Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno X - n. 2 > Interventi > Pag. 158
 
 
Lo spettro dell’IRI
di Sandro Petriccione
Quando il 30 giugno del 2000, dopo quasi settanta anni di attività nei quali aveva dominato la scena economica italiana, veniva sciolto l’IRI, i mezzi di comunicazione di massa ed i circoli politici più influenti non dettero alcun rilievo ad una decisione che rappresentava la conclusione di un’epoca e di un’esperienza che non poteva essere condannata in blocco o peggio ancora ignorata. Questa sorprendente mancanza di reazioni trova una spiegazione nell’entusiasmo liberista dominante in quel tempo anche in Italia perfino tra le forze di sinistra che avevano fin dai tempi della Costituente sostenuto l’intervento dello Stato nell’economia. L’azione politica di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan che affrontava i problemi della soffocante regolamentazione dell’economia era rafforzata dal tracollo del regime sovietico il quale, nonostante avesse con costi enormi conseguito l’industrializzazione dell’Unione, non era riuscito a fronte della limitazione della libertà dei cittadini a garantire l’efficienza del sistema economico, mentre il dirigismo che si era affermato in buona parte del mondo e tutta l’ideologia che lo aveva ispirato entrava definitivamente in crisi. In Italia il dirigismo economico, che pure aveva degli illustri precursori da Morandi a Saraceno, aveva da tempo concluso il suo ciclo vitale e finiva col manifestarsi negli aspetti più paradossali e talvolta ridicoli, ma lo si fece scomparire a cuor leggero compreso quanto di positivo aveva creato. La transizione dall’intervento diretto dello Stato per mezzo di imprese pubbliche ad un solo compito di indirizzo e controllo delle attività economiche era tanto più ardua in Italia in quanto doveva utilizzare una pubblica amministrazione notoriamente inefficiente che invece ne avrebbe dovuto assicurare il successo. All’abbandono dello Stato imprenditore che nel nostro Paese aveva assunto il maggior rilievo nel mondo non comunista, faceva riscontro il graduale ma determinato accantonamento dei principi e dei vincoli del dirigismo finanziario della legge bancaria del 1936. Quest’insieme di decisioni erano favorite o addirittura imposte dall’ideologia liberista che si era andata affermando nella politica della Comunità, poi Unione, Europea, nel corso degli anni e che ne ispirava la politica vietando gli aiuti di Stato cioè qualunque misura di incentivazione delle attività produttive e di partecipazione azionaria nel capitale nonché di finanziamento delle imprese da parte delle autorità pubbliche che potesse turbare il regime di libera concorrenza anche quando sussistevano dei fondati motivi per potersene discostare.
La crisi globale del settore bancario e finanziario originatasi negli Stati Uniti, ma che si è diffusa in tutto il mondo con pesanti conseguenze nell’immediato, e probabilmente nell’avvenire, su tutte le attività produttive chiude il periodo Thatcher-Reagan, che, dopo aver prodotto degli indubbi risultati positivi, era sopravvissuto a se stesso. Essa, per dimensioni quantitative e per il contraccolpo sui modi di pensare e di agire dei cittadini, può confrontarsi solo con quella, anch’essa iniziatasi negli Stati Uniti attorno al 1930, le cui drammatiche conseguenze sul piano interno furono disoccupazione e fallimenti su larga scala e sul piano internazionale la paralisi che fece emergere un nuovo assetto del potere nel mondo (basti ricordare il rafforzamento dell’Unione Sovietica staliniana, l’accesso di Hitler al potere e l’espansione imperialistica del Giappone). La crisi globale ha messo oggi in discussione il liberismo sfrenato, che ha provocato la abnorme espansione delle attività finanziarie, minando le fondamenta ideologiche dei comportamenti di coloro che le ponevano alla base del proprio operato. Il Commissario dell’Unione Europea Almunia afferma che «non si può più tollerare l’approccio di laissez faire che ha caratterizzato il settore finanziario negli ultimi 20 anni (e sul quale soggiungiamo noi non ha finora aperto bocca) ma dobbiamo concepire un nuovo sistema…». Che il mercato di libera concorrenza senza controlli e senza limiti non fosse indipendente dalla volontà politica, ma ne fosse il risultato fu oggetto delle acute osservazioni di Natalino Irti col suo libro del 1998 L’ordine giuridico del mercato, che però rimase una voce inascoltata dall’Establishment politico-finanziario italiano.
