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Valdismo Mediterraneo
di Elisa Novi Chavarria
Nei giorni 4 e 5 dicembre 2008 si è tenuto, presso il Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni dell’Università degli Studi di Salerno, un interessante Convegno dal titolo Valdismo Mediterraneo. Tra medioevo e prima età moderna.
Organizzato da Alfonso Tortora, che da tempo si dedica allo studio di questi temi (Presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia. Secoli XV-XVII, Salerno, Laveglia, 2004; Tra storia e storiografia: linee di ricerca storica sulle presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia. Secoli XV-XVII, in La Storia e la Chiesa. Ricerche e letture critiche, Salerno, Plectica 2007, pp. 9-28), il Convegno ha visto la partecipazione di numerosi studiosi italiani e stranieri e, soprattutto, ed è quel che più conta, il Convegno ha aperto sul tema in questione molte nuove linee e prospettive di ricerca. Nelle note che seguono, ne ripercorreremo alcune, in attesa che la lettura degli Atti possa rendere più pienamente conto degli effettivi esiti di tale incontro.
Come ha sottolineato Aurelio Musi, nella sua lucida introduzione ai lavori, la storia dei valdesi nell’area mediterranea deve innanzitutto fare i conti con uno stato delle conoscenze ancora piuttosto lacunoso. Con alle spalle una solida tradizione di studi, il valdismo medievale e riformato continua a essere oggetto, infatti, di una attenzione costante da parte degli specialisti, ma questo è vero soprattutto per la storia delle presenze valdesi nelle valli piemontesi e in generale nel Nord d’Italia, cui, oltre gli studi di Giovanni Grado Merlo, sono ogni anno dedicate le Giornate di Studio di settembre, a Torre Pellice. Per il Mezzogiorno d’Italia l’attenzione degli studiosi è stata finora portata al momento della maggiore emersione documentaria dei valdesi, ovverosia alla fase della loro adesione alla Riforma ginevrina e della repressione che ne conseguì (E. Pontieri, La crociata contro i Valdesi di Calabria nel 1561. Le istruzioni vicereali al commissario della regione, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 9 (1939), pp. 121-129 e, soprattutto, P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria 1554-1703, Napoli, Editoriale Scientfica, 1999. Ma l’insediamento di piccoli gruppi valdesi in alcune comunità comprese nell’area tra la Capitanata e la Campania risaliva già alla prima metà del Trecento, ed è su questo – ha sottolineato Musi –, e sul complesso rapporto tra storia e memoria storica (tema chiave per la storia di comunità che non hanno prodotto fonti storiche scritte), che si devono rimarcare i maggiori ritardi della ricerca storica.
Il Convegno, in effetti, ha prodotto i suoi più importanti risultati proprio su questi aspetti, riuscendo a delineare un nuovo e più articolato quadro della territorializzazione delle presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia, in particolare, e nell’area del Mediterraneo in generale. Ciò soprattutto grazie al rinvenimento di nuove fonti, a cominciare da alcuni Statuti comunitari, reperiti nel fondo dei Processi antichi depositato presso l’Archivio di Stato di Napoli, tutti più o meno risalenti al periodo di più forte produzione statutaria nel Regno, ovverosia quello cha va dall’età aragonese alla fine del viceregno del Toledo (A. Tortora, Nuove fonti sugli insediamenti valdesi nel Mezzogiorno d’Italia). Da tale esplorazione documentaria sono emersi non solo i luoghi noti della presenza valdese nel Mezzogiorno: le comunità calabresi di Fuscaldo, Montalto, La Guardia e la Puglia, “terra di speranza” – come è stato detto – per i valdesi nel Quattrocento, ma anche diverse altre località dislocate lungo il Sub Appennino Dauno, come Castelluccio, Volturara e Faeto, fino alla Capitanata con Monteleone di Puglia, dove l’insediamento di gruppi franco-provenzali fu favorito, fin dal XV secolo, dalla politica di ripopolamento dei feudi del baronaggio locale.
Francesco Barra, nel suo ampio intervento ha delineato un affascinante affresco di tali presenze, grazie alla lettura degli Statuti concessi da Antonio Piccolomini d’Aragona alla università di Castelluccio, nei primi del Cinquecento, e di quelli confermati dalla Corona spagnola ai sudditi di Volturara, dopo che il feudo fu requisito ai Carafa d’Ariano per la loro ribellione agli spagnoli nel 1528, e che ne attestano appunto la presenza anche risalente nel tempo. Elaborati in una fase di riordino delle prerogative giurisdizionali della feudalità, sollecitata dalla congiuntura economica favorevole, ma anche dal riposizionamento complessivo dei rapporti di forza tra università e baroni, entrambi i documenti portano i segni di una pattuizione aperta a nuovi arrivi e nuovi insediamenti, e molto favorevole alla comunità. Sia i Carafa che i Piccolomini sono d’altronde noti per aver favorito, in quello stesso tornante di tempo, la presenza all’interno dei propri feudi anche di altri gruppi allogeni, tra cui slavi, albanesi e zingari. Ai valdesi, in particolare, venivano tra l’altro riconosciute molte libertà di culto e ciò, unito alla forte coesione socio-religiosa di tali gruppi, consentì loro evidentemente un più facile e duraturo inserimento sul territorio (F. Barra, Gli insediamenti valdesi fra Campania e Capitanata: nuove fonti).
Altrove nel Mediterraneo, per tutto il medioevo e la prima età moderna, le comunità valdesi furono, invece, connotate da una forte mobilità sul territorio. Il loro insediamento in Sardegna sembra addirittura proporre una sorta di sovrapposizione tra rotte commerciali e circolazione di uomini e idee al seguito dei loro predicatori itineranti, i “Barba” (M. Fratini, Fra le Alpi e il mezzogiorno: spunti per una rilettura della ‘geografia valdese’).
Ciò in molti casi, si tradusse, come pure è noto, in forme di “nicodemismo” religioso, specie da quando le molte fratture, che l’introduzione delle idee riformate produsse anche in Italia, accrebbero i margini di intolleranza verso il “diverso” e gli eretici. Per i valdesi fu il momento del “sacro macello” perpetrato dalle autorità vicereali di Napoli, prima ancora che da quelle ecclesiastiche, di cui Albert de Lange ha proposto una interessante ri-lettura, se si vuole a tratti anche un po’ ‘raccapricciante’, attraverso L’eco delle stragi calabresi nella pubblicistica di area tedesca.
Per i valdesi sopravvissuti a quell’eccidio, e che nell’ordine di diverse centinaia di individui continuarono a risiedere nelle province del Regno, ‘mimetizzandosi’ in alcune località della Calabria e delle Puglie, il nicodemismo, prima ancora che un modo di intendere la vita religiosa, rappresentò un modo di relazionarsi con il contesto (A. Perrotta, La documentazione sui valdesi di San Sisto). Grazie alla analisi di 101 testamenti calabro-valdesi, rogati a Guardia, casale di Cosenza, dal notaio Urselli tra il 1626 e il 1659, Renata Ciaccio è stata in grado di analizzare diversi aspetti di quel modo di relazionarsi. Ella ha messo in evidenza la forte omogeneità dietro la quale la comunità valdese mascherava il finto adeguamento al sistema di norme imposte dal cattolicesimo, le forme di trasmissione del patrimonio tra loro in uso, le pratiche sociali e caritatevoli (R. Ciaccio, Le comunità valdesi in Calabria: famiglie e patrimoni).
Come è emerso anche nei numerosi interventi alla Tavola rotonda conclusiva su Il Mezzogiorno tra religione e feudalità, il Convegno ha fatto luce su aspetti ancora per molti versi poco conosciuti e indotto nuove riflessioni su un’epoca complessa e difficile, quale è stato il Cinquecento, anche dal punto di vista religioso. Soprattutto, a nostro avviso, esso ha dato spazio alla domanda, ancora per certi aspetti irrisolta, che si pose Delio Cantimori negli anni Trenta del Novecento circa la effettiva entità della partecipazione popolare al movimento ereticale italiano. Per Cantimori tale partecipazione ci fu, e fu una partecipazione, nel senso classista e sociologica del termine, di gruppi popolari ai movimenti di Riforma. Soprattutto per Cantimori quella partecipazione assunse la dimensione emblematica di una rivendicazione politica di libertà e di indipendenza del pensiero. Non è la sede questa per riprendere le fila di quel discorso (su cui si vedano ora la Introduzione di A. Prosperi al volume dello stesso D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, Torino, Einaudi, 1992 e, soprattutto, il saggio che Giuseppe Galasso dedica allo stesso Delio Cantimori, nel volume Storici italiani del Novecento), né tanto meno per riproporre il topos eresia = libero pensiero, anche se la storia dei valdesi offre al riguardo molti spunti di riflessione e spesso si è prestata anche a questo ordine di considerazioni. Da ultimo, al Convegno medesimo, lo ha ricordato, ad esempio, J.-F. Gilmont, La correspondance de Gianluigi Pascale: une propagande organiste par un martyr.
Ci sarà modo, comunque, e più opportuna sede, per tornare su questa intrigante, e complessa, questione. Ci resti ora la suggestione di aver portato il nostro sguardo, grazie anche agli interventi di cui si è detto, su uno spazio storico-geografico, quale fu il Mediterraneo nella prima età moderna, che appare sempre più affollato da opportunità e occasioni di mescolanze etniche e coesistenza culturale, di circolazione delle idee e mobilità delle persone, di accettazione del diverso e integrazione delle minoranze (su questo si veda anche il nostro, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2007). Che a questo processo di lunga durata abbiano contribuito anche dei gruppi minoritari dai forti segni identitari come i valdesi, in fuga non dalla miseria come le comunità slave o albanesi, ma dalle persecuzioni religiose, e che anch’essi, e in numero maggiore di quanto si è finora ritenuto, abbiano trovato delle forme di integrazione in un contesto, che in certi tempi li accolse (si vedano gli statuti delle università di cui si è detto) e, in certi altri, li respinse, è aspetto che meritava di essere assolutamente meglio conosciuto e valorizzato. E di questo, come si suole dire, siamo assai grati a quanti con il loro intelligente contributo hanno organizzato e partecipato ai lavori del Convegno.
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