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Pensieri dell’ultimo Croce
di Franco Crispini
Questo volume (Benedetto Croce, Maria Curtopassi, Dialogo su Dio- Carteggio 1941-1952, a cura di Giovanni Russo, Milano, Archinto, 2007), che contiene un carteggio inedito tra Croce e la marchesa Curtopassi, di cui il curatore, con grande attenzione, sa trovare, nella sua introduzione, i temi essenziali, discutendone e rilevandone il peso teorico e culturale specifico, potrebbe offrire lo spunto per un più ampio discorso circa il posto che occupa la religione, visto che di essa si discute, nel sistema filosofico crociano. Ma se questo porterebbe molto lontano, magari a ripensare il rapporto Hegel-Croce (rapporto continuamente ripensato), poiché è qui che finirebbe per mettere capo una analisi interna, ci si può fermare soltanto a capire se vi siano novità, cedimenti, smagliature nel sistema di idee maturato da Croce fino a quegli anni, fino cioè, fondamentalmente, alla pubblicazione su «La Critica» [40 (1942), fasc. VI, pp. 289-297) del Perché non possiamo non dirci cristiani; un sistema che attraverso i tanti suoi approfondimenti era divenuto in ultimo una comprensione profonda delle vere esigenze proprie di una vita morale. Ma anche questo riesame della filosofia di Croce cui si sarebbe indotti, il quale indubbiamente metterebbe nelle migliori condizioni per chiarire ancor meglio e di più i difficili rapporti tra religione e filosofia, fede e pensiero, ragione e rivelazione, (nodi teorici mille volte affacciatisi nella lunga storia del pensiero), porterebbe molto lontano. Si tratterebbe di riaffaciarsi le tante istanze che hanno reso molto problematico il cammino di una filosofia della religione che non trova all’interno del sistema di Croce uno spazio “distinto” al pari di estetica, logica, economica ed etica, i quali campi rispettivamente, come è assai noto, si aprono sulle diverse forme dell’esperienza umana.
Dietro le opportune e penetranti messe a fuoco compiute da Giovanni Russo cui si deve la scoperta e la ricostruzione dell’epistolario, l’attenzione può essere ulteriormente rivolta non già a dare risalto ai modi in cui il filosofo napoletano riesce a schivare i momenti che lo trasformerebbero in un teologo, essendo appunto le sollecitazione della interlocutrice, una anima di poetessa molto sensibile, ispirata, a volte mistica, rivolte tutte ad aprire dei varchi su questioni appunto teologiche, bensì a stabilire se l’interesse del Croce a quel tipo di conversazione nasce dal fatto che se ne sente intrigato come rispetto a problemi che inquietano il sentimento comune, o perché non vuole deludere l’amica che gli apre il suo animo tutto trepidante di slanci religiosi, oppure perché non vuole sottrarsi agli stimoli di chi nella sua filosofia vede spazi dove collocare l’istanza religiosa di una presenza di Dio. Si può dire che nel colloquio epistolare ricorrono tutte insieme queste motivazioni, ma è soprattutto per chiarire alla marchesa, abbastanza edotta del suo pensiero, molto attratta dalle ispirazioni di fondo, cosa che non manca di lusingare il vecchio filosofo, alcune posizioni ineludibili, che Croce, da lettera a lettera, sotto gli stimoli delle riflessioni della marchesa, piene di un indicibile patos, le quali afferrano ma sfumano il senso più autentico della sua filosofia, resiste, in modo molto comprensivo, ai travisamenti che possono nascere da coinvolgimenti troppo immediati, da un bisogno proprio della scrivente di voler trovare al suo modo di sentirsi nella pienezza ed integralità di uno stato di religiosità, la controprova in una grande filosofia. Ma per quanto Croce ammiri, come si avverte dal tono di molte lettere, la sincera disposizione della poetessa ad ottenere risposte alla sua ansietà, per quanto non sottovaluti gli stimoli che vengono da una sensibilità cristiana, per quanto si senta congiunto anche con chi ha idee diverse dalle sue ma ha una profonda fede «in ciò che è superiore e solo ha valore» (p. 38), da “puro filosofo” quale è e vuole restare, e che sa bene che «il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall’umanità sia stato il cristianesimo» (id.), non sono poche le precisazioni che è chiamato a fare. Ma importante è tener presente che queste lettere con la Cutopassi contribuiscono ad accrescere il valore di una “produzione minore” crociana alla quale si possono allegare queste stesse lettere, che assume un rilievo particolare e dà altri elementi per conoscere quanta intensità abbia ancora l’ultimo decennio circa della attività del Croce. Il travaglio dell’“ultimo tempo della filosofia del Croce” è poi quello che meglio può aiutare a ritrovare il significato di un “dialogo su Dio” quale è presente in questo carteggio, che copre anni, quelli tra il 1941 ed 1952, anno della morte, i quali non sono di stanca ripetitività ma ancora operosi e validi a completare il quadro delle successive “sistemazioni” della filosofia dello spirito e della filosofia della vita. Affacciarsi su questa fase finale della meditazione del Croce diventa necessario per spiegarsi il senso di quell’intrattenimento del filosofo napoletano sui temi che appassionano la Marchese tanto desiderosa di ottenere risposte e conferme. Si guardi ad alcuni scritti crociani che escono tra il 1941 ed il 1950: Perché non possiamo non dirci cristiani; Il carattere della filosofia moderna (1941), Pensieri vari (1943), Discorsi di varia filosofia (1945), e ad altri contenuti in (Filosofia, Poesia, Storia, Milano-Napoli, Ricciardi, MCMLI) quali L’ombra del mistero (pp. 30-39), Contro la “storia universale” e i falsi universali – Encomio della individualità (pp. 454-479), Cultura storica, scienza, azione e religione (pp.559-563), La Grazia e il libero arbitrio (pp.661-665). Su tutta questa produzione crociana che risale anche a qualche anno più lontano, alle soglie del secondo conflitto mondiale, allo svolgimento di esso e poi al dopoguerra, non poteva non soffermarsi un esame di tutto il complesso svolgimento del pensiero del Croce attraversato da profondi ripensamenti che danno assetti non nuovi ma diversi, su spaccati e tematizzazioni differenti, alla filosofia dello spirito. Ed è quello che si può trovare ad esempio nella ricostruzione che ne ha fatto Giuseppe Galasso (Croce e lo spirito del suo tempo, Mondadori, Milano, 1990), che in particolare in alcuni capitoli XV-XVII (pp.386-438) riesce a dare della “seconda filosofia dello spirito”, del “tempo della vitalità” (concetto problematico cui Croce assegna un grande peso come “spirito vivente”, un “prius” ed un “plus” rispetto a tutte le altre forme dello spirito ma anche come “spinta oscura ed elementare”, “cruda e verde” che percorre la vita e la storia) e della “ultima sistemazione”, un affresco ricco di rilevazioni ed annotazioni che investono recuperi e ripensamenti di un Croce malinconico, triste e pesante, sebbene continui ad “invigilare” se stesso, ed avverta quella che Galasso chiama «angoscia esistenziale e angoscia storica». L’approdo di questo ultimo periodo è una “etica storicistica”, un «concetto della storia come attività morale», la collocazione al centro della storia della coscienza morale”, la chiusura verso ogni fraintendimento metafisico della filosofia dello spirito (ci stiamo servendo delle parole stesse di Carlo Antoni, autore del noto Commento a Croce, che troviamo in «Studi sulla storia e la storia della storiografia» in 50 anni di vita intellettuale italiana - Omaggio a Croce -, Napoli,1966, pp. 69-92). Nel libro di Galasso questi stessi temi sono segnati 1966 dalla nota del “travaglio” che Croce sta vivendo e che trapela anche da quell’“autoantologia” (così la chiama Galasso) ricciardiana la quale impegna il filosofo a “ritracciare” il suo pensiero. Effettivamente, lo storicismo e l’idealismo stanno ricevendo nuovi approfondimenti: lo storicismo è un umanesimo «rivolto a intendere l’uomo interiore, lo spirito […] alieno dall’uscir fuori di questo centro inseguendo vane metafisiche di qualsiasi foggia o avvolgendosi nei limiti delle religioni»; ma assieme, nelle pagine, sottolineate ancora da Galasso, di uno scritto, Soliloquio dello stesso anno 50-51, si può leggere : «con Dio siamo e dobbiamo essere in contatto in tutta la vita, e niente di straordinario accade ora che c’imponga una pratica inconsueta» (Galasso, p.432), mentre rimane lucidamente ribadito che la vita è inquietudine che non conosce riposo e di fronte ad essa «fallisce per questo rispetto anche la religione, falliscono tutte le religioni le quali in ultimo si trovano tutte a mani vuote» e quel che ne rimane è solo «lo stimolo del pensiero di spacciarsi di tutte esse, ossia di sostituire l’invenzione religiosa can l’indagine filosofica» (Galasso, p.437). Ma altre pagine della «autoantologia» ricciardiana diventano assai eloquenti per comprendere questo rovello dell’ultimo Croce attorno a religione, fede, mistero, rivelazione, Dio, cristianesimo, anche se nella conversazione con la parente ed amica Marchesa Curtapassi ve ne sia appena l’eco, pur rimanendo lo sfondo necessario sul quale intendere le pur brevi, a volte laconiche risposte del filosofo napoletano. In L’ombra del mistero, uno scritto del 1939 incluso nella prima parte dell’«auto antologia», vi è un tema, l’idea di mistero allignata nel romanticismo frutto della critica delle credenze cristiane, quando il «mondo apparve deserto di Dio», una idea che ancora «sparsamente perdura» ed è un «espediente» per filosofie che vogliono «cavarsi di impaccio», anche se il mondo non si travaglia più «nella ricerca del perduto Dio e del paradiso perduto» ma soffre altro travaglio, tirato verso la animalità, la «bruta vitalità» (p.39), il quale è un tema che troviamo nella lettera del 30 Dicembre 1942 alla sua Amica: qui con un animo che i tempi rendono inquieto, si affida ancora al suo «convincimento critico» che gli fa riconoscere la verità «dovunque e comunque» sia presente così che gli viene da affermare: «Il mito non è direttamente mistero, ma certamente si converte in mistero. Ma il punto è che l’ammissione del mistero è la negazione del pensiero, il quale a sua volta non fa altro, in ogni istante, che negare e dissipare i misteri, i grandi o i piccoli misteri, che la vita fa sorgere col suo moto come fumi e nebbie incontro al sole» poiché cosi è fatta la realtà del mondo e ciò che talvolta è chiamato «orgoglio del pensiero» è un orgoglio «che è tutt’insieme umiltà» (Dialogo…, cit., p.61). Il Contro la storia universale (1943) della quarta parte del volume della Ricciardi, porta a riflettere su di una «universalità» racchiusa nella «individualità» , «Dio che c’ispira, Dio che ci guida e ci sorregge, Dio alla cui gloria serviamo. E questa perpetua redenzione, questa perpetua salvazione che l’individuo attua in sé di sé, è, – come le due della libertà di pensiero e di azione, – la definizione della religiosità» (Filosofia poesia storia, cit., p. 479); ve ne è abbastanza per integrare i pensieri che Croce fa filtrare nelle lettere alla Curtopassi. Se volessimo proseguire in questo spoglio delle riflessioni crociane che nella fase della corrispondenza epistolare, più o meno direttamente ed esplicitamente,vengono a reggere il filo delle risposte, avremmo certamente modo, anche solo a scorrere le dodici parti del volume ricciardiano, ma basti questo poco che stiamo aggiungendo alle esaurienti analisi del Galasso. Una compendiosa affermazione ci pare degna di nota e ci aiuta a muoverci meglio tra le lettere, è in Cultura storica, scienza, azione e religione: «La cultura storica, che potrebbe dirsi anche religiosa perché è un intrinseco elevamento al pensiero di Dio, ci apre la visione del mondo e di noi stessi in perpetuo divenire, senza nessuno stato terminale a cui sia dato mirare e senza posa alcuna sia dato indugiare» (Filosofia…, cit., p. 559). Ci sembrerà certamente più agevole ora, con quanto opportunamente sa mettere a fuoco Giovanni Russo, portarci più da vicino alle lettere che di anno in anno si scambiano il filosofo e la