La nuova situazione ha richiesto in tutto il mondo l’adozione di misure che qualche anno addietro sarebbero state ritenute inimmaginabili. Nella UE il quadro appare sconvolto rispetto al passato: dalla puntigliosa ricerca di tutto ciò che poteva apparire aiuto di Stato ed alla severa condanna dei colpevoli si passa ad una benevola tolleranza che accetta il salvataggio o addirittura la nazionalizzazione delle banche come è già avvenuto in Gran Bretagna dove si impegnano le banche oggetto dei salvataggi a collocare successivamente le azioni sul mercato (e l’IRI per che cosa era stato inventato?) e che sopporta l’aiuto di Stato alle imprese come su larga scala è stato deciso in Francia per le industrie automobilistiche. I vincoli imposti dal Trattato di Maastricht sul deficit pubblico considerati finora come scritti sulle Tavole della Legge vengono allegramente – e giustamente – ignorati.
Di fronte all’incalzare della crisi, politici e soprattutto banchieri, ai quali – nonostante cerchino sempre di addossarle ad altri – si devono far risalire le principali responsabilità del disastro, sono di solito sostenitori della tesi che, modificate le regole e tagliati gli eccessi che avevano negli ultimi anni caratterizzato le attività finanziarie, si dovrebbe gradualmente tornare alla situazione precedente e che quindi gli interventi dello Stato dovrebbero avere soltanto un carattere temporaneo per far fronte all’emergenza: Ma è proprio dalla durata della crisi che dipende, nel caso essa si prolunghi per anni, la trasformazione irreversibile dell’economia e della società e quindi la scarsa fondatezza di ipotesi di un ritorno al passato se pure con nuovi accordi internazionali di regolazione delle attività finanziarie. E’ appena il caso di ricordare che anche l’IRI, istituito per far fronte alla crisi delle grandi istituzioni creditizie e in primo luogo della Banca Commerciale, aveva carattere temporaneo con il compito di smobilizzare, cioè di collocare sul mercato, le partecipazioni industriali assunte dalle grandi banche le quali erano andate addirittura al di là delle funzioni di banca mista allora in voga per assumere il carattere di banca d’affari, e quindi ripristinare un’economia dominata dall’impresa privata, mentre invece in meno di un decennio di attività si trasformò nel più grande strumento di intervento dello Stato nell’economia in tutto il mondo occidentale. E furono esigenze temporanee, legate al primo conflitto mondiale, che portarono Walter Rathenau, che era stato presidente della AEG, ad attuare le prime società per azioni dotate di autonomia imprenditoriale ma il cui capitale era nelle mani dello Stato, teorizzando la possibilità di creare un settore di società di capitali intermedio tra governo e impresa privata al quale si applicassero le regole del diritto societario pur rimanendo pubblica la maggioranza del capitale azionario; ma in una situazione politica completamente diversa le idee di Rathenau, oppositore del nazionalismo tedesco, finirono col costituire la premessa del dirigismo economico del nazismo. Ricordando questi precedenti non appare casuale che alcuni banchieri e presidenti di banche centrali si siano affrettati a negare l’opportunità di una partecipazione azionaria dello Stato nel capitale degli intermediari finanziari e delle imprese limitandosi a dichiararsi disposti ad accettare finanziamenti pubblici alle banche per rafforzare il loro standard patrimoniale. È quello che il Ministro Tremonti denomina «la via normale» per l’uscita dalla crisi e, dubitando della sua efficacia, osserva che «il futuro non può in ogni caso essere il seguito o la proiezione del passato».
