nell’idea della dorsale “atlantica” e della cifra profondamente unitaria del costituzionalismo moderno. Il rimando era evidente, in particolare, nel lungo capitolo dedicato alle guerre di religione in Francia24, esplicitamente tributario del volume dedicato a quel tema dallo storico napoletano; e persino nel titolo dato da Matteucci al compendio del volume comparso su «Nord e Sud», Le mura della libertà, che citava l’espressione adoperata da de Caprariis in un saggio del 195825.
Nella ricostruzione di Matteucci prendeva forma, per l’appunto, quella idea organica della modernità occidentale nel segno dell’emergere della libertà individuale che stava alla base della contrapposizione tra “filosofia” costituzionalistica e positivismo giuridico. Egli individuava poi volta a volta nel nucleo comune di quella cultura specifiche manifestazioni rispondenti ai differenti contesti nazionali e passaggi temporali, tali da configurarsi come “modelli” costituzionali. La democrazia contemporanea, dotata di senso soltanto come contrapposizione speculare ai totalitarismi e alle concezioni autoritarie del potere, può prendere per Matteucci la forma presidenzialista-federalista della repubblica statunitense, quella semi-presidenzialista della Francia della V Repubblica, o quella dei regimi parlamentari europei. Ma per poter rientrare all’interno della categoria – dell’“ideal-tipo” – del costituzionalismo, essa deve mantenere sempre l’equilibrio tra jurisdictio e gubernaculum: vale a dire, da una parte, un bilanciamento tra i poteri che assicuri tanto la rappresentanza plurale di interessi e opinioni quanto l’autonoma azione del governo; dall’altra, la supremazia del diritto assicurata dall’autonomia della sfera giurisdizionale, ma soprattutto da una cultura del diritto come garanzia, piuttosto che come organizzazione gerarchica al servizio dell’ordine costituito. Deve essere esclusa, dunque, per lui dall’ambito costituzionalista ogni forma di parlamentarismo assemblearistico, in cui il potere esecutivo e la sfera del diritto siano fagocitati dal legislativo, perché in tale veste la democrazia non può assicurare la più elementare stabilità dei diritti soggettivi, ma è preda delle oscillazioni umorali ed incoerenti di maggioranze instabili26.
Nella fase tra anni Sessanta e Settanta, peraltro, la contrapposizione tra assemblearismo e democrazia costituzionale si andava complicando e arricchendo, in Matteucci, di una riflessione stimolata dall’esplosione del nuovo radicalismo movimentistico di quegli anni, che lo avrebbe condotto a formulare un’interpretazione della cultura politica del Sessantotto in termini di “insorgenza populista”. Se il parlamentarismo assemblearistico gli appariva come un lascito giacobino inconciliabile con la cultura occidentale della libertà, a maggior ragione l’ideologia movimentistica della democrazia diretta, del “partecipazionismo”, veniva da lui giudicata addirittura come il ritorno ad una concezione premoderna della società, che scardinava alla radice il delicato e complesso processo attraverso cui, in un percorso secolare, si era formata l’architettura dello Stato costituzionale.
La successiva evoluzione degli avvenimenti politici italiani nei primi anni Settanta, tra derive estremistiche di destra e di sinistra e tendenza verso il “compromesso storico” tra comunisti e democristiani, avrebbe contribuito ad alimentare in lui l’idea che il movimentismo sessantottino e le sue ricadute sulla cultura politica diffusa fossero gli indicatori del ritorno ad una forma cetuale-corporativa della politica, in cui gli interessi sindacali e di categoria, e in generale le posizioni sociali maggiormente protette dalla concorrenza, si saldavano in una gestione condivisa e “concertata” del potere. In ciò sommandosi alla tendenza, sempre più diffusa in Occidente, all’affermazione di una visione puramente tecnocratica del governo, “sterilizzata” dalla dialettica politico-istituzionale propria di un autentico pluralismo, invasiva nella sfera privata degli individui ed in quella dei nuclei sociali27.
In tale contesto, anche gli originari motivi di contrapposizione tra l’approccio costituzionalista e quello del normativismo giuspositivista sostenuto da Bobbio tendevano ad attenuarsi di fronte all’esigenza di salvaguardare l’essenza dei sistemi rappresentativi democratici moderni di fronte alla loro frettolosa liquidazione o al loro snaturamento. Non è un caso che in quel periodo Matteucci cominciasse a mostrare un interesse più simpatetico verso il Bobbio scienziato politico28 e, parimenti, verso il Bobbio alfiere del socialismo riformista, promotore di una cultura liberale delle regole e dei limiti del potere in una sinistra italiana che a Matteucci ne appariva cronicamente priva. Un interesse nutrito, più in generale, della grande considerazione verso la figura di intellettuale “pubblico” così efficacemente incarnata dal filosofo torinese, che Matteucci riteneva particolarmente essenziale in una fase di fortissima incertezza quale quella che la società italiana stava attraversando. Di quell’avvicinamento fu un chiaro indicatore l’impresa comune del Dizionario di politica, diretto dai due insieme a Gianfranco Pasquino e pubblicato nel 197629. Ma proprio in quel periodo Matteucci decise di seguire direttamente l’esempio bobbiano, rientrando, con un’intensità che in lui non si vedeva dai primi anni de «Il Mulino», nel dibattito sull’attualità politica.
Data infatti a partire dal 1975 (dopo una breve collaborazione al settimanale «Il Mondo», nella sua nuova fase seguita a quella pannunziana)30, il rinnovato impegno di Matteucci come commentatore ed editorialista sulle pagine del «Giornale» fondato da Indro Montanelli. Un impegno che traeva impulso proprio dalla sua opposizione intransigente alle derive populistico-corporative, ed insieme alle nuove minacce eversive nei confronti del regime liberaldemocratico31, e che da allora in poi egli avrebbe continuato con impressionante regolarità praticamente fino alla fine dei suoi giorni, anche dopo l’abbandono del quotidiano da parte del fondatore e il riassetto del sistema politico italiano negli anni Novanta. Da quelle pagine Matteucci avrebbe proposto analisi e polemiche ispirate sempre all’idea-guida della costruzione di uno schieramento politico liberal-moderato, e di un’evoluzione dell’assetto istituzionale italiano nel senso delle maggiori democrazie occidentali, innanzitutto attraverso un sistema elettorale maggioritario e un consolidamento del potere esecutivo. In particolare, poi, la decisa collocazione di Matteucci nello schieramento di centro-destra che si sarebbe formato nel nuovo quadro politico delineatosi a partire dagli inizi degli anni Novanta – una collocazione mai militante o acriticamente allineata, ma che sarebbe rimasta sempre quella di un intellettuale indipendente – avrebbe rappresentato per lui innanzitutto un atto concreto di adesione ad un’idea della democrazia inequivocabilmente fondata sul bipolarismo e sull’alternanza, in consonanza con i modelli classici del governo costituzionale.
Intanto, la constatazione di quanto fossero minacciosi i nuovi-vecchi nemici degli ordinamenti costituzionali occidentali aveva mosso fin dai primi anni Settanta Matteucci ad un ripensamento complessivo della filosofia politica liberale alla luce dei profondi mutamenti intervenuti nella società industrializzata di massa: ripensamento di cui il primo prodotto era stato il volume del 1972 Il liberalismo in un mondo in trasformazione.
Il punto fondamentale di riferimento di questa riflessione era ancora Benedetto Croce, rispetto al quale Matteucci riprendeva ed elaborava i motivi di continuità e quelli di distacco che erano stati già alla base della sua formazione culturale giovanile. Da un lato, egli ribadiva l’insufficienza della filosofia crociana nella fondazione del liberalismo politico, addebitandola all’accezione “immanentistica” della libertà da lui proposta, che pregiudicava a suo avviso la distinzione tra la libertà come principio motore della realtà e quella concretamente realizzata nelle istituzioni. Dall’altra, però, egli considerava essenziale ora continuare a valorizzare proprio il nucleo etico del liberalismo che era stato al centro della lezione crociana, in quanto, senza quel principio ispiratore, la difesa della libertà in una società complessa e sottoposta a sollecitazioni contraddittorie avrebbe rischiato continuamente di smarrirsi, favorendo l’emergere strisciante, ma non meno pericoloso, di nuove forme di dispotismo32. Come Matteucci amava ripetere in quel periodo, citando una frase di Aldous Huxley, nella società contemporanea oltre che per lo habeas corpus è necessario battersi per lo habeas mentem33.
Si trattava del primo, significativo indizio di un progressivo ampliarsi della riflessione matteucciana sulla libertà dal piano del costituzionalismo a quello della filosofia morale, dove in luogo della semplice opposizione storica tra potere statuale o sociale e diritti civili o politici si delineava sempre più il nuovo e più complesso confronto, da lui individuato come caratteristico delle società industriali avanzate, tra il dominio di fini esclusivamente materiali e l’autonomia spirituale degli esseri umani.
Un rinnovato approccio in cui altre figure compaiono o riemergono in primo piano quali fonti d’ispirazione. In primo luogo Tocqueville, su cui Matteucci torna a più riprese tra anni Sessanta e Ottanta34, e che gli offriva soprattutto lo spunto per contrapporre ai rigurgiti populisti e corporativi della cultura politica contemporanea la teoria di una società pluralista ma non organicista, composta di aggregazioni nate dalla libera azione degli attori sociali e civili.
Per altri versi, l’autore che nella fase più matura del pensiero matteucciano si pone quasi in un ideale triangolo, insieme a Croce e Tocqueville, è senza dubbio Frederich August von Hayek35. In lui Matteucci trovava ulteriore supporto ad una concezione complessiva della storia occidentale fondata sul realizzarsi della libertà tanto attraverso il governo costituzionale quanto attraverso le dinamiche – di valenza politica, ma anche etica e culturale – dell’economia di mercato: intesa quest’ultima come ambito della comunicazione e spontanea autoregolazione della società, in cui la responsabilità individuale e la spinta alla collaborazione e all’associazione sono al massimo grado potenziate. E trovava anche un comune sentire nel senso di una visione evolutiva, individualista, ma al tempo stesso conservatrice, della storia, in cui gli elementi di garanzia della libertà sono offerti soprattutto dai princìpi etici ereditati dalla tradizione36.
Il periodo di ripensamento in chiave essenzialmente filosofico-morale della questione della libertà occidentale, cominciato a partire dagli anni Settanta, è peraltro anche quello in cui Matteucci si confronta costantemente con i filosofi politici e del diritto esponenti delle nuove scuole del liberalismo anglosassone, in particolare Rawls, Dworkin e Nozick: pervenendo ad una definizione più precisa della propria posizione rispetto alle accezioni variamente democratico-progressiste o anarco-libertarie che il pensiero liberale d’oltreoceano andava assumendo al tramonto delle grandi contrapposizioni ideologiche novecentesche. Matteucci era affascinato dal libertarismo e dalla teoria nozickiana dello “Stato minimo”, proprio perché (come pure il liberalismo democratico e redistributivo di Rawls) si ponevano sul piano della filosofia morale prima che politica. Ma l’impianto filosofico di Hayek – fondato su un’interpretazione coerente e unitaria della storia umana e in grado di reggere, oltre che sul piano dell’etica, su quello dell’economia e della teoria istituzionale – gli sembrava più adeguato a veicolare efficacemente le istanze di un’individualismo radicale. E, per altri versi, quello di Dworkin gli appariva altrettanto solido proprio in quanto si riallacciava strettamente alla traccia storica del costituzionalismo, quella della supremazia del diritto sulla politica37.
L’impressione prevalente che si ricava, comunque, dall’insieme dei disparati interessi filosofici e storiografici degli ultimi decenni della vita di Matteucci è quella di una sua crescente tendenza a prendere in considerazione le critiche filosofiche alla modernità, vista soprattutto sotto la luce dei rischi di radicale disumanizzazione da essa comportati nella fase post-industriale del dominio tecnologico. Un atteggiamento profondamente pessimistico, dettato dalla crescente convinzione che le istituzioni politiche e giuridiche nella moderna organizzazione della società divengono via via più insufficienti, da sole, a garantire efficacemente le libertà, e che il potere assume forme sempre nuove, più elaborate e pervasive, per assoggettare i corpi e le coscienze umane.
Da qui il suo interesse prevalente per la “filosofia pratica” come dimensione più adeguata alla tematizzazione di una “religione della libertà” nella società di massa38, e quello per le voci filosofiche, di intonazione anche sensibilmente diversa, che ponessero in adeguato rilievo i nuovi rischi di disfacimento del patrimonio spirituale e civile dell’Occidente: da Augusto Del Noce39 a Hannah Arendt o Eric Voegelin40.
In tali direzioni Matteucci continuava, così, a cercare fino all’ultimo di costruire quel ponte tra storia e valore della persona che lo aveva spinto a Napoli sulle tracce dell’ultimo Croce in quel lontano autunno del 1949. E approdava, riecheggiando in ciò per molti versi proprio il percorso intellettuale delnociano, ad una critica radicale della “secolarizzazione”, intesa come riduzione della vita etica alla dimensione puramente utilitaria, priva del riferimento a princìpi assoluti:
E’ la società (non più civile) che ha invaso la sfera privata, come ha espropriato la sfera pubblica. E’ diventata una società di massa, perché, in seguito al processo di secolarizzazione, la sola cosa a tenere insieme gli individui è l’interesse privato nella ricerca di un maggior benessere, e la maggioranza impone la sua tirannia. La piazza è entrata nelle case e si è seduta a palazzo. E’ la “secolarizzazione” – unita all’amore per un quieto benessere – il pericolo che Alexis de Tocqueville mostrò ai posteri: scomparsa l’“autorità” dei valori, c’è spazio solo per l’edonismo e per una mera soggettività, mentre, per essere liberi, bisogna avere una fede, cioè credere41.

Lo stadio di sviluppo raggiunto dai sistemi di dominio e consenso nelle società industrializzate e post-industriali, in cui la sfera etico-religiosa è sempre meno autonomamente caratterizzata, si configurava dunque sempre più, agli occhi di Matteucci, come l’affermazione del dispotismo “paterno” profetizzato a suo tempo da Tocqueville42. Un dominio ottenuto, più che con la forza, attraverso strumenti obliqui e pervasivi di controllo sociale operanti su esseri umani senza più cittadinanza, perché privi ormai di dignità e umanità:
Questa nuova forma di dispotismo, prevista dal Tocqueville e dal Mill, è una forma di totalitarismo assai diversa da quella che storicamente abbiamo conosciuto [...]: è il latente totalitarismo della moderna società industriale tecnocratica, nella quale si ripresenta in forme diverse il concentramento del potere politico, di quello economico e di quello scientifico, secondo quanto già auspicavano un Saint-Simon e un Comte.

Nel pensiero dell’ultimo Matteucci, insomma, la fiducia storicistica nella catallaxy hayekiana confligge drammaticamente con i timori di un trionfo del panlogismo disumanizzante derivante dalle ideologie secolaristiche, per giunta proprio nell’epoca del loro apparente tramonto, e culminante in un vero e proprio scardinamento della sfera morale dal consorzio umano.
Le società “democratiche” gli appaiono sempre più sotto la forma di un incubo: entità ormai disarticolate, orfane dei loro naturali “anticorpi” spirituali, che nella storia occidentale si erano tradotti nel nómos basiléus del costituzionalismo. Ridotte ad accolite informi di individui “maneggevoli”, anonimi, incapaci di dire no ai condizionamenti del potere in quanto divenuti inabili persino a scorgere fini trascendenti il potere stesso.




NOTE


1 Su Battaglia cfr. innanzitutto N. Matteucci, D. Pasquinelli (a cura di), Il pensiero di Felice Battaglia, Bologna, Clueb, 1989; C. Galli, Felice Battaglia, in Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 55; N. Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in Id., Filosofi politici contemporanei, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 55-66. L’interesse di Battaglia per l’elaborazione costituzionale, ed in particolare per le dichiarazioni dei diritti, è riscontrabile già nelle sue opere giovanili, che certamente influenzeranno la formazione di M.: cfr. in particolare F. Battaglia (a cura di), Le carte dei diritti: dalla Magna charta alla carta del lavoro, Firenze, Sansoni, 1934 (ora ripubblicata con prefazione di M. e appendice a cura di Augusto Barbera e Nicola Matteucci, Reggio Calabria, Laruffa, 1998); Id., La sovranità e i suoi limiti, Padova, CEDAM, 1939. ^
2 Sulla presenza di Battaglia e Croce nella formazione di M. cfr. S. Testoni Binetti, Nicola Matteucci, in Enciclopedia del pensiero politico, cit., pp. 435-6. Un quadro complessivo del pensiero di M. è offerto da P. Vincieri, Nicola Matteucci: un liberale di oggi, in «Biblioteca della libertà» (1997), n. 142 (novembre-dicembre), pp. 67-79. Una bibliografia di M. aggiornata al 1995, e non comprendente gli interventi giornalistici, si trova in M. Dall’Aglio, Bibliografia degli scritti di Nicola Matteucci, in G. Giorgini et al. (a cura di), Percorsi della libertà. Scritti in onore di Nicola Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 187-207. ^
3 N. Matteucci, Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Milano, Giuffré, 1951. Su temi connessi al marxismo M. pubblicò in quegli anni anche altri interventi: Federico Engels e il mito dei primitivi «Rivista internazionale di filosofia del diritto» (1951), n. 3, pp. 245-71; La cultura italiana e il marxismo del 1945 al 1951: «Rivista di filosofia» (1953), n. 1, pp. 61-85. ^
4 N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, in Id., Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, pp. 211-268. Nello stesso volume cfr. Croce e la politica della cultura, pp. 100-120. Tra gli altri scritti di B. su Croce si veda Benedetto Croce, in Italia civile. Ritratti e testimonianze, Bari, Lacaita, 1964, pp. 71-91.^
5 Le prese di posizione di Bobbio nel dibattito sul giusnaturalismo tra anni Cinquanta e primi anni Sessanta furono raccolte in N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, Comunità, 1965. Più di recente, da segnalare sull’argomento Giusnaturalismo e giuspositivismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1994, vol. IV, pp. 365-374. ^
6 Per quanto riguarda Matteucci, cfr. in proposito la Nota biografica in Giorgini et al. (a cura di), Percorsi della libertà, cit., p. 211. ^
7 Rispettivamente V. de Caprariis, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1950; e Id., Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione. I (1559-1572), Napoli, ESI, 1959. ^
8 Cfr. Tocqueville e la libertà: «Il Mondo», 30 maggio 1953, p. 6; Tocqueville e Stuart Mill: «Il Mondo», 13 dicembre 1955, p. 8; Tocqueville in Inghilterra: «Il Mondo», 15 luglio 1958, p. 8; Tocqueville in America. Contributo allo studio della genesi de La démocratie en Amérique, Napoli, L’Arte tipografica, 1959; Profilo di Tocqueville, a cura di E. Paolozzi, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1996 (I ed. Napoli, ESI, 1962). ^
9 Per la biografia intellettuale di de Caprariis cfr. innanzitutto G. Galasso, L’itinerario storiografico di Vittorio de Caprariis, in ID., Croce, Gramsci e altri storici, Milano, Il Saggiatore, 1978 [Ia ed. 1969], pp. 316-52. Per un’interpretazione complessiva del sodalizio intellettuale tra de Caprariis e Matteucci in relazione alla loro lettura del costituzionalismo moderno, e in particolare dei modelli costituzionali anglosassoni, cfr. E. Capozzi, Civiltà "atlantica" e democrazia costituzionale: Vittorio de Caprariis e Nicola Matteucci, in Id., L’alternativa atlantica. I modelli costituzionali anglosassoni nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 93-143; Id., Introduzione a V. de Caprariis, Storia di un’alleanza. Genesi e significato del Patto atlantico e altri saggi, Roma, Gangemi, in corso di pubblicazione. ^
10 Su cui si veda G. Lovato - M. E. Traldi (a cura di), Il Mulino: 1951-2004, Bologna, Il Mulino, 2004.^
11 Sull’area politico-culturale liberaldemocratica nel secondo dopoguerra cfr. G. Galasso, Intellettuali e società di massa in Italia (1945-1980): l’area laica, in Id., Italia democratica. Dai giacobini al Partito d’Azione, Firenze, Le Monnier, 1986, pp. 195-265. Sui rapporti tra «Il Mulino» e il gruppo del «Mondo», e in particolare sulle posizioni di M., si veda R. Pertici, La crisi della cultura liberale in Italia nel primo ventennio repubblicano: «Ventunesimo Secolo», n. 8 (2005), ottobre, pp. 121-157, ed in part. 124, 132-5. ^
12 Rispettivamente pubblicati a Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1957, e Bologna, Il Mulino, 1959. ^
13 Per considerazioni più ampie rimando ancora al mio L’alternativa atlantica, cit., pp. 81-83, 145-72. ^
14 Venezia, Neri Pozza, 1959. Altre tappe importanti, in quegli anni, del percorso che vide incontrarsi la filosofia politica liberale con il tema del giusnaturalismo furono i volumi di A. Passerin d’Entrèves, La dottrina del diritto naturale, Milano, Comunità, 1953, e di G. Fassò, La legge della ragione, Bologna, Il Mulino, 1964. ^
15 In particolare C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (trad. it.), Venezia, Neri Pozza, 1956 [ed. orig. 1940]; Id., Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo (trad. it.), Venezia, Neri Pozza, 1959; C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia (trad. it.), Venezia, Neri Pozza, s.d.; E. S. Corwin, L’idea di “legge superiore” e il diritto costituzionale americano (trad. it.), Venezia, Neri Pozza, s.d. Si veda anche l’introduzione di M. alla nuova edizione di McIlwain, Costituzionalismo … cit., Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 7-17. Su questa fase dell’attività intellettuale di de Caprariis rimando ancora a quanto detto più ampiamente in Capozzi, Civiltà “atlantica” ... cit., pp. 113-118; e in Id., introduzione a de Caprariis, Storia di un’alleanza ... cit. ^
16 N. Matteucci, Introduzione a Montesquieu, Antologia degli scritti politici, Bologna, Il Mulino, 1961, pp. 5-33; Concezioni storiografiche e politiche sulle origini del costituzionalismo inglese: «Terzo programma» (1961), n. 4, pp. 220-8; Introduzione a Antologia dei costituzionalisti inglesi, Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 5-42. ^
17 N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo: «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile» (1963), pp. 985-1100; poi ristampato come monografia, Bologna, Il Mulino, 1996. ^
18 Sulle argomentazioni di M. nella polemica con Bobbio cfr. V. Omaggio, Teorie dell’interpretazione. Giuspositivismo, ermeneutica giuridica, neocostituzionalismo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003, pp. 100-105. ^
19N. Matteucci, Positivismo giuridico ... cit., pp. 57-8. ^
20 Ivi, pp. 56-85. ^
21 Norberto Bobbio a Nicola Matteucci, 25 luglio 1963, in appendice a C. Margiotta, Bobbio e Matteucci su costituzionalismo e positivismo. Con una lettera di Norberto Bobbio a Nicola Matteucci: «Materiali per una storia della cultura giuridica» (2000), pp. 422-3. ^
22 Per l’eredità delle posizioni di Matteucci, ci limitiamo a segnalare A. Barbera, (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Bari, Laterza, 1997; M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano. La costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, Bologna, Il Mulino, 1998; Id., Costituzione, Bologna, Il Mulino, 1999; L. Compagna, Gli opposti sentieri del costituzionalismo, Bologna, Il Mulino, 1998. Sugli sviluppi più recenti del dibattito su positivismo giuridico e costituzionalismo in ambito giusfilosofico cfr. F. Mastromartino, Il costituzionalismo e i limiti del positivismo giuridico: «L’Acropoli» (2006), n. 5, pp. 573-583. ^
23 Introduzione a C.H. McIlwain, La rivoluzione americana: una interpretazione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1965, pp. XIII-CL; poi in La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1987; Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, UTET, 1976. Quest’ultimo volume prende forma intorno ai due saggi Dal costituzionalismo al liberalismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, Torino, UTET, vol. IV, tomo II, pp. 13-176, e Le origini del costituzionalismo moderno, ivi, vol. IV, tomo I, pp. 539-636, confluiti con altri in Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, UTET, 1976. ^
24 Il costituzionalismo in Francia durante le guerre di religione, in Organizzazione del potere ... cit., pp. 19-51. ^
25 Le mura della libertà: «Nord e Sud» (1976), n. 16, pp. 75-127. La citazione era da V. de Caprariis, Problemi del potere, in Id., Le garanzie della libertà, Milano, Il Saggiatore, 1996 (ed. orig. 1966), p. 72. ^
26 I tre modelli costituzionali, in Organizzazione ... cit., pp. 239-245. Sui principali temi della storia del costituzionalismo si vedano anche i saggi raccolti in Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il Mulino, 1993, e più di recente le sintesi Il liberalismo e Lo Stato, Bologna, Il Mulino, rispettivamente 2005 e 2006. ^
27 I principali interventi su questi temi sono raccolti in Dal populismo al compromesso storico, Roma, Edizioni della Voce, 1976. V. anche Liberalismo e populismo, in Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1992 (I ed. 1972), pp. 41-50; Corporativismo: «Il Mulino» (1984), n. 2, pp. 305-313, poi in Lo Stato moderno, cit., pp. 189-198. ^
28 Attestato dal saggio Democrazia e autocrazia nel pensiero di Norberto Bobbio: «Il Mulino» (1985), n. 5, pp. 701-725, poi in Filosofi politici contemporanei, cit., pp. 67-95. Per l’evoluzione dei rapporti tra i due si veda anche la prefazione allo stesso volume, p. 9, e l’intervento Il mio dissenso da Bobbio e Ruffolo: «MondOperaio» (1985), n. 4, pp. 9-12. ^
29 Dizionario di politica, diretto da Norberto Bobbio, Gianfranco Pasquino e Nicola Matteucci, Torino, UTET, 1976. ^
30 Cfr. Dal populismo ... cit., e, per quanto riguarda «Il Mondo», la citata bibliografia di Dall’Aglio in Giorgini et al. (a cura di), Percorsi ... cit., pp. 196-7. ^
31 Per cui cfr. anche gli scritti raccolti in Il liberalismo in una società minacciata, Bologna, Il Mulino, 1981. ^
32 Liberalismo e populismo, cit., pp. 47-50; Potere e libertà nel pensiero di Croce, ivi, pp. 51-69.^
33 Si veda innanzitutto Per una società a più dimensioni, ivi, p. 158. ^
34 I principali saggi su Tocqueville di questo periodo vengono raccolti da M. in Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, Bologna, Il Mulino, 1990. Accenni al ruolo di Matteucci negli studi italiani sul pensatore francese si trovano in R. Pertici, Tocqueville in Italia: le origini di una tradizione di studi: «Ricerche di storia politica» (2005), n. 3, pp. 327-328. ^
35 Il ruolo preponderante di Croce, Tocqueville e Hayek come punti di riferimento del suo liberalismo è esplicitamente indicato dallo stesso Matteucci nella prefazione a Filosofi politici contemporanei, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 7. ^
36 Su Hayek il principale momento di riflessione di Matteucci è Friedrich von Hayek alla ricerca di un ordine spontaneo, in Filosofi politici ... cit., pp. 145-184 (già uscito in forma monografica con il titolo L’eredità di von Hayek, Milano, Società Aperta, 1997, e prima ancora in forma più ridotta come articolo dal titolo Il filosofo Friedrich von Hayek: «Filosofia politica» (1994), pp. 65-92. Ma si vedano già riferimenti in Ridefinire il liberalismo, in Il liberalismo in un mondo in trasformazione, cit., pp. 28-31, e in La rinascita del liberalismo, ivi, pp. 198-200. ^
37 Per questo dibattito cfr. innanzitutto Costituzionalismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1992, poi in Lo Stato moderno, cit., p. 167; Nel labirinto dei contrattualismi: «Fondamenti» (1985), n. 2, pp. 51-70, poi in Lo Stato moderno, cit., pp. 235-255; La rinascita del liberalismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1989, poi in Il liberalismo in un mondo in trasformazione, cit., pp. 187-227. Più specificamente sui temi sollevati da Rawls e Nozick cfr. Un’utopia senza politica: «Il Mulino» (1982), n. 1, pp. 133-141, poi ripubblicato con il titolo: Un’utopia senza politica: Robert Nozick, in Filosofi politici contemporanei, cit., pp. 133-143. ^
38 Cfr. Ridefinire il liberalismo, cit., pp. 37-40. Molti spunti di riflessione in questa direzione si trovano in seguito in Dell’eguaglianza degli antichi paragonata a quella dei moderni: «Intersezioni» (1989), n. 2, pp. 203-229, poi in Lo Stato moderno, cit., pp. 201-233. ^
39 Il rapporto costante e dialettico tra la riflessione di M. e quella di Del Noce emerge già in Il liberalismo tra ideologia e utopia, in Il liberalismo in un mondo in trasformazione, cit., pp. 79-80, ma si articola pienamente nell’introduzione a A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1990, IV ed., pp. IX-XXVI, poi ripubblicata col titolo Augusto Del Noce e il problema della modernità in Filosofi politici contemporanei, cit., pp. 97-114. Si veda inoltre la rievocazione autobiografica di Matteucci nella prefazione a quest’ultimo volume, p. 9.^
40 Cfr. in particolare Ridefinire il liberalismo, cit., passim; introduzione all’edizione italiana di E. Voegelin, Ordine e storia. La filosofia politica di Platone (trad. it.), Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 11-27, poi ripubblicata col titolo Eric Voegelin e il ritorno a Platone in Filosofi politici contemporanei, cit., pp. 115-143. Cfr. anche in questo caso la prefazione a quest’ultimo volume, pp. 9-10. ^
41 N. Matteucci, Democrazia e autocrazia ... cit., p. 87. ^
42 Le riflessioni di Matteucci sul tema del “dispotismo paterno” tocquevilliano si trovano in Il liberalismo come risposta a sfida, in Il liberalismo in un mondo in trasformazione, cit., pp. 111-115, e in Individuo, società e governo rappresentativo, in Lo Stato moderno. Il liberalismo come risposta a sfida. ^
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