Marchesa, e notare che colei che se ne dichiara «allieva» offre affettivamente al filosofo «tutto pensiero ed azione» l’opportunità di non sentirsi estraneo a quanto di bello vi è «nella religione delle anime elette» e per riconoscere che «il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani». Risalta subito che la Marchese tenta in vari modi di accorciare le distanze tra dottrina cattolica e filosofia crociana, ma la difesa del metodo antidogmatico e critico, una idea storico-etica della immanenza, il rifiuto di una rivelazione e quello di riconoscere un Dio persona, non possono creare equivoci: resta solo il valore della religiosità e di quella cristiana in particolare che indubbiamente avvicinano i due interlocutori, per quanto anche in questo caso Croce tiene fermi tutti i suoi principi ripensati e sofferti fino all’ultimo. C’è poi, non trascurabile, il Perché non possiamo non dirci cristiani che è del 1942, proprio all’inizio circa della corrispondenza epistolare, il quale andrebbe riesaminato anche alla luce delle forti reazioni culturali e politiche che suscitò. Non è per nulla sorprendente il riconoscimento che Croce fa al Cristianesimo di avere operato «la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto», se si considera il punto di vista dal quale muove il filosofo che vuole unicamente affermare «con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della verità» (op. cit., p. 289). Né questa grande rivoluzione è da considerarsi un «miracolo», una «rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane». Rispetto alle altre religioni «particolari e limitate», quella cristiana ha investito tutto l’uomo «l’anima stessa dell’uomo», ha operato «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» quasi conferendo una nuova virtù, una nuova qualità. E tuttavia non si tratta di un «miracolo» che irrompe nel corso della storia come una «forza trascendente e straniera»; e nemmeno lo fu il «metafisico miracolo» hegeliano nel ritenere che lo spirito è un «processo lungo» e non invece la «pienezza di se stesso, e la storia sua sono le sue creazioni» ( p. 290). Scrive Croce: «la rivoluzione cristiana fu un processo storico che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi» (id.). Effetti particolari di questa «rivoluzione»: la coscienza morale conobbe nuovi travagli, c’è un Dio d’amore che discende verso l’uomo «nel quale tutti siamo, viviamo e ci muoviamo», un Dio concepito non più «come indifferenziata unità astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme, perché vivente e fonte di ogni vita, uno e trino» (p. 291). La verità cristiana subisce nel tempo cadute, muovendo verso un «assetto stabile», è esposta ad un «fissamento», «praticizzamento», «politicizza mento» del pensiero religioso (creazioni della chiesa e di chiese, catechismi, chiusure, dommi culto, gerarchia, disciplina), ma una esigenza morale e religiosa sovrastò e prevalse. In queste analisi non entrano considerazioni sulla Chiesa cristiana cattolica nelle «presenti condizioni», perché al Croce premono soltanto gli «avanzamenti» della verità cristiana, i quali si hanno anche sotto «parvenze anticristiane» e qui il filosofo napoletano si richiama agli «assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza», agli «illuministi della ragione trionfante», ai «pratici rivoluzionari francesi», ai filosofi che diedero «forma critica e speculativa all’idea di Spirito dal Cristianesimo all’antico oggettivismo», i quali con Vico, Kant, Hegel «inaugurarono la concezione della realtà come storia», tutti disconosciuti o perseguitati o condannati dalla Chiesa di Roma che non si piegava a riconoscere «che vi siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che vi son dentro, e tanto più intensamente cristiani perché liberi» (cit. p. 296). Qui un passaggio importante della riflessione crociana: noi, egli scrive, pur comprensivi e rispettosi, «dobbiamo confermare l’uso di quel nome che la storia ci dimostra legittimo e necessario» ed una riprova la si può trovare nel fatto che la polemica violenta antichiesastica si è sempre «arrestata al ricordo della persona di Gesù». Queste le fondamentali conclusioni che Croce trae nel rivendicare la legittimità di «dirsi cristiani»: «l’etica e la religione antiche furono superate e risolute nella idea cristiana della coscienza, e nella nuova idea di Dio nel quale siamo, viviamo e ci muoviamo»; «nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo». Non é dato sapere se una altra «rivelazione e religione» come quella cristiana o la «religione assoluta» di Hegel accadranno, quel che è certo è che nel presente si travaglia ancora a comporre i contrasti portati dal cristianesimo: «tra immanenza e trascendenza, tra la morale della coscienza e quella del comando e delle leggi, tra l’utilità e l’eticità, tra la libertà e l’autorità, tra il tellurico ed il celeste che è nell’uomo», aspri contrasti che spesso non si riesce a dirimere. In ultimo e ci sembra rilevante per un crociano “dialogo su Dio”, questa affermazione : «il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre raffinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che e sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre sarà mistero al’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e dignificata come “logica umana”, ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi “divina”, intendendola nel senso cristiano, come quella alla quale l’uomo di continua si eleva, e che di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo.» ( cit.. p. 297).
Questo breve esame del notissimo scritto crociano era pur necessario per render conto del significato che è venuto ad avere la rivoluzionaria verità del cristianesimo all’interno delle “sistemazioni” della filosofia dello spirito, ed è molto rilevante che uno dei momenti di questo “recupero” abbia coinciso con quella fase inquieta dell’ultimo Croce che appunto è sotto lo stimolo più prossimo di una “meditazione cristiana”. La raccolta delle lettere con la Curtopassi, di cui ci stiamo occupando, che meritoriamente Giovanni Russo ha pubblicato e curato, viene così, legittimamente, a rientrare nel corpus degli scritti dell’ultimo decennio della riflessione filosofica del Croce, riflettendovisi gli umori del filosofo in quella particolare temperie culturale e storica, e venendo anche a suggerire qualche altro motivo che va ad innestarsi ad un rimescolamento di pensieri che non falliscono mai l’obiettivo di guardare alla concretezza del vivere, a volte doloroso, ed ai valori o disvalori che vi si incarnano. Forte come sempre delle sue convinzioni, ma non rigido nell’ascoltare le altrui ansie, le sincere perplessità, i dubbi che nascono da un proprio rapporto con la verità in cui si crede, il filosofo napoletano sa ascoltare e non sorprendersi dove e quando trova assilli di pensiero che non sono i suoi. Il tenore del carteggio è di questo tipo: da un lato chi cerca una filosofia nella quale fare rientrare tutta intera la verità della fede cristiana, con un corteo di dommi professati dalla Chiesa cattolica, e ritiene di averla in parte trovata nel sistema di filosofia dello spirito del Croce, e dall’altra, un paziente filosofo che sente tutto il travaglio degli anni e con molta delicatezza deve segnare le distanze da quello che non può considerare appartenente ai domini della lunga elaborazione che ha richiesto la conquista di una concreta verità storica. E tuttavia, nell’intuizione poetica e nella religiosità della Marchesa, parente ed amica, di cui recensì una raccolta di poesie, il filosofo coglie la universalità di un sentimento che considera di per sé valido a rappresentare lo spirito cristiano.
Tutto questo c’è nelle lettere ritrovate e riconosciute per un loro intrinseco valore da un raffinato e colto intellettuale quale è Giovanni Russo, sulle quali ci siamo soffermati anche perché danno occasione per riaprire tutte le pagine di questo ultimo Croce ancora tanto stimolante.
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