Le dichiarazioni e le prime mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti fanno pensare che ci si appresti ad affrontare una crisi di lungo periodo. Tali dichiarazioni e prime mosse, partendo dal sostegno alle banche, da una parte ricordano la politica di finanza pubblica del deficit spending attuata da Roosevelt durante il primo periodo del new Deal e dell’aumento dei «consumi pubblici», come erano chiamati ai tempi della politica di programmazione in Italia, cioè la spesa dello Stato per infrastrutture e per servizi materiali e immateriali; e, dall’altra parte, prospettano, con misure analoghe a quelle adottate nei primi anni dell’amministrazione Roosevelt, il sostegno dell’occupazione e di coloro che avevano contratto dei mutui con le banche per l’acquisto di abitazioni. Decisioni che quando verranno attuate comporteranno cambiamenti nei livelli e nella struttura dei consumi privati e dei modi di pensare dei cittadini degli Stati Uniti e dei loro conseguenti comportamenti che non potranno non avere una notevole influenza anche sulla natura degli intermediari finanziari. Ma le decisioni che si prendono nel presente debbono partire da un’ipotesi e da una scommessa sull’avvenire: infatti, tutti i progetti e le misure di politica economica richiedono che i politici decidano partendo dalle previsioni, ed esse sono particolarmente difficili quando non dipendono da variabili e da parametri in qualche modo misurabili e dominabili ma ci si trova in una situazione di assoluta incertezza come è quella attuale.
Allo sconvolgimento in atto del quale è difficile valutare le conseguenze si riferisce il noto ragionamento di Francis Fukuyama, secondo il quale la crisi, ancor più che per i suoi pur pesanti riflessi economici, si farà risentire sull’immagine (il brand come scrive lui) degli USA in tutto il mondo. Infatti, secondo Fukujama, l’attrattiva del modo di vita americano si è basata su due fattori.
Il primo è la potenza economica alimentata ancor più dallo straordinario periodo di crescita mondiale tra il 2002 e il 2007 che ha permesso la politica di riduzione delle tasse e contemporaneamente di forte indebitamento. Sul piano internazionale il modello economico americano è stato proposto e sostenuto per mezzo delle istituzioni internazionali dominate dagli USA, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, e spesso accettato anche da tutti i paesi che si ponevano i problemi del benessere e dello sviluppo a cominciare da quelli dell’Europa comunitaria e dell’Asia Orientale ma che ormai risulta molto meno attraente e difficilmente accettabile dopo il crollo di Wall Street.
Il secondo fattore forse ancora più importante che era strettamente legato all’egemonia finanziaria degli USA è il venir meno dell’autorità con la quale era sostenuta durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush la dottrina di politica estera consistente nella volontà di espandere a tutto il mondo il sistema democratico-parlamentare come nel corso di tre secoli si era andato configurando negli Stati Uniti e che, passando dalla teoria alla prassi, aveva comportato l’impiego su larga scala del soft power per mezzo dell’impiego dei mezzi di comunicazione di massa e delle organizzazioni non governative ONG ed in alcuni casi con l’intervento armato impiegando la NATO (Jugoslavia e Afghanistan) o direttamente con le proprie forse armate come è avvenuto in Iraq.
Ne risulterebbe la fine del sistema unipolare affermatosi per quasi venti anni dopo la fine dell’URSS cioè l’assoluta preminenza degli USA su scala mondiale e l’emergere di un mondo multipolare nel quale assumono un ruolo crescente alcuni grandi Stati dei quali si dovrà tenere in conto la forza economica e le forme politiche derivanti da culture e da tradizioni diverse da quelle del mondo “occidentale”. E Fukujama ritiene che tra questi paesi Cina e Russia, che hanno in comune una forte presenza dello Stato nell’economia, possano in avvenire presentare delle attrattive per alcuni Stati dell’Africa e del Sud America oltre che, naturalmente, per tutti quelli della ex Unione Sovietica.
Checché si debba pensare di queste ipotesi di Fukuyama, certo è che l’uscita dalla crisi richiederà certamente tempi non brevi; ciò che però si può dire è che dopo di essa si aprirà una fase nuova nella storia del mondo, con caratteristiche che non possiamo prevedere. Molto dipenderà dagli Stati Uniti dove la crisi si è originata e dalla cui politica dipenderà in larga misura il suo superamento. La nuova amministrazione americana dovrà dimostrare un coraggio e una capacità di cambiamento come quella di F.D. Roosvelt quando varò il NRA (National Industrial Recovery Act) e le altre misure per la ripresa che lo fecero accusare di statalismo e che ancora oggi sollevano critiche come quelle del professor Gavazzi, uno degli ultimi irriducibili liberisti italiani, mentre era la testimonianza ad un mondo che scivolava verso la dittatura che la democrazia americana era in grado di fronteggiare la crisi e di garantire il benessere dei cittadini.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft